Speciale MUBI / Level Five

di Gian Giacomo Petrone
Level 5 - recensione film Marker

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

I film sono eco e riverbero continui di ricordi, di visioni che definiscono luoghi, presenze, magari assenze, eventi, incontri ormai incastonati nella memoria, cristallizzati in un tempo a cui si appartiene e che pure continua a sfuggire inesorabile e inquieto. Mi riaccosto a Level Five di Chris Marker tredici anni dopo il primo contatto: era il 2007, un anno per me carico di suggestioni e avvenimenti da barrare sul calendario, dal primo e finora ultimo viaggio a Londra all’incontro con la donna che ora è mia moglie giusto un paio di mesi dopo, e appena un pugno di giorni prima della discussione della mia tesi di laurea. A proposito di connessioni mnesiche, mi sovviene che a Londra, cercando con scarsi risultati il cimitero di Highgate, dopo un vano peregrinare per una serie di spazi verdi alla Blow-Up che mi sembrava interminabile, mi imbatto in una coppia su una panchina: un uomo oltre la sessantina, con gli occhi schermati da occhiali da sole, e una giovane donna. Mi avvicino guardingo, ripassando mentalmente le formule anglofone che mi parevano più adatte a chiedere chiarimenti sull’ubicazione dell’austero luogo, quando mi accorgo che la sagoma dell’uomo ha un che di familiare: non si tratta di qualcuno che conosco, eppure l’ho già visto da qualche parte. Nel tempo di un batter di ciglia, o poco più, mi tornano alla mente le crudeli immagini del Salò pasoliniano, il ghigno e le fattezze del Duca, perché quell’uomo è Paolo Bonacelli. Per inciso, fu grazie a lui che, dopo un breve ma piacevolissimo scambio verbale, fui in grado di raggiungere il cimitero di Highgate senza altri affanni. E forse, anche in questo piccolo aneddoto c’è del cinema.

Il cofanetto della Ripley contenente Level Five lo presi a Padova, nelle settimane appena successive all’escursione londinese, e un paio di giorni dopo essermi impadronito del piccolo tesoro, la visione dei tre film in esso contenuti (oltre a Level Five, vi figurano anche La jetée e Sans soleil, entrambi parte di questo speciale) era ultimata, perché all’epoca guardavo immediatamente ciò che acquistavo: niente compere ipertrofiche, accumuli intemperanti et similia, niente archivi smisurati in cui si ammassano titoli che vengono poi scalzati da ulteriori titoli senza alcuna possibilità di smaltimento risolutivo. In quel periodo avevo ben chiaro che è possibile vedere solo un film alla volta, anche se poi ho finito col dimenticarmene. Ecco, forse mi piacerebbe recuperare quella sorta di ecologia delle immagini che era parte del mio approccio alla visione filmica alcuni anni fa: l’attesa di un titolo al di fuori dei miei possessi (sempre che si possa chiarire se e quanto si riesca a possedere un film al di là dei propri occhi, in un cieco archivio), la ricerca e magari anche la rinuncia, perché è bene che rimanga un margine, una zona morta di imponderabilità e desiderio inappagato.

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Level Five è forse uno dei titoli più adatti, non solo della library di MUBI ma in generale, per recuperare alcune delle coordinate che innervano di senso la mappa del desiderio di immagini, il ruolo dello spettatore contemporaneo al cospetto del visibile e l’irriducibilità di quest’ultimo a qualsiasi ambizione di controllo definitivo su di esso, perché le immagini sfuggono, e così la realtà e il tempo.
Laura (Catherine Belkhodja) – un omaggio all'omonima protagonista di Vertigine di Preminger – ha appena perso l’uomo che ama, ma può vivificarne il ricordo attraverso un videogioco da lui programmato, che rievoca e ripercorre l’ultimo grande evento bellico dello scacchiere del Pacifico prima di Hiroshima e Nagasaki, la battaglia di Okinawa (1° aprile-22 giugno 1945). Il compito della donna, una sorta di lascito testamentario del suo compagno, è di giungere al fatidico livello 5 per portare a termine il gioco. Per riuscire nell’impresa, Laura farà ricorso a una rete parallela a Internet, allo scopo di raccogliere indicazioni e pareri sulla battaglia, da testimoni e persone informate dei fatti.

Il più rilevante lavoro di Marker dell’ultima parte della sua carriera è un poderoso film-saggio sulla storia, il tempo, la memoria, le categorie che innervano pressoché la totalità del percorso creativo del regista, tenendo presenti anche le assonanze col cinema di Resnais, amico di Marker e talvolta suo sodale artistico. Lo scopo del gioco e del superamento dei 5 livelli che lo compongono contraddice la struttura di pressoché tutti gli strategici a turni mai concepiti fino ad allora ma anche fino a oggi, giacché l’obiettivo ultimo è l’esatta riproposizione della storia, anziché il suo ribaltamento. Si tratta di un atto di giustizia non tanto verso i fatti, quanto nei confronti delle persone che di tali fatti sono state le vittime. E quindi non è consentito barare con la realtà, giacché solo rispettandola è possibile dispiegare uno sguardo autenticamente morale sulle cose, l’unico in grado di restituire la complessità del mondo in tutte le sue molteplici sfaccettature e innumerevoli zone d’ombra. Per Marker, qualsiasi gioco chiami in causa le immagini e il tempo è serio, terribilmente serio.

A Okinawa non sono morti solo militari di ambo le parti (perlopiù nipponici), ma anche decine di migliaia di persone senza divisa, vittime della propaganda imperiale, costrette al suicidio per non cadere prigioniere del nemico: delle morti che la storia ha dimenticato. Attraverso un lavoro di concatenazione mnestica, vero punto nodale non solo di Level Five ma di tutto il cinema di Marker, si accavallano ricordi e riflessioni di personaggi di spicco della cultura giapponese, come l’artista marziale Kenji Tokitsu e il regista Nagisa Ōshima, accanto a sopravvissuti come Kinjo Shigeaki, che si interfacciano con Laura/Catherine innescando la reazione a catena delle informazioni e dei ricordi, ma anche delle immagini, che a loro volta rimandano a eventi consimili a quelli occorsi a Okinawa, come la battaglia di Saipan (15 giugno-9 luglio 1944). Nondimeno, lo scopo delle immagini non è quello di documentare la storia, ma di attivare un libero ma inevitabile processo mentale in cui la memoria individuale di Laura (e insieme dello spettatore) – agitata dai personalissimi fantasmi che la possiedono, fra elaborazione del lutto e ricerca di un senso dell’esistenza in grado di trascendere il sé – e quella collettiva trovino una difficile convergenza.

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Realizzato all’interno di un unico spazio diegetico (e profilmico), salvo alcune riprese dal vivo effettuate in Giappone, Level Five alterna le inquadrature del volto di Laura/Catherine a quelle dello schermo del computer a cui la protagonista fa riferimento per le sue ricerche e per terminare la sua impresa, anche se, come negli altri lavori di Marker, sono le voci e le parole il vero orizzonte ultimo del senso. Infatti le immagini, per parte loro, aprono la voragine del tempo, cozzano con l’imperscrutabilità del reale, innescando una stratigrafia del visibile che non può e non vuole rivelare il mistero che si cela in esso. Il volto e la voce di Laura/Catherine si alternano con quelli delle altre figure coinvolte nel progetto, oltre che con le immagini dal mondo e dal tempo che il monitor restituisce, mentre Marker si insinua in prima persona tramite voice over, solenne acusma proveniente da altri tempi e altre dimensioni. D’altro canto, i commenti vocali non hanno certo lo scopo di dare risposte, di fornire antidoti alle inquietudini della vita, bensì di farsi liturgica evocazione delle dense trame che collegano il mondo degli uomini a quello iconico, l’immaginazione al ricordo, il passato al presente e al futuro, perché forse sul grande schermo della memoria è tutto già dispiegato, magari già avvenuto, sempre identico nelle dinamiche eppure sempre diverso nelle forme.

Pur coi nostri sempre più sofisticati dispositivi, le nostre sempre più veloci connessioni, le nostre seducenti tecnologie, l’enigma del visibile, per sua stessa natura, continuerà a eccedere le nostre macchine e i nostri occhi, a sfuggire al calcolo e al controllo per immergersi nella dimensione del rischio, dell’imponderabile.  Allora può darsi che l’essenza della verità riesca a rivelarsi al soggetto capace di declinare dall’unità illusoriamente dominatrice della propria coscienza/conoscenza e di rinunciare a vedere per cominciare a guardare, per non perdersi nel caos dei segni, nell’ipertrofia del visibile, e magari per fermarsi finalmente a scrutare solo ciò che perdura oltre i confini del nostro tempo sfuggente.

