Da 5 Bloods - Come fratelli

di Matteo Berardini
Da 5 bloods come fratelli netflix spike lee recensione film

Io sono legione. Sono voci passate che abitano i corpi e le menti del presente. Sono urla, singhiozzi, grida di terrore e ruggiti di rabbia. Sono nomi e volti nascosti tra le pieghe della Storia, costretto all’oblio da altre voci, più forti e di sistema, che impongono il loro racconto del mondo, le loro storie e mitologie, la loro egemonia.
Il cinema di Spike Lee è da sempre attraversato da un’allucinata vena demoniaca, una nervatura sotterranea la cui cifra espressiva è la possessione, l’emersione improvvisa e spesso caotica di forze troppo a lungo soppresse. Già BlacKkKlansman raccontava di corpi e voci che non corrispondono, di individui su cui pesa la storia di una comunità, di appartenenze e coscienze sopite che scivolano sotto la superficie quotidiana fino a esplodere e risvegliarsi. Da 5 Bloods - Come fratelli, distribuito da Netflix, è allora il film di Lee che della possessione e del ritorno incontrollato di voci fa la sua pietra angolare; cos’è questo Vietnam film speculare se non un esorcismo al contrario, il risveglio di un passato infestante sepolto nel corpo e nelle coscienze, come mine innescate e pronte a esplodere se sfiorate dalla giusta pressione? Interpretato da un grande Delroy Lindo (attore magnifico, e se non ci fosse spazio a Hollywood per tre divi di colore alla volta forse ce ne saremmo già accorti), il personaggio di Paul è davvero la quintessenza del cinema afroamericano di Lee, un corpo e una mente sconquassati non solo dallo stress postraumatico del conflitto bellico ma dalla galleria infinita di vite mai raccontate, corpi e menti non ricordate, tasselli di una Storia collettiva a lungo negata e impossibilitata a farsi identità condivisa, perspicua, decantata. La follia schizofrenica e allucinata di Paul, il suo parlare attraverso la macchina-cinema agli spettri che affollano i suoi occhi,  non è solo il manifestarsi di fantasmi mai sopiti, non è solo rimorso e dolore mal vissuto, ma il luogo di carne in cui come in un imbuto sgorgano e si intasano memorie che non possono più restar ferme e in silenzio, e che tutte assieme devono urlare esplodendo e fuggendo da quell’urna fragile che ne era ricettacolo. C’è troppo da raccontare, troppo da ricordare, perché un singolo possa reggere dentro di sé il peso di un popolo inascoltato e non impazzire.

Assodato il carattere demoniaco del film, Da 5 Bloods non può essere compreso senza una breve contestualizzazione storica.
Nonostante il cinema americano nasca come sistema di generi, organizzazione pianificata e razionale di codici narrativi, il Vietnam è un’esperienza che non ha portato a un filone determinato e univoco di film. Contrariamente a quanto accaduto con la Seconda Guerra Mondiale (su cui sono stati applicati stilemi divenuti fondamenta del cinema bellico) o con il post 11 settembre (il cui fallout è di certo trasversale ma anche fonte di film e serie tv ampiamente codificati), il Vietnam è una ferita da cui scaturiscono cinema diversi, dal tema dei reduci a quello del ritorno a casa, e il tutto avviene per lo più in differita e senza continuità industriale. Le uniche opere che negli anni Ottanta esercitano con costanza e coerenza l’uso spettacolare del conflitto sono quelle appartenenti al cosiddetto M.I.A., Missing in action, sottogenere bellico incentrato sulle squadre inviate a recuperare i soldati americani rimasti prigionieri in Vietnam. Inaugurato da Fratelli nella notte nel 1983, il filone nasce dal nuovo approccio che l’opinione pubblica americana sviluppa durante la presidenza reaganiana nei confronti dei reduci, non più portatori negletti di una guerra maledetta ma vittime dal connotato eroico, protagonisti di un conflitto forse ingiusto ma di certo combattuto con onore, e per questo meritevoli di rispetto. Una retorica revisionista che si manifesta in film come Rambo 2 – La vendetta e Rombo di tuono, capostipite di una fortuna serie con Chuck Norris, in cui il portato di violenza ereditato dall’esperienza bellica non è più causa di disagi sociali e traumi psicologici ma diventa la premessa di uno sfruttamento spettacolare del soldato inteso come arma letale, protagonista di una guerra di compensazione combattuta sì sul piano dell’immaginario ma capace di restituire un concreto senso di vittoria. Quello di Rambo e del colonnello Braddock è un tentativo di riscatto che diviene parte di un grande rito collettivo che ricuce lo strappo tra opinione pubblica e reduci con lo scopo di rinsaldare l’orgoglio nazionale, ed è in questo contesto di riscatto patriottico che si colloca l’emergere degli hard bodies individuati da Susan Jeffords, macchine da guerra infaticabili e invincibili che caratterizzano gli anni Ottanta e alimentano una rinascita del divismo hollywoodiano (in attesa che l’esplosione del body-horror incrini certezze muscolari e ipertrofiche).

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Capire cosa sono stati i film M.I.A. significa quindi capire la doppia riscrittura tentata da Lee, che in Da 5 Bloods non solo annienta la retorica degli hard bodies impiegando attori stanchi e invecchiati (i cui corpi non possono neanche ringiovanire nei flashback del conflitto) ma ribalta l’etnia tradizionale dei protagonisti ponendo al centro del racconto i soldati afroamericani impiegati in Vietnam, caduti o sopravvissuti ma comunque dimenticati dalla macchina spettacolare di Hollywood. Di qui il carattere apertamente didattico del film, che incorpora materiali d’archivio e formati diversi non solo per accentuare lo specifico cinematografico dei vari passaggi narrativi ma per restituire schegge di quel mare magnum storico-culturale ancora tutto da recuperare. Un impegno, politico e coerente con l’identità registica di Lee, che pone però l’opera nella categoria, scivolosissima, dei film più importanti che belli, perché è innegabile che, specie rispetto al precedente BlacKkKlansman, qui sguardo e penna del film siano meno efficaci e ficcanti, vittime di quella stessa dispersione spiritica che genera il racconto. Da 5 Bloods infatti non è solo un film demoniaco sull’impossibilità di contenere la Storia, ma un lavoro che di quella stessa schizofrenia soffre disperdendosi, girando a vuoto, allungandosi oltre il dovuto nel tentativo di far dialogare tra loro troppi generi e temi diversi. Si pensi alla superficialità con cui viene affrontato il retaggio postbellico all’interno della comunità di colore, inteso solo come spazio-tempo di cui riappropriarsi e non colpa da spartire, responsabilità da condividere. Certo, nel film giocano un ruolo chiave le ammissioni pubbliche di Martin Luther King, Malcolm X e Mohammed Ali, ma quando si tratta di confrontarsi con l’orrore compiuto sul campo il tutto si riduce ad «atrocità combattute da entrambe le parti», come se quell’eredità da riconquistare non portasse con sé criticità alcuna. E ancora, poco o nulla importa a Lee della riscrittura squisitamente cinematografica del conflitto; Da 5 Bloods espone le sue ragioni ma poi, esclusi i flashback in 16mm in cui adotta soluzioni visive figlie della blaxploitation, rinuncia a lavorare a livello di immaginario. Non c’è dialogo con il Vietnam immaginato, riscritto e venduto da Hollywood, e di quella mitologia restano soltanto frammenti postmoderni come il locale notturno e il ruolo della ragazza francese, entrambi schegge di Apocaypse Now.

