"Cult" e "100 serie tv in pillole" - guide di pop culture

di Matteo Berardini
testi movieplayer

«Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi», ancora e ancora. La citazione la conosciamo, è tra le più quotate di David Foster Wallace, ma certe verità sono talmente semplici, lineari, che possiamo ripeterle senza sciuparle, senza snobismi, sono troppo esatte per farsi sporcare. Perché parlare d’amore è parlare di fantasmi e viceversa, e quindi costruire un catalogo di ricordi, di fotogrammi e immagini cult, seriali, virali, è come tessere una costellazione di spettri, un tracciamento di affinità elettive. È questo carattere affettivo l’elemento che più di tutto accomuna Cult – I film che ti hanno cambiato la vita e 100 serie tv in pillole – Stagione 2, due testi editi da Multiplayer.it che in modi diversi raccontano e condividono la passione per le immagini, cinematografiche o seriali che siano. Al centro dei due libri, scritti in concerto dai curatori del sito Movieplayer Luca Liguori, Antonio Cuomo e Giuseppe Grossi, c’è quindi una grande affezione per l’audiovisivo ma soprattutto un profondo rispetto per la cultura pop e le sue possibilità comunicative e mitopoietiche. Per l’appunto, affettive.

Il primo dei due testi ruota attorno al concetto di cult, un’idea di film che differisce dalla classicità applicata alla storia del cinema. Come molti classici il film cult può subire una ricezione sghemba e sfocata al tempo della sua uscita, per rifarsi poi negli anni a venire, ma rispetto alle pietre miliari il cult è quel che film su cui, volente o nolente, si cuce una dimensione emotiva e culturale tale da renderlo oggetto di culto. Secondo gli autori, cult è quel film che «traccia un solco importante nella cultura popolare e quindi, di riflesso, nella vita di tutti noi», un oggetto che attraverso immagini, frasi, personaggi, diventa patrimonio di un immaginario condiviso. Questo senso feticistico di possesso è ben rappresentato dalla vignetta della fumettista Lorenza Di Sepio che apre il volume: una coppia di spettatori su un divano in cui la ragazza sfoglia il volume come un album di figurine, cantilenando «ce l’ho, ce l’ho, mi manca!».
All’interno del testo sono presenti 135 schede che presentano e analizzano i film selezionati attraverso un’introduzione critica e tre piccole rubriche (Cosa ci rimane, Scena cult, Backstage); la curiosità storica si alterna così alla rievocazione mnemonica, mentre collegamenti ipertestuali non scontati ricostruiscono alcune delle tante filiazioni interne all’industria culturale (come il legame diretto che c’è tra Snake Plissken e il Solid Snake del videoludico Metal Gear Solid di Hideo Kojima, o l’influenza del concept di Battle Royale sulle modalità di gioco multiplayer diffuse in tutto il mondo). Non mancano poi letture critiche ricercate (come quella dedicata alla Before trilogy di Richard Linklater) in una raccolta che attraversa continenti, generi e tecniche diverse, dall’animazione nipponica del capolavoro Akira all’umorismo caustico del nostro Amici miei, dall’ultraviolenza autoriale di Arancia meccanica all’immortale bromance poliziesca di Arma letale. Il tutto attraverso una veste grafica squisitamente pop davvero accattivante, capace di valorizzare gli elementi più iconici di ogni film rilanciando quell’affetto per le immagini che evidentemente soggiace a tutta l’operazione.

Sulla scia del precedente, anche la seconda stagione di 100 serie tv in pillole (seguito di un primo testo analogo) si presenta come almanacco collezionistico e guida a titoli da scoprire, riscoprire, ricordare. A comporre la selezione sono show celebri (più o meno vicini a noi, alcuni a tutti gli effetti già cult) ma anche serie meno fortunate, ingiustamente passate sottotraccia e a cui il testo dà la visibilità e lo spazio meritati. Anche qui l’alternanza e la varietà dei gusti è garantita, si passa da anime a serie network generaliste, da miniserie figlie della miglior quality tv a show prodotti e distribuiti dai colossi VOD. Come i più recenti The Mandalorian, The Boys o The Last Dance, tutti analizzati con piglio storico e critico attraverso schede e rubriche ludiche ma efficaci (Episodio memorabile, Effetti collaterali e altre), valorizzate anche qui da una veste grafica brillante, creativa e curata nel minimo dettaglio.

In conclusione, nell’affollato panorama di dizionari dedicati a cinema e tv, i due testi targati Movieplayer trovano un loro spazio in modo intelligente e non banale, configurandosi sì come strumenti utili ma anche come prodotti consapevoli del valore della cultura pop, e dell’importanza di parlarne in modo intelligente, appassionato, attento e comunque colloquiale.