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Chris Marker Catherine Belkhodja Nagisa Ōshima Kenji Tokitsu Kinjo Shigeaki 106 minuti
Francia 1997
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Speciale MUBI / Night Tide

di Giacomo Calzoni
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[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Scomparso nel 2007 all’età di ottantuno anni, Curtis Harrington è un altro di quei nomi che sono stati dimenticati troppo presto. Eppure i motivi per cui dovrebbe essere ricordato non mancano di certo: precursore del New Queer Cinema e amico personale di James Whale negli ultimi anni di vita del grande regista inglese (fu proprio Harrington a ritrovare i negativi originali di The Old Dark House, considerati perduti); e ancora, dalla factory di Roger Corman alle collaborazioni con Kenneth Anger, dai cortometraggi sperimentali fino ai suoi titoli di maggiore successo degli anni Settanta (Chi giace nella culla della zia Ruth? e I raptus segreti di Helen, oltre ai suoi b-movies prodotti per la televisione come Devil Dog – Il cane infernale). Troppo poco per il pubblico italiano, forse, che comunque ha potuto trovare nella programmazione dei canali satellitari un buon antidoto contro l’invisibilità alla quale il regista sembrava ormai condannato.

È appunto il caso di Night Tide, il suo primo lungometraggio risalente al 1961, che oggi è possibile recuperare anche grazie a MUBI e al lavoro di restauro patrocinato da Nicolas Winding Refn (all’interno di un catalogo appositamente selezionato dall’autore danese che comprende, tra le altre cose, persino riscoperte bizzarre come Satan in High Heels e Orgy of the Dead, da una sceneggiatura di Edward D. Wood Jr.). Rivisto oggi, Night Tide è un film che sembra raccontare molto del panorama fantastico di un’epoca, quella dei primi anni Sessanta, ancora sospesa tra passato e futuro: da un lato l’inevitabile influenza del cinema classico della RKO, di Val Lewton e di Jacques Tourneur (Il bacio della pantera è il primo titolo al quale viene solitamente accostato, non a caso); dall’altro, la volontà di sganciarsi dalle coordinate più conservatrici di un genere che di lì a breve si sarebbe radicalmente trasformato nella più lucida e spietata rappresentazione della contemporaneità, da La notte dei morti viventi in poi, attraverso una libertà creativa e una vena sperimentale dichiaratamente figlia degli anni della Nouvelle Vague e del Free Cinema. Ed è propro dagli antesignani del film di Romero che bisogna ripartire per comprendere come il cinema fantastico stesse cambiando pelle, nel tentativo di confrontarsi con una realtà a sua volta sempre più mutevole e sfaccettata: Night Tide trova quindi il proprio posto accanto a titoli come Carnival of Souls di Herk Harvey (anch’esso presente su MUBI) e Spider Baby di Jack Hill, tra i primi a raccontare l’ingresso dell’orrore nel quotidiano con spirito fortemente rivoluzionario e di rottura nei confronti del passato.

La storia di un giovane marinaio in licenza (il venticinquenne Dennis Hopper, qui al suo primo ruolo come protagonista), perso tra le strade e i locali di una località di riviera fino all’incontro fatale con una bellissima ragazza che forse si rivelerà essere una sirena (o forse no), precede di un anno proprio il capolavoro di Harvey, del quale anticipa - anche visivamente - il ruolo spettrale della cittadina di provincia e del Luna Park, una sorta di American Horror (Hi)Story su un paese che è già terra di morti viventi, di solitudini e di freakshow. In Harrington il tono è fiabesco e persino tenero (nonostante la sequenza prettamente horror dell’incubo, in cui il protagonista si ritrova avvinto dai tentacoli), senza dubbio lontanissimo dalle derive più estreme del genere; eppure, al netto di alcune ingenuità e verbosità figlie del suo tempo, la presa di posizione del suo autore è lucida e incredibilmente spietata. Il sogno americano dei padri è una fairy tale che viene raccontata a bambini cresciuti senza punti di riferimento (Johnny è stato abbandonato dal padre, Mora è un’orfanella trovata da bambina su un’isola al largo della Grecia), il divario tra le generazioni si è già trasformato in abisso e a farne le spese sono sempre gli innocenti: dietro le apparenze da fantasy marino, Night Tide cela tutta l’inquietudine e la disillusione di un mondo che ha appena cominciato a mettere a nudo le bugie sulle quali si è sempre basata la propria Storia; e l’ambiguità irrisolta del finale non fa che aumentare la sensazione di disagio e di incertezza che si respira per tutto il film. A ben pensarci, non è un caso che anche nel bellissimo Noi di Jordan Peele tutto nasca da un Luna Park…

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Curtis Harrington Dennis Hopper Linda Lawson Gavin Muir Luana Anders 84 minuti
USA 1961
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Ieri/oggi - Tornare a "Strange Days"

di Saverio Felici
Strange Days recensione film Bigelow

[La storia del cinema non è un corpo morto ma un motore vivissimo. I film ci guardano e continuano a parlare, dal giorno della loro uscita ad oggi, arricchendosi del tempo che passa e della realtà che cambia. "Ieri/oggi" è una rubrica che nasce per valorizzare questo dialogo, riscoprendo film seminali e quanto ci dicono oggi sul presente].

Destoricizzare prodotti culturali del passato e ricollocarli a calci nel contesto sbagliato è un classico della critica pigra. Ci sono casi però in cui il confronto esteso con il presente è addirittura obbligatorio; film spesso insospettabili, che a differenza di altre opere “urgenti” a scadenza mensile, chiedono di essere ritirati fuori in continuazione, anche a distanza di decenni, come fossero perennemente in uscita il prossimo weekend.
Nel 1998, il Moretti all'apice della sua fase masturbatoria post-Apicella sfotteva un recente mega-flop di Kathryn Bigelow, in una delle sue celebri filippiche contro il cinema di genere americano. Le classiche frecciatine passivo-aggressive del regista, in un film campionario dei leitmotiv tardo-morettiani (la mamma, il figlio, Berlusconi); tutti talmente urgenti, talmente politici, che oggi di Aprile non resta segno alcuno. Di Bigelow invece?
Quindi, Strange Days, 1995 oppure 2020. Ralph Fiennes e Angela Basset a Los Angeles: polizia militarizzata, guerra civile incombente, un omicidio razziale; una misteriosa nuova tecnologia governativa che lo ha ripreso involontariamente, e sul futuro della quale si decideranno le sorti della società nascente.

Ora: è quantomeno sospetta la recente prolificità dell'industria cinematografica americana nell'affrontare il tema della police brutaliy. Dagli anni di Strange Days, quanti film, quante serie sono state prodotte, a condannare la violenza delle forze dell'ordine USA? Covid permettendo, c'è da scommettere siano già in produzione decine di opere programmaticamente “ispirate” alla vicenda di George Floyd o altre mostruosità analoghe, da Breonna Taylor a Freddie Gray. Con il solito modus operandi: mettere in scena sbirri-mostri ringhianti, bavosi e caricaturali, e spostare così il senso dei riots su dinamiche morali-idealiste di buoni e cattivi.
Più che un'avvenuta presa di coscienza militante delle grandi major, questa sensibilità al tema andrebbe ricondotta alla componente rassicurante e reazionaria che sottintende queste rappresentazioni. La rappresentazione in sé sembra in effetti l'unica forma di prassi politica progressista concepibile oggi nella patria del liberalismo; dare visibilità alla propria causa attraverso la commercializzazione mediatica e spettacolare (da parte delle stesse classi dirigenti teoricamente chiamate in causa), minimizzando quelle problematiche strutturali che non si ha nessun interesse a mettere in discussione. È la maniera più conservatrice di essere riformisti, e inevitabilmente la più hollywoodiana; “rappresentare”, farsi pagare, tirarsi fuori dall'equazione con l'immagine immacolata.