Eppure, oltre le tante imperfezioni che evidentemente minano l’esperienza spettatoriale, Da 5 Bloods è un film che sembra contenerne centinaia, un tappo pronto a saltare, una chiusura traballante di un’arca da cui stanno per evadere spettri che abbiamo appena iniziato ad ascoltare. Forze che Lee, come il suo protagonista schizofrenico, non riesce a contenere e formalizzare, ma che comunque premono sulla soglia urlando. Noi siamo e siamo esistiti, noi siamo legione.

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Spike Lee Delroy Lindo Jonathan Majors Clarke Peters Norm Lewis Isiah Whitlock jr. Mélanie Thierry Chadwick Boseman Jean Reno 154 minuti
USA 2020
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Cities of Last Things

di Riccardo Bellini
cities of last things - recensione film ding ho

Tempus edax rerum. «Il tempo divora tutto», a voler restituire fedelmente la locuzione delle Metamorfosi di Ovidio. «Il tempo distrugge tutto», per dirla invece alla Gaspar Noé. Non è trascurabile che sia stato proprio un cineasta a optare per una traduzione più ficcante in termini cinematografici. Ri-costruire una storia, dotarla di senso, significa anche distruggere i presenti che la compongono, trasformarli in passati fuori dal tempo. Il montaggio dipana i suoi nodi focali, come macerie restituite al discorso. Cose che finiscono. Cose già finite. Irreversibili. Cities of Last Things del malese Wi Ding Ho, autore di quattro commedie tra Cina, Malesia, Taiwan mai giunte nel nostro Paese e ora approdato tra le file distributive a firma Netflix, sembra solcare la flagranza della lezione pasoliniana. Un uomo malinconico si aggira in una città futuristica, fa visita alla figlia, commette una serie di omicidi, si suicida. L’uomo è morto, la sua storia conclusa. Solo ora possiamo cercare di scoprire chi fosse veramente. La morte può compiere il montaggio della sua vita. Ecco allora che il “nastro” viene riavvolto. Torniamo indietro, selezionando i tasselli esistenziali che ci hanno portato a questo misterioso epilogo-incipit.

Come Irreversibile ma soprattutto come Peppermint Candy di Lee Chang-dong – anche nel film coreano si parte dal suicidio di un uomo per ripercorrerne la vita – Cities of Last Things procede a ritroso. In tre tappe fondamentali viene raccontata la vita di Zhang, dalla senilità all’adolescenza. Nel primo episodio ci troviamo nel 2049 – e nella città immaginata da Ding Ho si affacciano suggestioni provenienti da Blade Runner. Zhang è un uomo disperato, incastrato da un matrimonio fallimentare con una donna di cui è molto geloso. In un impeto d’ira, il protagonista uccide sia la consorte che il rispettivo amante, dopo aver assassinato un esponente politico ricoverato in ospedale. Dunque, si toglie la vita. Nel secondo, il giovane e ligio poliziotto Zhang scopre il tradimento della moglie con un suo superiore (l’uomo ucciso in ospedale nel primo capitolo). Una breve ma intensa fuga d’amore con una ragazza occidentale sembra aprire lo spiraglio a una speranza subito frustrata dalla violenza del sistema in cui Zhang si ritrova. L’uomo subisce le ripercussioni del corpo di polizia contro cui ha tentato la ribellione ed è costretto al carcere. L’ultimo scorcio ci porta infine al trauma che più di tutti ha segnato la vita di Zhang: la perdita della madre il giorno stesso in cui il protagonista l’ha conosciuta e ripudiata in un commissariato. Non c’è tempo per un contatto, un abbraccio salvifico, un’agnizione che possa redimere il tracciato di una vita durissima. No. Resta solo il rimorso, subitaneo e inestinguibile. Sui titoli di coda poi, un quarto e breve frammento chiude la storia con una scena d’infanzia priva di dialoghi, unico momento di vera felicità: Zhang bambino che gioca con la zia. Scena che, come l’ultima bucolica immagine della Bellucci in Irreversibile, conclude un ciclo che passa dalle tenebre alla luce, ma che in realtà getta, con la consapevolezza del pensiero retroattivo, un’ombra ancora più densa pure su quell’unico momento di spensieratezza.   

Cose già finite, appunto. Ogni episodio fotografa l’occasione di un contatto appena accennato e subito reciso, il reiterarsi di occasioni mancate per sempre (con la figlia, con l’amante e infine con la madre) che fanno riecheggiare il senso della perdita tra le pieghe del tempo. A differenza di Pappermint Candy, dove la Storia si intreccia alla storia, Wi Ding Ho si concentra sulla dimensione intima dei personaggi. Non parla dei grandi eventi della sua epoca né compone una mappatura storica del proprio Paese (del resto non ci sono precisi riferimenti spaziali), lasciando sullo sfondo un contesto sociale su cui la riflessione si fa più implicita ma comunque determinante. Il contrasto tra una società arida che sospinge a un impoverimento morale e affettivo e il disperato bisogno di stabilire un contatto umano sembra fare riferimento a una cornice globale piuttosto che a una situazione localizzata. In questa prospettiva, – nonostante la paura diffusa tra il popolo taiwanese per il ritorno a una dimensione totalitaria –, andrebbe riconsiderata anche la deriva distopica della prima sequenza temporale. Quel che conta di più è, in definitiva, la geografia dei sentimenti e la temporalità del vissuto interiore, riflessione quest’ultima che il regista affida all’uso del montaggio, a differenza di uno specialista del piano-sequenza come Hou Hsiao-hsien.  

Se il ricorso a una narrazione a ritroso – tutt’altro che orientata a uno scardinamento temporale post-moderno ma anzi diretta alla necessità di una ricomposizione lineare – non è nuovo, Cities of Last Things si segnala però per la peculiarità di utilizzare un genere diverso per ogni episodio: la fantascienza distopica per il primo, il noir per il secondo e il melodramma per il terzo. L’espediente non è fine a sé stesso ma mostra come a differenti fasi della vita corrispondano identità differenti, ognuna prodotta da scelte e azioni precedenti eppure estranee tra loro. Si instaura così una dialettica funzionale tra la linearità dei nessi causa-effetto e la discontinuità costituiva di ciascun processo di formazione umano, frutto di una continuità che procede per fratture, – spesso molto traumatiche.
Se però Cities of Last Things convince meno su un fronte ciò accade proprio laddove invece dovrebbe trovare i suoi punti di forza, nella capacità di creare un forte legame empatico con lo spettatore. Non sempre la portata emotiva che gli episodi vorrebbero suscitare riesce veramente ad arrivare e pure nell’ultimo episodio, che dovrebbe costituire l’apice sentimentale del film e il momento di massima tensione, sembra palpabile uno sbilanciamento tra intenti e risultati.

