Speciale MUBI / Hunger

di Luca Peretti
Hunger  Steve McQueen

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

A Londra c’è un piccolo cinema dietro alla centralissima Leicester Square. Nel 2009 i biglietti costavano, credo, tre sterline, a febbraio faceva molto freddo, e al Prince Charles proiettavano Hunger di Steve McQueen. Prima di Shame, 12 anni schiavo, e del sottovalutato Widows, quello in sala nel 2009 era il lungometraggio d’esordio di un già acclamatissimo artista multimediale, con un ancora poco conosciuto attore tedesco-irlandese (Michael Fassbender) destinato – come si dice in questi casi – a una luminosa carriera.
Il film racconta lo sciopero della fame del leader dell’Ira Bobby Sands, morto in cella nel 1981. Il Prince Charles Cinema era il mio cinema di riferimento a Londra. Approfittando del prezzo basso e dei buonissimi dolci che vendevano lì dietro nella Chinatown cittadina, ci trascinavo cinefili più o meno consapevoli ["E da allora ho iniziato a stare solo nelle prime file per avere lo schermo unica cosa visibile (colpa tua)”, mi ha scritto un’amica ricordando quel giorno. È un’ossessione di noi cinefili, quella di sederci solo nelle prime file – sia mai che qualcosa, anche impercettibilmente, ci distragga dallo schermo. Amicizie si sono formate e rotte intorno a questo principio per me inalterabile]. Il Prince Charles Cinema se ne stava, e ancora sta malgrado la chiusura dovuta alla pandemia da Covid-19, lì da più di 30 anni, senza nessuna pretesa di fighettaggine, di artificiosa cinefilia hipster tanto in voga a New York City [al Metrograph, vicino Chinatown, 15 dollari ingresso, pubblico che ride senza senso alle scene più dolorose de L’avventura. Gli hipster non prendono niente troppo sul serio, a parte loro stessi]. Pare sia anche il cinema preferito di Quentin Tarantino nel Regno Unito: «The Prince Charles Cinema is everything an independent movie theatre should be. For lovers of quality films, this is Mecca». Abbiamo finalmente qualcosa in comune, Quentin and I.

Pensavo, nel febbraio del 2009, all’ironia di vedere un film sull’Irlanda, sui Troubles, su (forse) l’ultima rivolta postcoloniale sul suolo europeo, nel cuore della capitale del più vasto impero della storia umana. Qualche mese dopo, quando l’amico irlandese-americano vide il murales di Bobby Sands a Roma, a San Lorenzo, rimase molto confuso, non capendo l’internazionalismo, la vicinanza con i popoli in lotta, i simboli sui muri. Ne scrissi, del film non dell’internazionalismo, per Zabriskie Point, una rivista online che non esiste più, pioniera delle riviste web di critica cinematografica, palestra di scrittura per tante e tanti che lavorano oggi in vario modo nel cinema – bisognerebbe chiedersi perché le belle riviste web di cinema hanno i titoli inglesi di film girati da non statunitensi sul suolo statunitense, come Zabriskie Point o Point Blank. Lamentavo che forse nessuno avrebbe visto Hunger in Italia, dato che non aveva ancora una distribuzione (ed effettivamente uscì solo nel 2012, dopo il successo di Shame), chiedendomi retoricamente “a chi interessa vedere un’ora e mezza di sofferenza rinchiusa nelle quattro mura di una prigione, a chi interessa vedere un corpo rigoglioso e forte che piano piano sullo schermo diventa esile, morente, spento?” Usavo parole come “bellissimo” per definire un film, “impegnato”, tra virgolette, e dicevo che era “Cinema con la c maiuscola” (espressione che ora mi fa rabbrividire). Deduco dalla recensione di allora che il film è diviso in tre parti: una sorta di lunga introduzione dove si dettaglia la vita dei prigionieri dell’IRA nelle carceri inglesi; il meraviglioso e toccante dialogo centrale tra Bobby Sands e il prete (da vedere, potendo, con sottotitoli, almeno che non siate irlandesi); e la parte finale in cui si vede il corpo di Sands/Fassbender lentamente logorarsi. “Lo stile è asciutto, i primi piani sono quasi un manifesto stilistico, servono a scavare dentro i corpi, a renderci quanto mai partecipi di quello che sta succedendo”. Pare funzionasse, visto che dicevo che il film faceva uscire dal cinema “scioccati, pieni di rabbia, ma consapevoli di aver visto un film di altissima qualità”. Se scavo nella memoria però emergono anche le sequenze oniriche che forse distraggono, un po’ forzate e formali, ma ancora lontane dall’estetismo borderline voyeuristico di 12 anni schiavo.

Hunger è su MUBI. Guardatelo, il me del 2009 lo consiglierebbe dicendo che è asciutto, bellissimo e impegnato.

A Maria Carla, in amicizia

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Steve McQueen Michael Fassbender Liam Cunningham Stuart Graham Brian Milligan Liam McMahon 96 minuti
Gran Bretagna, Irlanda 2008
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Speciale MUBI / Baci rubati

di Fabiana Proietti
Baci rubati - recensione film truffaut

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

«L’esercito, come il teatro, è un meraviglioso anacronismo», dice Lucien, il rassicurante e benevolo padre di Christine Darbon ad Antoine Doinel, appena riformato per motivi di condotta. Anche Baci rubati è un meraviglioso anacronismo. Nell’anno del Maggio, delle rivolte studentesche, mentre Godard si porta avanti girando nel ’67 La cinese, Francois Truffaut, autoproclamatosi un uomo del Diciannovesimo secolo, si tuffa in una malinconia tutta privata, sublimata dal brano di Charles Trenet Que-reste-t- il des nos amours, che accompagna i titoli di testa per poi tornare come delizioso sigillo sul finale. Il gesto politico viene liquidato nell’incipit, con le immagini della Cinémathèque (all’epoca ancora al Trocadero…) dai cancelli sbarrati in seguito alla protesta per l’estromissione di Henri Langlois. Grazie all’azione di un comitato di autori cresciuti alla sua corte, tra cui lo stesso Truffaut e tutta la banda dei Cahiers, il funzionario venne reintegrato ma la scelta del regista, a quasi dieci anni dall’esordio de i Quattrocento colpi, di accostare la visione del tempio del cinema chiuso alla dolce inquietudine dei versi di Trenet racconta lo smarrimento dell’autore di fronte a un’esperienza, quella della Nouvelle Vague, ormai conclusa nel suo portato ideologico, e di cui sarebbero rimaste solo le prove (ancora e per lungo tempo straordinarie) espresse dalle singole personalità, mentre nuovi autori figli di quella lezione si facevano avanti contaminando la camera stylo di umori più cupi e posizioni teoriche più radicali, come Maurice Pialat e Philippe Garrel che in quello stesso anno realizzano, rispettivamente, L’enfance nue e Le Révélateur.

Credo di aver ascoltato per la prima volta Que reste-t-il des nous amours proprio grazie a Baci rubati. Questa renoiriana rassegna di luoghi e oggetti che altro non sono che il volto caro del proprio passato è la forma-canzone delle partie de campagne amate da Truffaut e che, sulla scorta delle letture e delle visioni da lui indicate, anche io andavo ripercorrendo a ritroso, quasi a voler ricostruire l’albero genealogico dei miei autori. Nella prima ondata di visioni truffautiane Baci rubati non era tra le opere che mi avevano colpito di più: il suo statuto di piccolo film non poteva competere con operazioni più complesse a cui ancora oggi riconosco un impatto maggiore, come i racconti sull’infanzia, le trasposizioni di Henri Pierre Roché o i mélo che si fondono alla lezione hitchockiana sulla suspense. Eppure, ripercorrendo oggi il catalogo MUBI dedicato a Truffaut non ho avuto alcuna esitazione nella scelta. Quel che mi affascina oggi di Baci rubati è proprio il suo essere un film sbagliato in qualunque modo lo si guardi: intimista quando il mondo dell’arte scopriva l’imperativo dell’engagament, rétro nello stesso sviluppo di trama e personaggi, con Antoine Doinel che corre da un angolo all’altro di Parigi come un protagonista del realismo poetico, ora soldato, ora concierge, ora garzone di bottega e poi – con ironica strizzatina d’occhio al cinema di genere - private eye molto poco privato. Doinel che, alle prese con i segni della modernità, immancabilmente fallisce, rifugiandosi nella corrispondenza, nelle lettere – “Preferisco scrivere” dirà a Christine al momento di farle la proposta di matrimonio – quando il mondo e la società sembrano invece avanzare verso il futuro come i famosi treni nella notte: e le due tendenze sembrano incontrarsi per un istante soltanto nella splendida sequenza della posta pneumatica, tragitto sotterraneo e inconsapevole go-between tra i due amanti.