È una trappola quindi spingere verso un recupero di Strange Days in quanto “film Black Lives Matter”. Tutta Hollywood twitta BLM, come tutti twittano contro Trump, l'inquinamento o la povertà: non è un valore di per sé. Facendo del capolavoro di Kathryn Bigelow un qualche vessillo da college campus privato, il suo slancio futurista finirebbe inevitabilmente cestinato in questa florida corrente di cinema politico-utopistico molto democratico, molto liberal e molto anti-insurrezionalista; quello che “violenza genera violenza”, “protestiamo pacificamente”, “l'unica arma è l'amore”.
Il suo impeto pseudo-sovversivo è in fondo sintesi perfetta di quell'anti-capitalismo performativo che in tempi non sospetti il solito Zizek rinfacciava al povero James Cameron (autore del trattamento e del lorebuilding di base), con l'esempio di Titanic: concepire lo scontro di classe americano quale mezzo per il miglioramento morale delle classi dominanti, veicolato dall'incontro con un “popolo” idealizzato, votato alla subalternità e magari al sacrificio finale. Cos'è il (bellissimo) finale di Strange Days se non la messa in pellicola di questo intero discorso, con Vincent D'Onofrio e William Fichtner, sbirri razzisti e corrotti, alfine incastrati e giustiziati dalla polizia militare “buona”, ora pronta a ricondurre all'ordine le masse rivoltose con una rinnovata fiducia nell'autorità?

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Buttandola sul contenutismo spicciolo, Strange Days si beccherebbe dunque il bollino di reazionario. Ma un film è un film, non il suo soggetto, e quello che il capolavoro di Bigelow dice lo rivela ovviamente la forma.
Strange Days non può diventare oggi il manifesto BLM, come non riuscì ad esserlo per le rivolte del '93 e di Rodney King. Il suo oggetto è invece George Floyd stesso; precisamente, il punto d'incontro tra rabbia sociale, tecnologie del controllo e mercato dell'attenzione che il suo omicidio rappresenta. Temi questi già propri del vecchio cyberpunk letterario di trent'anni fa, come di tutta la sua controparte critico-filosofica (Baudrillard, Lyotard): teorie allegramente date per obsolete dalla gioiosa rivoluzione digitale, e che ora si è costretti a ritirare fuori mentre il mondo prende forma attorno ad esse.
Nel recupero di queste suggestioni applicate al bollettino di nascita del nuovo millennio, Strange Days è forse l'unico film occidentale veramente cyberpunk di qua di Blade Runner; l'unico capace di sfuggire il patinatismo che bene o male infettò gli esperimenti di Andrew Niccol o Robert Longo (per tacere di Matrix, gradevole pastiche di suggestioni altrui oggi riprogrammato come improbabile metafora queer tra Judith Butler e meme brutti), e quasi sicuramente l'unico kolossal in live-action rilevante in un sottogenere segnato sopratutto dai lavori ultra-indipendenti dei giapponesi matti Shin'ya Tsukamto, Shogin Fukui e Sogo Ishii.

Prima della Fine della Storia, un tempo non lontano il Cinema e i film si beavano ancora di poter fermare la realtà, sottrarla al vortice infernale dei simulacri. Già prima di Strange Days, nell'action classico era un motivo ricorrente: rivela al mondo l'immagine del villain e, come un conflitto rimosso, capitolerà una volta portato alla luce della coscienza pubblica. In L'implacabile (1987), il pubblico-popolo insorgeva e decretava la sconfitta di Killian nel momento in cui Arnold ne smascherava le malefatte via cavo: ogni manipolazione cadeva nel momento in cui la cinepresa era lì, e riprendeva.
Altri tempi: “In realtà non funziona così,” commentò sconsolato Steven de Souza qualche anno fa, a proposito di quel finale. “Oggi vediamo i filmati, ascoltiamo le registrazioni, ma nulla ci fa effetto”. Il cinema, i film, le macchine da presa: tutta strumentazione desueta, retaggio di un secolo pittoresco e feroce. E ora, l'estate 2020 ribalta tutto ancora. Ha ragione l'uomo di Die Hard e Commando: le immagini degli orrori politici esulano dalla sfera d'influenza del singolo. Ma quelle del quotidiano, abbiamo scoperto, ci toccano ancora.

Se Strange Days è il film del 2020, allora lo SQUID sarà il social media visuale del decennio in partenza. Altro che Youtube e Facebook, roba già vecchia: l'interpassività delle vite altrui vissute in soggettiva, uscita dalle distopie nineties e dall'estetica Mtv, è oggi parte delle più comuni forme di socialità e di intimità quotidiane. Sempre (a torto) accusato di nichilismo ed estetica dell'orrido, Strange Days è quindi in fondo un film social-positive, ovviamente senza neanche saperlo. È la “speranza” costantemente evocata da Kathryn Bigelow, lei sì, veramente fiduciosa nei lumi e nel Nuovo tecnologico; sia questo una nuova piattaforma comunicativa, uno SQUID fantascientifico, o le micro-steady ultrastabilizzate costruite esclusivamente per il suo film, che l'autrice racconta con entusiasmo contagioso nei commenti audio dell'unica, preistorica edizione home video al momento in commercio (aspettiamo fiduciosi).

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Ma la retorica tecno-utopistica va guardata con sospetto. La propaganda sui social media muta come una sostanza gassosa a seconda dei poteri tirati in causa, e così la percezione di questi nuovi Behemoth dell'informazione: nuovi scintillanti baluardi dell'emancipazione liberale contro i nemici dell'Occidente (le amatissime “rivoluzioni di Twitter”, ovviamente inesistenti in questi termini), oppure incontrollabili mostri tentacolari da imprigionare? Nella visione essenzialmente ottimistica di Bigelow e Cameron, la soluzione non è la distruzione di questi sistemi, quanto il loro hackeraggio; lo SQUID è un'arma di controllo federale (surveillance capitalism, se vogliamo) ma anche strumento di presa di coscienza una volta introdotto e democratizzato attraverso i mercati neri. Il millennio che apre (su una chiusa anni '40) sarà di chi imparerà a controllarlo.

Mettendo Strange Days a confronto rigoroso con il 2020, certi altri succosi aspetti del film perdono ingiustamente interesse: dal triangolo noir (che Cameron voleva al centro del film, con Bigelow a spingere sull'intreccio politico), all'evoluzione del linguaggio tecnico dell'inseguimento a piedi (autentica arte marziale registica che con l'autrice aveva già toccato il vertice storico in Point Break), e ovviamente l'estetica e il worldbuilding curato da Ellen Mirojnick, Lilly Kilvert e Kara Lindstrom. Ma quello formalistico è un discorso che prescinde da questo tipo di lettura.
In quanto sci-fi politico vero, il capolavoro di Bigelow non si impone di testimoniare una realtà oggettiva (impossibile proprio ontologicamente), né ne delira una versione ripulita e pubblicitaria a uso dei consumatori (che semmai è conservatorismo); quello che fa è prendere le tesi del suo presente e suggerirne una sintesi nuova, in proiezione. Inserire un elemento originale nel discorso utilizzando immagini anziché parole: la ragione per cui un film popolare, con buona pace di Michele Apicella, sarà sempre la forma espressiva più efficace nell'esprimere una possibilità. Perché la sua proposta è visuale, non verbale; tangibile, e non teorica. Se una volta pareva indecifrabile, la soggettiva impazzita di Strange Days oggi è impossibile da fraintendere. Storta, lurida e sgranata, diventa costantemente più lucida.

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Kathryn Bigelow Ralph Finnes Angela Basset Juliette Lewis Tom Sizemore Michael Winnicot Vincent D'Onofrio 145 minuti
USA 1995
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Zeus Machine. L'invincibile.

di Giorgio Sedona
Zeus Machine. L'invincibile - Zapruder Filmmakersgroup

“...l’Invincibile di notte sogna sulle lapidi degli eroi...”

La storia dell’invincibile, dell’Ercole e delle dodici fatiche, si ripropone come eco nella Storia e prende forma dentro a 12 quadri di imprese, disossate nella loro essenzialità, che risemantizzando il significato di ogni singola prova erculea, contemporanizzandone il contesto e traslitterando il contenuto. Zapruder filmmakersgroup, collettivo artistico da sempre attento alla contaminazione multidisciplinare, cuce con il filo del montaggio, incasellando quadri, ambienti, stanze emotive, dentro ad un formato (audiovisivo) morbido, un impasto, sempre e comunque per l’attitudine del collettivo, malleabile. Collettivo attento a contaminare la materia del modello (culturale predominante) in stampi sghembi, e comunque al servizio della libera espressione artistica. Cinema, teatro, performance, installazioni, il territorio, e il background, artistico del collettivo denota una padronanza polimorfa della materia dell’espressione per il tramite dell’utilizzo di apparati (forme) per idee applicate su formati polivalenti. L’audiovisivo inteso come foglio bianco, verginale, creativo per ogni singola particella di espressione. Ed è in questa speciale stanza che il cinema apre alla contaminazione e all’inclusione delle grammatiche linguistiche audiovisive differenti. Ed è in questo spazio che la differenza diventa condivisione, apertura verso un territorio, come quello cinematografico italiano, perlopiù canonizzato all’interno della narrazione. Ed è proprio quest’ultima parete ad infrangersi di fronte alla tramandata e atavica mitologia.