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Wi Ding Ho Lu Huang Louise Grinberg Jack Kao 106 minuti
Cina, Francia, Taiwan, USA 2018
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Kaili Blues

di Fiaba Di Martino
Kaili Blues - recensione film Bi Gan

Non ha mai fatto mistero, il giovanissimo Bi Gan, del ruolo aurorale cui è assurto, nella sua formazione cinematografica e presumibilmente esistenziale, l’incontro con Andrej Tarkovskij e in particolar modo con il suo Stalker, eretto dal regista cinese a modus narrandi e filmandi dichiarato fin da questo suo bellissimo debutto, ricoperto meritevolmente d’allori (tra Locarno e il Golden Horse).

In Kaili Blues c’è un medico ex galeotto, Cheng Sheng, che in cerca del nipote smarrito, Wei Wei, lascia la provincia subtropicale di Guizhou, dove esercita, e finisce per addentrarsi e rimanere irretito dal cortocircuito spaziotemporale di Dang Mai. Villaggio misterioso, frammento limbale di subconscio nel quale scontrarsi con squarci raminghi del proprio passato, luogo foriero di reminiscenze verbalizzate e incorporee, presenti-assenti; zona più atmosferica che fisica, d’ispirazione tarkovskiana appunto, ma soprattutto affettiva, d’immagini-tempo-sentimento che, miscelate assieme, tutto possono e tutto sono. Bi registra questo spazio onirico attraverso il pedinamento di diversi personaggi, incrociandoli in un’impressione di casualità, standogli incollato, tallonandoli come a volerne restituire live le evocazioni, in una diretta il più realistica e immersiva possibile ma al contempo incastonata in un flusso, un andamento, un refrain percettivo che ha i connotati ondivaghi del sogno, la sua erranza liquida e distratta, quel tipo di figure umane che si danno come apparizioni fugaci ed enigmatiche, fantasmi irrisolti e imprecisi.

Della dimensione onirica il viaggio di Chen Sheng ha, poi, la durata all’apparenza inesauribile, l’assenza di stacchi, di risvegli distinti: un pianosequenza di 40 minuti, ardito, inarrestabile, in un movimento senza confini che punta a riprodurre l’assenza di ostacoli della realtà sommersa nella fantasia notturna, del vento senza meta, degli occhi invisibili della natura, delle città e degli oggetti abbandonati.
Lavorando sulle sovrapposizioni tra interpreti e personaggi, Bi spinge all’estremo la labilità fra i due “stati” e l’addensarsi emotivo, l’una nell’altra, di finzione e realtà grazie all’utilizzo di attori non professionisti ed effettivi abitanti della stessa Kaili, di cui i personaggi parlano e nella quale gli interpreti girano, che è cuore e patria di Bi e di Chen Sheng (cui dà corpo lo zio del regista), in un perpetuato avvicinarsi e rifuggire dal presente-passato, sognato e immaginato. Un moto che poi si ripeterà nelll’opera seconda, il meraviglioso Long Day’s Journey into Night, mélo in sospensione che rilancia la carica simbolica e - stavolta scopertamente - cinematografica di Kaili Blues, affermandosi a sua volta manifesto di poetica tra nature morte, trance rivelatrici e uso personalissimo, parlante, sontuoso e oltremodo ambizioso di un dispositivo che, per Bi Gan, è realmente magico.

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Bi Gan Yongzhong Chen Guo Yue Liu Linyan Luo Feiyang Xie Lixun 113 minuti
Cina 2015
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And Then We Danced

di Leonardo Gregorio
and then we danced - recensione film oscar 2020

In Georgia, già durante le riprese, le tensioni non erano mancate, tra attacchi e minacce, al punto da costringere  la produzione ad assumere delle guardie del corpo per lavorare in maggiore sicurezza. C’è stata poi la Quinzaine des Réalisateurs a Cannes 2019, tanti festival e riconoscimenti a seguire, nonché la decisione della Svezia (Paese del regista Levan Akin, classe 1979, radici turche da genitori georgiani) di scegliere il film come proprio rappresentante per la corsa – breve – agli Oscar 2020. Akin  (Katinkas kalas, Il cerchio e diverse serie tv) ha definito And Then We Danced una dichiarazione d’amore all’ex repubblica sovietica, di avviso opposto sono state invece le frange politiche e religiose – con ramificazioni nei media e nel mondo imprenditoriale – più integraliste e paranoiche della nazione («Un insulto alla nostra fede, alle nostre tradizioni e tutto ciò che per noi è santo»), tanto che in occasione della proiezione del film nella capitale Tbilisi e a Batumi, sul Mar Nero, a novembre dell’anno scorso, le proteste omofobe neofasciste sono sfociate anche in intimidazioni verso gli spettatori e in violenze, fino all’arresto di quasi trenta persone. Al di là, però, degli aspetti di cronaca più tristi e preoccupanti che hanno attorniato il film, Giorgi Tabagari, voce importante del mondo LGBTQ, ha sottolineato dall’altra parte il grande impatto culturale dell’opera su una società storicamente reazionaria.

E Akin – con la cronaca fluida  di un microcosmo familiare, attraverso le linee direttrici di un universo  affettivo e sentimentale di scoperta e dolce smarginatura identitaria, attraverso una densità tematica quasi liminale, che non appesantisce mai il racconto, riuscendo anzi a renderlo in un certo senso “distratto”, centrifugo, variabile, punteggiato di reiterazioni presunte e di scarti essenziali – ha realizzato un’opera cristallina, tra sguardo osservativo ed empatico, innestando dentro questa geografia, in questo documentario sociale di una città, di un’accademia di danza, di una casa modesta, di una festa intima in campagna, un mélo senza dramma né eccessi, senza scandalo né tragedia, un mélo pianamente inquieto, vivo, pulsante. La storia è quella del ballerino Merab (Levan Gelbakhiani, al suo esordio da attore, e ballerino anche nella vita), che fa quello che hanno fatto in passato i suoi genitori e sua nonna; quello che fa anche suo fratello, assai meno costante: sbandato, inaffidabile. Merab deve lavorare come cameriere perché i soldi in famiglia scarseggiano, balla sin da bambino, balla da tanti anni in coppia con Mary (Ana Javakishvili) a cui è legato da un affetto speciale. Il suo maestro, però, lo vede poco adatto, poco virile (ci mette sensualità anziché mascolinità) nelle sue esecuzioni di danza tradizionale georgiana con la partner… Un giorno arriva un nuovo ballerino, Irakli (Bachi Valishvili), ma la rivalità tra i due in un lampo è già desiderio amoroso. E And Then We Danced diventa mappatura libera di questo e di altri desideri, di quelli sottaciuti e imprevisti, di quelli di sempre, dalle geometrie perfette e imperfette. La sequenza in campagna è il film che un po’ fugge da se stesso, ma non perché sia una parentesi, è piuttosto una traiettoria, una domanda, forse l’ipotesi di un altro film possibile.

and then we danced - recensione

È un film sui corpi, And Then We Danced, sulla musica che li muove, sulla passione e la fatica che li provano, su una cultura che li disapprova, su un’attrazione muta che li attira e li abbraccia. Un film sinuoso, un’opera che danza, che gioca. Ma che è anche disincarnata, con una narrazione lineare e disallineata tra il giorno e la notte, tra fuori campo e inquadratura, tra stereotipo e archetipo, limiti e transizioni. Un’opera di soglie non tutte visibili. Una porta si chiude e il film finisce. Continuerà da qualche altra parte che forse conosciamo, forse no. Perché And Then We Danced  non vuole sovvertire, ma leggere, scrivere; non vuole soverchiare il senso ma completarlo. Cinema che, immaginato, dopo averlo visto, probabilmente rivela anche di più di ciò che pensa.