Categoria
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

CINEMA E TEMPO - Terminator

di Saverio Felici
Terminator recensione film Cameron

[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane].

Per essere l'archetipica incarnazione action del film sul viaggio nel tempo, Terminator resta una riflessione sul tema a dir poco ambigua. Una cosa su cui lo stesso James Cameron sembra aver perso il focus, almeno a giudicare dalle modalità di produzione dei sequel, è proprio la peculiarità della sua intuizione primigenia; figlia di un sogno avuto dopo lettura di Ranxerox durante le riprese di Piranha II a Roma (come racconta la leggenda, e come è convintissimo Tamburini), la sanguinosa lotta di Sarah Connor non è infatti la reazione al disgregarsi della temporalità, né il contrattacco alle manovre battagliere del net inumano e postatomico. L'epica sci-fi è a suo modo una sovrastruttura; il drive di Terminator è quello di una persona indifesa (ragazze, bambini) di fronte all'avanzare di una minaccia inorganica inarrestabile. Frontale per definizione, dunque lineare - nulla da spartire con le manovre a tenaglia e i gorghi teorici di Tenet, nuovo grande polo action nella narrativa del time travel.

Stravolgere il passato arginandone gli effetti sul presente; il "paradosso del nonno" citato dal regista britannico ha fatto negli anni da base alle declinazioni più famose del filone. Le trovate filmiche per raccontare la contorsione del nastro di Moebius temporale sono tante, dai sempiterni universi paralleli che tutto risolvono, alla più diretta e visuale causa-effetto (era una delle trovate del sottovalutato Looper); ma nel primo Terminator, il dilemma è escluso dalla questione. Per Cameron, nonostante un fugace riferimento ai "futuri possibili" (scenario che la saga lascerà presto da parte in favore di un mesto e nichilista fatalismo), opporsi alla minaccia presente tramite l'intervento sul passato è illusorio: tutto esiste come già scritto, il Destino si ripresenta dopo essere stato investito, incendiato, fatto esplodere. In un certo senso, Terminator è quindi la negazione del Viaggio nel Tempo stesso – un tempo millenarista e non circolare, inscalfibile ai tentativi di deragliamento operati dal Cyborg, piegato a una volontà suprema semidivina (del regista, la storia, lo script) che provvidenzialmente azzera gli intenti del povero T-800.

Nel racconto di Cameron, i buoni diventano i guardiani di questa provvidenzialità, in missione per preservare la sequenza storica degli eventi. Una missione conservativa, a difesa dell'essere, contrapposta all'intervento riparatorio dal futuro solitamente trope del genere (fatto suo anche da Nolan). Sarah Connor e Kyle Reese non cercano di opporsi a una Apocalisse riconosciuta come inevitabile (nichilismo), ma sono anzi chiamati a tutelare lo svolgimento scritto di questa (fatalismo); in un certo senso, John Connor è l'Andrei Sator di James Cameron, personaggi cristologici la cui opposta lettura evidenza tutta la differenza tra i due autori.

Il punto in cui Tenet e Terminator si intersecano a sorpresa è altrove; sta nel mutuo racconto di una resistenza comunitaria, familiare, sentimentale, nei confronti dell'aggressione dello status quo perpetrata da una tecnologia avversa. Un cuore umano e umanista che, se da sempre è proprio di Cameron, stordisce ritrovare nell'inumano e anti-umanista Nolan. Questo Orologiaio mooriano solitamente legato ai propri personaggi come un biologo ai suoi scarabei sotto vetro, nel suo film più caldo si riscopre difensore dell'amicizia, della solidarietà, persino dell'amore (ovviamente frigido e asessuato, come suo standard); così, la disperata corsa temporale a ritroso diventa soprattutto una storia di cameratismo, sacrificio personale per la salvezza di una comunità in rovina. La preservazione di una essenza umana minacciata dalle manovre dell'inorganico: un tema parallelo a quello di Terminator, con un collegamento evidente nel chiasmo di protagonisti Hamilton-Biehn/Washington-Pattinson. Un cambio di passo bizzarro in un sottogenere per natura votato al cinismo, alla distruzione delle individualità (basti il paragone con Marker/Gilliam).

Ma se in Nolan la meraviglia dello sci-fi rappresenta l'ultima spiaggia dell'umanità a un passo dall'estinzione, nella poetica del primo Cameron (da sempre quella dello scontro a perdere tra le persone e la Macchina – sociale, scientifica, metafisica) il piegarsi a essa resta una mortale prova di hybris; è il motore dell'Apocalisse, che appartiene ai mostri, e di cui i protagonisti devono farsi custodi.

