Better Days

di Andrea Giangaspero
Better Days - recensione film

«This was our playground. This used to be our playground». Chen Nian (Zhou Dongyu), professoressa, scrive queste frasi sulla lavagna e chiede ai suoi alunni la differenza tra i due tempi. Non ricevendo una risposta appropriata, replica che «used to be carries a sense of loss». Chen Nian fa ripetere più volte in coro le frasi agli studenti, ma durante questo gesto meccanico la sua attenzione ricade sul volto basso e silenzioso di una di loro. In quell’espressione, evidentemente, c’è un riflesso del passato, che subito materializza attraverso le immagini il playground di Chen Nian. Le coordinate nel tempo e nello spazio sono precise: città di Anqiao, nel 2011. Nian frequentava l’ultimo anno di liceo, nel clima asfissiante del periodo di preparazione ai Gaokao, esami d’accesso alle varie facoltà universitarie da cui dipendono le vite di milioni di studenti e delle loro famiglie. Per la sua unica amica il colpo di grazia arriva dal bullismo feroce di alcune ragazze, il cui peso la schiaccia fino a indurla al gesto estremo di gettarsi dall’ultimo piano della scuola. Tutti hanno uno smartphone in mano per immortalare quel momento estremamente curioso. Inorridita dai suoi compagni, Chen Nian fa per nascondere alla loro vista il corpo della compagna, posandovi sopra la propria giacca. Quel gesto dolente di empatia, assieme alla denuncia alla polizia dei bulli che avrebbero indotto la sua compagna a suicidarsi, non faranno che contrassegnarla come il nuovo target prediletto a dover subire le loro angherie.

Vincitore di ben otto premi (tra cui Miglior film e Miglior regia) alla 39esima edizione degli Hong Kong Film Awards, Better Days di Derek Tsang espone così, immediatamente, la sua attenzione a un tema spinoso e socialmente utile come quello del bullismo, e vi affianca una storia d’amore: Chen Nian è troppo debole per difendersi dagli attacchi del gruppo di arpie guidato dall’affascinante Wei Lai (Zhon Yu), così si fa proteggere da un ragazzaccio di strada, un affascinante diavolo solitario, Xiao Bei (Jackson Lee). Dagli svolgimenti narrativi propri del teen drama agli avvicendamenti polizieschi che presto affiancano un omicidio al suicidio, il regista cinese non plasma propriamente nulla di nuovo, anzi attinge a piene mani da un vasto repertorio di modelli e personaggi topici. Come il detective empatico che opera in maniera sconsiderata e personale rispondendo solo alla propria morale, o quello che vi si oppone tentando di assumere un atteggiamento più oggettivo. E c’è, ovviamente, la costruzione di una relazione sentimentale tra due personaggi agli antipodi, dove Chen Nian è timida e disciplinata, e guarda ai Gaokao come unica possibilità per sfuggire ai soprusi dei compagni, mentre Xiao Bei ha sempre la faccia piena di lividi, sopravvive in una baracca lurida – anch’essa da repertorio – e tira avanti tra risse e lavoretti per le gang locali.

Il merito però è proprio qui, nella giusta calibratura degli elementi, che suggerisce in egual misura la disposizione spettatoriale a godere tanto di un ottimo drama giovanile a tinte fosche, sovraccarico di tensioni e colpi di scena, quanto di un prodotto che riflette sui problemi di sensibilizzazione sullo Stato cinese. Salta in particolare all’occhio la cura nella rappresentazione visiva dell’edificio scolastico, granitico e quadrato, quasi una riproduzione del sistema della microfisica del potere foucoultiana: un dispositivo che opera un controllo verticale, collaudato per produrre in serie cittadini da inserire nella macchina statale. Lo descrivono le torri di libri impilati l’uno sull’altro sui banchi, a sommergere letteralmente gli studenti, e poi i maxischermi coi countdown ai Gaokao e i motti sul rispetto della disciplina e sull’unico obiettivo da mettere a fuoco, il successo accademico. La competizione è feroce, sfibra i corpi e degenera in forme di bullismo smodato a danno dei più deboli, si esaspera in abusi violenti di gruppo. Ed è questo passaggio che produce lo scarto, il cambio di passo dalla cappa di tensioni che governa l’ambiente scolastico, al precipitare vorticoso nel dramma notturno. La fotografia lo racconta con precisione e gusto estetico. La notte rovescia il pallore diurno della prigione scolastica ed effonde luce calda sul volto di Chen Nian, la stilizza nel buio in cui hanno luogo i gesti d’amore con Xiao Bei e carica di glamour le sequenze sovraeccitate delle scorribande e degli abusi di gruppo di cui Chen Nian è vittima.

better days film 2020

Better Days non è un teen romance adornato da una decisa riflessione sulle storture del sistema scolastico cinese, né un film di denuncia che si nutre al contrario del genere adolescenziale. Siamo piuttosto davanti a un’opera solida, che smussa e collauda a dovere elementi divergenti organizzandoli su un’impalcatura sempre in equilibrio, riuscendo così ad adombrare certi eccessi estetizzanti in cui si avverte lo sfoggio della bella immagine e la ricerca insistita del glamour (viene in mente, in particolare, la scena molto teatrale dell’interrogatorio finale ai due protagonisti, nella stanza buia del commissariato). L’opera di Tsang avrebbe dovuto figurare tra i film presentati alla Berlinale dello scorso anno. Tuttavia, a una settimana circa dal suo esordio, tutte le proiezioni del film sono state cancellate, e nessuna giustificazione addotta. L’ipotesi più credibile, ovviamente, è che il governo cinese abbia voluto porre il proprio veto alla sua diffusione. Nonostante ulteriori rinvii e complicazioni che hanno rischiato di comprometterne del tutto le fortune, Better Days è stato infine destinato all’International Film Festival & Awards di Macao, dove ha folgorato la critica e ha incontrato infine l’entusiasmo del grande pubblico, come pure dimostra il gran successo al box office. Un’opera che, dunque, ha catalizzato enormi attenzioni in patria, tra apprensioni e fascino (e pure qualche livore), suggerendo in definitiva la portata del suo impatto sociale, la trasmissione efficace delle sue preoccupazioni, e una qualche curiosità da rivolgere al suo autore, appena al suo secondo lungometraggio.
«Used to be carries a sense of loss» ripete ancora Chen Nian, alla fine, e di riflesso un film che tenta di smascherare un universo intero di abusi, di stanarlo e reprimerlo, ovviamente grazie alla lente immersiva di un cinema sempre più affascinante qual è quello cinese.

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Derek Tsang Zhou Dongyu Jackson Yee Yin Fang Huang Jue 135 minuti
Cina 2019
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November

di Gian Giacomo Petrone
November – recensione film Sarnet

Agli estremi confini dell’Europa occidentale si agita un cinema carico di vita e di seducenti suggestioni, e nondimeno ancora sostanzialmente invisibile ai nostri occhi. Accanto a paesi di grande tradizione come Russia e Polonia si cominciano a intravedere oggi intriganti baluginii creativi anche da nazioni come la storicamente più rodata Finlandia, o come le emergenti Lituania ed Estonia. Sul versante estone, vanno almeno segnalati The Temptation of St. Tony (di Veiko Õunpuu, 2009) e il film di cui ci si occuperà in questa sede, November di Rainer Sarnet, qui alla sua quinta fatica per il grande schermo, con due corti in coabitazione, all’interno di film collettivi, e tre lungometraggi.