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Levan Akin Levan Gelbakhiani Bachi Valishvili Ana Javakishvili 113 minuti
Francia, Georgia, Svezia 2019
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Better Days

di Andrea Giangaspero
Better Days - recensione film

«This was our playground. This used to be our playground». Chen Nian (Zhou Dongyu), professoressa, scrive queste frasi sulla lavagna e chiede ai suoi alunni la differenza tra i due tempi. Non ricevendo una risposta appropriata, replica che «used to be carries a sense of loss». Chen Nian fa ripetere più volte in coro le frasi agli studenti, ma durante questo gesto meccanico la sua attenzione ricade sul volto basso e silenzioso di una di loro. In quell’espressione, evidentemente, c’è un riflesso del passato, che subito materializza attraverso le immagini il playground di Chen Nian. Le coordinate nel tempo e nello spazio sono precise: città di Anqiao, nel 2011. Nian frequentava l’ultimo anno di liceo, nel clima asfissiante del periodo di preparazione ai Gaokao, esami d’accesso alle varie facoltà universitarie da cui dipendono le vite di milioni di studenti e delle loro famiglie. Per la sua unica amica il colpo di grazia arriva dal bullismo feroce di alcune ragazze, il cui peso la schiaccia fino a indurla al gesto estremo di gettarsi dall’ultimo piano della scuola. Tutti hanno uno smartphone in mano per immortalare quel momento estremamente curioso. Inorridita dai suoi compagni, Chen Nian fa per nascondere alla loro vista il corpo della compagna, posandovi sopra la propria giacca. Quel gesto dolente di empatia, assieme alla denuncia alla polizia dei bulli che avrebbero indotto la sua compagna a suicidarsi, non faranno che contrassegnarla come il nuovo target prediletto a dover subire le loro angherie.

Vincitore di ben otto premi (tra cui Miglior film e Miglior regia) alla 39esima edizione degli Hong Kong Film Awards, Better Days di Derek Tsang espone così, immediatamente, la sua attenzione a un tema spinoso e socialmente utile come quello del bullismo, e vi affianca una storia d’amore: Chen Nian è troppo debole per difendersi dagli attacchi del gruppo di arpie guidato dall’affascinante Wei Lai (Zhon Yu), così si fa proteggere da un ragazzaccio di strada, un affascinante diavolo solitario, Xiao Bei (Jackson Lee). Dagli svolgimenti narrativi propri del teen drama agli avvicendamenti polizieschi che presto affiancano un omicidio al suicidio, il regista cinese non plasma propriamente nulla di nuovo, anzi attinge a piene mani da un vasto repertorio di modelli e personaggi topici. Come il detective empatico che opera in maniera sconsiderata e personale rispondendo solo alla propria morale, o quello che vi si oppone tentando di assumere un atteggiamento più oggettivo. E c’è, ovviamente, la costruzione di una relazione sentimentale tra due personaggi agli antipodi, dove Chen Nian è timida e disciplinata, e guarda ai Gaokao come unica possibilità per sfuggire ai soprusi dei compagni, mentre Xiao Bei ha sempre la faccia piena di lividi, sopravvive in una baracca lurida – anch’essa da repertorio – e tira avanti tra risse e lavoretti per le gang locali.

Il merito però è proprio qui, nella giusta calibratura degli elementi, che suggerisce in egual misura la disposizione spettatoriale a godere tanto di un ottimo drama giovanile a tinte fosche, sovraccarico di tensioni e colpi di scena, quanto di un prodotto che riflette sui problemi di sensibilizzazione sullo Stato cinese. Salta in particolare all’occhio la cura nella rappresentazione visiva dell’edificio scolastico, granitico e quadrato, quasi una riproduzione del sistema della microfisica del potere foucoultiana: un dispositivo che opera un controllo verticale, collaudato per produrre in serie cittadini da inserire nella macchina statale. Lo descrivono le torri di libri impilati l’uno sull’altro sui banchi, a sommergere letteralmente gli studenti, e poi i maxischermi coi countdown ai Gaokao e i motti sul rispetto della disciplina e sull’unico obiettivo da mettere a fuoco, il successo accademico. La competizione è feroce, sfibra i corpi e degenera in forme di bullismo smodato a danno dei più deboli, si esaspera in abusi violenti di gruppo. Ed è questo passaggio che produce lo scarto, il cambio di passo dalla cappa di tensioni che governa l’ambiente scolastico, al precipitare vorticoso nel dramma notturno. La fotografia lo racconta con precisione e gusto estetico. La notte rovescia il pallore diurno della prigione scolastica ed effonde luce calda sul volto di Chen Nian, la stilizza nel buio in cui hanno luogo i gesti d’amore con Xiao Bei e carica di glamour le sequenze sovraeccitate delle scorribande e degli abusi di gruppo di cui Chen Nian è vittima.

better days film 2020

Better Days non è un teen romance adornato da una decisa riflessione sulle storture del sistema scolastico cinese, né un film di denuncia che si nutre al contrario del genere adolescenziale. Siamo piuttosto davanti a un’opera solida, che smussa e collauda a dovere elementi divergenti organizzandoli su un’impalcatura sempre in equilibrio, riuscendo così ad adombrare certi eccessi estetizzanti in cui si avverte lo sfoggio della bella immagine e la ricerca insistita del glamour (viene in mente, in particolare, la scena molto teatrale dell’interrogatorio finale ai due protagonisti, nella stanza buia del commissariato). L’opera di Tsang avrebbe dovuto figurare tra i film presentati alla Berlinale dello scorso anno. Tuttavia, a una settimana circa dal suo esordio, tutte le proiezioni del film sono state cancellate, e nessuna giustificazione addotta. L’ipotesi più credibile, ovviamente, è che il governo cinese abbia voluto porre il proprio veto alla sua diffusione. Nonostante ulteriori rinvii e complicazioni che hanno rischiato di comprometterne del tutto le fortune, Better Days è stato infine destinato all’International Film Festival & Awards di Macao, dove ha folgorato la critica e ha incontrato infine l’entusiasmo del grande pubblico, come pure dimostra il gran successo al box office. Un’opera che, dunque, ha catalizzato enormi attenzioni in patria, tra apprensioni e fascino (e pure qualche livore), suggerendo in definitiva la portata del suo impatto sociale, la trasmissione efficace delle sue preoccupazioni, e una qualche curiosità da rivolgere al suo autore, appena al suo secondo lungometraggio.
«Used to be carries a sense of loss» ripete ancora Chen Nian, alla fine, e di riflesso un film che tenta di smascherare un universo intero di abusi, di stanarlo e reprimerlo, ovviamente grazie alla lente immersiva di un cinema sempre più affascinante qual è quello cinese.