E’ il racconto della mitologia ad essere alla base dei quadri, purché sottesa e satirica nel suo accentuato realismo radicale, a concedere l’imprimatur alle prove fisiche dei comuni-eroi dei quadri. Trait d’union sotterraneo di un’epicità suburbana che tiene in vita il mito attraverso delle gesta partecipative, automatizzate, epifanicamente laiche. Per certi versi magiche, pregne, nella loro estrema ritualità, di una cultura neo pagana occidentale. Un neopaganesimo iperrealista che si manifesta percorrendo la via lattea del mito, in un palinsesto erculeo mixato e acidamente pop: dall’iconografia del mito alla galassia prospettivamente simile a Out Run anni ‘80 le fatiche si susseguono come dei livelli arcade, da intrepretare in un contesto dove la mitologia si destruttura nella faticosa contemporaneità.

L’invincibile è invincibile (e immortale al cospetto della Storia) in quanto la narrazione della propria mitologia supera spazi e tempi, usanze e definizioni, materializzandosi in quadri di umana resistenza.

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David Zamagni Nadia Ranocchi 74 minuti
Italia 2019
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Speciale MUBI / Hunger

di Luca Peretti
Hunger  Steve McQueen

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

A Londra c’è un piccolo cinema dietro alla centralissima Leicester Square. Nel 2009 i biglietti costavano, credo, tre sterline, a febbraio faceva molto freddo, e al Prince Charles proiettavano Hunger di Steve McQueen. Prima di Shame, 12 anni schiavo, e del sottovalutato Widows, quello in sala nel 2009 era il lungometraggio d’esordio di un già acclamatissimo artista multimediale, con un ancora poco conosciuto attore tedesco-irlandese (Michael Fassbender) destinato – come si dice in questi casi – a una luminosa carriera.
Il film racconta lo sciopero della fame del leader dell’Ira Bobby Sands, morto in cella nel 1981. Il Prince Charles Cinema era il mio cinema di riferimento a Londra. Approfittando del prezzo basso e dei buonissimi dolci che vendevano lì dietro nella Chinatown cittadina, ci trascinavo cinefili più o meno consapevoli ["E da allora ho iniziato a stare solo nelle prime file per avere lo schermo unica cosa visibile (colpa tua)”, mi ha scritto un’amica ricordando quel giorno. È un’ossessione di noi cinefili, quella di sederci solo nelle prime file – sia mai che qualcosa, anche impercettibilmente, ci distragga dallo schermo. Amicizie si sono formate e rotte intorno a questo principio per me inalterabile]. Il Prince Charles Cinema se ne stava, e ancora sta malgrado la chiusura dovuta alla pandemia da Covid-19, lì da più di 30 anni, senza nessuna pretesa di fighettaggine, di artificiosa cinefilia hipster tanto in voga a New York City [al Metrograph, vicino Chinatown, 15 dollari ingresso, pubblico che ride senza senso alle scene più dolorose de L’avventura. Gli hipster non prendono niente troppo sul serio, a parte loro stessi]. Pare sia anche il cinema preferito di Quentin Tarantino nel Regno Unito: «The Prince Charles Cinema is everything an independent movie theatre should be. For lovers of quality films, this is Mecca». Abbiamo finalmente qualcosa in comune, Quentin and I.

Pensavo, nel febbraio del 2009, all’ironia di vedere un film sull’Irlanda, sui Troubles, su (forse) l’ultima rivolta postcoloniale sul suolo europeo, nel cuore della capitale del più vasto impero della storia umana. Qualche mese dopo, quando l’amico irlandese-americano vide il murales di Bobby Sands a Roma, a San Lorenzo, rimase molto confuso, non capendo l’internazionalismo, la vicinanza con i popoli in lotta, i simboli sui muri. Ne scrissi, del film non dell’internazionalismo, per Zabriskie Point, una rivista online che non esiste più, pioniera delle riviste web di critica cinematografica, palestra di scrittura per tante e tanti che lavorano oggi in vario modo nel cinema – bisognerebbe chiedersi perché le belle riviste web di cinema hanno i titoli inglesi di film girati da non statunitensi sul suolo statunitense, come Zabriskie Point o Point Blank. Lamentavo che forse nessuno avrebbe visto Hunger in Italia, dato che non aveva ancora una distribuzione (ed effettivamente uscì solo nel 2012, dopo il successo di Shame), chiedendomi retoricamente “a chi interessa vedere un’ora e mezza di sofferenza rinchiusa nelle quattro mura di una prigione, a chi interessa vedere un corpo rigoglioso e forte che piano piano sullo schermo diventa esile, morente, spento?” Usavo parole come “bellissimo” per definire un film, “impegnato”, tra virgolette, e dicevo che era “Cinema con la c maiuscola” (espressione che ora mi fa rabbrividire). Deduco dalla recensione di allora che il film è diviso in tre parti: una sorta di lunga introduzione dove si dettaglia la vita dei prigionieri dell’IRA nelle carceri inglesi; il meraviglioso e toccante dialogo centrale tra Bobby Sands e il prete (da vedere, potendo, con sottotitoli, almeno che non siate irlandesi); e la parte finale in cui si vede il corpo di Sands/Fassbender lentamente logorarsi. “Lo stile è asciutto, i primi piani sono quasi un manifesto stilistico, servono a scavare dentro i corpi, a renderci quanto mai partecipi di quello che sta succedendo”. Pare funzionasse, visto che dicevo che il film faceva uscire dal cinema “scioccati, pieni di rabbia, ma consapevoli di aver visto un film di altissima qualità”. Se scavo nella memoria però emergono anche le sequenze oniriche che forse distraggono, un po’ forzate e formali, ma ancora lontane dall’estetismo borderline voyeuristico di 12 anni schiavo.

Hunger è su MUBI. Guardatelo, il me del 2009 lo consiglierebbe dicendo che è asciutto, bellissimo e impegnato.

A Maria Carla, in amicizia

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Steve McQueen Michael Fassbender Liam Cunningham Stuart Graham Brian Milligan Liam McMahon 96 minuti
Gran Bretagna, Irlanda 2008
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Speciale MUBI / Baci rubati

di Fabiana Proietti
Baci rubati - recensione film truffaut

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

«L’esercito, come il teatro, è un meraviglioso anacronismo», dice Lucien, il rassicurante e benevolo padre di Christine Darbon ad Antoine Doinel, appena riformato per motivi di condotta. Anche Baci rubati è un meraviglioso anacronismo. Nell’anno del Maggio, delle rivolte studentesche, mentre Godard si porta avanti girando nel ’67 La cinese, Francois Truffaut, autoproclamatosi un uomo del Diciannovesimo secolo, si tuffa in una malinconia tutta privata, sublimata dal brano di Charles Trenet Que-reste-t- il des nos amours, che accompagna i titoli di testa per poi tornare come delizioso sigillo sul finale. Il gesto politico viene liquidato nell’incipit, con le immagini della Cinémathèque (all’epoca ancora al Trocadero…) dai cancelli sbarrati in seguito alla protesta per l’estromissione di Henri Langlois. Grazie all’azione di un comitato di autori cresciuti alla sua corte, tra cui lo stesso Truffaut e tutta la banda dei Cahiers, il funzionario venne reintegrato ma la scelta del regista, a quasi dieci anni dall’esordio de i Quattrocento colpi, di accostare la visione del tempio del cinema chiuso alla dolce inquietudine dei versi di Trenet racconta lo smarrimento dell’autore di fronte a un’esperienza, quella della Nouvelle Vague, ormai conclusa nel suo portato ideologico, e di cui sarebbero rimaste solo le prove (ancora e per lungo tempo straordinarie) espresse dalle singole personalità, mentre nuovi autori figli di quella lezione si facevano avanti contaminando la camera stylo di umori più cupi e posizioni teoriche più radicali, come Maurice Pialat e Philippe Garrel che in quello stesso anno realizzano, rispettivamente, L’enfance nue e Le Révélateur.