Tratto dal romanzo Rehepapp (2000) del poliedrico Andrus Kivirähk, una fantasmagoria etnografica venata di realismo magico e critica socio-antropologica, November costituisce uno degli esempi più notevoli di un cinema capace ancora di sorprendere e ammaliare, di dar vita a un universo iconico in cui prende forma l’extra-ordinario del sogno, dell’allucinazione, magari dell’incubo, in strenua lotta con l’ordinarietà dell’abituale, del consueto. Lo sviluppo narrativo è focalizzato su una piccola comunità estone di cacciatori e allevatori – presumibilmente nel diciannovesimo secolo, anche se le marche temporali significative scarseggiano – alle prese con le ambasce di una quotidianità segnata dalla morte (la peste), dal sovrannaturale (il proliferare di figure fantastiche, come i kratt, o spettrali, come le anime dei defunti che interagiscono coi vivi) e dalla sottomissione (il signore di quelle terre è un barone tedesco). Sarnet intreccia il realismo degli ambienti antropizzati e degli oggetti di uso comune con l’onirismo ostinato di una stupefacente messa in scena pittorica, il cui artefice principale è Mart Taniel, direttore della fotografia anche nel già citato The Temptation of St. Tony. La pulizia del bianco e nero delle sequenze negli ambienti chiusi, perlopiù rurali, in cui linee e profili risultano spesso nettamente distinguibili, si contrappone al conflitto notturno fra luce e buio degli esterni, che si alterna all’opalescenza diurna o serale dei paesaggi innevati. In particolare là dove compare la figura umana, assieme al suo carico di turbamenti e al reticolo di relazioni complesse con la comunità e l’ambiente, aumentano sensibilmente le sfumature e le ombreggiature, a suggerire i molti conflitti emotivi dei personaggi. È come se lo schermo risultasse sovente diviso in due parti esteticamente contrapposte, con le zone occupate dai personaggi cariche di chiaroscuri e il resto dello spazio illuminato in modo più omogeneo.

Realismo e prodigio, fenomenologia e incanto costituiscono gli assi espressivi e connotativi attorno a cui ruotano le istanze individuali e collettive dei personaggi, che muovono a loro volta una narrazione trasognata e rapsodica, intessuta di passioni represse, slanci individuali e collettive meschinità, veicolate però dal bisogno. Le urgenze più elementari di un’esistenza senza punti d’ancoraggio, più che individuare una propensione alla cupidigia da parte dei membri della piccola comunità, come sarebbe stato nelle intenzioni del regista, sembrano invece delineare i tratti della servilità nei confronti sia del potere umano (il barone interpretato da un Dieter Laser quantomai sornione) sia soprattutto dell’onnipotenza della natura. Tuttavia, se la servilità è l’inevitabile reazione esibita al cospetto di una minaccia soverchiante, essa trova poi un degno controcanto nelle ingegnose misure per la sopravvivenza, dissimulate sotto la patina di una muta accettazione degli eventi. Ogni azione è protesa ad estendere un barlume di controllo e difesa nei confronti di qualsiasi rischio, sia che questo provenga dalla miseria costitutiva sia che incomba dall’esterno. La prosaica arguzia popolare sembra in grado di far fronte a qualsiasi occorrenza, servendosi dell’inganno o della magia e mettendo a repentaglio il domani per preservare l’oggi. Non vi può del resto essere lungimiranza e progettualità, là dove il rischio è persistente. Ecco allora che la peste (con sembianze umane o animali, a seconda delle necessità narrative) viene gabbata facendole credere che le sue potenziali vittime possiedono due deretani e nessuna testa, tramite l’utilizzo di pantaloni indossati al contrario, mentre le esigenze della caccia vengono soddisfatte ricoprendo i proiettili con le ostie della comunione, debitamente conservate in bocca e poi sputate. Qualora serva invece un aiutante perennemente attivo nel lavoro quotidiano, è sufficiente vendere la propria anima alle infere presenze boschive – o al diavolo, poco importa, purché il risultato sia efficace nell’immediato – per ottenere un kratt, sorta di creatura para-robotica formata di paglia e utensili, e vivificata, tramite uno stravagante rituale notturno, dall’anima di un defunto. Emerge, in sintesi, il tentativo del regista di restituire le contraddizioni di una terra marcata dal perenne conflitto fra uomo e ambiente, fra natura e cultura, e mai realmente soggiogata dalla colonizzazione religiosa del cristianesimo, e dunque priva di strumenti apotropaici di natura autenticamente trascendente, atti a esorcizzare le ambasce di un’esistenza attenuata, dispersa ai margini del mondo.

A incarnare la dimensione dello spirito slegata dalla materia, del desiderio svincolato dal bisogno, troviamo invece tre figure di giovani, che sostanziano il versante mélo del film, vero filo conduttore della dimensione emotiva del racconto: Liina (Rea Lest) ama Hans (Jörgen Liik), mentre questi a sua volta ama la figlia del barone (Jette Loona Hermanis), nel rilancio continuo di una brama perennemente inappagata. Lungi dall’indulgere nella descrizione dei meccanismi della seduzione, Sarnet preferisce indagare il mistero dei volti, dei gesti, delle posture, attraverso un certosino lavoro espressivo di tipo luministico, da cui ciascuno dei vertici del triangolo emerge nelle proprie peculiarità sentimentali e psicologiche. Hans personifica la forza vitale e diurna della giovinezza, tramite la spensierata leggerezza dei movimenti e la limpidezza con cui il suo volto è reso prevalentemente senza ombre, mentre Liina si colloca sul versante della notte, dell’attesa paziente, della passione repressa, giocata sui chiaroscuri perennemente contrastati che arabescano il suo viso. La giovane baronessa, dal canto suo, incarna a un tempo l’enigma dell’eterno femminino e, più prosaicamente, l’inaccessibilità del benessere, sintetizzati dall’incedere algido e solenne della sua figura fra le comode stanze della villa padronale: una persona e uno spazio preclusi a chi vive così prossimo, eppure così distante, sotto il cielo funesto della necessità.

Sarnet non è interessato all’approccio da documentario etnografico, quanto piuttosto alle dinamiche espressive del racconto fantastico, rese dall’irrompere del surreale o del grottesco nel quotidiano, dall’impari duello fra emozione e ineludibili esigenze di sopravvivenza, fra romantici languori individuali e concreti bisogni collettivi. November si configura come una sontuosa Symphonie fantastique, in cui la poesia dell’immagine si divora la prosa della narrazione e in cui ogni elemento visuale e sonoro converge a formare una tessitura percettiva di rara suggestione. Se a osservare sono altri occhi, un altro cinema è ancora possibile.

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Rainer Sarnet Rea Lest Jörgen Liik Jette Loona Hermanis Dieter Laser 115 minuti
Estonia, Olanda, Polonia 2017
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Little Joe

di Andrea Giangaspero
Little Joe - recensione film

Joe e Little Joe, il ragazzino e il fiore creato in laboratorio da sua madre Alice, che coi suoi colleghi scienziati afferma possa procurare una sensazione di felicità a chi ne inala la fragranza. Ecco però un problema: alcune procedure laboratoriali non sono consentite ma Alice s’azzarda comunque, nonostante il pericolo. La conseguenza è la diffusione di un virus contenuto nel polline, un microrganismo che finisce per assumere le funzioni di un patogeno ad alto rischio infettivo, pur considerato in un primo tempo innocuo. È senza dubbio curioso rileggere prospetticamente l’ultimo lavoro di Jessica Hausner, Little Joe, a un anno dalla sua presentazione al Festival di Cannes (dove era in lizza per la Palma d’Oro) e in considerazione dell’odierna dinamica pandemica: il sapore è un po’ quello di una sua occulta preconizzazione. Ma provvediamo ad allontanare le immediate similitudini assieme all’eventualità di teorie cospirazioniste per guardare, invece, al film della regista austriaca come all’ultimo tassello di un’indagine autoriale sulla psiche umana, il cui primo passaggio consapevole e degno di nota risale a dieci anni prima, con un lungometraggio in lingua francese, Lourdes (2009). 