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Derek Tsang Zhou Dongyu Jackson Yee Yin Fang Huang Jue 135 minuti
Cina 2019
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November

di Gian Giacomo Petrone
November – recensione film Sarnet

Agli estremi confini dell’Europa occidentale si agita un cinema carico di vita e di seducenti suggestioni, e nondimeno ancora sostanzialmente invisibile ai nostri occhi. Accanto a paesi di grande tradizione come Russia e Polonia si cominciano a intravedere oggi intriganti baluginii creativi anche da nazioni come la storicamente più rodata Finlandia, o come le emergenti Lituania ed Estonia. Sul versante estone, vanno almeno segnalati The Temptation of St. Tony (di Veiko Õunpuu, 2009) e il film di cui ci si occuperà in questa sede, November di Rainer Sarnet, qui alla sua quinta fatica per il grande schermo, con due corti in coabitazione, all’interno di film collettivi, e tre lungometraggi.

Tratto dal romanzo Rehepapp (2000) del poliedrico Andrus Kivirähk, una fantasmagoria etnografica venata di realismo magico e critica socio-antropologica, November costituisce uno degli esempi più notevoli di un cinema capace ancora di sorprendere e ammaliare, di dar vita a un universo iconico in cui prende forma l’extra-ordinario del sogno, dell’allucinazione, magari dell’incubo, in strenua lotta con l’ordinarietà dell’abituale, del consueto. Lo sviluppo narrativo è focalizzato su una piccola comunità estone di cacciatori e allevatori – presumibilmente nel diciannovesimo secolo, anche se le marche temporali significative scarseggiano – alle prese con le ambasce di una quotidianità segnata dalla morte (la peste), dal sovrannaturale (il proliferare di figure fantastiche, come i kratt, o spettrali, come le anime dei defunti che interagiscono coi vivi) e dalla sottomissione (il signore di quelle terre è un barone tedesco). Sarnet intreccia il realismo degli ambienti antropizzati e degli oggetti di uso comune con l’onirismo ostinato di una stupefacente messa in scena pittorica, il cui artefice principale è Mart Taniel, direttore della fotografia anche nel già citato The Temptation of St. Tony. La pulizia del bianco e nero delle sequenze negli ambienti chiusi, perlopiù rurali, in cui linee e profili risultano spesso nettamente distinguibili, si contrappone al conflitto notturno fra luce e buio degli esterni, che si alterna all’opalescenza diurna o serale dei paesaggi innevati. In particolare là dove compare la figura umana, assieme al suo carico di turbamenti e al reticolo di relazioni complesse con la comunità e l’ambiente, aumentano sensibilmente le sfumature e le ombreggiature, a suggerire i molti conflitti emotivi dei personaggi. È come se lo schermo risultasse sovente diviso in due parti esteticamente contrapposte, con le zone occupate dai personaggi cariche di chiaroscuri e il resto dello spazio illuminato in modo più omogeneo.

Realismo e prodigio, fenomenologia e incanto costituiscono gli assi espressivi e connotativi attorno a cui ruotano le istanze individuali e collettive dei personaggi, che muovono a loro volta una narrazione trasognata e rapsodica, intessuta di passioni represse, slanci individuali e collettive meschinità, veicolate però dal bisogno. Le urgenze più elementari di un’esistenza senza punti d’ancoraggio, più che individuare una propensione alla cupidigia da parte dei membri della piccola comunità, come sarebbe stato nelle intenzioni del regista, sembrano invece delineare i tratti della servilità nei confronti sia del potere umano (il barone interpretato da un Dieter Laser quantomai sornione) sia soprattutto dell’onnipotenza della natura. Tuttavia, se la servilità è l’inevitabile reazione esibita al cospetto di una minaccia soverchiante, essa trova poi un degno controcanto nelle ingegnose misure per la sopravvivenza, dissimulate sotto la patina di una muta accettazione degli eventi. Ogni azione è protesa ad estendere un barlume di controllo e difesa nei confronti di qualsiasi rischio, sia che questo provenga dalla miseria costitutiva sia che incomba dall’esterno. La prosaica arguzia popolare sembra in grado di far fronte a qualsiasi occorrenza, servendosi dell’inganno o della magia e mettendo a repentaglio il domani per preservare l’oggi. Non vi può del resto essere lungimiranza e progettualità, là dove il rischio è persistente. Ecco allora che la peste (con sembianze umane o animali, a seconda delle necessità narrative) viene gabbata facendole credere che le sue potenziali vittime possiedono due deretani e nessuna testa, tramite l’utilizzo di pantaloni indossati al contrario, mentre le esigenze della caccia vengono soddisfatte ricoprendo i proiettili con le ostie della comunione, debitamente conservate in bocca e poi sputate. Qualora serva invece un aiutante perennemente attivo nel lavoro quotidiano, è sufficiente vendere la propria anima alle infere presenze boschive – o al diavolo, poco importa, purché il risultato sia efficace nell’immediato – per ottenere un kratt, sorta di creatura para-robotica formata di paglia e utensili, e vivificata, tramite uno stravagante rituale notturno, dall’anima di un defunto. Emerge, in sintesi, il tentativo del regista di restituire le contraddizioni di una terra marcata dal perenne conflitto fra uomo e ambiente, fra natura e cultura, e mai realmente soggiogata dalla colonizzazione religiosa del cristianesimo, e dunque priva di strumenti apotropaici di natura autenticamente trascendente, atti a esorcizzare le ambasce di un’esistenza attenuata, dispersa ai margini del mondo.

A incarnare la dimensione dello spirito slegata dalla materia, del desiderio svincolato dal bisogno, troviamo invece tre figure di giovani, che sostanziano il versante mélo del film, vero filo conduttore della dimensione emotiva del racconto: Liina (Rea Lest) ama Hans (Jörgen Liik), mentre questi a sua volta ama la figlia del barone (Jette Loona Hermanis), nel rilancio continuo di una brama perennemente inappagata. Lungi dall’indulgere nella descrizione dei meccanismi della seduzione, Sarnet preferisce indagare il mistero dei volti, dei gesti, delle posture, attraverso un certosino lavoro espressivo di tipo luministico, da cui ciascuno dei vertici del triangolo emerge nelle proprie peculiarità sentimentali e psicologiche. Hans personifica la forza vitale e diurna della giovinezza, tramite la spensierata leggerezza dei movimenti e la limpidezza con cui il suo volto è reso prevalentemente senza ombre, mentre Liina si colloca sul versante della notte, dell’attesa paziente, della passione repressa, giocata sui chiaroscuri perennemente contrastati che arabescano il suo viso. La giovane baronessa, dal canto suo, incarna a un tempo l’enigma dell’eterno femminino e, più prosaicamente, l’inaccessibilità del benessere, sintetizzati dall’incedere algido e solenne della sua figura fra le comode stanze della villa padronale: una persona e uno spazio preclusi a chi vive così prossimo, eppure così distante, sotto il cielo funesto della necessità.