Etichette
Categoria
James Cameron Arnold Schwarzenegger Linda Hamilton Michael Biehn 107 minuti
USA 1984
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

We Are Who We Are

di Leonardo Strano
We Are Who We Are - recensione serie tv hbo guadagnino

Luca Guadagnino interessa sciogliere l’inquadratura per assolvere quest’ultima dalla ricaduta definitoria che può contraddistinguerla. Gli interessa cioè scrivere un dire per immagini, non un discorso, che rompa con le definizioni, un dire e non un detto che lasci libera, appunto sciolta, assolta, l’interpretazione, cioè la posizione rispetto all’oggetto interpretato – il mondo, il corpo, il segno in questione - assunta dalla camera da presa, dal suo occhio, dalla sua mano. Questa inquadratura sciolta, che è anche il farsi materia della scrittura in punta di piedi, sospesa, sempre allusiva, degli sceneggiatori Paolo Giordano e Francesca Manieri, è il punto di arrivo del linguaggio di una carriera, l’incrocio tra il presupposto ermeneutico del progetto estetico del regista - la dimensione critica dell’immagine, o, come ha scritto Roberto Silvestri, la sua natura «critofilmica»- e il tentativo fenomenologico di avvicinamento alla cosa stessa che Guadagnino insegue a ogni progetto da zero – frutto di una ricerca originale, di un modo proprio di misurarsi nello spazio delle cose, uno stare-tra-le-cose, infra, sempre in progressione oltre i discorsi definitori. È un risultato che, come conviene ai punti di rottura, ai punti in cui l’immaginario, il finzionale, si piega e si squaderna per dire del reale, è paradossale: grammaticale, perché pensato a fondo in termini di messa in scena, ma pregrammaticale perché appartenente a una naturalezza che sta all’opposto dell’artificio – il che potrebbe fare pensare a un altro paradosso, quello della diatriba Bazin-Godard sulla grammatica e il senso (siccome il cinema è cattura del tempo, l’espressione cinematografica fondamentale è il montaggio o il piano sequenza?). 

Un risultato che comunque proprio in virtù di questa pregrammaticalità apre l’immagine, la libera, e la unisce al mondo indefinito e indefinibile, al naturale che sta al di fuori, cioè la apre al negativo del fuori campo, ribaltando quest’ultimo, prima limite definitorio (positivo), nello spazio negativo verso cui l’immaginazione suggerita dall’immagine si protende. A che pro però, e pensando alla critica di che cosa? Come arriva Guadagnino a scegliere - perché alla fine è una faccenda di scelta - una posizione che annulla le definizioni dell’inquadratura e del suo limite, del suo contorno, come arriva, in fondo, ad annullare l’inquadratura? Il regista parte dal presupposto già citato, quello di una tensione ermeneutico-critica in atto diretta verso un oggetto: nel caso di We Are Who We Are l’oggetto sembra essere un’interpretazione cinematografica della ricerca identitaria, in particolare l’interpretazione che Maurice Pialat propone dell’identità ne Ai nostri amori, come si evince dal rebus dislocato tra le immagini (su tutti il nome della base americana dove la narrazione si svolge, M. Pialati). Guadagnino non pensa a Pialat come oggetto critico per attualizzarlo, per spiegarlo o tantomeno per scopiazzarlo, ma per confessare un legame genetico con la sua misura, cioè con la scelta della distanza da cui osservare l’evento identità, la decisione su come realizzare la finzione della messa in scena, e per trovarsi nella misura di un altro.

Ai nostri amori (Maurice Pialat)

Pialat in quel film raccontava gli squilibri identitari di una ragazza, la scoperta dell’eccedenza del suo desiderio rispetto alle definizioni del linguaggio della propria famiglia, attraverso una sensibilità in grado di «limitarsi a constatare», «tra partecipazione e distanza», «nell’intensità esistenziale delle scene, così naturali e così rigorose (il disordine vitale dentro strutture di fondo) e unite da sottili, veri legami» (Gianni Volpi). Guadagnino fa sua questa misura, fa suo questo discorso, soprattutto per quanto riguarda l’ordine naturalizzato, ma non lo copia, piuttosto si pone in continuità con esso e lo interpreta, lo legge e lo riaggiusta, lo modifica un poco, crea un disallineamento, un leggero strabismo. Procede in interventi con cui piano piano esce dalla misura di Pialat, cioè dal discorso che  quest’ultimo fa sull’identità, attraverso la misura stessa, come prevede il modello interpretativo, che genera un nuovo corpo dal corpo interpretato: lo si vede nell’uso del fermo immagine inceppato, che ne Ai nostri amori era la soluzione grammaticale conclusiva, e invece in We Are Who We Are è un elemento minimo ricorrente, un importante indicatore di reale («la realtà è dove si inceppa» per Lacan); lo si vede nel rapporto capovolto tra momenti vuoti di quiete delle nature morte e momenti pieni di azione e corpi, dove i primi raccontano il senso dei secondi; lo si vede nella comparsa dei primissimi piani che sfondano il controllo della distanza in momenti anticlimatici. Lo sforzo ermeneutico sulla misura di un’altra immagine produce così una nuova immagine, un nuovo ragionamento sull’identità, e questa è la controparte fenomenologica dell’inquadratura sciolta. Uscito dal discorso concettuale (grammaticale) su Pialat attraverso Pialat, Guadagnino è libero e incontra ora la “cosa stessa” avvicinandosi a essa: forte di una misura acquisita geneticamente e incarnata criticamente avvicina il mistero dell’identità. 