Rinsaldando la tenuta della tecnica dei precedenti lavori, senza però acuirla, la Hausner applica anche qui un metodo quasi analitico che lavora sulla ricezione delle variazioni comportamentali minime. Procede così a comporre una sintassi filmica estremamente controllata entro la quale non c’è spazio per la detonazione del dramma, per i disastri eclatanti propri di una filmografia del contagio; tutto tace in vista e in virtù del lento e silenzioso processo con cui Alice comprende la portata dei propri errori. E se anche la protagonista finisce per ravvedersi, cosciente del rischio in potenza degli effetti collaterali del virus, il suo tentativo (affatto insidioso) di annullare la commercializzazione del fiore sembra rispondere alla sola emergenza personale di salvare il figlio. Tutto è da ricondurre, quindi, alla riappropriazione di un affetto nel proprio spazio domestico. La stessa configurazione espressiva del contagio può essere riletta in termini psicanalitici: il male procurato dal virus consiste in una felicità intaccabile, un benessere devoto in cui il fiore Little Joe diviene il partner di un amore sconfinato e sottilmente tirannico. È impercettibile la variazione prodotta dall’infezione, se appunto l’effetto è quello apparente di una mera seduzione. Le vittime del polline sono quasi irriconoscibili nell’ambiente asettico del laboratorio, in quanto già dapprima impegnate in un’indefessa venerazione del fiore. L’invisibilità del nemico crea lentamente adepti nello spazio laboratoriale, riducendo il campo d’azione di Alice senza che questa possa accertarsi del proprio effettivo isolamento.

little joe film recensione 2

Fuori da ogni retorica dello sbalordimento, la regista austriaca demanda allo spettatore il compito di discernere immagini dai significati opachi. È certo che il male esista; ma è reale la minaccia? Persino il procedimento del contagio ha la forma singolare di un gesto delicato come quello dello sbuffo rosa dell’impollinazione. In Lourdes era la guarigione miracolosa di una donna dalla paralisi a sostenere la possibilità d’un agire divino, ma una ricaduta fisica conclusiva sottraeva ogni possibilità di chiarimento. Nel suo film successivo, Amour Fou (2014), dramma ottocentesco che mostra la povera Henrietta in dubbio sul togliersi la vita con il povero poeta von Kleist, non si distingueva la natura tumorale da quella solo spirituale del male invisibile che l’affliggeva. Il medesimo principio sostiene Little Joe nell’impollinazione subdola del veleno: come nei titoli precedenti, un qualche elemento sospende l’incredulità narrativa e sottrae le evidenze della comprensione.

 Come accade nelle opere precedenti, anche le immagini di Little Joe sono estremamente complesse da indagare. Immagini in cui il nucleo di significazioni non è immediatamente esplicitabile, al di là dell’impeccabile pulizia visiva che collauda lo spazio entro cui il virus soffia, esito della fotografia di Martin Gschlacht (collaboratore di lunga data della Hausner). Anzi, verrebbe da dire che tale pulizia si rende necessaria in vista di questa rilevazione della complessità delle immagini. Dove in Amour Fou il lavoro certosino era sulla riempitura degli spazi secondo un’impostazione pittorica altamente studiata, qui l’inquadratura dà visibilità a un’inquietudine che serpeggia lungo i corridoi spigolosi del laboratorio. È assolutamente sterile l’ambiente, tanto per gli innumerevoli sistemi di igienizzazione che lo mappano, quanto per la condizione interna che sottrae ogni carica emotiva tra Alice e i suoi colleghi. Il calore dovrebbe allora annidarsi nella dominante magenta e nell’intero spettro dei colori che copre la dimora domestica; ma il piccolo esemplare di Little Joe nella stanza del figlio, illuminato da una specie di aureola divina, pare che ne abbia cancellato i residui. In tale contesto, nonostante il sistema sonoro chiarisca il carattere di genere del film col suo tambureggiare tribale e coi ronzii che irrompono in un gracchiare sordo, ogni possibilità orrorifica resta disattesa. La Hausner ci dice che modi complessi di intendere i demoni della mente umana nel Cinema possono essere ancora pensati. Il male ha mutato forma, soffia nuvole rosa lungo le narici e dentro il cranio, ed è fecondo dell’amore per un fiore.

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Jessica Hausner Ben Whishaw Emily Beecham Lindsay Duncan Kerry Fox 100 minuti
Austria, Germania, UK 2019
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Tiger King

di Riccardo Bellini
Tiger King - recensione serie Netflix

Già dall’andatura claudicante di Joe Exotic è leggibile il sintomo di uno squilibrio patologico che ha radici profonde. Eccessivo, parossistico, del tutto o quasi inconsapevole di sé, il sedicente “Tiger King” dell’Oklahoma è l’immagine di un’America narcisista votata a una demente tensione autodistruttiva e in preda alle proprie allucinazioni. Tutto in lui comunica instabilità e dismisura. Niente di più distante dalla «fearful symmetry» evocata da William Blake, sintesi del sublime incarnato dal seducente e spaventoso felino della poesia. Eppure anche Joe irretisce lo spettatore, a modo suo. Un ribaltamento di prospettiva non secondario quello che ci porta dal sentimento del sublime alla fascinazione per il freak show. Ma andando con ordine, è proprio dal commercio di grossi felini (big cats) e dalla passione di molti americani per questi animali che è iniziato il percorso che ha portato l’ambientalista e filmmaker Eric Goode a imbattersi in Joe Exotic. Ed ecco allora la docu-serie crime Tiger King, uno dei più inaspettati successi di Netflix, tanto eclatante da indurre la stampa nostrana a dare risonanza mediatica agli sviluppi delle vicende raccontate mentre oltreoceano si parla già di un film e per la serie si prospetta una seconda stagione.

Il motore che innesca il progetto, quasi sul punto di ridursi ben presto a una sorta di MacGuffin, conduce Goode in un circo a tre piste di personaggi al limite della ragione umana, e talvolta ben al di là di essa, freak che non stonerebbero in un film di Harmony Korine o nel girone infernale di Louisiana. Se non fosse però per il fatto che Tiger King rivolge il suo sguardo altrove, non ai reietti delle classi più disagiate, agli invisibili di un sottobosco urbano agghiacciante, privi di mezzi per emergervi. Al contrario, gli sfruttati, – i dipendenti dello zoo di Joe costretti a nutrirsi della stessa carne cruda data agli animali o le ragazze manipolate dal patetico Bhagavan Antle – costituiscono solo una parte della costellazione di Tiger King, al cui centro Goode pone un’America di cafoni arricchiti, emanazione weird e white trash di una nazione che ha trasformato il sogno in incubo, l’individualismo in logica coatta del profitto. Individui che, ben lungi dall’essere degli invisibili, risentono all’opposto di una morbosa ossessione per l’autorappresentazione e trovano i mezzi per soddisfarla. Perché Tiger King non è solo una riflessione sulla tendenza a ridurre la vita in spettacolo connaturata alla società statunitense, sul rapporto paranoide che sussiste tra show e business, ma anche e soprattutto la fotografia in filigrana dell’America schizofrenica trumpiana, mai come ora così incapace di riallacciarsi alla realtà, mai così avvitata in un solipsismo sinistro, di cui l’immagine di un Presidente trincerato nella Casa Bianca durante le rivolte partite da Minneapolis è il triste emblema – e da cui la parte più sana della nazione si sta finalmente emancipando. Del resto lo stesso Joe, che nel 2016 si era candidato alle presidenziali come indipendente e nel 2018 alle elezioni per il governatorato dell’Oklahoma, ha recentemente chiesto ai suoi fan, dal carcere, di intercedere con il Presidente per ottenere la grazia.

Tiger King riprende così le redini di quel discorso iniziale, solo all’apparenza ridotto a mera miccia narrativa, per ampliarne la prospettiva e illuminare il quadro in cui si inserisce. Lo storytelling, talmente compito da lasciare dubbi su un intervento pilotato dell’autore nell’accomodare la situazione (la mente corre ancora a Minervini) non fosse per la realtà della sentenza di condanna ai danni di Joe, si snoda per sette episodi tra una miriade di colpi di scena e sottotrame, lasciando solo allo spettatore il compito di districarsi all’interno della faida tra Joe e Carole Baskin per afferrare il fulcro della serie, il suo collante profondo, sapendosi tenere alla giusta distanza dai “personaggi” e dalle loro storie, tutte false e tutte vere. Se la didascalia finale sui dati dello sfruttamento dei grandi felini negli USA può suonare come posticcia retorica ambientalista, bisogna però considerare che questo elemento acquista significato solo se messo in rapporto alle coordinate più estese di un clima, culturale prima ancora che economico, insostenibile. Implicazioni che si riflettono tanto nel macrosistema quanto nelle vite intime dei personaggi, a partire dalla storia di Joe, ripudiato dal padre per la sua omosessualità. Ma gli autori non puntano il dito. Tutt’al più lasciano che siano i molti sospetti rimasti in sospeso su alcune vicende, in una discesa sempre più cupa e delirante, a far affiorare le contraddizioni di una società dove persino dietro la causa animalista sembra celarsi la logica del brand e dello sfruttamento economico. E Carole Baskin è sicuramente in tal senso il personaggio più significativo e interessante.