Sarnet non è interessato all’approccio da documentario etnografico, quanto piuttosto alle dinamiche espressive del racconto fantastico, rese dall’irrompere del surreale o del grottesco nel quotidiano, dall’impari duello fra emozione e ineludibili esigenze di sopravvivenza, fra romantici languori individuali e concreti bisogni collettivi. November si configura come una sontuosa Symphonie fantastique, in cui la poesia dell’immagine si divora la prosa della narrazione e in cui ogni elemento visuale e sonoro converge a formare una tessitura percettiva di rara suggestione. Se a osservare sono altri occhi, un altro cinema è ancora possibile.

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Rainer Sarnet Rea Lest Jörgen Liik Jette Loona Hermanis Dieter Laser 115 minuti
Estonia, Olanda, Polonia 2017
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Little Joe

di Andrea Giangaspero
Little Joe - recensione film

Joe e Little Joe, il ragazzino e il fiore creato in laboratorio da sua madre Alice, che coi suoi colleghi scienziati afferma possa procurare una sensazione di felicità a chi ne inala la fragranza. Ecco però un problema: alcune procedure laboratoriali non sono consentite ma Alice s’azzarda comunque, nonostante il pericolo. La conseguenza è la diffusione di un virus contenuto nel polline, un microrganismo che finisce per assumere le funzioni di un patogeno ad alto rischio infettivo, pur considerato in un primo tempo innocuo. È senza dubbio curioso rileggere prospetticamente l’ultimo lavoro di Jessica Hausner, Little Joe, a un anno dalla sua presentazione al Festival di Cannes (dove era in lizza per la Palma d’Oro) e in considerazione dell’odierna dinamica pandemica: il sapore è un po’ quello di una sua occulta preconizzazione. Ma provvediamo ad allontanare le immediate similitudini assieme all’eventualità di teorie cospirazioniste per guardare, invece, al film della regista austriaca come all’ultimo tassello di un’indagine autoriale sulla psiche umana, il cui primo passaggio consapevole e degno di nota risale a dieci anni prima, con un lungometraggio in lingua francese, Lourdes (2009). 

Rinsaldando la tenuta della tecnica dei precedenti lavori, senza però acuirla, la Hausner applica anche qui un metodo quasi analitico che lavora sulla ricezione delle variazioni comportamentali minime. Procede così a comporre una sintassi filmica estremamente controllata entro la quale non c’è spazio per la detonazione del dramma, per i disastri eclatanti propri di una filmografia del contagio; tutto tace in vista e in virtù del lento e silenzioso processo con cui Alice comprende la portata dei propri errori. E se anche la protagonista finisce per ravvedersi, cosciente del rischio in potenza degli effetti collaterali del virus, il suo tentativo (affatto insidioso) di annullare la commercializzazione del fiore sembra rispondere alla sola emergenza personale di salvare il figlio. Tutto è da ricondurre, quindi, alla riappropriazione di un affetto nel proprio spazio domestico. La stessa configurazione espressiva del contagio può essere riletta in termini psicanalitici: il male procurato dal virus consiste in una felicità intaccabile, un benessere devoto in cui il fiore Little Joe diviene il partner di un amore sconfinato e sottilmente tirannico. È impercettibile la variazione prodotta dall’infezione, se appunto l’effetto è quello apparente di una mera seduzione. Le vittime del polline sono quasi irriconoscibili nell’ambiente asettico del laboratorio, in quanto già dapprima impegnate in un’indefessa venerazione del fiore. L’invisibilità del nemico crea lentamente adepti nello spazio laboratoriale, riducendo il campo d’azione di Alice senza che questa possa accertarsi del proprio effettivo isolamento.

little joe film recensione 2

Fuori da ogni retorica dello sbalordimento, la regista austriaca demanda allo spettatore il compito di discernere immagini dai significati opachi. È certo che il male esista; ma è reale la minaccia? Persino il procedimento del contagio ha la forma singolare di un gesto delicato come quello dello sbuffo rosa dell’impollinazione. In Lourdes era la guarigione miracolosa di una donna dalla paralisi a sostenere la possibilità d’un agire divino, ma una ricaduta fisica conclusiva sottraeva ogni possibilità di chiarimento. Nel suo film successivo, Amour Fou (2014), dramma ottocentesco che mostra la povera Henrietta in dubbio sul togliersi la vita con il povero poeta von Kleist, non si distingueva la natura tumorale da quella solo spirituale del male invisibile che l’affliggeva. Il medesimo principio sostiene Little Joe nell’impollinazione subdola del veleno: come nei titoli precedenti, un qualche elemento sospende l’incredulità narrativa e sottrae le evidenze della comprensione.

 Come accade nelle opere precedenti, anche le immagini di Little Joe sono estremamente complesse da indagare. Immagini in cui il nucleo di significazioni non è immediatamente esplicitabile, al di là dell’impeccabile pulizia visiva che collauda lo spazio entro cui il virus soffia, esito della fotografia di Martin Gschlacht (collaboratore di lunga data della Hausner). Anzi, verrebbe da dire che tale pulizia si rende necessaria in vista di questa rilevazione della complessità delle immagini. Dove in Amour Fou il lavoro certosino era sulla riempitura degli spazi secondo un’impostazione pittorica altamente studiata, qui l’inquadratura dà visibilità a un’inquietudine che serpeggia lungo i corridoi spigolosi del laboratorio. È assolutamente sterile l’ambiente, tanto per gli innumerevoli sistemi di igienizzazione che lo mappano, quanto per la condizione interna che sottrae ogni carica emotiva tra Alice e i suoi colleghi. Il calore dovrebbe allora annidarsi nella dominante magenta e nell’intero spettro dei colori che copre la dimora domestica; ma il piccolo esemplare di Little Joe nella stanza del figlio, illuminato da una specie di aureola divina, pare che ne abbia cancellato i residui. In tale contesto, nonostante il sistema sonoro chiarisca il carattere di genere del film col suo tambureggiare tribale e coi ronzii che irrompono in un gracchiare sordo, ogni possibilità orrorifica resta disattesa. La Hausner ci dice che modi complessi di intendere i demoni della mente umana nel Cinema possono essere ancora pensati. Il male ha mutato forma, soffia nuvole rosa lungo le narici e dentro il cranio, ed è fecondo dell’amore per un fiore.