Come si posiziona il suo dire però? Come supera e concreta in una posizione il discorso sull’eccedenza del desiderio de Ai nostri amori? Proprio perché si avvicina alla “cosa stessa”, proprio in quanto libera, l’immagine di Guadagnino non pensa che al fondamentale, all’originario, alla libertà: cerca cioè senza sosta il cominciamento del proprio discorso, il punto di inizio, la prima parola, la prima immagine per cominciare, e per questo è un dire continuo e mai un già detto. In nome di questa ricerca dell’originario, la riflessione sul mistero del corpo e dell’identità si materializza in una messa in discussione del segno “soggetto” a favore dell’originaria coppia Io e Tu (Fraser e Caitlin, i ragazzi protagonisti): il primo è una costruzione arbitraria, mentre i secondi sono contestuali all’origine del mondo umano. La delegittimazione del primato del segno “soggetto” (che, almeno in sede di scrittura, rimanda alle teorie di Judith Butler) è un primo movimento negativo di avvicinamento al mistero dell’identità che consiste nel continuo sfumare di prospettiva tra i personaggi, nello scarto del punto di vista egologico sul mondo. È messo in gioco un diorama di attrazioni e tensioni gravitazionali che si rigira in un ballo di corpi desideranti, corpi sempre al limite tra il riconoscimento e la negazione, corpi che si strattonano per avere più potere, più dominio. L’incrocio tra le prospettive e l’assenza di un lato dominante scalza l’asse delle direzioni narrative obbligate e decide per la messa in opera di un’ambiente, di un contesto, nel senso di un luogo in cui si è, in cui i personaggi sono e vivono. Se si vuole si può leggere in questo indefinito intelletto agente distaccato dai corpi, etereo, una lettura dell’identità americana, idea disincarnata dal proprio territorio natio, software applicabile.

Questo momento negativo si ribalta in positivo quando si conferma un passaggio che i due protagonisti attraversano, quel passaggio che è l’Altro da sé. Fraser e Caitlin, che vivono gli stessi eventi da due punti diversi (i primi due episodi sono un grassetto di questo concetto), attraversano il mondo - Fraser nella propria epilessia vitalistica, Caitlin nel proprio dubbio iperbolico -, frantumano la loro soggettività abbandonandosi al contesto, trascinati dal desiderio di scoprirsi nel mondo (con un passaggio fondamentale nel quarto episodio), e poi ritornano a un sé. Un sé che però è aperto e pieno del mondo attraversato e si dispiega in un Io e in un Tu. Il sé non è il sé, io non sono io, noi non siamo noi, perché l’identità non è un palindromo perfetto: nel finale fuori dalla base-inquadratura, fuori dalla definizione, Guadagnino spezza i discorsi palindromici, monologici, di un soggetto che vede solo se stesso; il regista riconosce nella frattura di un sé che trova se stesso solo fuori di sé la prima parola, la prima immagine, che poi è idealmente anche l’ultima, per un discorso sull’identità. L’immagine di un sé che è nell’altro, e che acquisita questa consapevolezza anche gridando, oltre le affermazioni egocentriche, ad alta voce “io non esisto”, “noi non esistiamo”. È lì che sporge il corpo, l’identità, in un non-detto che è un ancora-da-dire, in un fuori campo che è una possibilità: di fronte al nulla del non esserci, è lì nella sporgenza eccedente che l’identità mostra una risorgenza. 

Così Guadagnino ha il coraggio di mettere in scena un esserci che ha conosciuto la contrazione del non-esserci, come si vede nelle ultime scene in cui si sofferma sugli spazi vuoti lasciati dai corpi che cambiano posizione. È così commovente la corsa di Fraser e Caitlin per Bologna, scandita dal John Adams di Two Fanfares for Orchestra: Short Ride in a Fast Machine, il loro capirsi finalmente, responsabili ognuno del segreto dell’altro, fuori tempo, in inquadrature che ormai non tengono più il peso del reale e si sciolgono in un sentimento, in una lenta gravitazione. È così commovente sentire, nel semplice vuoto delle colonne tra cui i due stanno sospesi, nella Storia, il suono del mondo che si schiude, la terra che si apre, la possibilità di un esistere plurale che si afferma senza negare niente. Nell’inquadratura sciolta in cui l’ermeneutica e la fenomenologia si guardano negli occhi la messa in forma scoppia di reale e il reale è reincarnato dalla messa in forma: l’estetico respira il fisico, il fisico l’estetico.