In definitiva Tiger King, non propone nulla di nuovo, non ci mette di fronte a un quadro del tutto inedito, né tanto meno si preoccupa di fare della teoria documentaristica (siamo lontani anni luce dalla complessità di Grizzly Man, tanto per scomodare un illustre esempio). Il suo successo planetario si spiega da un lato con quella naturale predisposizione umana per il morboso, dall’altro con la capacità di trovare una narrazione concepita a tavolino in fase di montaggio, rispondente ai più collaudati meccanismi docu-crime, con un capacità di ri-elaborazione del materiale davvero notevole. Certo, pur a fronte del suo successo planetario, va detto che la serie richiede un po’ di tempo prima di arrivare al suo cuore di tenebra. Un problema questo che sarebbe stato risolto, probabilmente, ricorrendo a un formato più snello. 45 minuti a episodio risultano effettivamente troppi, visto che parte del materiale impiegato non sempre aggiunge qualcosa di significativo. Può essere necessario armarsi di un po’ di pazienza per superare lo scoglio del terzo episodio. Va anche aggiunto però che non è scontato aspettarsi da tutti gli spettatori, soprattutto dai più rodati in questo genere di prodotti, questo esercizio di fiducia. Ed è più che comprensibile.

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Eric Goode Joe Exotic Carole Baskin Rick Kirkham 1 stagione da 7 episodi
USA 2020
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Vivarium

di Tamara Gasparini
vivarium recensione film

Alla sua seconda regia Lorcan Finnegan ci conduce dentro una dark city a tinte pastello, vuota e senza via d’uscita, dove tutto è a imitazione del vero, in un loop asfittico di case geometricamente disposte in un labirinto dell’identico – come nemmeno in un universo pop gotico di burtoniana memoria – dove non c’è nessuno e il cielo è solcato da nuvole perfettamente ordinate e simmetriche. Un universo disabitato di solitudine. Un perturbante reso ancor più strano da un senso di sospensione surreale, come ci trovassimo dentro il quadro magrittiano che Gemma e Tom (Imogen Poots e Jesse Eisenberg) vedono in quella che sarà la loro dimora, per sempre. Vivarium mette sotto la lente d’ingrandimento della distopia contemporanea il desiderio di abitare: una casa e un mondo, la cui natura è violenta, con chi rimane indietro – e si scontra con la corsa al mutuo (l’ombra lunga della crisi del 2008 non è un ricordo sbiadito) e l’impennata dei prezzi.

Il film si apre con una scena ornitologica eloquente – in cui piccoli volatili appena usciti dal guscio lottano per la sopravvivenza a scapito dei più deboli della nidiata – prima di entrare nell’inferno ovattato di Yonder: un suburb di felicità prefabbricata a misura di famiglia, dove il senso di omologazione di massa consumistica viene ribaltato in un quadro terrificante di solitario, angoscioso isolamento. A Yonder apparentemente non abita nessuno, è un agglomerato residenziale senza vita, come la malcapitata giovane coppia avrà modo di appurare, traghettata in questo limbo di esibita e ridondante artificiosità da un inquietante agente immobiliare che si dilegua nel nulla mentre i due visitano l’abitazione. Bloccati come in una dimensione di simulazione “virtuale” della vita dove nemmeno il cibo ha sapore, le aspirazioni e le speranze dei due giovani sono azzerate – ridotte al sogno di una casa che non hanno scelto – e presto si troveranno a dover accudire finanche un neonato consegnatogli in una scatola di cartone come gli altri beni di prima necessità. Una copia identica dell’agente immobiliare, un bodysnatcher che cresce in fretta e che apprende per imitazione, come un’intelligenza aliena o artificiale, le informazioni che Emma e Tom gli forniscono. Tutto è controllato e programmato a Yonder.

Metafora di un presente totalitario di sorveglianza – «they’re always whatching us» dice Emma osservando lo sguardo del bambino – dove ognuno è lasciato “libero” di vivere in una bolla di desideri preconfezionati da qualcun Altro. È insomma la rappresentazione evidente della natura malversatrice di un sistema di valori che fa dell’umano un’appendice funzionale di un apparato alienante, dove l’esistenza si estingue nella coazione a ripetere, ciclica e infinita, consuma riproduci e infine muori, in una dimensione del reale straniante, che rende unicamente più soli. I ruoli in questo gioco di simulazione famigliare sono ipercodificati: a Emma spettano le cure parentali del piccolo replicante, a Tom il lavoro manuale nel tentativo di sfuggire all’insensatezza di quel mondo, cercando la via di fuga in una buca senza fondo che scava in giardino.

Finnegan ci consegna un piccolo b-movie contemporaneo con pochi attori e zero consolazioni. Gioca con la metafora scoperta della struttura invisibile e impersonale del capitalismo, qui non tanto vampiro insaziabile ed eterno ma minaccia aliena endogena, certamente dis-umana nelle sue lusinghe e false promesse di felicità. Un gioco complicato, come cantano sui titoli di coda gli XTC con Complicated Game, gemma post punk di, non a caso, spigolosa circolarità claustrofobica. Troppo complicato per uscirne (vivi o morti).

And it's always been the same
It's just a complicated game

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Lorcan Finnegan Imogen Poots Jesse Eisenberg Jonathan Aris 97 minuti
Belgio, Danimarca, Irlanda 2019
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First Love

di Pietro Lafiandra
First Love - recensione film Takashi Miike

Il primo amore di Monica, una ragazza tossicodipendente, vittima di allucinazioni e costretta a prostituirsi per saldare i debiti del padre, non è Leo. Lui è un boxeur talentoso a cui è appena stato diagnosticato un tumore al cervello che incolpa per una recente, sofferta sconfitta. Quando, lungo una strada al neon di Tokyo, Leo vede Monica inseguita da Otomo (un poliziotto corrotto che ha concepito un articolato piano per il contrabbando di droga con uno yakuza), decide repentinamente di aiutarla mettendo l’uomo ko con un pugno. Monica, incredula e spaventata, lo scambia per un vecchio compagno di liceo, il primo amore, appunto. I due scappano insieme e si spalleggiano per sopravvivere alla notte: lei è assillata dalla figura paterna, lui è granitico, per niente intimorito dal pensiero della morte. Lei ha bisogno di essere difesa dalla Yakuza, lui di dare protezione e riscattare quella sconfitta nel match che tanto lo ossessiona, recuperando la dignità che ha perso verso se stesso.

La trama di First Love di Takashi Miike, presentato a Cannes 2019 nella sezione Quinzaine des Rèalisateurs, si gioca attorno a queste due umane, calde caratterizzazioni dei personaggi principali e costituisce uno dei migliori lavori del regista giapponese degli ultimi anni (insieme all’inconcepibilmente sottovalutato e poco dibattuto L’immortale), un’opera iper-cinematografica dentro alla quale convergono, tout court, come sempre, forme, stili, temi differenti e una tenera nostalgia per il cinema del Miike che fu. Il primo amore non è infatti solo quello della protagonista (un amore che tornerà nel finale del film come atto di speranza) ma è anche quello del regista che, dopo aver affrontato praticamente ogni genere, dal fantasy, al thriller, all’horror, pur restando fedele al suo stile schizofrenico e proteiforme attraverso una filmografia che vaglia a ogni nuovo tassello tutto lo scibile cinematografico, torna alle radici, al suo primo amore, a quella Yakuza che affollava quasi tutte le sue prime produzioni per l’home video (quindi, circa, cento film fa) e anche uno dei suoi primi film di successo, Dead or Alive (1999), pellicola costruita attorno alla lotta tra due yakuza che ha dato vita ad altrettanti sequel.

