Adoration

di Fabrice du Welz

La chiusura della trilogia delle Ardenne: il “tainted love” di Fabrice du Welz trova la sua quintessenza

Adoration di Fabrice du Welz

Ormai non c’è dubbio: l’amore è al centro del cinema di Fabrice du Welz. Ma non è un amore tradizionalmente inteso, quello spirito romantico cine-letterario che dispensa sospiri: la sua è un’indagine sull’amore deforme, il tainted love, per sondare fin dove può spingersi l’estremizzazione malsana del sentimento. Ecco allora che si chiude la trilogia delle Ardenne iniziata con Calvaire (2004), e dopo Alleluia (2014) arriva Adoration: dopo un’invocazione arriva un’adorazione, appunto, con i due titoli che dialogano intimamente tra loro. Presentato prima a Locarno e poi alla Festa del cinema di Roma nella sezione parallela Alice nella città, Adoration è la storia di una fuga d’amore: il dodicenne Paul (Thomas Gioria, quello de L’affido), figlio di una dottoressa in un ospedale psichiatrico, si innamora di Gloria (Fantine Harduin, quella di Happy End: in un ruolo - anche qui - in dialogo col film di Haneke), una giovane paziente che sembra avere disturbi mentali, anche se lei nega. È l’inizio di una breve conoscenza che istituisce un contatto emotivo tra i due: quando una dottoressa li sorprende insieme, però, Gloria la spinge giù dalle scale lasciando così intravedere la sua vera natura. La ragazza convince Paul: la accompagnerà per la campagna belga, per centinaia di chilometri, fino alla casa dei nonni che nella sua mente è l’unico rifugio possibile. I due scappano.

Il precedente Alleluia inscenava la parabola di una coppia criminale, tratta da una storia vera: l’infermiera Gloria (ancora) che incontra Michel rispondendo all’annuncio su una rivista. Da ipotetica vittima si trasforma in complice dell’uomo, specializzato in truffe contro donne sole: di volta in volta, però, Gloria è incapace di sopportare la gelosia e decide di uccidere le prede di Michel, configurando i due come la classica coppia assassina. Adoration lavora sullo stesso terreno, ma opera un ribaltamento dei ruoli: se lì era l’uomo a dominare e la donna a spingersi oltre per amore, qui è invece la ragazza l’elemento forte della coppia, il punto trainante, e il ragazzo è colui che viola le regole per seguirla. Dove può arrivare l’amore? Per l’autore è chiaro: Amore (con la maiuscola) non conosce i limiti della morale e ridisegna quelli dell’etica. Così seguiamo il movimento degli amanti criminali, che ricordano da vicino il film di François Ozon del 1998 (Les amants criminels: Alice che convince Luc a eliminare un amico - uguale - e i due che si gettano nel bosco - uguale). Quella tra Paul e Gloria si presenta quindi come un’altalena emozionale: tra momenti di profonda tenerezza ed esplosioni di paranoia e follia, il giovane asseconda la ragazza in un rapporto fatto di alti e bassi, di incomprensioni e slanci, di passi avanti e indietro. Ma c’è un punto fermo: “È la mia ragazza” dice Paul, ponendo questa essenza come regola statutaria, ferrea ed intoccabile. Cupido ha già scoccato la sua freccia.

Il cinema di Fabrice du Welz non si può però costringere nell’ameno recinto della “storia”. La grandezza del racconto del quarantasettenne belga è infatti soprattutto nell’immagine: girato in uno sporco e terrigno 16 mm, il regista e il direttore della fotografia Manuel Dacosse si lanciano letteralmente all’inseguimento dei protagonisti, vanno loro dietro, insieme si immergono nell’acqua e rotolano nel fango. Così l’ossessione amorosa si fa tangibile, si ritrova nei contatti tra i due, nelle distanze e negli avvicinamenti, nel mondo intorno. E così l’avanzare della storia diviene una miniera di istanti allegorici: basti pensare alla prima apparizione di Gloria, mostrata in soggettiva di Paul che si trova davanti il suo viso ingrandito dopo un capitombolo, con un effetto deformante che già propone la ragazza - bella e pericolosa - come una fata del male; oppure ai giovani in canoa che si immergono nella nebbia del fiume in una sorta di Stige, magnifico quadro pittorico tipico del cinema duwelziano.

Fondamentale è poi il personaggio interpretato da Benoît Poelvoorde, che gli amanti incontrano prima di arrivare alla scelta definitiva. Vedovo eremita che ha lasciato la società per osservare una specie di uccelli che vivono sempre in coppia, la sua figura offre l’ipotesi di una dimensione trascendente e conduce Paul al gesto finale: realizzata la follia di Gloria, appurata la sua malattia, l’abbandono sembra la soluzione più sensata. Ed è proprio qui che du Welz ribalta le attese, spacca l’etica convenzionale e lancia la sua provocazione: perché Gloria si può solo adorare.

Autore: Emanuele Di Nicola
Pubblicato il 25/10/2019
Belgio
Durata: 98 minuti

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