Questo suo disagio esistenziale, questo sentirsi fuori posto, in un’epoca che non è la sua, è ciò che mi rende oggi così caro Baci rubati. Il suo essere fuori di testa, quasi prossimo allo slapstick, anarchico nel voler disattendere qualsiasi aspettativa, lo rende un film salutare per questi anni così sotto pressione. In un’era in cui tutto deve essere costantemente esplicitato, ribadito e sottolineato, in cui il valore più alto dell’opera d’arte sembra risiedere nel suo essere inequivocabile e non offensivo, Baci rubati è invece contraddittorio e indefinibile: indubbiamente malinconico ma anche vitale, i due poli opposti che muovono Antoine Doinel/Jean Pierre Léaud, corpo atemporale e puro cinema, nel suo moto incessante e spesso sconclusionato. E ancora: in un film che appare dominato da uno sguardo maschile (dalle battute grevi dell’ufficiale che paragona lo sminamento al corteggiamento fisico di una donna alle carezze non richieste del laido commerciante alle sue commesse fino alla normalizzazione della prostituzione e a una caratterizzazione moralmente ambigua del cliente omosessuale che si rivolge all’agenzia Blady per trovare l’amante scomparso), sono i personaggi femminili, pur apparentemente presi in mezzo a una dicotomia “maman/putain” il vero motore della storia: loro a decidere quando lasciar succedere qualcosa, a trovare il mcguffin per riallacciare il legame, a usare uno di quei segni del moderno a proprio vantaggio, con Christine che stacca il cavo della tv per poter costringere Antoine a tornare da lei. Rifugiandosi idealmente nel passato, Truffaut realizza uno dei suoi film più evoluti, in grado di giocare con meccanismi narrativi e produttivi attuali ancora oggi, dalla saga all’alter-ego registico. E dunque, che cosa resta dei nostri amori? Un’eredità, spesso tradita, che invita a seguire il proprio tempo interiore senza aderire alle mode del momento. A non sottovalutare la bellezza del gesto e a non sacrificarla sull’altare del messaggio. Aspetto che il Baci rubati di questi anni arrivi a sorprendermi con un nuovo, meraviglioso anacronismo.

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Francois Truffaut Jean-Pierre Léaud Delphine Seyrig Claude Jade Michael Lonsdale Harry-Max André Falcon 92 minuti
Francia, 1968
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Speciale MUBI / La tartaruga rossa

di Pietro Lafiandra
La tartaruga rossa - Michaël Dudok de Wit

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Quando mi è stato chiesto dalla redazione di Point Blank di selezionare un film dal catalogo MUBI, la scelta de La tartaruga rossa è stata inevitabile non tanto per ragioni relative al testo ma, piuttosto, perché su questo film acquerellato di Michaël Dudok de Wit convergono memorie, aspettative e delusioni personali, tutte legate al mio rapporto con la sala, la discussione attorno al cinema e, di riflesso, attorno alle piattaforme streaming.

Facciamo ordine: è il giugno del 2019 e sono di rientro da Berlino. Ho appena visto il bioscopio dei fratelli Skladanowsky alla cineteca cittadina ed è uno di quei momenti romantici e radicali, pieni di retorica sulla bontà delle proprie scelte di vita, sul fatto che poco importano le prospettive lavorative e la carriera, perché studiare cinema, studiare visuale, era l’unica cosa che volessi, potessi e sapessi fare. Da lì a pochi giorni sarebbe cominciata una breve rassegna di dialogo tra cinema e filosofia che un piccolo comune della Brianza mi aveva chiesto di gestire, un trittico di film sotto il titolo pretenzioso di L’Effimero e l’Eterno che sarebbe proprio dovuto cominciare con La tartaruga rossa, un modo per attrarre quel pubblico di ragazzini e famiglie sul quale David Lynch prima e Ang Lee poi non avrebbero esercitato alcun ascendente. Io e il collega con cui lavoravo avevamo preparato una presentazione che integrasse dialogo e materiali audiovisivi per spiegare il lavoro geometrico di de Wit, l’uso delle linee verticali e orizzontali per separare le manifestazioni oniriche e le sequenze romantiche con i loro movimenti ascensionali, il presentarsi di una natura né maligna né accogliente, un microcosmo impressionista, incontaminato e fuori dal tempo, fatto di suoni gutturali e fonemi appena accennati. Insomma, si era deciso di farne, soprattutto, una questione di forma, così da invitare il (poco) pubblico a una conversazione sulle specificità del mezzo. Quando, pochi giorni prima della data stabilita, la società di distribuzione ci ha negato la possibilità di proiettare il film, ho avuto modo di riconsiderare alcune mie posizioni utopiche, ma anche di domandarmi del ruolo che il cinema dovrebbe assumere nei confronti di se stesso, e non l’ho fatto certo perché ci fosse stata negata la possibilità di una proiezione gratuita, quanto per la motivazione addotta: la rassegna comunale sarebbe stata di concorrenza a un Multisala da poco aperto in zona.

Non sono un critico cinematografico e probabilmente non lo sarò mai. In seguito ai miei studi mi sono però spesso trovato nella situazione di insegnare, commentare, scrivere di cinema: l’ho fatto sui blog, sulle riviste, nei licei, in università, per festival, cineforum, convegni o lezioni private. L’ho fatto per gli amici e persino per i giornali parrocchiali. Lo faccio da quando ho tredici anni e ho scritto cose di cui mi vergogno profondamente e altre che non reputo all’altezza. Mi domando quante imprecisioni avrò detto ai miei studenti nel corso degli anni e continuo a sperare che, in un modo o nell’altro, alcuni dei miei vecchi articoli spariscano da Internet. Se c’è un pensiero che però mi ha sempre motivato, un’idea che ha sempre accompagnato la mia tensione al dialogo attorno al cinema, è che la critica, la divulgazione, l’analisi e la discussione cinematografica siano un servizio. Non un servizio a se stessi, non un servizio al film ma un servizio al cinema. Sarà una visione naïf e forse un po’ patetica, ma resto fermamente convinto che il critico, l’analista, l’insegnante, tutti abbiano un ruolo e un dovere: quello di portare il cinema alle persone e non le persone al cinema. Le persone al cinema ci vanno da sole ma, prima, devono essere educate allo sguardo. E con questo non intendo che si debba spiegare dove o cosa guardare ma che si debbano fornire gli strumenti per imparare a guardare. Solo che, a volte, quando si parla di sala cinematografica, mi sembra che la macchina cinema tutta si arrocchi su se stessa, allontani i film dal proprio discorso e perda la visione d’insieme: anche nella remota ipotesi che quella sera il multisala avesse davvero perso degli spettatori a causa nostra, credo che l’immissione di cinema e di discussione sull’immagine nel tessuto sociale, abbiano un valore fondamentale per (ri?)portare il pubblico in sala e formare gli spettatori del futuro, spettatori che, volenti o nolenti, fruiranno il film in maniera molto diversa dagli spettatori novecenteschi. Ed è qui che si inserisce il discorso su MUBI e sulle OTT in generale.