First Love si fa summa del percorso cinematografico di Miike, muovendosi brutalmente dalla violenza iperbolica, con le sue fontane rosso carminio e le teste mozzate ancora in grado di battere le palpebre, a delle brevi stasi riflessive, concedendosi persino un inserto animato policromatico e condensando così il già citato Dead or Alive ma anche Audition, Ichi the Killer, Zebraman e via dicendo.  Proprio per questa sua caratteristica di contenitore nostalgico, il film ci interroga non tanto sul suo rapporto con una realtà che vada oltre al film, quanto sulla posizione critica da assumere nei suoi confronti: in relazione a un regista tanto prolifico e alla sua attitudine giocosa al mezzo, si è forse giunti a un punto della sua carriera in cui avrebbe poco senso chiedersi di eventuali significati extra-filmici, simbolismi e, più in generale, approcciarsi con un’analisi che vada oltre il testo stesso. I significati si trovano nella relazione tra quest’ultimo testo, quelli precedenti e, chissà, quelli futuri. Piuttosto che parlare del singolo film, sembra più appropriato considerare di volta in volta l’intero corpus, chiedendosi cosa vi aggiunga o cosa confermi l’oggetto di studio. In questo caso, First Love sembra aggiungere poco (cosa che invece L’immortale faceva) ma conferma al contempo la maturità di un regista che è stato capace di progettare nel corso della carriera un cinema totale e autosufficiente, la possibilità di un cinema per il cinema stesso e una serie di opere metonimiche, in grado di parlare ogni volta di tutti gli altri film che le avvolgono.

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Takashi Miike Becky Masataka Kubota Nao Omori 108 minuti
Giappone, UK 2019
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"Robin Redbreast" e "A Photograph" - Il folk horror tv di John Griffith Bowen

di Sara Mazzoni
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La tv inglese negli anni ’70 è stata uno dei principali laboratori di produzione dell’immaginario folk horror, lasciando un segno indelebile che riappare nel revival contemporaneo del genere. Dalle Ghost Stories for Christmas di Lawrence Gordon Clark agli infernali Public Information Film, l’epoca è infestata da spettri che sono tornati ad angosciarci attraverso quell’hauntology di cui tanto si è discusso durante il decennio appena trascorso.
Interrogandosi su come definire le forme essenziali del genere, lo studioso Adam Scovell individua quella che chiama «Folk Horror Chain». Il suo primo elemento è l’uso del paesaggio, che spesso definisce il tema estetico dell’opera isolando i personaggi al suo interno. Gli eventi del folk horror avvengono fisicamente e sociologicamente al di fuori della società: l’isolamento è un altro punto chiave. È rappresentato da comunità che sviluppano una morale deformata rispetto a quella dominante, esprimendola attraverso paganesimo e occultismo. La catena si chiude con una manifestazione legata a questo sistema di valori. Può consistere nell’apparizione di un’entità sovrannaturale, oppure può trattarsi di un evento violento, come un sacrificio.
Nel panorama della tv britannica i titoli folk horror degni di attenzione sono molti, così come gli autori da non dimenticare – per esempio, Nigel Kneale, che tra le varie cose ha scritto i film per la tv The Stone Tape e quelli di Quatermass. Ma non è l’unico sceneggiatore ad avere colto in pieno lo spirito di quel momento così peculiare per l’horror. Un altro nome da non dimenticare è quello del recentemente scomparso John Bowen. All'interno del format tv Play for Today possiamo infatti trovare due opere fondamentali, entrambe scritte da lui: Robin Redbreast del 1970 e la successiva A Photograph del 1977.

Trasmessa dal 1970 al 1984, la serie è un’antologia di play originali autoconclusivi, scritti per la televisione. Non sono film e non sono drammi teatrali, ma hanno alcune caratteristiche di entrambi. Vanno in onda in un periodo di austerity, durante il quale le limitazioni economiche hanno conseguenze anche sulla produzione tv. La BBC cancellava periodicamente i propri archivi, per cui perdere una trasmissione spesso significava non poter mai più vedere un’opera. Scritto da Bowen e diretto da James MacTaggart, Robin Redbreast viene trasmesso a colori alla fine del 1970 e all’inizio del 1971, ma di quella versione non rimane traccia. Al tempo venivano però fatte delle copie in bianco e nero di alcuni play, destinate alla vendita internazionale, ed è in questo modo che Robin Redbreast è arrivato fino a noi (seguiranno spoiler).

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La sua trama ha più di un elemento in comune con The Wicker Man, la pietra miliare di Robyn Hardy che uscirà solo 3 anni più tardi. In Robin Redbreast la protagonista è Norah Palmer, una donna di 35 anni che dopo la fine di una relazione si trasferisce da Londra in un cottage di campagna. Alcuni avvenimenti misteriosi portano Norah a restare incinta dopo un incontro sessuale col giovane Rob, un ragazzo del posto. Rimasta bloccata nel paese, Norah scopre una cospirazione degli abitanti del villaggio, che hanno manipolato gli eventi per condurla al concepimento. Rob viene ucciso, secondo una tradizione religiosa volta ad assicurarsi il successo dei raccolti. Il ciclo si ripete nel corso del tempo: la comunità alleva e poi sacrifica i figli concepiti dalle vittime precedenti.
La somiglianza con The Wicker Man non è casuale e va oltre la semplice ispirazione. Entrambe le opere sono influenzate dal libro Il ramo d’oro di Sir James Frazer, un saggio antropologico sulle religioni antiche, che secondo Frazer ruotavano attorno a sacrifici umani offerti per rigenerare la terra. Per la ricercatrice Diana Rodgers, anche se Frazer viene screditato dai folkloristi moderni, il revival dell’occulto degli anni ’60 genera un’ondata di interesse per il folklore che rende popolare Il ramo d’oro, influenzando oltre a Hardy e allo sceneggiatore Anthony Shaffer anche alcuni autori della “wyrd television”. 

Come nota Scovell nelle sue riflessioni sulla Folk Horror Chain, in molte opere questa concatenazione di elementi è già stata stabilita quando la narrazione comincia. I personaggi ne scoprono i risultati sulla propria pelle, senza attraversare in prima persona ogni passaggio. La realtà della situazione si rivela loro nello scioglimento finale, proprio come accade al sergente Neil Howie di The Wicker Man, a Norah in Robin Redbreast e, come vedremo, al co-protagonista di A Photograph; ma è un meccanismo che troviamo anche oggi in film derivati da queste opere, come Hereditary e Midsommar di Ari Aster. Se vogliamo vederla in termini di autodeterminazione, essa viene sottratta ai personaggi di questo tipo di folk horror: anche quando acconsentono a qualcosa, non conoscono mai tutte le implicazioni delle loro decisioni, che spesso sono già state predisposte da altre persone. Il gruppo che cospira alle loro spalle fa in modo che l’ignoranza verso i particolari spinga i soggetti nella direzione desiderata. Le azioni delle vittime sono facilmente prevedibili perché la manipolazione a cui sono sottoposte fa leva su forze elementari come l’attrazione sessuale o il dolore.
Nella prima inquadratura in cui lo incontriamo – attraverso gli occhi di Norah – Rob viene presentato quasi nudo, corpo erotico svuotato da altre funzioni. La vicenda sottolinea marcatamente come per quanto Norah si sforzi non riesca a trovare una ragione di interesse verso Rob che non sia puramente sessuale. Nella logica rituale dei paesani, Norah e Rob sono ricondotti ai loro ruoli riproduttivi: la donna è un grembo, mentre il giovane Robin ne è il fecondatore; tant’è che quando Norah capisce cos’è successo, paragona se stessa e il ragazzo a toro e mucca.

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È notevole come uno dei conflitti principali del play sia costruito attorno al desiderio femminile, che di per sé non viene mai rappresentato in maniera negativa. È l’inganno che lo circonda ad avere una connotazione maligna. I cospiratori, per quanto “sex positive” secondo uno standard odierno, si premurano di privare Norah di uno degli strumenti principali dell’emancipazione femminile che la donna ha portato con sé da Londra: il suo diaframma, anticoncezionale che le viene rubato poco prima che abbia luogo la sua avventura erotica, per esserle ironicamente restituito a fecondazione avvenuta. A riguardo Robin Redbreast è un play spregiudicato, che dopo aver mostrato in primo piano un contraccettivo osa pronunciare la parola “aborto” almeno tre volte. Cede però al più classico dei trope reazionari, quello che vede la donna cambiare idea all’ultimo momento, decidendo di portare a termine la gravidanza e definendo la pratica abortiva come omicidio – d’altra parte, per quanto sia un play al passo con la rivoluzione sessuale, rimane pur sempre un’opera per una tv di stato, prodotta 50 anni fa. Ma il punto cruciale del folk horror di Robin Redbreast è proprio la strana contraddizione tra la mancata possibilità di autodeterminarsi e il rispetto per una figura femminile sessualmente libera. Le dee della fertilità nelle antiche religioni assomigliavano a Norah, le dice Mr Fisher, figura di spicco del villaggio. Una donna non sposata, ma non una vergine, si accoppiava con un giovane che sarebbe stato trattato come un re, per essere poi sacrificato così che dal suo sangue potesse nascere il nuovo raccolto. Davanti alla perplessità di Norah, Mr Fisher le consiglia di leggere proprio quel Ramo d’oro menzionato sopra.