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Jessica Hausner Ben Whishaw Emily Beecham Lindsay Duncan Kerry Fox 100 minuti
Austria, Germania, UK 2019
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Tiger King

di Riccardo Bellini
Tiger King - recensione serie Netflix

Già dall’andatura claudicante di Joe Exotic è leggibile il sintomo di uno squilibrio patologico che ha radici profonde. Eccessivo, parossistico, del tutto o quasi inconsapevole di sé, il sedicente “Tiger King” dell’Oklahoma è l’immagine di un’America narcisista votata a una demente tensione autodistruttiva e in preda alle proprie allucinazioni. Tutto in lui comunica instabilità e dismisura. Niente di più distante dalla «fearful symmetry» evocata da William Blake, sintesi del sublime incarnato dal seducente e spaventoso felino della poesia. Eppure anche Joe irretisce lo spettatore, a modo suo. Un ribaltamento di prospettiva non secondario quello che ci porta dal sentimento del sublime alla fascinazione per il freak show. Ma andando con ordine, è proprio dal commercio di grossi felini (big cats) e dalla passione di molti americani per questi animali che è iniziato il percorso che ha portato l’ambientalista e filmmaker Eric Goode a imbattersi in Joe Exotic. Ed ecco allora la docu-serie crime Tiger King, uno dei più inaspettati successi di Netflix, tanto eclatante da indurre la stampa nostrana a dare risonanza mediatica agli sviluppi delle vicende raccontate mentre oltreoceano si parla già di un film e per la serie si prospetta una seconda stagione.

Il motore che innesca il progetto, quasi sul punto di ridursi ben presto a una sorta di MacGuffin, conduce Goode in un circo a tre piste di personaggi al limite della ragione umana, e talvolta ben al di là di essa, freak che non stonerebbero in un film di Harmony Korine o nel girone infernale di Louisiana. Se non fosse però per il fatto che Tiger King rivolge il suo sguardo altrove, non ai reietti delle classi più disagiate, agli invisibili di un sottobosco urbano agghiacciante, privi di mezzi per emergervi. Al contrario, gli sfruttati, – i dipendenti dello zoo di Joe costretti a nutrirsi della stessa carne cruda data agli animali o le ragazze manipolate dal patetico Bhagavan Antle – costituiscono solo una parte della costellazione di Tiger King, al cui centro Goode pone un’America di cafoni arricchiti, emanazione weird e white trash di una nazione che ha trasformato il sogno in incubo, l’individualismo in logica coatta del profitto. Individui che, ben lungi dall’essere degli invisibili, risentono all’opposto di una morbosa ossessione per l’autorappresentazione e trovano i mezzi per soddisfarla. Perché Tiger King non è solo una riflessione sulla tendenza a ridurre la vita in spettacolo connaturata alla società statunitense, sul rapporto paranoide che sussiste tra show e business, ma anche e soprattutto la fotografia in filigrana dell’America schizofrenica trumpiana, mai come ora così incapace di riallacciarsi alla realtà, mai così avvitata in un solipsismo sinistro, di cui l’immagine di un Presidente trincerato nella Casa Bianca durante le rivolte partite da Minneapolis è il triste emblema – e da cui la parte più sana della nazione si sta finalmente emancipando. Del resto lo stesso Joe, che nel 2016 si era candidato alle presidenziali come indipendente e nel 2018 alle elezioni per il governatorato dell’Oklahoma, ha recentemente chiesto ai suoi fan, dal carcere, di intercedere con il Presidente per ottenere la grazia.

Tiger King riprende così le redini di quel discorso iniziale, solo all’apparenza ridotto a mera miccia narrativa, per ampliarne la prospettiva e illuminare il quadro in cui si inserisce. Lo storytelling, talmente compito da lasciare dubbi su un intervento pilotato dell’autore nell’accomodare la situazione (la mente corre ancora a Minervini) non fosse per la realtà della sentenza di condanna ai danni di Joe, si snoda per sette episodi tra una miriade di colpi di scena e sottotrame, lasciando solo allo spettatore il compito di districarsi all’interno della faida tra Joe e Carole Baskin per afferrare il fulcro della serie, il suo collante profondo, sapendosi tenere alla giusta distanza dai “personaggi” e dalle loro storie, tutte false e tutte vere. Se la didascalia finale sui dati dello sfruttamento dei grandi felini negli USA può suonare come posticcia retorica ambientalista, bisogna però considerare che questo elemento acquista significato solo se messo in rapporto alle coordinate più estese di un clima, culturale prima ancora che economico, insostenibile. Implicazioni che si riflettono tanto nel macrosistema quanto nelle vite intime dei personaggi, a partire dalla storia di Joe, ripudiato dal padre per la sua omosessualità. Ma gli autori non puntano il dito. Tutt’al più lasciano che siano i molti sospetti rimasti in sospeso su alcune vicende, in una discesa sempre più cupa e delirante, a far affiorare le contraddizioni di una società dove persino dietro la causa animalista sembra celarsi la logica del brand e dello sfruttamento economico. E Carole Baskin è sicuramente in tal senso il personaggio più significativo e interessante.

In definitiva Tiger King, non propone nulla di nuovo, non ci mette di fronte a un quadro del tutto inedito, né tanto meno si preoccupa di fare della teoria documentaristica (siamo lontani anni luce dalla complessità di Grizzly Man, tanto per scomodare un illustre esempio). Il suo successo planetario si spiega da un lato con quella naturale predisposizione umana per il morboso, dall’altro con la capacità di trovare una narrazione concepita a tavolino in fase di montaggio, rispondente ai più collaudati meccanismi docu-crime, con un capacità di ri-elaborazione del materiale davvero notevole. Certo, pur a fronte del suo successo planetario, va detto che la serie richiede un po’ di tempo prima di arrivare al suo cuore di tenebra. Un problema questo che sarebbe stato risolto, probabilmente, ricorrendo a un formato più snello. 45 minuti a episodio risultano effettivamente troppi, visto che parte del materiale impiegato non sempre aggiunge qualcosa di significativo. Può essere necessario armarsi di un po’ di pazienza per superare lo scoglio del terzo episodio. Va anche aggiunto però che non è scontato aspettarsi da tutti gli spettatori, soprattutto dai più rodati in questo genere di prodotti, questo esercizio di fiducia. Ed è più che comprensibile.

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Eric Goode Joe Exotic Carole Baskin Rick Kirkham 1 stagione da 7 episodi
USA 2020
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Vivarium

di Tamara Gasparini
vivarium recensione film

Alla sua seconda regia Lorcan Finnegan ci conduce dentro una dark city a tinte pastello, vuota e senza via d’uscita, dove tutto è a imitazione del vero, in un loop asfittico di case geometricamente disposte in un labirinto dell’identico – come nemmeno in un universo pop gotico di burtoniana memoria – dove non c’è nessuno e il cielo è solcato da nuvole perfettamente ordinate e simmetriche. Un universo disabitato di solitudine. Un perturbante reso ancor più strano da un senso di sospensione surreale, come ci trovassimo dentro il quadro magrittiano che Gemma e Tom (Imogen Poots e Jesse Eisenberg) vedono in quella che sarà la loro dimora, per sempre. Vivarium mette sotto la lente d’ingrandimento della distopia contemporanea il desiderio di abitare: una casa e un mondo, la cui natura è violenta, con chi rimane indietro – e si scontra con la corsa al mutuo (l’ombra lunga della crisi del 2008 non è un ricordo sbiadito) e l’impennata dei prezzi.