Non riprenderò tutte le questioni ormai consolidate sulla frammentazione del visuale, ma andrò dritto al punto: sono uno di quelli che fatica a guardare un film su uno schermo a 13 o 18 pollici e che ancora crede nella sacralità dell’esperienza cinematografica in sala, eppure sono altrettanto convinto che le piattaforme streaming forniscano un servizio essenziale nel proporre cinema a costi contenuti, prodotti nuovi e diversificati - se non al loro interno (come insegna la stanchezza di molte produzioni Netflix), sicuramente tra di loro -, il recupero di film d’autore (guardate quanto cinema italiano c’è su Amazon Prime Video, per non parlare di John Cassavetes…), e operazioni di frontiera (The Irishman di Scorsese su Netflix, Too Old to Die Young di Refn su Prime); credo inoltre che sia un equivoco stucchevole continuare a contrapporre fruizione in sala e streaming come se fossero due mondi incompatibili in una situazione di conflitto risolvibile solo con il trionfo dell’uno o dell’altro. Penso piuttosto che non sia troppo difficile ipotizzare un dialogo che porti a uno scambio virtuoso tra i due poli e in questo senso la proposta di MUBI è paradigmatica: regolamentando l’accesso a film che per irraggiungibilità, per studio, per lavoro ma anche, ammettiamolo, per risparmiare qualcosa, io e tanti altri come me abbiamo scaricato dai siti più disparati, MUBI diventa non solo un divertimento cinefilo, ma un vero e proprio strumento formativo (non a caso, l’accesso per gli studenti delle scuole di cinema è gratuito) e archivio per i professionisti, capace anche di cogliere lo specifico della discussione cinematografica contemporanea dedicando un’intera sezione ai feed. Inoltre, MUBI mette a disposizione un catalogo che, oltre al valore archivistico (recentemente ho avuto modo di guardare gran parte della filmografia di Paul Painlevé, per dirne uno), fa da complemento alla sala, immettendo o rimettendo in circolo film che nelle sale italiane ci sono stati per poco tempo (per esempio, Zombi Child di Bertrand Bonello), non ci sono da tanto o addirittura non ci sono mai stati. Questo per me non è certo un disincentivo alla fruizione in sala, anzi, è un invito a far circolare e fruire sempre più cinema, a discuterne comunque e dovunque, che sia all’interno di una rassegna estiva gratuita, a casa, sul grande schermo o sul computer. E vedere La tartaruga rossa tra i film disponibili, si carica di un forte valore simbolico.

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Michaël Dudok de Wit 80 minuti
Francia, Belgio 2016
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Speciale MUBI / Carnival Of Souls

di Damiano Garofalo
Carnival Of Souls - Herk Harvey

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Mi è tornato in mente qualche mese fa, mentre ascoltavo per caso un pezzo di Lana del Rey. 13 Beaches inizia con il campionamento di una voce femminile, che recita: «I don’t belong in this world, but that’s what it is. Something separates me from other people, everywhere I turn there’s something blocking my escape». Ci ho pensato un momento: quelle parole mi hanno ricordato una scena tratta da un vecchio film, che avevo probabilmente visto. Le ho subito cercate online e ho scoperto che si trattava della voce dell’attrice americana Candace Hilligoss, protagonista di un piccolo horror americano degli anni sessanta, diventato successivamente (come spesso capita a molti b-movie di quegli anni) un vero e proprio oggetto di culto.

Avevo visto Carnival Of Souls (1963), unico film uscito in sala del regista della Centron Films Herk Harvey, qualche anno prima su YouTube: il film, non avendo mai ottenuto un copyright nel mercato americano, è ancora oggi in public domain negli Stati Uniti, e dunque disponibile integralmente sulla piattaforma di streaming gratuito più importante del mondo. Il titolo di Harvey mi aveva incuriosito da subito: la prima volta lo avevo trovato citato in un volume americano sulle origini degli zombie movie, tra le principali fonti d’ispirazione di Romero, e lo avevo messo nel cassetto; qualche mese dopo, ai margini di una conferenza, mi capitò di parlarne con un collega più esperto, che mi consigliò di vederlo data la mia ossessione del periodo per gli horror americani (in particolare per quelli con gli zombie). Due indizi, per lo più a distanza recente, fecero una prova: mi convinsi e affrontai così la mia prima visione, da cui uscii fortemente turbato e impaurito.

Mi sembrò effettivamente che per il suo film d’esordio del 1968 Romero avesse “rubato” a piene mani da Harvey: non soltanto per la mutuazione del personaggio di Barbara di Night of The Living Dead da quello di Mary di Carnival Of Souls, ma anche per la fotografia, lo stile di ripresa e montaggio, la colonna sonora. Mi sarei aspettato, in realtà, un forte legame con l’universo romeriano anche sul piano dell’immaginario zombie, che invece non trovai a un primo sguardo. Quello di Harvey non mi sembrò tanto uno zombie movie (come mi aspettavo), quanto un film sulla transizione di una donna morta che, credendosi viva, non riusciva a trovare un suo posto nel mondo («I don’t belong in this world…»), in attesa assieme di compiere il passaggio definitivo tra la vita e la morte. Anche per questo ricordo che collegai subito la vicenda del film al purgatorio di Shyamalan in Il sesto senso (quasi un remake, a ben pensarci, del film di Harvey), così come le suggestioni visive ad alcune trovate del Lynch di Eraserhead e Strade perdute. Rimasi sorpreso, e pensai che un film così terrificante mi sarebbe molto piaciuto vederlo al cinema, su uno schermo grande e al buio della sala, e non su una piattaforma online, in una qualità poco più che scadente. Per il momento, mi accontentai di aver ricevuto così tante suggestioni — oltre che di essermi preso molta paura.

carnival-of-souls-pic

Scorrendo qualche settimana fa il catalogo di MUBI, ho scoperto che Carnival Of Souls era disponibile sulla piattaforma in una versione restaurata in 4K da Criterion. Ho deciso di rivederlo, ovviando quantomeno al problema della scarsa qualità della dimenticabile visione di cinque anni prima. Deterioratasi da un po’ di tempo la mia ossessione giovanile per gli zombie, la seconda visione ha permesso di concentrarmi più sugli aspetti stilistici e formali che sui legami con l’universo dell’horror che tanto m’interessavano durante la prima volta. Anzitutto, ho verificato ancora di più come Carnival Of Souls sia un film di una modernità incredibile. Il budget di appena 33.000 dollari non ha, infatti, minimamente scalfito una ricerca formale quantomeno sorprendente per un B-movie dei primi anni sessanta. Oltre a essere un film seminale per il genere (Romero, Lynch, Shyamalan) ho notato quanto sia fortemente derivativo dal cinema che lo precede. Non solo delle nuove onde europee degli anni cinquanta e sessanta, ma anche del cinema moderno americano: i close-up, le inquadrature fuori asse, il sonoro in presa diretta, l’utilizzo di profondità di campo e piani sequenza con macchina a mano, mi hanno ricordato moltissimo cinema di Welles, Cassavates, Bresson, Godard. L’aura magica che circonda il film è costruita ad arte tramite l’alternanza di inquadrature scolpite sui paesaggi desolati che richiamano alla mente sia il realismo pittorico americano (i quadri solitari di Hopper) che il surrealismo francese (le fotografie parigine di Atget). I percorsi mentali/interiori verso l’abisso della protagonista suggeriscono, invece, la forte influenza dell’espressionismo (le dissolvenze di Epstein), del montaggio sovietico delle attrazioni (il ritmo forsennato di Ėjzenštejn) e, ancora, del surrealismo cinematografico (soprattutto il Cocteau di Orphée e il suo lavoro simbolico sugli specchi e le superfici riflettenti). Inoltre, le atmosfere sospese e le implicazioni fantastiche sembrano essere quelle di una puntata del primo ciclo televisivo di Ai confini della realtà, che tanto ha influenzato l’immaginario della fantascienza americana di serie B di quegli anni.

Nonostante questo, la principale e più immediata referenza del film è probabilmente lo Psycho di Hitchcock, uscito appena tre anni prima e da cui Harvey non può che essere stato influenzato. Anzitutto per i presupposti, visto che entrambi mostrano, nella prima parte, il viaggio in macchina di una biondissima protagonista in fuga: dalla propria vita per Marion Crane/Janet Leigh, dalla propria morta per Mary Hill/Candace Hilligoss. In aggiunta, entrambe le protagoniste sono naturalmente attratte da un luogo oscuro che sembra nascondere un mistero perturbante: il Bates Motel, dove vive rintanata la fantomatica madre di Norman; il padiglione Saltair, parco divertimenti abbandonato dello Utah dove sono intrappolate le anime in un vero e proprio carnevale tra la vita e la morte. Insomma: quello di Harvey è un film estremamente colto che, oltre a mettere in scena continue referenze “alte” alla storia del cinema, della fotografia, dell’arte, fa anche esplicito riferimento all’immaginario popolare dei B-movies, della fantascienza e della serialità televisiva americana degli anni cinquanta.

Vedere (o rivedere) Carnival of Souls oggi, su MUBI, ci consente dunque di cavalcare la vertigine del nostro tempo: recuperando l’esperienza filmica di un prodotto così pienamente intriso di cultura cinefila novecentesca su una piattaforma digitale proiettata verso il futuro (del cinema?); apprezzandone, in una qualità elevatissima (e quindi vedendo, rivedendo, spostandoci indietro/avanti col cursore dentro il testo), il pregio degli elementi formali e stilistici; riscattando un vero e proprio cult movie, derivativo quanto seminale, troppo sbrigativamente considerato “soltanto” un film di serie B, finalmente riscattato all’interno del pantheon della storia del cinema horror (e non solo) da una nuova fruizione ri-locata.