Etichette
Categoria
Luca Guadagnino Jack Dylan Grazer Jordan Kristine Seamón: Chloë Sevigny Alice Braga Scott Mescudi 1 stagione da 8 episodi
USA 2020
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

CINEMA E TEMPO - Palm Springs

di Matteo Berardini
palm springs - recensione film

[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane].

«L’atteggiamento realista richiesto dal capitalismo dominante è fondamentalmente depressivo, […] ci attendiamo pochissimo dal futuro: non succederà mai niente di nuovo. Poi iniziamo a pensare che forse le cose che sono successe in passato non erano in realtà così importanti. E alla fine accettiamo che non è mai successo niente, né potrà mai succedere. Più la depressione si normalizza, più diventa difficile identificarla. Aspettative radicalmente ridimensionate si trasformano in normalità. Il tempo si livella».
Mark Fisher, In questo momento il nostro desiderio è senza nome

Premi play, stop, rewind. E di nuovo play. E ancora. E ancora. E ancora. Fino a quando?
Quello del giorno della Marmotta è un meccanismo temporale con cui tutti, più o meno consapevolmente, abbiamo a che fare. E non tanto per come, dal film di Harold Ramis in poi,  venga applicato con successo a diversi tipi di storia, che sia commedia romantica, fantascienza spaziale o indagine esistenziale. Il loop del giorno-che-si-ripete-e-ricomincia-all’infinito è infatti un falso movimento che ben fotografa la stasi routinària fatta di casa-lavoro-casa su cui è basata la nostra società, alveare di unità impegnate nel loro ciclo produttivo che si reitera sempre uguale a sé stesso. Questo valeva soprattutto al tempo dell’economia fordista, quella per intenderci delle grandi masse popolari assegnate a una certa fabbrica e a un certo ruolo da qui al resto della loro vita, intrappolate in prassi chapliniane disumanizzanti e sempre uguali a loro stesse. Era il regno della noia perpetua, dell’eterno ritorno dell’identico, e su quel terreno di alienazione e stordimento ha avuto gioco facile il tardo capitalismo che oggi, semplificando, definiamo neoliberale, un orizzonte di lavoro digitalizzato, delocalizzato, frammentato, le cui lusinghe promettevano libertà, emozione, maggior responsabilità e autonomia ma che di fatto hanno sostituito a un sistema statico e asfittico un movimento virtuale in cui tutto ciò che è solido svanisce nell’aria (Marshall Berman). Ad accusare la riscrittura di questi processi produttivi (e di qui sociali, culturali, collettivi) è la famigerata generazione Y, i millennials, i thirtysomething di oggi per i quali le aspettative e i desideri suscitati  e assorbiti dai modelli famigliari precedenti si schiantano solidamente contro i nuovi dettami del contemporaneo, che pretende da loro (da noi) flessibilità, adattabilità, impermanenza e performance costante. Il tutto, chiaro, col sorriso e l’entusiasmo sul volto. Ed è in quest’orizzonte di «aspettative radicalmente ridimensionate» che la metafora del loop temporale cambia segno sostituendo alla noia del certo l’ansia del virtuale: così arriviamo a Palm Springs, film Amazon che segna l’esordio di Max Barbakow ma che è soprattutto figlio di Andy Samberg, star televisiva del Saturday Night Live che lavora da anni sull’incertezza ontologica della generazione Y.