Play for Today nel 1977 scatena controversie con The Price of Coal di Ken Loach e la produzione televisiva di Scum di Alan Clarke, che viene infatti censurata dalla BBC fino al 1991 (mentre la sua versione filmica esce nel 1979). Sempre nel 1977, la serie presenta un altro lavoro scritto da Bowen e diretto da John Glenister, A Photograph. Si tratta della storia di un matrimonio infelice vista attraverso gli occhi della moglie Gill Otway, un’insegnante di umili origini sposata al critico d’arte Michael. La vicenda è uno psicodramma folk horror che esamina la disperazione di lei e l’ipocrisia di lui, con una sensibilità che ricorda quella di Ari Aster in Midsommar.
In A Photograph, Michael ha sposato Gill soltanto perché era incinta, ma la gravidanza è stata interrotta da un aborto spontaneo. Michael è egocentrico e poco empatico, mentre a Gill è stato diagnosticato un disturbo depressivo per il quale è in terapia. I risultati sembrano scarsi, anche se la conclusione getterà una nuova luce su questo punto. Il play inizia con l’inquadratura di Michael cadavere, l’espressione stupefatta. La vicenda che segue è un flashback che ci spiega come il personaggio abbia fatto questa fine. La storia inizia con l’arrivo di una busta misteriosa, contenente soltanto la fotografia di due ragazze sedute su un prato davanti a un caravan. Questo frammento di campagna si insinua nella vita della coppia e nelle sue disfunzioni: Michael non sa perché gli sia stata inviata la foto, Gill la analizza ossessivamente. Michael decide quindi di andare a cercare questo caravan, il luogo in cui troverà la morte.

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In Robin Redbreast oltre a Mr Fisher, c’è un altro personaggio a circuire la protagonista. Si tratta dell’opprimente Mrs. Vigo, una donna di mezz’età dai modi bruschi, che si occupa delle pulizie del cottage. A Photograph ne segna il ritorno. Durante tutto il play, la vicenda ambientata in città è intervallata da alcune scene che si svolgono all’interno del caravan dove Michael morirà. Lì si trovano un ragazzo e una donna, interpretata da Freda Bamford, la stessa attrice che prestava il volto a Mrs Vigo. Il personaggio è simile, ma è soltanto dai credit dei titoli di coda che scopriamo che si tratta proprio di lei, rendendo A Photograph uno spin-off di Robin Redbreast.

L’aspetto più interessante di A Photograph è la sottigliezza con cui descrive una relazione-trappola, in cui le due parti sono costrette e infelici. È un’aspra critica al matrimonio borghese, in cui ancora una volta Bowen presta particolare attenzione al ruolo delle donne. Gill proviene dalla stessa campagna povera di Mrs. Vigo, proprio da quel caravan, ma se ne vergogna al punto di non poterlo nemmeno confessare al marito. Laddove Robin Redbreast esplora il trope folk horror che prevede l’impossibilità del forestiero di integrarsi nella ristretta comunità di campagna, A Photograph usa questa comunità come specchio di un conflitto di classe. Questa volta è la donna della campagna a non integrarsi nel cinismo cittadino di Michael. La storia di Gill è circolare, anche se non ce ne accorgiamo fino all’ultima scena: è iniziata nel caravan e lì termina la porzione a cui abbiamo assistito noi, quella della sua liberazione da un cattivo marito. I mezzi di questa liberazione sono violenti e riecheggiano nei sacrifici rituali che chiudono Midsommar di Aster. Come anche in Robin Redbreast e in The Wicker Man, a essere immolato è il maschio, quel re per un giorno del Ramo d’oro. Ma nonostante l’omicidio, Bowen empatizza col personaggio di Gill e non con quello di Michael, predisponendo una motivazione fortissima per fare agire Gill contro il marito, chiarendo come Michael la stia sottilmente istigando al suicidio. Quando Michael si inoltra nella campagna, tutto quello che accade finisce per farci capire che la catena del folk horror era da lungo tempo in funzione per lui. Alla pari di altre vittime nel sottogenere, l’uomo ha ricevuto molti segnali allarmanti, a cominciare dal comportamento che la moglie assume verso la fotografia. Michael li ignora cocciutamente non solo perché ha paura di veder crollare il proprio mondo, ma anche perché gli risulta inconcepibile essere sincero con Gill. Sotto alla sua ipocrisia borghese si nasconde qualcosa di più oscuro, ossia l’inconfessabile desiderio di vederla morire, ritortogli contro dall’onestà disarmante di lei.

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Come nota Scovell, il genere pullula di “oggetti di possessione” il cui ritrovamento innesca la narrazione, a partire dai racconti di Montague Rhodes James, che costituiscono una delle basi letterarie del folk horror inglese. Possono essere tesori nascosti e maledetti, che si animano di intenzioni maligne quando riportati alla luce. Anche nei play di Bowen il ritrovamento di alcuni oggetti è uno snodo importante. In Robin Redbreast, la protagonista scopre sul davanzale un frammento antico che sembra avere un significato nel piano dei villici. In A Photograph c’è invece la fotografia del titolo: un dispositivo contemporaneo, non proveniente dall’antichità, che però ritrae proprio quella campagna così inquietante della Folk Horror Chain.
Ma nel play c’è un altro oggetto altrettanto interessante. Quando Michael entra per la prima volta nel caravan di Mrs. Vigo vede un minerale a forma di cuore che gli sembra identico a quello che aveva comprato per la moglie durante un viaggio. Nonostante la pietra sia scheggiata esattamente nello stesso punto («a broken heart», gli dice sardonica Mrs. Vigo), Michael, per quanto insospettito, non riesce ad ammettere quella che ormai è una verità evidente, e cioè che è sua moglie ad avergli mandato la foto e che c’è un collegamento ovvio tra lei e la vecchia nel caravan. La bellezza di A Photograph si trova nel modo in cui Bowen accumula particolari di questo tipo, creando un’atmosfera morbosa proprio come quella che sperimentano i due personaggi nel loro matrimonio. La loro vita è costellata da oggetti, situazioni e simboli impossibili, comportamenti che rifuggono la verità e la logica: la loro è una relazione basata sull’assurdo. L’arrivo della fotografia, insensato anche una volta spiegata la vicenda, con una pari assurdità riesce a scardinare la logica perversa che teneva insieme la situazione. A sottoscrivere la sua appartenenza al genere, la conclusione dello psicodramma di coppia richiede un sacrificio umano, esattamente come accade in Midsommar.