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Herk Harvey Candace Hilligoss Frances Feist Sidney Berger Art Ellison Stan Levitt Tom McGinnis 78 minuti
Stati Uniti 1962
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Speciale MUBI / Sciarada

di Giulio Casadei
sciarada recensione film donen mubi

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

- Wouldn’t it be nice if we were like that?
- What, like Scobie?
- No. Gene Kelly
- Remember when he danced down here by the river in An American in Paris without a care in the world?

Una lenta panoramica da destra verso sinistra mostra un paesaggio di campagna alle prime luci dell’alba. Un treno sfreccia a tutta velocità, diretto chissà dove. Il corpo di un uomo viene gettato in corsa, finendo in mezzo alle erbacce. Non abbiamo neanche il tempo di comprendere la dinamica dell’omicidio che siamo catapultati nei vorticosi titoli di testa del film, intrecci di linee e colori psichedelici, mentre fuori campo riecheggiano le note swing-jazz dell’immortale Henry Mancini. Conosciuto come « il miglior film di Hitchcock non realizzato da lui », Sciarada di Stanley Donen è solo superficialmente un’opera di derivazione hitchcockiana. Come dichiarato in maniera esplicita dalla sequenza di apertura - dove l'omicidio è un fatto secondario e accessorio rispetto al piacere tutto astratto e pop dei titoli di testa - Sciarada è piuttosto un arabesco disegnato sull’acqua (della Senna) che si serve dei codici del giallo e dello spy movie per giocare con il cinema. Il mistero da risolvere non è che un mero pretesto. Quello che sta a cuore a Donen è lo svelamento della finzione che si cela dietro ogni immagine cinematografica. La suspense, i meccanismi di genere sono costantemente disinnescati dal loro controcampo: la pistola giocattolo puntata verso Audrey Hepburn, gli omicidi accumunati da dettagli bizzarri (le vittime in pigiama), Walter Matthau che fa esercizi ginnici al telefono, etc ... Fino quasi a sfiorare la deformazione parodica (il commissario macchietta, il funerale di Charles).

Il mondo filmato da Donen è come il teatro di marionette nei giardini degli Champs-Elysées: una mascherata sorretta da uno script precisissimo, dove la morte non esiste (« he’s only pretending, to teach her a lesson ») e gli attori sono contemporaneamente protagonisti e spettatori dell’azione. Senza che questo infici mai sulla tenuta del film, anzi. Il miracolo di Sciarada sta proprio nel suo porsi dentro e fuori la narrazione, in perfetto equilibrio tra la trasparenza del cinema classico e la consapevolezza del cinema moderno. Proprio agli autori della Nouvelle Vague Donen sembra guardare nell’approccio ludico e teorico: fare un film sulla menzogna, sull’inganno, su un enigma da decifrare, decostruendo la nozione stessa di opera hollywoodiana con tutto il suo corredo di segni, corpi, luoghi, topoi narrativi. Non deve stupire, allora, che l’intreccio si risolva all’interno di un teatro vuoto – con i due interpreti maschili a contendersi il ruolo « positivo » - e la chiusura del film sia di fatto affidata ad una smorfia ridicola che Cary Grant rivolge ad Audrey Hepburn (e per estensione al pubblico del film) per prendersene gioco. La matrice moderna di Sciarada è stata compresa più di tutti da Jonathan Demme che in The Truth about Charlie ha realizzato una specie di cross-over tra il film di Donen e Tirate sul pianista di François Truffaut, esplicitando cio’ che in Sciarada si cela dietro la superficie dell’immagine: il legame tra la Nouvelle Vague ed il cinema anni Sessanta di Stanley Donen, che ha poi trovato il suo massimo compimento narrativo ed estetico con Due per la strada, ancora una volta interpretato da Audrey Hepburn e sempre ambientato in Francia.

Sciarada è un film unico, fatto solo, puramente, di cinema: i corpi iconici di Cary Grant (in una delle sue ultime apparizioni) e Audrey Hepburn, le schermaglie linguistiche (« because I already know an awful lot of people. Until one of them dies I couldn’t possibly meet anyone else »), le coreografie nello spazio che sembrano a tratti provenire dal musical, lo slittamento costante delle identità e dei colpi di scena, le citazioni cinefile (« have you got a bullet I could bite, like they do in the movies ? »). E poi, soprattutto, la Parigi di Les Halles, degli Champs-Élysées, del Palais Royal, del Lungo Senna, sfondo ideale per questa avventura attraverso i generi e gli immaginari in cui convivono il Gene Kelly di Un americano a Parigi, il giallo-rosa di Hitchcock e le riflessioni teoriche dei giovani turchi francesi. In tal senso, potremmo considerare Sciarada come il più grande film sul cinema mai fatto, per come riesce a farci innamorare di un’immagine nel momento stesso in cui ne rivela l’artificio. Come nella sublime scena ambientata sul bateau mouche, dove vediamo un uomo dirigere un enorme faro da set verso coppie di amanti che si baciano appassionatamente nella notte parigina. Preludio al bacio che di li a poco si scambieranno Cary Grant e Audrey Hepburn, accompagnati dalle note di Sciarada di Henry Mancini. La magnifica illusione del cinema è tutta qui.  

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Stanley Donen Audrey Hepburn Cary Grant Walter Matthau James Coburn George Kennedy 115 minuti
Stati Uniti 1963
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Speciale MUBI - Sans soleil

di Andreina Di Sanzo
sanssoleil-mubi

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Marchiati per sempre da quell’immagine di tre bambini che, camminando, si tengono per mano. E guardano in macchina. E poi il nero.

Dopo anni torno a riflettere su quell’autore dalla biografia incerta a cui dedicai la mia tesi magistrale. Il regista alieno, come diceva Alain Resnais, tra i pochi che conoscevano bene Chris Marker.
Ma curiosamente ne riscrivo per uno speciale su MUBI, la piattaforma OTT che ha deciso in piena emergenza sanitaria di ampliare il suo catalogo con la sezione Videoteca che rende "sempre" disponibili diversi contenuti. E qui troviamo tanto della sterminata produzione di Marker, tanto che, rimasi meravigliata e sorpresa, quando qualcuno mi scrisse, in pieno Lockdown “C’è tutto Marker su MUBI!”.
Se Chris Marker fosse ancora vivo, forse sceglierebbe proprio questa piattaforma per rendere disponibili le sue innumerevoli produzioni.  Non che sarebbe refrattario alle altre - durante la sua vita non ha mai smesso di sperimentare, accumulare, stare al passo con quello che succedeva nel mondo e nelle tecnologie addirittura con un profilo su Second Life, sotto le mentite spoglie dell’iconico gatto Guillaume-en-Egypte. Ma immagino MUBI come sua piattaforma d’elezione.

Mi pare più che calzante scegliere per questo corposo speciale Sans soleil, il film-saggio per eccellenza, l’elegia dell’immagine, tra le opere definitive sulla funzione del ricordo, inserito in un servizio di streaming che sfugge alla legge della bulimica offerta di contenuti, ma seleziona in modo ragionato autori, sezioni, tematiche, nel nome della qualità e non della quantità. E forse proprio come questo film, vuole suscitare nello spettatore una viva curiosità.
Che cosa sia Sans Soleil (1983) e di cosa parli, all’ennesima visione mi risulta ancora un affascinante mistero. Un saggio sul Giappone, dove Marker ritorna dopo Le mystère Koumiko del 1965, documentario che esplorava la Terra del Sol Levante attraverso il volto di una donna-gatto; ma anche un film sull’impossibilità di mummificare il tempo, sulla soggettività della memoria, sull’impermanenza delle cose e sulla caducità dell’esistenza. Qui si parla del Giappone passando per diverse parti del mondo, per i diversi continenti: Guinea Bissau, Islanda, Île-de-France, Stati Uniti, Capo Verde.

sans marker

Narrato dalla voce di Florence Delay che legge le lettere del regista Sandor Krasna (ovviamente un alter-ego di Marker stesso), Sans soleil è un lungo e delicato flusso di immagini, di riflessioni, di ricordi, un’opera su quella discreta malinconia tipica del mondo nipponico, mondo da cui il regista-viaggiatore vuole imparare a sentire la poignance des choses, inseguendo sempre con spirito nervaliano, l’Immagine.
Costruito in una forma epistolare, i capoversi vengono introdotti dalla frase “Il m’ecrivait…” (Mi scriveva...): l’uso del tempo imperfetto, il tempo del sogno e dell’incertezza, costituisce un refrain che apre a un commento apparentemente slegato dalle immagini che scorrono sullo schermo. Tra il commentaire e le immagini vi è però un rapporto di continuo scambio, le parole sfiorano le immagini e le immagini riempiono costantemente le parole.  