Credo di aver ascoltato per la prima volta Que reste-t-il des nous amours proprio grazie a Baci rubati. Questa renoiriana rassegna di luoghi e oggetti che altro non sono che il volto caro del proprio passato è la forma-canzone delle partie de campagne amate da Truffaut e che, sulla scorta delle letture e delle visioni da lui indicate, anche io andavo ripercorrendo a ritroso, quasi a voler ricostruire l’albero genealogico dei miei autori. Nella prima ondata di visioni truffautiane Baci rubati non era tra le opere che mi avevano colpito di più: il suo statuto di piccolo film non poteva competere con operazioni più complesse a cui ancora oggi riconosco un impatto maggiore, come i racconti sull’infanzia, le trasposizioni di Henri Pierre Roché o i mélo che si fondono alla lezione hitchockiana sulla suspense. Eppure, ripercorrendo oggi il catalogo MUBI dedicato a Truffaut non ho avuto alcuna esitazione nella scelta. Quel che mi affascina oggi di Baci rubati è proprio il suo essere un film sbagliato in qualunque modo lo si guardi: intimista quando il mondo dell’arte scopriva l’imperativo dell’engagament, rétro nello stesso sviluppo di trama e personaggi, con Antoine Doinel che corre da un angolo all’altro di Parigi come un protagonista del realismo poetico, ora soldato, ora concierge, ora garzone di bottega e poi – con ironica strizzatina d’occhio al cinema di genere - private eye molto poco privato. Doinel che, alle prese con i segni della modernità, immancabilmente fallisce, rifugiandosi nella corrispondenza, nelle lettere – “Preferisco scrivere” dirà a Christine al momento di farle la proposta di matrimonio – quando il mondo e la società sembrano invece avanzare verso il futuro come i famosi treni nella notte: e le due tendenze sembrano incontrarsi per un istante soltanto nella splendida sequenza della posta pneumatica, tragitto sotterraneo e inconsapevole go-between tra i due amanti.

Questo suo disagio esistenziale, questo sentirsi fuori posto, in un’epoca che non è la sua, è ciò che mi rende oggi così caro Baci rubati. Il suo essere fuori di testa, quasi prossimo allo slapstick, anarchico nel voler disattendere qualsiasi aspettativa, lo rende un film salutare per questi anni così sotto pressione. In un’era in cui tutto deve essere costantemente esplicitato, ribadito e sottolineato, in cui il valore più alto dell’opera d’arte sembra risiedere nel suo essere inequivocabile e non offensivo, Baci rubati è invece contraddittorio e indefinibile: indubbiamente malinconico ma anche vitale, i due poli opposti che muovono Antoine Doinel/Jean Pierre Léaud, corpo atemporale e puro cinema, nel suo moto incessante e spesso sconclusionato. E ancora: in un film che appare dominato da uno sguardo maschile (dalle battute grevi dell’ufficiale che paragona lo sminamento al corteggiamento fisico di una donna alle carezze non richieste del laido commerciante alle sue commesse fino alla normalizzazione della prostituzione e a una caratterizzazione moralmente ambigua del cliente omosessuale che si rivolge all’agenzia Blady per trovare l’amante scomparso), sono i personaggi femminili, pur apparentemente presi in mezzo a una dicotomia “maman/putain” il vero motore della storia: loro a decidere quando lasciar succedere qualcosa, a trovare il mcguffin per riallacciare il legame, a usare uno di quei segni del moderno a proprio vantaggio, con Christine che stacca il cavo della tv per poter costringere Antoine a tornare da lei. Rifugiandosi idealmente nel passato, Truffaut realizza uno dei suoi film più evoluti, in grado di giocare con meccanismi narrativi e produttivi attuali ancora oggi, dalla saga all’alter-ego registico. E dunque, che cosa resta dei nostri amori? Un’eredità, spesso tradita, che invita a seguire il proprio tempo interiore senza aderire alle mode del momento. A non sottovalutare la bellezza del gesto e a non sacrificarla sull’altare del messaggio. Aspetto che il Baci rubati di questi anni arrivi a sorprendermi con un nuovo, meraviglioso anacronismo.

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Francois Truffaut Jean-Pierre Léaud Delphine Seyrig Claude Jade Michael Lonsdale Harry-Max André Falcon 92 minuti
Francia, 1968
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Speciale MUBI / La tartaruga rossa

di Pietro Lafiandra
La tartaruga rossa - Michaël Dudok de Wit

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Quando mi è stato chiesto dalla redazione di Point Blank di selezionare un film dal catalogo MUBI, la scelta de La tartaruga rossa è stata inevitabile non tanto per ragioni relative al testo ma, piuttosto, perché su questo film acquerellato di Michaël Dudok de Wit convergono memorie, aspettative e delusioni personali, tutte legate al mio rapporto con la sala, la discussione attorno al cinema e, di riflesso, attorno alle piattaforme streaming.

Facciamo ordine: è il giugno del 2019 e sono di rientro da Berlino. Ho appena visto il bioscopio dei fratelli Skladanowsky alla cineteca cittadina ed è uno di quei momenti romantici e radicali, pieni di retorica sulla bontà delle proprie scelte di vita, sul fatto che poco importano le prospettive lavorative e la carriera, perché studiare cinema, studiare visuale, era l’unica cosa che volessi, potessi e sapessi fare. Da lì a pochi giorni sarebbe cominciata una breve rassegna di dialogo tra cinema e filosofia che un piccolo comune della Brianza mi aveva chiesto di gestire, un trittico di film sotto il titolo pretenzioso di L’Effimero e l’Eterno che sarebbe proprio dovuto cominciare con La tartaruga rossa, un modo per attrarre quel pubblico di ragazzini e famiglie sul quale David Lynch prima e Ang Lee poi non avrebbero esercitato alcun ascendente. Io e il collega con cui lavoravo avevamo preparato una presentazione che integrasse dialogo e materiali audiovisivi per spiegare il lavoro geometrico di de Wit, l’uso delle linee verticali e orizzontali per separare le manifestazioni oniriche e le sequenze romantiche con i loro movimenti ascensionali, il presentarsi di una natura né maligna né accogliente, un microcosmo impressionista, incontaminato e fuori dal tempo, fatto di suoni gutturali e fonemi appena accennati. Insomma, si era deciso di farne, soprattutto, una questione di forma, così da invitare il (poco) pubblico a una conversazione sulle specificità del mezzo. Quando, pochi giorni prima della data stabilita, la società di distribuzione ci ha negato la possibilità di proiettare il film, ho avuto modo di riconsiderare alcune mie posizioni utopiche, ma anche di domandarmi del ruolo che il cinema dovrebbe assumere nei confronti di se stesso, e non l’ho fatto certo perché ci fosse stata negata la possibilità di una proiezione gratuita, quanto per la motivazione addotta: la rassegna comunale sarebbe stata di concorrenza a un Multisala da poco aperto in zona.

Non sono un critico cinematografico e probabilmente non lo sarò mai. In seguito ai miei studi mi sono però spesso trovato nella situazione di insegnare, commentare, scrivere di cinema: l’ho fatto sui blog, sulle riviste, nei licei, in università, per festival, cineforum, convegni o lezioni private. L’ho fatto per gli amici e persino per i giornali parrocchiali. Lo faccio da quando ho tredici anni e ho scritto cose di cui mi vergogno profondamente e altre che non reputo all’altezza. Mi domando quante imprecisioni avrò detto ai miei studenti nel corso degli anni e continuo a sperare che, in un modo o nell’altro, alcuni dei miei vecchi articoli spariscano da Internet. Se c’è un pensiero che però mi ha sempre motivato, un’idea che ha sempre accompagnato la mia tensione al dialogo attorno al cinema, è che la critica, la divulgazione, l’analisi e la discussione cinematografica siano un servizio. Non un servizio a se stessi, non un servizio al film ma un servizio al cinema. Sarà una visione naïf e forse un po’ patetica, ma resto fermamente convinto che il critico, l’analista, l’insegnante, tutti abbiano un ruolo e un dovere: quello di portare il cinema alle persone e non le persone al cinema. Le persone al cinema ci vanno da sole ma, prima, devono essere educate allo sguardo. E con questo non intendo che si debba spiegare dove o cosa guardare ma che si debbano fornire gli strumenti per imparare a guardare. Solo che, a volte, quando si parla di sala cinematografica, mi sembra che la macchina cinema tutta si arrocchi su se stessa, allontani i film dal proprio discorso e perda la visione d’insieme: anche nella remota ipotesi che quella sera il multisala avesse davvero perso degli spettatori a causa nostra, credo che l’immissione di cinema e di discussione sull’immagine nel tessuto sociale, abbiano un valore fondamentale per (ri?)portare il pubblico in sala e formare gli spettatori del futuro, spettatori che, volenti o nolenti, fruiranno il film in maniera molto diversa dagli spettatori novecenteschi. Ed è qui che si inserisce il discorso su MUBI e sulle OTT in generale.