Il film si apre con una scena ornitologica eloquente – in cui piccoli volatili appena usciti dal guscio lottano per la sopravvivenza a scapito dei più deboli della nidiata – prima di entrare nell’inferno ovattato di Yonder: un suburb di felicità prefabbricata a misura di famiglia, dove il senso di omologazione di massa consumistica viene ribaltato in un quadro terrificante di solitario, angoscioso isolamento. A Yonder apparentemente non abita nessuno, è un agglomerato residenziale senza vita, come la malcapitata giovane coppia avrà modo di appurare, traghettata in questo limbo di esibita e ridondante artificiosità da un inquietante agente immobiliare che si dilegua nel nulla mentre i due visitano l’abitazione. Bloccati come in una dimensione di simulazione “virtuale” della vita dove nemmeno il cibo ha sapore, le aspirazioni e le speranze dei due giovani sono azzerate – ridotte al sogno di una casa che non hanno scelto – e presto si troveranno a dover accudire finanche un neonato consegnatogli in una scatola di cartone come gli altri beni di prima necessità. Una copia identica dell’agente immobiliare, un bodysnatcher che cresce in fretta e che apprende per imitazione, come un’intelligenza aliena o artificiale, le informazioni che Emma e Tom gli forniscono. Tutto è controllato e programmato a Yonder.

Metafora di un presente totalitario di sorveglianza – «they’re always whatching us» dice Emma osservando lo sguardo del bambino – dove ognuno è lasciato “libero” di vivere in una bolla di desideri preconfezionati da qualcun Altro. È insomma la rappresentazione evidente della natura malversatrice di un sistema di valori che fa dell’umano un’appendice funzionale di un apparato alienante, dove l’esistenza si estingue nella coazione a ripetere, ciclica e infinita, consuma riproduci e infine muori, in una dimensione del reale straniante, che rende unicamente più soli. I ruoli in questo gioco di simulazione famigliare sono ipercodificati: a Emma spettano le cure parentali del piccolo replicante, a Tom il lavoro manuale nel tentativo di sfuggire all’insensatezza di quel mondo, cercando la via di fuga in una buca senza fondo che scava in giardino.

Finnegan ci consegna un piccolo b-movie contemporaneo con pochi attori e zero consolazioni. Gioca con la metafora scoperta della struttura invisibile e impersonale del capitalismo, qui non tanto vampiro insaziabile ed eterno ma minaccia aliena endogena, certamente dis-umana nelle sue lusinghe e false promesse di felicità. Un gioco complicato, come cantano sui titoli di coda gli XTC con Complicated Game, gemma post punk di, non a caso, spigolosa circolarità claustrofobica. Troppo complicato per uscirne (vivi o morti).

And it's always been the same
It's just a complicated game

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Lorcan Finnegan Imogen Poots Jesse Eisenberg Jonathan Aris 97 minuti
Belgio, Danimarca, Irlanda 2019
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First Love

di Pietro Lafiandra
First Love - recensione film Takashi Miike

Il primo amore di Monica, una ragazza tossicodipendente, vittima di allucinazioni e costretta a prostituirsi per saldare i debiti del padre, non è Leo. Lui è un boxeur talentoso a cui è appena stato diagnosticato un tumore al cervello che incolpa per una recente, sofferta sconfitta. Quando, lungo una strada al neon di Tokyo, Leo vede Monica inseguita da Otomo (un poliziotto corrotto che ha concepito un articolato piano per il contrabbando di droga con uno yakuza), decide repentinamente di aiutarla mettendo l’uomo ko con un pugno. Monica, incredula e spaventata, lo scambia per un vecchio compagno di liceo, il primo amore, appunto. I due scappano insieme e si spalleggiano per sopravvivere alla notte: lei è assillata dalla figura paterna, lui è granitico, per niente intimorito dal pensiero della morte. Lei ha bisogno di essere difesa dalla Yakuza, lui di dare protezione e riscattare quella sconfitta nel match che tanto lo ossessiona, recuperando la dignità che ha perso verso se stesso.

La trama di First Love di Takashi Miike, presentato a Cannes 2019 nella sezione Quinzaine des Rèalisateurs, si gioca attorno a queste due umane, calde caratterizzazioni dei personaggi principali e costituisce uno dei migliori lavori del regista giapponese degli ultimi anni (insieme all’inconcepibilmente sottovalutato e poco dibattuto L’immortale), un’opera iper-cinematografica dentro alla quale convergono, tout court, come sempre, forme, stili, temi differenti e una tenera nostalgia per il cinema del Miike che fu. Il primo amore non è infatti solo quello della protagonista (un amore che tornerà nel finale del film come atto di speranza) ma è anche quello del regista che, dopo aver affrontato praticamente ogni genere, dal fantasy, al thriller, all’horror, pur restando fedele al suo stile schizofrenico e proteiforme attraverso una filmografia che vaglia a ogni nuovo tassello tutto lo scibile cinematografico, torna alle radici, al suo primo amore, a quella Yakuza che affollava quasi tutte le sue prime produzioni per l’home video (quindi, circa, cento film fa) e anche uno dei suoi primi film di successo, Dead or Alive (1999), pellicola costruita attorno alla lotta tra due yakuza che ha dato vita ad altrettanti sequel.

First Love si fa summa del percorso cinematografico di Miike, muovendosi brutalmente dalla violenza iperbolica, con le sue fontane rosso carminio e le teste mozzate ancora in grado di battere le palpebre, a delle brevi stasi riflessive, concedendosi persino un inserto animato policromatico e condensando così il già citato Dead or Alive ma anche Audition, Ichi the Killer, Zebraman e via dicendo.  Proprio per questa sua caratteristica di contenitore nostalgico, il film ci interroga non tanto sul suo rapporto con una realtà che vada oltre al film, quanto sulla posizione critica da assumere nei suoi confronti: in relazione a un regista tanto prolifico e alla sua attitudine giocosa al mezzo, si è forse giunti a un punto della sua carriera in cui avrebbe poco senso chiedersi di eventuali significati extra-filmici, simbolismi e, più in generale, approcciarsi con un’analisi che vada oltre il testo stesso. I significati si trovano nella relazione tra quest’ultimo testo, quelli precedenti e, chissà, quelli futuri. Piuttosto che parlare del singolo film, sembra più appropriato considerare di volta in volta l’intero corpus, chiedendosi cosa vi aggiunga o cosa confermi l’oggetto di studio. In questo caso, First Love sembra aggiungere poco (cosa che invece L’immortale faceva) ma conferma al contempo la maturità di un regista che è stato capace di progettare nel corso della carriera un cinema totale e autosufficiente, la possibilità di un cinema per il cinema stesso e una serie di opere metonimiche, in grado di parlare ogni volta di tutti gli altri film che le avvolgono.

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Takashi Miike Becky Masataka Kubota Nao Omori 108 minuti
Giappone, UK 2019
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