«Dopo vari giri del mondo, ora mi interessa solo la banalità. In questo viaggio, l'ho inseguita con l'implacabilità di un cacciatore», scrive nella sua lettera Krasna/Marker. La sua è infatti una Tokyo in tutte le sue caratteristiche più quotidiane: le feste, i riti, la televisione, i giovani, la religione, i reietti, gli onnipresenti gatti e civette. Attraverso questa banalità, Marker ci parla in maniera profonda di un paese dalla millenaria e complessa tradizione, delle sue contraddizioni, della sua opposizione al pensiero occidentale, della sua perenne e geografica transitorietà. Il Giappone, a rischio continuo di terremoti, porta con sé questa minaccia che rende tutto ancora più fragile e precario. D’altronde, scrive il regista-viaggiatore, «la poesia nasce dall’insicurezza». Proprio questa intraducibile impermanenza delle cose, lo scorrere continuo del fluire esistenziale, diventa il flusso dei fotogrammi che Marker raccoglie e monta al fine di rendere nuovamente tradotto in immagine un cinema che cristallizzi lo scorrere del tempo, ma anche l'effimero delle nostre esistenze, l’inevitabile scomparire nella spirale del tempo.

Come la lista di Sei Shōnagon "delle cose che fanno battere il cuore", Sans soleil è un elenco di frammenti di realtà, di volti, dall'Africa all'Asia, paesi dove il tempo e la morte sono percepiti in maniera differente. Marker cerca infatti di avvicinarsi sempre più a questo spirito tipicamente orientale di sentire l'intensità toccante delle cose e lo fa nella ricerca del banale. Sembrerebbe il modo più diretto di accorgersi della bellezza che si cela dietro alle parole, agli elementi che compongono la vita. Più volte Krasna/Marker evidenzia come noi, in Occidente, non smettiamo di «privilegiare l'essere rispetto al non essere, il detto rispetto al non detto», allora, come possiamo penetrare all'interno delle cose?
In Sans soleil lo spettatore viene così continuamente stimolato a seguire due direzioni diverse, quella delle parole e quella delle immagini che sembrano porsi su due livelli indipendenti. L'associazione tra un'immagine e l'altra non è immediata, allo stesso modo il rapporto tra le parole pronunciate da Florence Delay e le "videolettere" di Sandor Krasna non sembra così diretto. Eppure coesistono in un rapporto di necessità, l'uno sembra richiedere sempre l'altro. Le immagini non traducono le parole pronunciate nel commento, mentre le parole non raccontano quello che vediamo sullo schermo, esse si toccano, si compenetrano, creano impressioni e stimoli che sfuggono alla narrazione lineare. 

Sans Soleil è un continuo scorrere di sensazioni, di lampi sinestetici, di visioni, ricordi e meditazioni: bisogna abbandonarsi a questo fluire di pensieri. Guardando e riguardando Sans soleil si ha come la sensazione di voler bandire il raziocinio, di abbandonare qualsiasi aspettativa, per lasciarsi sedurre. Non si può parlare di Sans soleil come di un ordinario documentario, sarebbe come relegarlo ad una categoria precisa per un’opera che vuole sottrarsi a qualsiasi categoria.
Il capolavoro di Chris Marker è una sinfonia, una lettera d’amore, al cinema, al Giappone, ai volti e, di nuovo all’immagine. La fascinazione per i volti delle donne è un leitmotiv dell’intera filmografia markeriana. In Sans soleil, il regista-vaggiatore si sofferma sui volti delle donne africane, simboli di una bellezza millenaria e abbacinante. Nelle lettere racconta delle tradizioni delle isole Bijagós, dove le ragazze devono scegliere il proprio fidanzato, mentre sullo schermo vediamo il volto di una donna che guarda davanti a sé, sorridendo perché consapevole di essere ripresa. Sempre dall'Africa, riflette sulla figura femminile e si chiede come filmare le donne del Bissau che continuano a sfuggire alla macchina da presa, nascondendosi in un gioco di seduzione attraverso lo sguardo.

marker

Sans soleil è tra le tante cose, un saggio sulla memoria, sulla natura del ricordo, sul cinema come mezzo per ricordare, imprimere gli istanti e renderli eterni. Mentre le onde del mare compiono il loro movimento incessante, la voce di Florence Delay legge le parole di Sandor Krasna: "Mi scriveva: «͔Avrei passato la vita a chiedermi la funzione del ricordo, che non è il contrario ma l'altra faccia dell'oblio. Non ricordiamo; riscriviamo la memoria come riscriviamo la storia. Come si fa a ricordare la sete?»" In questo intenso passaggio Marker riflette sulla soggettività del ricordo, su come la soggettività dell'individuo renda il passato del tutto intimo e personale. Se il passato ci sfugge, i ricordi sono il nostro modo personale per trattenere il tempo con noi e riscriverlo. Filmare, per Marker, diventa il modo per creare delle immagini della memoria, ricordi di ricordi. Hayao Yamaneko, il video artista giapponese, ennesimo alter-ego markeriano, costruisce "La Zona" (nome che omaggia Andrej Tarkovskij) dove le immagini non sono nello spazio e nel tempo, muta il significato virandone il colore. Le immagini elettroniche così diventano quasi irriconoscibili rispetto all'originale e perdono di significato. Sono oltre il tempo, perché con il suo progetto Yamaneko/Marker le trasporta verso un non-luogo, proprio come faceva lo Stalker di Tarkovskij. Con "La Zona" paradossalmente la materia dell'immagine diventa sentimentale, il passato può essere modificato poiché spogliato del suo significato originale. Yamaneko rende l'immagine pura. Forse è questa la grande ossessione di Sans soleil: il cinema come unico strumento in grado di cambiare il passato attraverso l'immagine. Nel suo peregrinare nel labirinto del tempo e della memoria, Krasna/Marker arriva infine a San Francisco, nei luoghi di Vertigo, Ripercorre il tragitto del protagonista Scottie/James Stewart che segue Madeleine/Kim Novak e in un rimando continuo di memorie, pause, riflessioni, film nel film, rivive la vertigine del protagonista.

Ad ogni visione, Sans Soleil fa rivivere la medesima vertigine, è un’opera in cui ci si perde e ci si ritrova, si scoprono dettagli, illuminazioni, un saggio da leggere, ascoltare e guardare. Mai mi stancherò di guardarlo e di sentirlo, un’opera che mi ha insegnato a guardare in maniera diversa, che mi ha ossessionato e disorientato e che ha contribuito a farmi innamorare del cinema sempre di più. Nella sua struggente banalità.

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Chris Marker Florence Delay 104 minuti
Francia 1983
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Speciale MUBI / Un sogno lungo un giorno

di Alberto Libera
Un sogno lungo un giorno  - Speciale Mubi - Point Blank

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Il concetto di «epidemia dell'immaginario» risale a Petrarca e al suo De secreto conflictu curarum mearum, ma è stato ripreso in tempi recenti da Žižek nel suo omonimo saggio. Parliamo di un ordine simbolico, formale e astratto che trascende la realtà ma al contempo ne sovrintende i processi. In altre parole, un «punto fantasmatico» o «corto circuito fantasmatico» (Žižek) che non solo governa il reale ma ne diventa anche il contrappeso critico, la culla di Giuda che ne penetra i complessi meccanismi. In tal senso, potremmo pensare all'iperrealtà dell'immagine cinematografica non tanto come a una reazione all'eccesso di rappresentazione che opacizza la realtà quanto come inevitabile conseguenza  della prepotente emersione della sfera simbolica.