palm recensione

Perché è di incertezza e impossibilità di costruzione e realizzazione che parla Palm Springs, il cui loop temporale ben riflette quel senso di inconsistenza e sfiducia che attanaglia i trentenni di oggi, involontari protagonisti di un sistema neoliberista che scientemente risponde alle crisi del sistema disgregando certezze e prospettive. È l’eterno presente bellezza, un mondo in cui siamo circondati di impulsi digitali e confort tecnologici, informazioni compulsive e percezioni frammentate, in cui il tempo si livella normalizzando la narcotizzazione del desiderio e la depressione che soffoca ogni aspettativa di cambiamento. Perché sarà pure una rom-com dai toni brillanti e dalla narrazione sbrigativa, Palm Springs, un film che ruota su uno spunto estremamente valido ma che poi comunque ritorna con una certa pigrizia nelle maglie del genere, ma resta il fatto che nella sua narrazione a colori acidi e tempi (e volti) da sitcom televisiva traspare un ritratto accurato di una condizione esistenziale che è il risultato di un’incertezza sistemica. Non poter costruire nulla di solido diventa vivere l’esperienza di un giorno che si ripete sempre uguale a sé stesso, una giostra a cui il Nyles di Samberg reagisce disinnescando ogni aspettativa, ogni  desiderio profondo, adagiandosi su quell’orizzonte di piacere fatto di nichilismo a buon mercato e finto distacco per cui se nulla è reale che tutto sia lecito, tanto da qui non c’è salvezza, non c’è via d’uscita. I due protagonisti di Palm Springs vivono così una vita sterile che giornalmente resetta ogni cosa, appiattisce ogni sforzo, disgrega ogni conquista, lasciando posto a un edonismo fine a sé stesso in cui il consumo rischia di diventare l’unica azione capace di dare ancora un’identità permanente. Ma oltre questo, nella paura che ha Nyles di interrompere il loop nel momento in cui gliene viene data la possibilità, Palm Springs diventa anche il primo vero film di genere sul Lockdown; perché anche delle sbarre e dei limiti ci si può innamorare, devianza di una sindrome di Stoccolma che ci porta a desiderare che il nostro isolamento forzato perduri perché in questo modo restiamo a riparo dal mondo e dalla friabilità di quel che ci attende là fuori, dove costruire per farsi distruggere sembra diventare una legge di mercato.

Etichette
Categoria
Max Barbakow Andy Samberg Cristin Milioti J.K. Simmons Peter Gallagher 90 minuti
USA 2020
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Dogs Don't Wear Pants

di Tamara Gasparini
Dogs don't wear pants - recensione film

Se si potesse sintetizzare Dogs Don’t Wear Pants in una singola immagine, questa sarebbe il freeze frame del volto ilare e beatamente sdentato del protagonista alla fine del film. L’espressione di un uomo che trova il sorriso ma porta addosso i segni dell’attraversamento del proprio dolore; una scena di gioia spiazzante, imprevedibile nella sua dolce amarezza. Il film, presentato alla Quinzaine des réalisateurs a Cannes 2019, terzo lavoro firmato dal cineasta finlandese Jukka-Pekka Valkeapää - che già si era fatto notare a Venezia con i precedenti The Visitor e They Have Escaped - mostra le stesse ambivalenti sfaccettature. Un po’ dramma familiare sull’elaborazione del lutto e un po’ tragedia interiore che trova la sua catarsi nel mondo delle pratiche sadomaso, Dogs Don’t Wear Pants lascia man mano intravedere una vena romanti-comica, sottile e spesso trattenuta, che rende tutto ancora più grottesco e, a tratti, surreale. Un film in cui desiderio di amore, di morte, erotismo perverso, humor nero e innocente follia vanno a braccetto. Un film quasi dadaista, che non sa tenersi dentro un solo binario ma in cui il senso e la storia deragliano continuamente da parte a parte, attraverso i vari registri.

Juha (Pekka Strang) è un uomo che ha toccato il fondo. Vive una vita asfittica nella mancanza della moglie, morta per annegamento davanti agli occhi spauriti della figlioletta, durante una gita di famiglia. Nelle acque del lago, dove si era gettato nel vano tentativo di salvarla, Juha ha, come in una versione macabra de L’Atalante, una visione estatica di pre-morte, del proprio corpo insieme a quello dell’amata sul punto di stringersi in un estremo, fatale abbraccio. Uno stato allucinatorio di beatitudine che riuscirà a rivivere solo, molti anni più tardi, grazie all’incontro con Mona (Krista Kosonen), dominatrix per vocazione, pronta ad esaudire le voglie di bondage e sottomissione dei suoi clienti. È grazie a questa discesa nel mondo BDSM, un mondo sotterraneo di tenebre luminose, fatto di neon rosa e tute di latex, a cui accede dal seminterrato di uno studio di piercing dove aveva accompagnato la figlia per il quattordicesimo compleanno, che Juha emerge a nuova vita. Entrare in quell’Eden oscuro di piacere è come attraversare la soglia del proprio subconscio, un luogo in cui sentirsi di nuovo in possesso dei propri desideri, spogliarsi della propria ordinaria apatia, risvegliarsi dal coma di una vita meccanica e chirurgicamente scandita tra la monotonia del tempo del lavoro, delle cure domestiche, parentali e dei rituali autoerotici feticistici privi di appagamento. Attraverso il soffocamento che Mona, personaggio lunare in parrucca e frustino, gli pratica, Juha rivede l’immagine di sé e della moglie nelle acque del lago e prova finalmente quell’estasi di piacere che aveva vissuto molti anni prima, un piacere perduto in quell’abisso in cui aveva lasciato anche se stesso. L’ultimo ricordo d’amore è un ricordo di morte che solo nelle mani di Mona si trasforma di nuovo in desiderio di vita.