Non riprenderò tutte le questioni ormai consolidate sulla frammentazione del visuale, ma andrò dritto al punto: sono uno di quelli che fatica a guardare un film su uno schermo a 13 o 18 pollici e che ancora crede nella sacralità dell’esperienza cinematografica in sala, eppure sono altrettanto convinto che le piattaforme streaming forniscano un servizio essenziale nel proporre cinema a costi contenuti, prodotti nuovi e diversificati - se non al loro interno (come insegna la stanchezza di molte produzioni Netflix), sicuramente tra di loro -, il recupero di film d’autore (guardate quanto cinema italiano c’è su Amazon Prime Video, per non parlare di John Cassavetes…), e operazioni di frontiera (The Irishman di Scorsese su Netflix, Too Old to Die Young di Refn su Prime); credo inoltre che sia un equivoco stucchevole continuare a contrapporre fruizione in sala e streaming come se fossero due mondi incompatibili in una situazione di conflitto risolvibile solo con il trionfo dell’uno o dell’altro. Penso piuttosto che non sia troppo difficile ipotizzare un dialogo che porti a uno scambio virtuoso tra i due poli e in questo senso la proposta di MUBI è paradigmatica: regolamentando l’accesso a film che per irraggiungibilità, per studio, per lavoro ma anche, ammettiamolo, per risparmiare qualcosa, io e tanti altri come me abbiamo scaricato dai siti più disparati, MUBI diventa non solo un divertimento cinefilo, ma un vero e proprio strumento formativo (non a caso, l’accesso per gli studenti delle scuole di cinema è gratuito) e archivio per i professionisti, capace anche di cogliere lo specifico della discussione cinematografica contemporanea dedicando un’intera sezione ai feed. Inoltre, MUBI mette a disposizione un catalogo che, oltre al valore archivistico (recentemente ho avuto modo di guardare gran parte della filmografia di Paul Painlevé, per dirne uno), fa da complemento alla sala, immettendo o rimettendo in circolo film che nelle sale italiane ci sono stati per poco tempo (per esempio, Zombi Child di Bertrand Bonello), non ci sono da tanto o addirittura non ci sono mai stati. Questo per me non è certo un disincentivo alla fruizione in sala, anzi, è un invito a far circolare e fruire sempre più cinema, a discuterne comunque e dovunque, che sia all’interno di una rassegna estiva gratuita, a casa, sul grande schermo o sul computer. E vedere La tartaruga rossa tra i film disponibili, si carica di un forte valore simbolico.

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Michaël Dudok de Wit 80 minuti
Francia, Belgio 2016
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Speciale MUBI / Carnival Of Souls

di Damiano Garofalo
Carnival Of Souls - Herk Harvey

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Mi è tornato in mente qualche mese fa, mentre ascoltavo per caso un pezzo di Lana del Rey. 13 Beaches inizia con il campionamento di una voce femminile, che recita: «I don’t belong in this world, but that’s what it is. Something separates me from other people, everywhere I turn there’s something blocking my escape». Ci ho pensato un momento: quelle parole mi hanno ricordato una scena tratta da un vecchio film, che avevo probabilmente visto. Le ho subito cercate online e ho scoperto che si trattava della voce dell’attrice americana Candace Hilligoss, protagonista di un piccolo horror americano degli anni sessanta, diventato successivamente (come spesso capita a molti b-movie di quegli anni) un vero e proprio oggetto di culto.

Avevo visto Carnival Of Souls (1963), unico film uscito in sala del regista della Centron Films Herk Harvey, qualche anno prima su YouTube: il film, non avendo mai ottenuto un copyright nel mercato americano, è ancora oggi in public domain negli Stati Uniti, e dunque disponibile integralmente sulla piattaforma di streaming gratuito più importante del mondo. Il titolo di Harvey mi aveva incuriosito da subito: la prima volta lo avevo trovato citato in un volume americano sulle origini degli zombie movie, tra le principali fonti d’ispirazione di Romero, e lo avevo messo nel cassetto; qualche mese dopo, ai margini di una conferenza, mi capitò di parlarne con un collega più esperto, che mi consigliò di vederlo data la mia ossessione del periodo per gli horror americani (in particolare per quelli con gli zombie). Due indizi, per lo più a distanza recente, fecero una prova: mi convinsi e affrontai così la mia prima visione, da cui uscii fortemente turbato e impaurito.

Mi sembrò effettivamente che per il suo film d’esordio del 1968 Romero avesse “rubato” a piene mani da Harvey: non soltanto per la mutuazione del personaggio di Barbara di Night of The Living Dead da quello di Mary di Carnival Of Souls, ma anche per la fotografia, lo stile di ripresa e montaggio, la colonna sonora. Mi sarei aspettato, in realtà, un forte legame con l’universo romeriano anche sul piano dell’immaginario zombie, che invece non trovai a un primo sguardo. Quello di Harvey non mi sembrò tanto uno zombie movie (come mi aspettavo), quanto un film sulla transizione di una donna morta che, credendosi viva, non riusciva a trovare un suo posto nel mondo («I don’t belong in this world…»), in attesa assieme di compiere il passaggio definitivo tra la vita e la morte. Anche per questo ricordo che collegai subito la vicenda del film al purgatorio di Shyamalan in Il sesto senso (quasi un remake, a ben pensarci, del film di Harvey), così come le suggestioni visive ad alcune trovate del Lynch di Eraserhead e Strade perdute. Rimasi sorpreso, e pensai che un film così terrificante mi sarebbe molto piaciuto vederlo al cinema, su uno schermo grande e al buio della sala, e non su una piattaforma online, in una qualità poco più che scadente. Per il momento, mi accontentai di aver ricevuto così tante suggestioni — oltre che di essermi preso molta paura.

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Scorrendo qualche settimana fa il catalogo di MUBI, ho scoperto che Carnival Of Souls era disponibile sulla piattaforma in una versione restaurata in 4K da Criterion. Ho deciso di rivederlo, ovviando quantomeno al problema della scarsa qualità della dimenticabile visione di cinque anni prima. Deterioratasi da un po’ di tempo la mia ossessione giovanile per gli zombie, la seconda visione ha permesso di concentrarmi più sugli aspetti stilistici e formali che sui legami con l’universo dell’horror che tanto m’interessavano durante la prima volta. Anzitutto, ho verificato ancora di più come Carnival Of Souls sia un film di una modernità incredibile. Il budget di appena 33.000 dollari non ha, infatti, minimamente scalfito una ricerca formale quantomeno sorprendente per un B-movie dei primi anni sessanta. Oltre a essere un film seminale per il genere (Romero, Lynch, Shyamalan) ho notato quanto sia fortemente derivativo dal cinema che lo precede. Non solo delle nuove onde europee degli anni cinquanta e sessanta, ma anche del cinema moderno americano: i close-up, le inquadrature fuori asse, il sonoro in presa diretta, l’utilizzo di profondità di campo e piani sequenza con macchina a mano, mi hanno ricordato moltissimo cinema di Welles, Cassavates, Bresson, Godard. L’aura magica che circonda il film è costruita ad arte tramite l’alternanza di inquadrature scolpite sui paesaggi desolati che richiamano alla mente sia il realismo pittorico americano (i quadri solitari di Hopper) che il surrealismo francese (le fotografie parigine di Atget). I percorsi mentali/interiori verso l’abisso della protagonista suggeriscono, invece, la forte influenza dell’espressionismo (le dissolvenze di Epstein), del montaggio sovietico delle attrazioni (il ritmo forsennato di Ėjzenštejn) e, ancora, del surrealismo cinematografico (soprattutto il Cocteau di Orphée e il suo lavoro simbolico sugli specchi e le superfici riflettenti). Inoltre, le atmosfere sospese e le implicazioni fantastiche sembrano essere quelle di una puntata del primo ciclo televisivo di Ai confini della realtà, che tanto ha influenzato l’immaginario della fantascienza americana di serie B di quegli anni.