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Favolacce

di Matteo Berardini
Favolacce - recensione film fratelli D'Innocenzo

Possiamo evadere dai salotti borghesi, dai ritratti di famiglie frustrate, dai drammi sanitari di fratelli/compagni/genitori/amici malati terminali? Possiamo sfuggire al motore ingolfato di uno sguardo d’autore che non riesce a raccontare altro che sé stesso? Da alcuni anni il cinema italiano ha risposto a quest’esigenza riscoprendo la periferia criminale, con il suo carico di drammi e violenze che si affastellano appena oltre quel raccordo anulare su cui, troppo spesso e convenientemente, si ferma la narrazione collettiva operata da politica e televisioni. Fedele alle coordinate del periferia movie, La terra dell’abbastanza, opera prima di Damiano e Fabio D’Innocenzo, era un racconto dolente di gioventù spezzate e padri falliti, stato assente e futuri mancati, fedele alla tradizione senza cercare guizzi e reinvenzioni, come un buon esordio è libero di fare. Tuttavia questo stesso cinema criminale è un genere a rapido esaurimento, un terreno in cui ogni storia appare presto già vista e ogni dramma diventa cliché. Consapevoli dell’impasse, e volendo a loro volta evadere dalle maglie precostituite del canone, i due fratelli tentano lo scarto prospettico e muovono lo sguardo sugli abitanti delle nuove periferie romane, non più gli ultimi della catena alimentare ma non ancora borghesi, proprietari certo di villette a schiera con giardino e staccionata bianca ma ancora, essenzialmente, poveri arricchiti. E verrebbe da dire finalmente, finalmente un cinema d’autore giovane che riesce a emergere attraverso il genere e poi da questo si sposta avanti, in territori privi di cittadinanza cinematografica la cui umanità è ancora tutta da scoprire. Ma in verità di questi personaggi poco o nulla interessa ai fratelli D’Innocenzo, non contano i loro drammi e la portata umana della sofferenza, non conta gettare lo sguardo oltre il limite, ancora una volta, per conoscere e ridare dignità scopica al non-visto. Come fossero impegnati in un ripensamento del loro esordio, i D’Innocenzo mantengono l’elemento periferico ma accarezzano l’idea del cinema teorico, traslando il periferia movie dentro altre strategie di rappresentazione che si collocano a metà strada tra la favola nera europea e l’immaginario suburbano, in un movimento anzitutto linguistico basato sulla sovrabbondanza stilistica e l’evidenza circolare del meccanismo. Favolacce è una storia immaginata che si dichiara tale, l’imitazione distorta di una realtà già di per sé mostruosa che si presenta come favola suburbana negante la sua appartenenza al genere; un dispositivo che declama l’artificiosità della sua natura con una cornice narrante che, come un nastro di Moebius, riavvolge la storia su sé stessa autoassolvendosi per la frustrazione e l’amarezza accumulate. Non è così che siete abituati a veder raccontata la realtà di periferia, ci dicono i fratelli, scusate la nostra eretica lontananza da quelle strategie di messa in scena ormai ampiamente codificate, fate come se non fosse successo niente. Ma il limite di Favolacce non risiede nel suo essere un teorema costruito a tavolino, bensì nel fatto che tutto quel che emerge da questo movimento circolare è un cinema rettile privo di anima, un cinema narcisisticamente nichilista che si compiace della propria perdita di umanità e scambia il dolore col voyeurismo del morboso, le macerie con il riflesso del vuoto, l’empatia con il giudizio verticale ed entomologico.

Di certo ai D’Innocenzo si deve riconoscere l’aver ben compreso il sincretismo tutto contemporaneo innescato dall’incontro tra benessere economico e vuoto ideologico, un cortocircuito che si esprime anzitutto a livello di immagine e rende le villette a schiera dei nuovi quartieri romani una replica inquinata dei cul de sac suburbani della provincia americana. Per questo Favolacce ha dentro più Todd Solondz che Gomorra, più Simpson che Pasolini; non è più questione di iperrealismo e cinema del reale, la deformazione interiore è anzitutto deformazione del proprio immaginario di riferimento, e da qui mutano grottescamente corpi, sguardi, superfici. Favolacce è la resa animale della côté da suburb americana anni Novanta, rilettura nera di una porzione del nostro reale che sembra farsi riflesso di un episodio della serie simpsoniana La paura fa novanta, fra professori frustrati in cerca di vendetta, genitori violenti e piscine gonfiabili in giardino. L’obiettivo qui è raccontare la realtà attraverso l’esasperazione del suo artificio, mettendo in scena un diorama popolato da mostri in cui la periferia è una condanna ontologica a cui non si può sfuggire e l’innocenza è un errore di gioventù da punire con la morte – perché non si dimentichi mai che «si deve morire», come canta la canzone sul finale. Nello sguardo dei D’Innocenzo non c’è possibilità di redenzione né speranza alcuna, ma soprattutto non c’è dolore, non c’è capacità di avvicinarsi anche agli ultimi e più storti della terra. Favolacce è anzi lapidario, è un esperimento gerarchico che inchioda personaggi-insetti nelle loro macerie, senza che possa mai emergere alcunché di umano, per quanto sofferente e terribile. È un plastico dalla tragedia manifesta, preparato a tavolino con compiaciuto nichilismo da cui non emerge nulla, non nasce nulla. Un cinema sterile, versione depauperata di certo sguardo postumano europeo (Lanthimos) che rincorre la bella immagine, la deformazione a effetto, la denuncia urlata, e tratta i suoi personaggi come bestie morte con cui pasteggiare e su cui affilare ancora artigli e denti affamati.

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Damiano e Fabio D’Innocenzo Elio Germano Tommaso Di Cola Barbara Ronchi Giulietta Rebeggiani Gabriel Montesi 98 minuti
Italia 2020
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Roubaix, una luce nell'ombra

di Emanuele Di Nicola
Roubaix une lumière Arnaud-Desplechin recensione film

Il commissario Maigret ha avuto tanti volti: da Pierre Renoir a Michel Simon, da Jean Gabin a Gino Cervi. Ma questo ancora mancava: Maigret trasfigura nell’attore beur Roschdy Zem, francese con genitori marocchini, in Roubaix, una luce nell'ombra di Arnaud Desplechin, presentato in concorso al Festival di Cannes 2019. Non si chiama Maigret naturalmente, bensì commissario Yacoub Daoud, algerino, ma poco importa perché il riferimento atavico è al protagonista dei romanzi di Simenon: un investigatore che si impregna del suo ambiente, lo frequenta e interroga, entra nella natura delle persone e cerca di comprendere le motivazioni alla base, anche le più scomode e spiazzanti. E non vive a Parigi in un appartamento sulla rive gauche bensì a Roubaix, uno dei centri più poveri della Francia e città natale di Desplechin, che compone così “una specie di omaggio”. Una specie perché il suo unico film che porta l’elemento autobiografico nel titolo è forse il più cupo e desolato, piantato in una riflessione sulla natura umana che è dostoevskijana, e che concede uno sprazzo di luce (“une lumière”) proprio nel personaggio del commissario Daoud. Ma per arrivarci il percorso è doloroso e a tratti insostenibile.

Ispirato a un caso di cronaca nera avvenuto nella città, il racconto si sviluppa intorno all’omicidio di un’anziana signora, trovata brutalmente uccisa nella sua casa forse a scopo di rapina. Le vicine sono due ragazze che vivono insieme, Claude (Léa Seydoux) e Marie (Sara Forestier), le quali sostengono di non aver sentito nulla perché nel corso di una serata alcolica... Daoud dovrà affrontare il caso con un nuovo arrivato, il tenente Cotterel (Antoine Reinartz), poliziotto giovane e  sguardo “crusoeiano” che si trova per la prima volta a confrontarsi con la disagiata realtà di provincia. Prima di tutti loro, infatti, c’è Roubaix: città poverissima, segnata dalla disoccupazione e dall’emarginazione, in cui l’assenza di ogni altra opportunità spinge inevitabilmente verso l’illegalità. Lo mostra già all’inizio Desplechin, con un radicale antididascalismo che si nutre di immagini fulgide: nella notte natalizia c’è una macchina che brucia, scoppiano risse, un uomo si reca in centrale fingendo un reato per truffare l’assicurazione, ovviamente incolpando degli stranieri. Senza psicologismi Roubaix la abbiamo tutta davanti agli occhi.

Arnaud Desplechin è un autore. Con una definizione solo apparentemente sorpassata, è così che egli concepisce se stesso e quindi il suo cinema: una tela su cui disegnare la natura umana nei tormenti profondi, un’attività alta e intellettuale che riflette anche su di sé, si guarda allo specchio, ospita doppi e ritorni, fa cinema nel e sul cinema. Non è un caso che i personaggi dei suoi film tornino spesso come spettri, abbiano gli stessi nomi (Ismael o il joyciano Dedalus) e perfino gli stessi volti, come quello dell’alter ego Mathieu Almaric, che è Ismael ne I Re e la Regina, diventa Dedalus ne I miei giorni più belli e “torna” Ismael ne I fantasmi di Ismael, dove Dedalus è interpretato da Louis Garrel... Desplechin tesse una densa ragnatela d’autore: ama portare avanti lo stesso film in diversi capitoli, installandovi dentro molto cinema, a partire dal Doinel di Truffaut. Ma Roubaix, una luce nell'ombra è un po’ diverso. Si sente nitidamente la persistenza di alcuni temi prediletti, anzi ossessioni, come quella della memoria, con il commissario Douad che ricorda affettuosamente una  gioventù ormai svanita: ma questo “cripto-Maigret” di retrovia è il pretesto per uno studio ambientale pieno di durezze e asperità, che guarda in faccia la sofferenza.