Forse non è un caso che dopo il descensus ad inferos di Apocalypse Now, Francis Ford Coppola realizzi un progetto in apparenza antitetico come Un sogno lungo un giorno. Il prometeico titanismo di Apocalypse Now descriveva, con ineguagliato empito visionario, lo stato allucinatorio-schizofrenico di una realtà sempre più inafferrabile e impossibile da redimere se non attraverso l'archetipo della caduta miltoniana nel «Paradiso perduto» (Kurtz come Satana, Willard come l'omerico Odisseo). Il «piccolo» itinerarium cordis di Un sogno lungo un giorno, invece, riparte proprio da dove finiva il capolavoro precedente. La realtà è ormai diventata una scena fantasmatica. Un luogo immaginario. Uno strumento che si pone a servizio del racconto e non viceversa. Se Apocalypse Now rappresentava hegelianamente la «fine della storia», Un sogno lungo un giorno, che ne costituisce il controtipo negativo, è invece lo «schermo fantasmatico» che si spalanca simbolicamente nel regno della tecnica. Se Apocalypse Now era una sorta di concretizzazione figurativa dell'anti-razionalismo e del sublime romantico, Un sogno lungo un giorno si attesta come chimera iperrealista (per una volta, il titolo italiano introduce un riferimento onirico che non tradisce il senso dell'opera) dove è impossibile riconoscere lo statuto di quanto si vede: illusione, fantasticheria, immaginazione. Protetto, non a caso, dall'involucro del genere più irreale ed escapistico dell'intera storia del cinema hollywoodiano (il musical) e allo stesso tempo ambientato nello scenario che, Baudrillard docet, è diventato ormai epitome della «scomparsa della realtà» (Las Vegas, sorta di «città-simulacro»), il film poggia su una struttura narrativa elementare. Proprio mentre festeggiano il loro quinto anniversario (che cade nel giorno dell'Indipendenza), il meccanico Hank e l'agente di viaggi Frannie litigano e si lasciano. Poco dopo, entrambi incontrano e trascorrono la notte con una persona che sembra la materializzazione del partner perfetto: per Hank è la sinuosa circense Leila, per Frannie il fascinoso cameriere Ray. Tuttavia, il mattino successivo si ritroveranno entrambi di nuovo insieme.

Come si può facilmente dedurre da questa breve esposizione della sinossi, Un sogno lungo un giorno si muove sull'ambiguo crinale che separa «immaginario» e «realtà»: è impossibile scindere i loro rispettivi domini. Leila e Ray sono il parto della mente di Hank e Frannie? Sono una fantasia? Oppure fantasmi che si muovono in un mondo dove la realtà è sempre più distorta e impercettibile? Per raccontare questo scacco percettivo, Coppola crea un mondo illusorio, pienamente artificiale («falso»), estaticamente incapsulato tra le pareti del set. Quest'ultimo non è più semplice contenitore prospettico, ambiente o sfondo, ma diventa spazio di possibilità e disponibilità: il set muta volto e cambia continuamente di segno e significato, è un «mondo a parte», organico (non esistono vuoti, cesure o separazioni) e, al contempo, l'espressione di una «visione del mondo» che orienta lo sguardo. Allo stesso tempo, è luogo di convergenza, punto d'approdo di tutti gli orizzonti immaginari: è il microcosmo al quale i personaggi fanno corrispondere le manifestazioni del proprio mondo interiore. Sbarrati i cancelli del cielo, siamo ora in un territorio che non è solo (ovviamente) lontano dalle utopie neo-hollywoodiane ma anche oltre la retorica postmoderna (ma, in fondo, già heideggeriana) del mondo diventato immagine. Perché qui sussiste un ulteriore passaggio: non solo il mondo è diventato immagine, ma questo ideale «videodrome» crea a sua volta nuovi mondi. Un'ideale prolificazione potenzialmente infinita che non si trova più solo nella mitopoiesi, ancora epico-omerica, delle lucasiane «guerre stellari» (dove la «germogliazione» di mondi è ancora tutta diegetica) ma anche all'interno del principio stesso di ri-figurazione della realtà. Ci troviamo oltre l'immagine elettronica (che pure servì al pionieristico Coppola per previsualizzare molte delle sequenze del film), ovvero un'immagine prodotta attraverso un processo di sintesi che glorifica anzitutto il dispositivo che la produce (si faccia il confronto con il successivo Blade Runner), e già in una prospettiva percettiva in qualche misura «digitale». Se l'immagine elettronica interrogava infatti lo statuto di realtà della rappresentazione e, allo stesso tempo, metteva a nudo la propria natura di manufatto «tecnico» e quindi non naturale, l'immagine digitale crea un nuovo ordine a partire dalla presa di coscienza di questa separazione tra la rappresentazione e l'oggetto rappresentato. L'immagine digitale non s'adegua più al mondo ma produce continuamente nuovi mondi. Non è più solo strumento ma – come perfettamente ha compreso David Lynch – un'ulteriore dimensione di realtà che interagisce con quanto avviene all'interno e al di là dello schermo.

Con un'evidente forzatura, si potrebbe quasi dire che ritrovare Un sogno lungo un giorno all'interno del catalogo streaming digitale di MUBI sia per certi versi un atto di debito revisionismo storico. Quando uscì, il film si rivelò un fragoroso insuccesso, fu disprezzato, sbertucciato o, peggio ancora, avvolto dal manto funebre dell'indifferenza. Certamente, non è mai stato pienamente capito (ammesso che fosse possibile farlo). Ma a quasi quarant'anni dalla sua uscita si può finalmente inquadrarlo nella giusta prospettiva. E leggerlo quindi come il portavoce di un mondo dove tutto (i sentimenti, le emozioni, i sogni, i desideri) è transitorio, fugace, destinato alla rapida obsolescenza. Dove la dimensione del presente sembra non esistere più, persa in un flusso di stimoli, di link, di possibilità. Di mondi. E dove la libertà di scelta diventa vera dichiarazione d'indipendenza.

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Francis Ford Coppola Frederic Forrest Raul Julia Teri Garr Nastassja Kinski Harry Dean Stanton 100 minuti
Usa, 1982
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Speciale MUBI / Lasciami entrare

di Fiaba Di Martino
Lasciami Entrare - Speciale Mubi - Point Blank

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Lasciami entrare è un film d’amore e come ogni (film d’) amore chiama il sangue, il sogno, la violenza e l’eternità, un ciclo di repliche (del gesto e della sua bellezza), non soltanto perché ogni storia d’amore è una storia che si ripete fantasmaticamente: nel caso specifico di questo splendido film (che ha dodici anni ma non è invecchiato di un giorno, proprio come la sua protagonista…) diretto da Tomas Alfredson, a ogni rewatch è lecita la vertigine di specchiare, nel volto prescelto di Oskar, e in quello butterato e autoimmolatosi di Håkan, la stessa persona, il medesimo ritornante destino. «L’orrore era per l’amore» avrebbe sentenziato la deltoriana Lucille/Jessica Chastain in Crimson Peak. «Un amore mostruoso che ci rende tutti mostri».

Oskar e Håkan (entrambi biondi, tristi, silenziosi) non s’incontrano mai, potrebbero essere l’uno la proiezione dell’altro, passata e futura, [onni]presente perché, dal momento in cui s’innamorano di Eli, non avranno altra vita all’infuori di lei. Ma Oskar e Håkan potrebbero essere anche tutti coloro che sono venuti prima, e tutti coloro che sono venuti dopo, se il pattern seduttivo (inevitabile, per la propria sopravvivenza) di Eli è sempre quello che vediamo attivarsi e poi dipanarsi millimetrico, dall’inizio fino alla fine del film. E se è sempre vero che, come sospirava Junie/Léa Seydoux nel capolavoro di Honoré La belle personne, «non conosci mai davvero chi ami», ogni visione/ritorno a Lasciami entrare, come ogni visione/ritorno d’amore e all’amore, è un movimento viziato dall’ambiguità, dall’inherent vice di un sentimento maledetto come la costrizione all’immortalità, alla bestialità dei succhiasangue. Mi succede ogni volta che ripercorro le immagini di questo mélo horror (esiste connubio più fascinatorio, al cinema, nella narrazione per immagini?). Mi chiedo se la ritrosia di Eli (che «non è una ragazza», né un ragazzo: più un simbolo, una sembianza), i suoi tentativi auto-umanizzanti (la caramella), il suo pericolare arditamente (l’ingresso in casa di Oskar, su insistenza di lui, senza permesso verbale esplicito), il suo abbandono e poi il suo ritorno provvidenziale con salvataggio in extremis del fanciullo con fuga d’amore annessa, non siano parte di un’affinata strategia manipolatoria, di un’arte autoconservativa suo malgrado limata alla perfezione negli anni (e nei secoli dei secoli amen). Dopotutto il cubo di Rubik, il rompicapo supremo (appunto: come l’amore), Eli lo risolve in quattro e quattr’otto. Non è un’ambiguità peregrina: nel romanzo da cui il film è tratto, John Ajvide Lindqvist restringe il margine di dubbio, chiarendo la natura di Håkan (che ha conosciuto Eli in età matura, e nutre per lei un’attrazione problematica), in opposizione a quella di Oskar, e, in un raccontino-epilogo successivo, fa intendere che il ragazzo verrà presto trasformato in un vampiro assurgendo dunque a definitivo compagno di vita/morte per Eli. Alfredson, invece, sull’ambiguità lavora, di ambiguità irrora ciascuna scena che i due condividono. Fin dall’entrata in scena di Oskar, rinchiuso dietro un vetro appannato, mentre la neve cade, come al principio di un sogno. E magari il finale lo è già, un sogno, e anche Oskar, dopo il supplizio in piscina (per mano di un bullo squilibrato e di bulletti spaesati, nella desolazione di figure adulte spettrali), è già morto, anche lui, e solo allora può avvenire, sancirsi l’unione.