Nonostante questo, la principale e più immediata referenza del film è probabilmente lo Psycho di Hitchcock, uscito appena tre anni prima e da cui Harvey non può che essere stato influenzato. Anzitutto per i presupposti, visto che entrambi mostrano, nella prima parte, il viaggio in macchina di una biondissima protagonista in fuga: dalla propria vita per Marion Crane/Janet Leigh, dalla propria morta per Mary Hill/Candace Hilligoss. In aggiunta, entrambe le protagoniste sono naturalmente attratte da un luogo oscuro che sembra nascondere un mistero perturbante: il Bates Motel, dove vive rintanata la fantomatica madre di Norman; il padiglione Saltair, parco divertimenti abbandonato dello Utah dove sono intrappolate le anime in un vero e proprio carnevale tra la vita e la morte. Insomma: quello di Harvey è un film estremamente colto che, oltre a mettere in scena continue referenze “alte” alla storia del cinema, della fotografia, dell’arte, fa anche esplicito riferimento all’immaginario popolare dei B-movies, della fantascienza e della serialità televisiva americana degli anni cinquanta.

Vedere (o rivedere) Carnival of Souls oggi, su MUBI, ci consente dunque di cavalcare la vertigine del nostro tempo: recuperando l’esperienza filmica di un prodotto così pienamente intriso di cultura cinefila novecentesca su una piattaforma digitale proiettata verso il futuro (del cinema?); apprezzandone, in una qualità elevatissima (e quindi vedendo, rivedendo, spostandoci indietro/avanti col cursore dentro il testo), il pregio degli elementi formali e stilistici; riscattando un vero e proprio cult movie, derivativo quanto seminale, troppo sbrigativamente considerato “soltanto” un film di serie B, finalmente riscattato all’interno del pantheon della storia del cinema horror (e non solo) da una nuova fruizione ri-locata.

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Herk Harvey Candace Hilligoss Frances Feist Sidney Berger Art Ellison Stan Levitt Tom McGinnis 78 minuti
Stati Uniti 1962
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Speciale MUBI / Sciarada

di Giulio Casadei
sciarada recensione film donen mubi

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

- Wouldn’t it be nice if we were like that?
- What, like Scobie?
- No. Gene Kelly
- Remember when he danced down here by the river in An American in Paris without a care in the world?

Una lenta panoramica da destra verso sinistra mostra un paesaggio di campagna alle prime luci dell’alba. Un treno sfreccia a tutta velocità, diretto chissà dove. Il corpo di un uomo viene gettato in corsa, finendo in mezzo alle erbacce. Non abbiamo neanche il tempo di comprendere la dinamica dell’omicidio che siamo catapultati nei vorticosi titoli di testa del film, intrecci di linee e colori psichedelici, mentre fuori campo riecheggiano le note swing-jazz dell’immortale Henry Mancini. Conosciuto come « il miglior film di Hitchcock non realizzato da lui », Sciarada di Stanley Donen è solo superficialmente un’opera di derivazione hitchcockiana. Come dichiarato in maniera esplicita dalla sequenza di apertura - dove l'omicidio è un fatto secondario e accessorio rispetto al piacere tutto astratto e pop dei titoli di testa - Sciarada è piuttosto un arabesco disegnato sull’acqua (della Senna) che si serve dei codici del giallo e dello spy movie per giocare con il cinema. Il mistero da risolvere non è che un mero pretesto. Quello che sta a cuore a Donen è lo svelamento della finzione che si cela dietro ogni immagine cinematografica. La suspense, i meccanismi di genere sono costantemente disinnescati dal loro controcampo: la pistola giocattolo puntata verso Audrey Hepburn, gli omicidi accumunati da dettagli bizzarri (le vittime in pigiama), Walter Matthau che fa esercizi ginnici al telefono, etc ... Fino quasi a sfiorare la deformazione parodica (il commissario macchietta, il funerale di Charles).

Il mondo filmato da Donen è come il teatro di marionette nei giardini degli Champs-Elysées: una mascherata sorretta da uno script precisissimo, dove la morte non esiste (« he’s only pretending, to teach her a lesson ») e gli attori sono contemporaneamente protagonisti e spettatori dell’azione. Senza che questo infici mai sulla tenuta del film, anzi. Il miracolo di Sciarada sta proprio nel suo porsi dentro e fuori la narrazione, in perfetto equilibrio tra la trasparenza del cinema classico e la consapevolezza del cinema moderno. Proprio agli autori della Nouvelle Vague Donen sembra guardare nell’approccio ludico e teorico: fare un film sulla menzogna, sull’inganno, su un enigma da decifrare, decostruendo la nozione stessa di opera hollywoodiana con tutto il suo corredo di segni, corpi, luoghi, topoi narrativi. Non deve stupire, allora, che l’intreccio si risolva all’interno di un teatro vuoto – con i due interpreti maschili a contendersi il ruolo « positivo » - e la chiusura del film sia di fatto affidata ad una smorfia ridicola che Cary Grant rivolge ad Audrey Hepburn (e per estensione al pubblico del film) per prendersene gioco. La matrice moderna di Sciarada è stata compresa più di tutti da Jonathan Demme che in The Truth about Charlie ha realizzato una specie di cross-over tra il film di Donen e Tirate sul pianista di François Truffaut, esplicitando cio’ che in Sciarada si cela dietro la superficie dell’immagine: il legame tra la Nouvelle Vague ed il cinema anni Sessanta di Stanley Donen, che ha poi trovato il suo massimo compimento narrativo ed estetico con Due per la strada, ancora una volta interpretato da Audrey Hepburn e sempre ambientato in Francia.

Sciarada è un film unico, fatto solo, puramente, di cinema: i corpi iconici di Cary Grant (in una delle sue ultime apparizioni) e Audrey Hepburn, le schermaglie linguistiche (« because I already know an awful lot of people. Until one of them dies I couldn’t possibly meet anyone else »), le coreografie nello spazio che sembrano a tratti provenire dal musical, lo slittamento costante delle identità e dei colpi di scena, le citazioni cinefile (« have you got a bullet I could bite, like they do in the movies ? »). E poi, soprattutto, la Parigi di Les Halles, degli Champs-Élysées, del Palais Royal, del Lungo Senna, sfondo ideale per questa avventura attraverso i generi e gli immaginari in cui convivono il Gene Kelly di Un americano a Parigi, il giallo-rosa di Hitchcock e le riflessioni teoriche dei giovani turchi francesi. In tal senso, potremmo considerare Sciarada come il più grande film sul cinema mai fatto, per come riesce a farci innamorare di un’immagine nel momento stesso in cui ne rivela l’artificio. Come nella sublime scena ambientata sul bateau mouche, dove vediamo un uomo dirigere un enorme faro da set verso coppie di amanti che si baciano appassionatamente nella notte parigina. Preludio al bacio che di li a poco si scambieranno Cary Grant e Audrey Hepburn, accompagnati dalle note di Sciarada di Henry Mancini. La magnifica illusione del cinema è tutta qui.  

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Stanley Donen Audrey Hepburn Cary Grant Walter Matthau James Coburn George Kennedy 115 minuti
Stati Uniti 1963
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Speciale MUBI - Sans soleil

di Andreina Di Sanzo
sanssoleil-mubi

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Marchiati per sempre da quell’immagine di tre bambini che, camminando, si tengono per mano. E guardano in macchina. E poi il nero.

Dopo anni torno a riflettere su quell’autore dalla biografia incerta a cui dedicai la mia tesi magistrale. Il regista alieno, come diceva Alain Resnais, tra i pochi che conoscevano bene Chris Marker.
Ma curiosamente ne riscrivo per uno speciale su MUBI, la piattaforma OTT che ha deciso in piena emergenza sanitaria di ampliare il suo catalogo con la sezione Videoteca che rende "sempre" disponibili diversi contenuti. E qui troviamo tanto della sterminata produzione di Marker, tanto che, rimasi meravigliata e sorpresa, quando qualcuno mi scrisse, in pieno Lockdown “C’è tutto Marker su MUBI!”.
Se Chris Marker fosse ancora vivo, forse sceglierebbe proprio questa piattaforma per rendere disponibili le sue innumerevoli produzioni.  Non che sarebbe refrattario alle altre - durante la sua vita non ha mai smesso di sperimentare, accumulare, stare al passo con quello che succedeva nel mondo e nelle tecnologie addirittura con un profilo su Second Life, sotto le mentite spoglie dell’iconico gatto Guillaume-en-Egypte. Ma immagino MUBI come sua piattaforma d’elezione.