Dogs Don’t Wear Pants racconta un percorso di trasformazione e redenzione, dalla disperazione al godimento, puntellato di momenti di humor assurdo - un primo appuntamento esilarante - e episodi di violenza sadica - comprese estirpazioni di denti e unghie – tra il ridicolo e l’insostenibile, e riadatta un dramma scurissimo in una commedia romantica sex positive inaspettata, dove il dolore fisico è la soglia da attraversare per ritrovarsi, guarirsi e ricominciare a vivere, mandando all’aria ogni ordine e aspettativa. Infierire sul corpo è l’unico modo per tornare a sentire. Per sentirsi vivi. Procurarsi (o procurare) dolore fisico diventa un rito di passaggio fondamentale per andare oltre il proprio malessere, per lenire il proprio cuore. Ironicamente, sia Juha che Mona, si occupano per professione di aggiustare corpi rotti (cardiochirurgo lui, fisioterapista lei) ma non sanno curare le proprie ferite interiori, troppo profonde. Il film insomma ci porta giù nella parte più insondabile dei desideri, inconsci, pulsionali, dove scoprire candidamente il potere taumaturgico della perversione. E lo fa con incredibile leggerezza, humor sadico e una vena di dolce disperazione. Valkeapää ha le capacità di gestire tutto questo, la materia umana di una tragicommedia multiforme, con una regia fluida e suadente, volta alla ricerca estetica della bella immagine; ha il merito di riuscire a liberare da clichès e convenzioni il racconto in nome di una libertà espressiva originale e personalissima.

Categoria
Jukka-Pekka Valkeapää Pekka Strang Krista Kosonen Jani Volanen 105 minuti
Finlandia 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

CINEMA E TEMPO - Donnie Darko

di Elvira Del Guercio
donnie-darko-recensione

[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane].

Il fantastico interiore diventa paura, angoscia e de-possessione. Il suo sfondo è la vita quotidiana. Il mistero è dentro di noi, in una zona da cui non emerge l’ignoto ma l’inconoscibile che travolge schemi prestabiliti e vanifica ogni certezza. I codici dell’orrore cambiano forma e allo stesso modo si muovono oggi la narrativa o il cinema che tentano di localizzarne i caratteri: non siamo più dalle parti dell’horror canonico dove il perturbante si manifesta all’esterno del soggetto, nella Realtà, modificandone i contorni e dislocando così i paradigmi cognitivi dell’Io. L’horror contemporaneo ci porta invece in una zona liminare dove paradosso e sovrannaturale abitano il mondo e lo plasmano tacitamente: invisibili come la paura-senza-volto che David Robert Mitchell rappresenta in It follows con i protagonisti perseguitati da una creatura mostruosa e che mai concretamente li tocca. Gli esempi sarebbero tanti. Qui vogliamo però provare a ragionare su un film che crediamo essere uno tra i più forti precursori di questa tendenza.

Potremmo dire che - quasi vent’anni prima dell’horror che siamo soliti vedere oggi - Donnie Darko di Richard Kelly, ambientato negli anni Ottanta, anticipi quest’attitudine a inquadrare e sagomare l’invisibile, in uno spazio e tempo sospesi dove lo spettatore non sa risolversi tra due coordinate né spiegarsi se l’anomalia stia avvenendo nella mente o nel mondo del protagonista. Il terreno è quello todoroviano dell’esitazione: convivere con l’ambiguità del testo e accettarne la sregolatezza. Attraversare l’eclissi dell’ordine prestabilito nei suoi anfratti e restringimenti spazio-temporali come lo stesso Donnie.

La storia è nota. Donnie è un giovane con difficoltà relazionali, insubordinato a causa delle regole della società in cui è costretto a vivere e in cura da una psicanalista. La caduta del motore di un aereo nella sua camera da letto e il fatto di essere profeticamente sfuggito alla morte per uno dei suoi soliti attacchi di sonnambulismo saranno per lui il punto di non ritorno. Da lì in poi un coniglio dalle fattezze antropomorfe gli apparirà (in sogno, in vita, in quella dimensione a metà tra il sonno e la veglia che lo faceva girare a vuoto per la città e fare le cose più assurde?) per comunicargli l’esatta fine del mondo.
È già stato scritto tanto su Donnie Darko e su come Kelly abbia guardato ad uno specifico immaginario culturale conferendogli nuova linfa, e sul modo in cui nel film riescano a convivere diversissimi microcosmi cinematografici. Il film è così un pastiche ibrido e magnetizzante di rimandi, ricordi e modelli ridefiniti alla luce di un tempo e una cultura diversi. Ma non soltanto questo.