Ma l’incantamento principale di Lasciami entrare rimane questo costante indagare, questo mutamento di senso e percezione emozionale che riverbera da immagini sempre uguali, da sguardi impenetrabili eppure – dal nostro esterno – mutevoli. È il bello di un film metamorfico nella sua fissità, che alla fine rileva l’ambiguità tutta in chi guarda: per me, è come la meravigliosa, inarrivabile chiusa di La rosa purpurea del Cairo. Cecilia ha perduto due anime gemelle in una, in un colpo letale di fantasia e realtà. Eppure, tornata in sala, torna a sorridere (accadrà anche a noi?). Lenita dall’inesauribile sogno del cinema, o beffata, irretita nuovamente, ciclicamente, da una finzione-fuga, da un magnifico abbaglio? È salvezza o eterna illusione, per Oskar e Cecilia? Tornando a guardarli, e a cercare nei loro occhi, nelle inquadrature, nel moto visuale di entrambi i film, nel tempo infinito di quello che è stato/è ancora il Lockdown, nello schermo piccolo di tv o pc, che imprigiona e toglie il respiro, che sottrae ampiezza prospettica, e vastità, per l’appunto, sdrucciolevolezza, al mistero, è forse più semplice appannare quei finali di pessimismo, sentirli morse, tenaglie. Oppure, al contrario, potrebbe succedere di intersecarli, nello scandaglio del digressivo archivio MUBI fatto di sottomondi cinematografici, di variabili nascoste e variazioni sul tema a ripetizione, tra Ferrara, Park Chan-wook, Franco, Amirpour, Jarmusch; espanderli, quegli sguardi, scoprirne filamenti, precursori, riflessi. E così, ancora una volta, giocare al gioco bellissimo e terribile dell’amore e del cinema, accogliere un’ibridazione in più, lasciar entrare lo splendore di quell’incertezza.

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Tomas Alfredson Kåre Hedebrant Lina Leandersson Per Ragnar Henrik Dahl Karin Bergquist 114 minuti
Svezia, 2008
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Speciale MUBI / Between Fences

di Samuel Antichi
Between Fences - Speciale Mubi - Point Blank

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Alla luce del moltiplicarsi di nuove possibilità e modalità di fruizione nell’epoca post-mediale, il cinema documentario, da sempre ai margini del normale circuito di distribuzione in sala, ad eccezione di pochi autori, ha saputo attuare un profondo processo di riconfigurazione e ri-elaborazione dei propri contenuti così come delle modalità di rappresentazione. Il proliferarsi delle piattaforme streaming ha permesso alle produzioni documentarie, tendenzialmente relegate esclusivamente a una fruizione festivaliera, di intercettare un vastissimo pubblico potenziale. I due colossi, Netflix e Amazon, negli ultimissimi anni, hanno investito molto nelle produzioni documentaristiche, così come nelle docu-series, in particolar modo attinenti a temi legati all’attualità, questioni chiave del nostro tempo, trasformazioni socio-politiche, economiche e climatiche, coniugando racconto cinematografico e ricerca scientifica. La forma documentaria è diventata infatti imprescindibile anche per il giornalismo d’inchiesta, proponendo una ri-lettura della contemporaneità, molto spesso contro corrente rispetto alla visione e all’approccio privilegiati dai mezzi d’informazione di massa tradizionali, nonostante anche queste produzioni, legate inevitabilmente a un mittente, siano mosse da un intento propagandistico, attraverso una trasfigurazione strumentalizzata e sensazionalistica della realtà (si pensi ad esempio ai documentari che mostrano teatri di guerra come quello siriano o che cercano di evidenziare luci e ombre di figure politiche).
In controtendenza a determinate produzioni, che potremmo definire mainstream, a carattere più o meno informativo, MUBI promuove una riflessione intorno alle nuove forme, sperimentazioni, ibridismi, video-saggi, attraverso un corpus di opere che ri-mette in discussione la natura ontologica del cinema documentario, che ha sempre avuto uno spazio importante all’interno della piattaforma. Oltre alle retrospettive proposte, dal documentario scientifico di Jean Painlevé alla riflessione sulle forme del paesaggio e dell’urbanizzazione proposta da Heinz Emigholz, o alla revisione critica della storia a partire dalle immagini d’archivio di Sergei Loznitsa, all’interno del catalogo hanno trovato spazio anche le opere di Avi Mograbi, regista israeliano che nel corso della sua carriera ha cercato di investigare le molteplici contraddizioni che segnano il suo paese, un luogo estremamente diviso e divisivo in cui è difficile far cadere le barriere che lo accerchiano.

Il conflitto arabo-israeliano, da sempre il centro nevralgico da cui partono le riflessioni dell’autore, si arricchisce nell’ultimo film, Between Fences, di nuovi protagonisti. Mograbi decide di focalizzare infatti l’attenzione sul confine israelo-egiziano, attraversato ogni anno da migliaia di richiedenti asilo provenienti dall’Africa. All’origine del film c’è un laboratorio teatrale condotto dal regista Chen Alon con alcuni rifugiati ospitati nel centro di Holot, gestito dal Servizio Carcerario Israeliano, situato nel cuore del deserto del Negev. La struttura, aperta nel 2013 e chiusa nel 2018, in realtà risulta essere un vero e proprio centro di detenzione in cui vengono incarcerati i richiedenti asilo, provenienti principalmente dal Sudan e dall’Eritrea, prima di venir rimpatriati. Mograbi e Alon incontrano alcuni dei migranti, costretti a rimanere in questa sorte di limbo per mesi con la speranza di venir regolarizzati. I due registi si interrogano sulla dura realtà quotidiana a cui sono costretti gli “ospiti” del centro, le difficoltà che hanno nel processo di integrazione, all’interno di una nazione costituitasi proprio a partire da un fenomeno migratorio a seguito di genocidi e persecuzioni. È possibile condividere e far rivivere un certo tipo di esperienza, trasformando la recitazione in forma di testimonianza?

A partire da questo quesito, il film riflette sulla pratica del reenactment, ovvero una ricreazione di «actual people or events» (Winston, 1999, p. 163), una “fantasmatica” riconfigurazione storiografica audiovisiva (Nichols, 2008), come modalità di figurazione dell’esperienza traumatica. Il reenactment continua a mantenere un legame non tra quello che avviene davanti alla macchina da presa ma per la macchina da presa. Lo spazio diventa un palcoscenico. L’intento non è quello di raggiungere un determinato grado di verosimiglianza, quanto di mettere in scena una performance che ovviamente si discosta e si distingue rispetto all’evento passato ma che esplora il modo in cui questo agisce ancora sul presente e sulle memorie collettive e personali. Se da una parte il reenactment di un evento cerca di ricostruire il racconto del passato e l’ambientazione in maniera più attinente possibile al referente storico, reenactment as event assume la funzione epistemologica e storiografica nella creazione di un evento, prevedendo un processo formativo che riguarda «la dinamica tra l’atto performativo e l’atto di filmare come costitutivo e affettivo incontro in uno spazio e tempo condiviso» (Jasen, 2011, p. 65). 
I richiedenti asilo assumono il ruolo di reenactors, nel momento in cui recuperano, ripetono le azioni, i gesti i movimenti che hanno segnato la propria esperienza. Queste tracce traumatiche assumono funzione di coordinate anamnesiche, memory triggers che cercano di far rivivere un certo tipo di esperienza allo spettatore nella dimensione presente. A emergere dunque è una memoria traumatica corporale, il corpo diventa strumento per re-interpretare il passato. Le stesse vittime ri-performano i gesti dei torturatori e dei loro carcerieri, dando indicazione, spiegando nei dettagli le privazioni a cui erano stati sottoposti. Occupando una posizione differente, un ruolo opposto nell’universo finzionale cinematografico, i sopravvissuti vivono l’esperienza traumatica attraverso una nuova prospettiva, similarmente a quanto avveniva anche in Ghost Hunting (2017) di Raed Andoni. La ripetizione del gesto, attraverso la testimonianza, intesa come atto linguistico performativo, avviene all’interno di un luogo spoglio, un magazzino poco fuori il centro di detenzione, che diventa teatro di posa. I migranti ri-mettono in scena le esperienze passate, i soprusi e le violenze che hanno segnato il proprio percorso fino a quel momento.