Mi pare più che calzante scegliere per questo corposo speciale Sans soleil, il film-saggio per eccellenza, l’elegia dell’immagine, tra le opere definitive sulla funzione del ricordo, inserito in un servizio di streaming che sfugge alla legge della bulimica offerta di contenuti, ma seleziona in modo ragionato autori, sezioni, tematiche, nel nome della qualità e non della quantità. E forse proprio come questo film, vuole suscitare nello spettatore una viva curiosità.
Che cosa sia Sans Soleil (1983) e di cosa parli, all’ennesima visione mi risulta ancora un affascinante mistero. Un saggio sul Giappone, dove Marker ritorna dopo Le mystère Koumiko del 1965, documentario che esplorava la Terra del Sol Levante attraverso il volto di una donna-gatto; ma anche un film sull’impossibilità di mummificare il tempo, sulla soggettività della memoria, sull’impermanenza delle cose e sulla caducità dell’esistenza. Qui si parla del Giappone passando per diverse parti del mondo, per i diversi continenti: Guinea Bissau, Islanda, Île-de-France, Stati Uniti, Capo Verde.

sans marker

Narrato dalla voce di Florence Delay che legge le lettere del regista Sandor Krasna (ovviamente un alter-ego di Marker stesso), Sans soleil è un lungo e delicato flusso di immagini, di riflessioni, di ricordi, un’opera su quella discreta malinconia tipica del mondo nipponico, mondo da cui il regista-viaggiatore vuole imparare a sentire la poignance des choses, inseguendo sempre con spirito nervaliano, l’Immagine.
Costruito in una forma epistolare, i capoversi vengono introdotti dalla frase “Il m’ecrivait…” (Mi scriveva...): l’uso del tempo imperfetto, il tempo del sogno e dell’incertezza, costituisce un refrain che apre a un commento apparentemente slegato dalle immagini che scorrono sullo schermo. Tra il commentaire e le immagini vi è però un rapporto di continuo scambio, le parole sfiorano le immagini e le immagini riempiono costantemente le parole.  

«Dopo vari giri del mondo, ora mi interessa solo la banalità. In questo viaggio, l'ho inseguita con l'implacabilità di un cacciatore», scrive nella sua lettera Krasna/Marker. La sua è infatti una Tokyo in tutte le sue caratteristiche più quotidiane: le feste, i riti, la televisione, i giovani, la religione, i reietti, gli onnipresenti gatti e civette. Attraverso questa banalità, Marker ci parla in maniera profonda di un paese dalla millenaria e complessa tradizione, delle sue contraddizioni, della sua opposizione al pensiero occidentale, della sua perenne e geografica transitorietà. Il Giappone, a rischio continuo di terremoti, porta con sé questa minaccia che rende tutto ancora più fragile e precario. D’altronde, scrive il regista-viaggiatore, «la poesia nasce dall’insicurezza». Proprio questa intraducibile impermanenza delle cose, lo scorrere continuo del fluire esistenziale, diventa il flusso dei fotogrammi che Marker raccoglie e monta al fine di rendere nuovamente tradotto in immagine un cinema che cristallizzi lo scorrere del tempo, ma anche l'effimero delle nostre esistenze, l’inevitabile scomparire nella spirale del tempo.

Come la lista di Sei Shōnagon "delle cose che fanno battere il cuore", Sans soleil è un elenco di frammenti di realtà, di volti, dall'Africa all'Asia, paesi dove il tempo e la morte sono percepiti in maniera differente. Marker cerca infatti di avvicinarsi sempre più a questo spirito tipicamente orientale di sentire l'intensità toccante delle cose e lo fa nella ricerca del banale. Sembrerebbe il modo più diretto di accorgersi della bellezza che si cela dietro alle parole, agli elementi che compongono la vita. Più volte Krasna/Marker evidenzia come noi, in Occidente, non smettiamo di «privilegiare l'essere rispetto al non essere, il detto rispetto al non detto», allora, come possiamo penetrare all'interno delle cose?
In Sans soleil lo spettatore viene così continuamente stimolato a seguire due direzioni diverse, quella delle parole e quella delle immagini che sembrano porsi su due livelli indipendenti. L'associazione tra un'immagine e l'altra non è immediata, allo stesso modo il rapporto tra le parole pronunciate da Florence Delay e le "videolettere" di Sandor Krasna non sembra così diretto. Eppure coesistono in un rapporto di necessità, l'uno sembra richiedere sempre l'altro. Le immagini non traducono le parole pronunciate nel commento, mentre le parole non raccontano quello che vediamo sullo schermo, esse si toccano, si compenetrano, creano impressioni e stimoli che sfuggono alla narrazione lineare. 

Sans Soleil è un continuo scorrere di sensazioni, di lampi sinestetici, di visioni, ricordi e meditazioni: bisogna abbandonarsi a questo fluire di pensieri. Guardando e riguardando Sans soleil si ha come la sensazione di voler bandire il raziocinio, di abbandonare qualsiasi aspettativa, per lasciarsi sedurre. Non si può parlare di Sans soleil come di un ordinario documentario, sarebbe come relegarlo ad una categoria precisa per un’opera che vuole sottrarsi a qualsiasi categoria.
Il capolavoro di Chris Marker è una sinfonia, una lettera d’amore, al cinema, al Giappone, ai volti e, di nuovo all’immagine. La fascinazione per i volti delle donne è un leitmotiv dell’intera filmografia markeriana. In Sans soleil, il regista-vaggiatore si sofferma sui volti delle donne africane, simboli di una bellezza millenaria e abbacinante. Nelle lettere racconta delle tradizioni delle isole Bijagós, dove le ragazze devono scegliere il proprio fidanzato, mentre sullo schermo vediamo il volto di una donna che guarda davanti a sé, sorridendo perché consapevole di essere ripresa. Sempre dall'Africa, riflette sulla figura femminile e si chiede come filmare le donne del Bissau che continuano a sfuggire alla macchina da presa, nascondendosi in un gioco di seduzione attraverso lo sguardo.

marker

Sans soleil è tra le tante cose, un saggio sulla memoria, sulla natura del ricordo, sul cinema come mezzo per ricordare, imprimere gli istanti e renderli eterni. Mentre le onde del mare compiono il loro movimento incessante, la voce di Florence Delay legge le parole di Sandor Krasna: "Mi scriveva: «͔Avrei passato la vita a chiedermi la funzione del ricordo, che non è il contrario ma l'altra faccia dell'oblio. Non ricordiamo; riscriviamo la memoria come riscriviamo la storia. Come si fa a ricordare la sete?»" In questo intenso passaggio Marker riflette sulla soggettività del ricordo, su come la soggettività dell'individuo renda il passato del tutto intimo e personale. Se il passato ci sfugge, i ricordi sono il nostro modo personale per trattenere il tempo con noi e riscriverlo. Filmare, per Marker, diventa il modo per creare delle immagini della memoria, ricordi di ricordi. Hayao Yamaneko, il video artista giapponese, ennesimo alter-ego markeriano, costruisce "La Zona" (nome che omaggia Andrej Tarkovskij) dove le immagini non sono nello spazio e nel tempo, muta il significato virandone il colore. Le immagini elettroniche così diventano quasi irriconoscibili rispetto all'originale e perdono di significato. Sono oltre il tempo, perché con il suo progetto Yamaneko/Marker le trasporta verso un non-luogo, proprio come faceva lo Stalker di Tarkovskij. Con "La Zona" paradossalmente la materia dell'immagine diventa sentimentale, il passato può essere modificato poiché spogliato del suo significato originale. Yamaneko rende l'immagine pura. Forse è questa la grande ossessione di Sans soleil: il cinema come unico strumento in grado di cambiare il passato attraverso l'immagine. Nel suo peregrinare nel labirinto del tempo e della memoria, Krasna/Marker arriva infine a San Francisco, nei luoghi di Vertigo, Ripercorre il tragitto del protagonista Scottie/James Stewart che segue Madeleine/Kim Novak e in un rimando continuo di memorie, pause, riflessioni, film nel film, rivive la vertigine del protagonista.

Ad ogni visione, Sans Soleil fa rivivere la medesima vertigine, è un’opera in cui ci si perde e ci si ritrova, si scoprono dettagli, illuminazioni, un saggio da leggere, ascoltare e guardare. Mai mi stancherò di guardarlo e di sentirlo, un’opera che mi ha insegnato a guardare in maniera diversa, che mi ha ossessionato e disorientato e che ha contribuito a farmi innamorare del cinema sempre di più. Nella sua struggente banalità.

Categoria
Chris Marker Florence Delay 104 minuti
Francia 1983
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