Tra i vari problemi che affronta quotidianamente (come una ragazza scappata da casa o uno stupro)   gradualmente emerge la centralità dell’omicidio che conquista il cuore dell’intreccio. E allo stesso tempo risulta evidente l’implausibilità della versione di Claude e Marie, che nascondono qualcosa: nel loro rapporto, indovina Douad, c’è la chiave per risolvere il caso. È qui che Desplechin si esalta: tenendo separate le due in stanze distinte della centrale, allestisce un procedural dell’anima in cui i poliziotti interrogano a turno l’una e l’altra, sperando di aprire una breccia verso la verità. Il regista esegue una geometria di sguardi e prospettive, di punti di visione, congelando radicalmente la concitazione tipica del poliziesco: nel lunghissimo interrogatorio è piuttosto una paziente maieutica che tira fuori la verità alle ragazze, delineando i contorni anche struggenti del loro rapporto, in cui l’amore dell’una per l’altra (e non viceversa) è sbocciato in un contesto degradato e si è avvitato nella disperazione delle loro vite, portando infine al gesto estremo.

Emersa la soluzione, però, il racconto prosegue e riserva un altro colpo di scena: il commissario Douad si reca nella cella delle ragazze e le “capisce”. Il dialogo con Lèa Seydoux si fa particolarmente straziante, vertendo sulla bellezza della giovane che dopo il “paradiso perduto” dell’adolescenza è stata erosa dal contesto. E nondimeno è la Marie di Sara Forestier il brutto anatroccolo che ha intravisto un’ipotesi d’amore prima di finire alcolizzata e smarrita: due prove magnifiche, entrambe attrici di Kechiche, entrambe già dentro il cinema di periferia. Douad, proprio come Maigret, attraverso l’immersione nel contesto è arrivato alla comprensione del gesto criminale: che non è giustificazione ma pietà, ovvero la presa d’atto di una natura degradata, la scoperta che a Roubaix anche gli assassini sono vittime. Una rivelazione che Douad ha dentro da sempre, in realtà, e per questo declina nella pratica poliziesca con calma olimpica, nella consapevolezza che anche il colpevole merita una carezza. Ecco che Douad nel finale può cavalcare gli amati cavalli, il passatempo preferito, ancora come Maigret che nel tempo libero leggeva i libri di Alexandre Dumas. Nella stagione cinematografica Roubaix, una luce nell'ombra e I Miserabili di Ladj Ly sono i due grandi film francesi sulla periferia, sui poveri e i disgraziati: antitetici tra loro, comprensione contro rivolta, entrambi ribaltano la visione tradizionale degli ultimi e aggiungono un nuovo tassello. Per Desplechin l’uomo è rovinato dal mondo intorno, ma comprendere la nostra natura può sempre portare alla catarsi.

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Arnaud Desplechin Roschdy Zem Léa Seydoux Sara Forestier 119 minuti
Francia 2019
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Normal People

di Veronica Vituzzi
Normal People - recensione serie tv Sally Rooney

A metà della visione di Normal People sorge un dubbio: ma in fondo, questa ennesima rappresentazione di un amore profondo, ma contrastato da equivoci e differenze sociali, non rischia di essere la solita storia romantica vista e rivista fino al logoramento narrativo? Cosa farne, in uno scenario produttivo già saturo, di un altro racconto di amplessi appassionati e lacrime solitarie, parole fraintese e incomprensioni gioiosamente appianate? Rinunciare a proseguirne la visione sarebbe però a questo punto un peccato, perché la trasposizione televisiva del felice romanzo di Sally Rooney rivela come in ogni storia d’amore ci sia sempre molto più di un semplice umano trasporto. Talvolta l’amore trova nell’amore stesso uno spazio che è poco assai se confrontato a tutto ciò che porta con sé: il passato di chi si innamora, le sue ferite e le sue speranze, i difetti e le parti migliori, tutto mischiato insieme in un percorso che dice molto più della vita che del solo sentimento.

Come lo stesso titolo anticipa, Marianne e Connell sono due persone normali, ma all’inizio della loro storia non lo sanno ancora. Si incontrano al liceo, dove lei è la figlia studiosa di una famiglia ricca e lui il figlio senza padre di una madre povera che si guadagna da vivere facendo le pulizie (per la madre di Marianne, peraltro). Connell è riuscito a far scivolare sullo sfondo la sua famiglia povera e irregolare, imparando a farsi piacere da tutti con buoni voti, un’ottima reputazione sportiva e la capacità di non dire mai cose fuori luogo; Marianne avverte invece la propria diversità come un marchio irrevocabile, ed è considerata l’allieva strana da prendere in giro. Eppure i due si trovano, si piacciono, non sanno star lontani l’uno dall’altro. Ha inizio dunque una storia di amore e sesso, dal liceo all’università, in uno scambio apparente di ruoli (al college Marianne diviene popolare e piena di amici, mentre Connell si scopre più introverso), dove i due si perdono e si ritrovano fino a scoprire e ad accettare in sé stessi, oltre all’amore per l’altro, la persona che ognuno di loro è veramente.

Il romanzo di Sally Rooney è già di per sé una bozza di sceneggiatura, divisa per scene e salti temporali, ma ciò che manca nell’adattamento televisivo è la descrizione precisa nel libro dei pensieri e delle sensazioni che assalgono i protagonisti. Forse una voce in terza persona fuoricampo avrebbe potuto compensare questa mancanza, ma col rischio di un effetto troppo didascalico. Sono le inquadrature allora ad avere l’assoluto potere narrativo di raccontare le emozioni di Marianne e Connell: a tal punto che ogni inquadratura, ogni gesto, ogni sguardo divengono fondamentali, anche quando sfuggono all’attenzione dei personaggi e sono visibili solo allo spettatore. Ci sono i momenti preziosi in cui i due protagonisti riescono a ritrovarsi in un’occhiata o in una carezza, ma c’è anche tanto tempo sprecato fatto di sensi di colpa e tristezza, parole non dette o fraintese, sguardi nascosti di desiderio o dolore che non vengono riconosciuti.  Per quanto possa sembrare ridondante, Normal People pretende di essere vista e ascoltata, perché la sua storia si sviluppa nelle pieghe di continue azioni minime e dialoghi quasi banali, affiancati a preziosi momenti intensi e rivelatori come onde che si increspano decise sulla superficie. Non è qualcosa che si possa guardare distrattamente: o coinvolge del tutto, o probabilmente annoierà a morte chi non ne è stato conquistato.

Man mano che la storia si sviluppa, la ”normalità” che Connell e Marianne inseguono fra periodi di depressione e masochismo, inizia a coincidere col concetto di umanità, perché lungi dal rappresentare una personalità e un’esistenza socialmente accettabili essa finisce invece per racchiudere in sé proprio quella difficoltà di essere sé stessi che accompagna la loro storia d’amore. Come a dire: non sono proprio questo dolore, questo disagio, la vera normalità di tutti? Marianne ha interiorizzato dalla sua esperienza familiare -  una madre anaffettiva e un fratello che sfoga su di lei la propria insicurezza con episodi di violenza fisica e psicologica - la brutalità come linguaggio proprio di tutte le relazioni intime, mentre Connell teme di essere rifiutato dalle altre persone e pertanto reprime il proprio carattere fino a cadere, dopo il suicidio di un amico, in un profondo disagio psichico. Eppure anche quando sono lontani, i due riescono a essere sempre presenti e disponibili l’uno per l’altro; ed è nel loro farsi del bene a vicenda, nella loro progressiva maturazione psicologica che tutta la loro storia d’amore si rivela più grande di quel che sembra, poiché è, anche e soprattutto, il racconto di una comune crescita spirituale più forte di qualsiasi separazione.

Se nel 2020 il tema amoroso potrebbe sembrare talmente abusato dal punto di vista narrativo da far ritenere arduo trovare nuovi modi per raccontare i legami sentimentali tra le persone, Normal People dimostra che ogni volta che lo sguardo si pone su ciò che significa essere davvero umani, la ricchezza delle suggestioni prodotta è infinita. Il cinema - e la letteratura - possono continuare a raccontare ancora e ancora l’amore: comunque sembrerà sempre di vedere e ascoltare una storia antica, ma nuova.

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Lenny Abrahamson Hettie Macdonald Daisy Edgar-Jones Paul Mescal 1 stagione da 12 episodi
Irlanda 2020
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