La ripetizione dei gesti e delle azioni non si ripresenta attraverso un atto compulsivo (acting out), ma promuovendo un esercizio consapevole per favorire un processo di rielaborazione cognitiva del trauma (working through), così come di restituzione di una coscienza post-traumatica, formando una contro-narrazione che riflette sulle modalità di costruzione, rappresentazione e attualizzazione del ricordo.

 

- S. Jasen, Reenactment as Event in Contemporary Cinema, Phd thesis, Cultural Mediations, Carleton, University Ottawa, 2011.
- B. Winston, Honest, Straightforward Re-enactment: The Staging of Reality, in K. Bakker (a cura di), Joris Ivens and the Documentary Context, Amsterdam, Amsterdam University Press, 1999, pp. 161-70.
- B. Nichols, Documentary Reenactment and the Fantasmatic Subject, «Critical Inquiry», vol. 35, 2008, pp. 72-89.

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Avi Mograbi 85 minuti
Israele, Francia, 2016
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Speciale MUBI / La signora della porta accanto

di Andrea Pirruccio
La signora della porta accanto - Speciale Mubi

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Durante i mesi del Lockdown, il mio tempo ha talmente cambiato forma che stentavo a riconoscerlo. Alla routine dei cinque giorni lavorativi si è sostituita una ronde imprevedibile fatta di ferie obbligate e cassa integrazione, con il risultato che quando non lavoravo dodici ore al giorno, ne trascorrevo altrettante a guardare film. Eppure, nonostante l'offerta monstre di piattaforme vecchie e nuove (o proprio a causa di questa sovrabbondanza un po' asfissiante), in streaming non ho guardato nulla o quasi. Non è stato un calcolo né una scelta consapevole. Semplicemente, davanti a tutto questo ben di dio a portata di mano, io ho scelto l'oggetto fisico. Mosso da una specie di frenesia, ho comprato molti più blu-ray del solito, mentre l'intero processo correlato all'ordine ha assunto un aspetto rituale: dalla sofferta selezione dei titoli al refresh sul sito del corriere di turno per vedere quanta strada avesse già percorso il pacco e quanta ancora gliene restava da compiere, dalla voce benedetta del postino al citofono che ordinava di scendere al frenetico processo dell'unboxing, sorta di macchina del tempo tarata su natali di oltre  trent'anni fa. Pur non essendo un truffautiano (è grave, lo so), uno dei pochissimi film visti su piattaforma (MUBI) durante i giorni della clausura è stato La signora della porta accanto. Mi è venuta voglia di rivederlo perché l'ho sempre amato, perché trovo Depardieu uno degli attori più straordinari di ogni epoca e poi perché lo ricollego ogni volta a un fenomeno che io chiamo 'la maledizione del cinefilo', e che obbliga il suddetto cinefilo a consigliare titoli a bruciapelo anche a persone sconosciute o appena conosciute. Una responsabilità che ho sempre sofferto molto, perché mi dispiace l'idea di deludere le persone.

Così il film di François Truffaut lo associo, nella memoria, a un pomeriggio del mio periodo universitario torinese, quando la mamma in visita di un coinquilino, spulciando tra una pila di VHS, chiese quale avrebbe potuto guardare, facendo convergere inevitabilmente su di me gli sguardi dei presenti. Non ricordo perché scelsi proprio quello. A dirla tutta, non ricordo più neppure se la mamma lo apprezzò o meno. Quello che non dimenticherò mai è che accusai così tanto il peso di quella scelta che mi sentii quasi obbligato a rivederlo insieme a lei, cercando di interpretarne silenzi, gesti e perfino spostamenti minimi sulla poltrona. Credo che arrivai a fine visione stremato dalla tensione. Probabile allora che mi sia venuta voglia di vederlo ancora una volta per scioglierlo dal ricordo di quell'esperienza vagamente snervante. La femme d'à côté, visto sulla più cinefila delle piattaforme, è esattamente il mélo ferale che ricordavo; sin dall'incipit, con le sirene della polizia che squarciano il silenzio dell'alba di Grenoble per raggiungere il luogo in cui sono stati trovati i cadaveri dei due amanti. Ma oltre alla storia d'amor fou e ai topoi da melodramma che Truffaut padroneggiava da maestro (l'inesorabilità del fato è sottolineata dalle dissolvenze al nero che chiudono quasi ogni sequenza), quello che non avevo mai capito è quanto La signora della porta accanto sia anche un lucidissimo, quasi teorico affaire de femmes, per citare un magnifico Chabrol di qualche anno successivo: il racconto di una doppia disillusione amorosa, quella patita da due donne che si dispongono ad amare senza riserve ma si imbattono in uomini che di quell'amore riescono a decifrare – e di conseguenza a ricambiare – solo la superficie.

L'impossibile storia d'amore di Mathilde (Fanny Ardant) – che per un gioco del caso si ritrova a essere la nuova vicina di casa di Bernard (Gérard Depardieu), l'uomo di cui era disperatamente innamorata anni prima – riverbera infatti quella di madame Jouve, la narratrice del film, che in gioventù, abbandonata dall'uomo che avrebbe dovuto sposarla, aveva tentato il suicidio azzoppandosi per la vita. La comprensione tra le due donne scatta immediata e reciproca. Al loro primo incontro Odile Jouve, smentendo la definizione sprezzante con cui Bernard aveva cercato di ingabbiarla pochi giorni prima, dirà a Mathilde di non trovarla affatto complicata. Perché le donne del film non si fanno definire da formule banali, e le loro decisioni non meritano spiegazioni mediocri. Lo dice tra le righe Mathilde a Philippe, suo marito, il quale sostiene che madame Jouve abbia rifiutato l'incontro con l'uomo che l'aveva abbandonata vent'anni prima per non mostrarsi invecchiata. Il vero motivo del rifiuto di Odile – non mostrare a quell'uomo il proprio handicap per non lasciar trapelare quanto quel vecchio amore avesse rappresentato per lei, letteralmente, una questione di vita o di morte – non lo sfiora neppure. «Madame Jouve è una donna straordinaria, ma gli uomini non l'hanno mai capita», gli dice la moglie, provocandone la capitolazione senza condizioni: «Non l'avevo capita neanch'io. Gli uomini non capiscono nulla dell'amore, siamo solo dilettanti. Io ti amo Mathilde, ma non ti capisco». Come in fondo non la capisce neanche Bernard, e la sua plateale scenata pubblica davanti alla notizia che l'amante partirà per la breve luna di miele che non si era mai concessa, è più la manifestazione infantile di una volontà di possesso che un indizio d'amore. Non è un caso se, dopo essere stato perdonato dalla moglie e averne scoperto la gravidanza, Bernard scelga di tornare in famiglia, il luogo dove tutto è facilmente riconoscibile e dove i ruoli sono definiti con rassicurante chiarezza. Come non è un caso che sia Mathilde ad ammalarsi, a rifiutare il cibo fino al ricovero, a finire in cura da uno psichiatra che, esattamente come gli altri uomini, non la ascolterà. E non è un caso, infine, se sia di Mathilde la scelta di chiudere per sempre, e nell'unico modo per lei concepibile, la storia con Bernard, generando un'ulteriore eco con le passate vicende di Madame Jouve. A quest'ultima spetta, doverosamente, il compito di commentare nel finale la sorte dei due amanti: «Se dovessi scegliere una frase da incidere sulle loro tombe, sarebbe 'né con te né senza di te'. Ma nessuno ha chiesto la mia opinione». Una donna inascoltata, ancora una volta.

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Francois Truffaut Henri Garcin Fanny Ardant Gérard Depardieu Roger Van Hool Veronique Silver 106 minuti
Francia, 1981
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