Sotto la luce e la nitidezza dell’ordinario, sembra dire, anche molto fiabescamente, Donnie Darko, si nascondono le spire delle tenebre (l’impietosa e inspiegabile adulthood, per Donnie…) e i confini diventano labili, le presenze ectoplasmatiche – il vettore trasparente a forma di verme che trapassa il corpo delle persone delineandone i moti e le traiettorie, quasi a stabilire dei tracciati spazio-temporali già prescritti – e i mondi dell’aldilà e terreni non più paralleli ma una cosa sola, come disvela l’ancor più enigmatico epilogo. Il perturbante è sì il coniglio antropomorfo ma proviene in realtà da un disagio e una paura intimi di cui la creatura e tutto ciò che le sue apparizioni portano con sé sembrano essere l’estensione. Nella forma di un racconto a metà tra il gotico - chi è Donnie se non lo schizofrenico uomo della folla di Poe, che va e si perde nei suoi itinerari senza meta, in una detour temporale che sembra sempre riavvolgersi su sé stessa - e l’horror costellato da presenze e irruzioni fantasmatiche, Donnie Darko parla del disagio adolescenziale e della retorica del falso benessere di quegli anni. E al di là di tutte le teorie e interpretazioni che non fanno altro che sciogliere l’ambiguità del film in categoriche chiusure, non considerandone i riverberi che tuttora risuonano, il viaggio nel tempo è per il cineasta una figurazione con cui poter riportare sul piano della concretezza ciò che invece la metafora dematerializza e sgancia dai corpi. La possibilità di abitare più mondi, e il fatto che il tempo non esista solo nel senso in cui siamo soliti pensarlo, aprono nel film a un’infinità di vie e tracciati da percorrere, soprattutto quando sono già definiti. Tracciati quindi da spezzare. È il tracciato dell’adolescenza che Donnie infrange e che Kelly racconta come un periodo pieno di paure e inquietudini tanto più quando davanti a sé incombe la minaccia del futuro. Ritorna in questo modo il senso di quella paura indicibile, e invisibile, di cui parlavamo all’inizio, e l’atavica sensazione di angoscia sfibrante provata da chi sa di essere perseguitato da qualcosa che non riesce a identificare nella concretezza del reale. Che sia l’età adulta o la fine del mondo per come lo conoscevamo.

Etichette
Categoria
Richard Kelly Jake Gyllenhaal Jena Malone Drew Barrymore Mary McDonnell Maggie Gyllenhaal 113 minuti
USA 2001
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Il processo ai Chicago 7

di Matteo Marescalco
Il processo ai Chicago 7 - recensione film Sorkin

In The Social Network (scritto da Aaron Sorkin e diretto da David Fincher), lo stile di scrittura dello sceneggiatore riusciva ad adombrare i visibili stilemi autoriali del regista – e la medesima notazione è valida anche per Steve Jobs di Danny Boyle. Basterebbe il solo prologo – creato ex-novo rispetto al libro di Ben Mezrich da cui il titolo è tratto – per capire quanto il film del 2010 sia, in primo luogo, un prodotto da attribuire principalmente ad Aaron Sorkin. A veicolare il cuore del progetto, nel caso di The Social Network, non è tanto l’immagine quanto il dialogo: lo scambio di battute tra Jesse Eisenberg/Mark Zuckerberg e Rooney Mara/Erica Albright presenta due personaggi che sono settati su due velocità differenti; uno di loro è ben radicato nel tempo storico presente, l’altro ha già iniziato a inseguire il futuro.

Anche ne Il processo ai Chicago 7 la costruzione classica e invisibile dell’immagine – con rare eccezioni interstiziali dai risvolti sorprendenti – cede lo scettro del potere alla vis tragica della parola. È la dialettica a farsi carico dello scontro civile tra red state e blue state, a collegare il Black Panther Party al movimento Black Lives Matter e a esprimere la disillusione di personaggi a cui il futuro rischia di sfuggire di mano senza che il mondo nemmeno se ne accorga. Il film scritto e diretto da Aaron Sorkin si focalizza su una pagina nera della storia americana e mette piede in quel famigerato biennio 1968-1969 già battuto da Vizio di forma e da C’era una volta a...Hollywood, elegie funeree segnate da una rivoluzione culturale che non avrebbe portato a compimento le sue premesse.

A cavallo tra la presidenza Johnson e quella Nixon vari movimenti di protesta contro la guerra in Vietnam organizzarono una manifestazione pacifica durante la convention del Partito Democratico a Chicago. La contestazione, però, sfociò in una serie di scontri tra manifestanti e polizia, a seguito dei quali il governo federale degli Stati Uniti aprì un processo per cospirazione e istigazione alla sommossa contro i Chicago Eight – poi divenuti Chicago Seven. Il processo fu segnato da uno sfacciato pregiudizio politico e dalle difficoltà insormontabili affrontate dai due avvocati della difesa nel tentativo di ottenere un equo procedimento giudiziale da garantire ai loro clienti. A confluire nel gruppo dei processati fu un fronte ampio appartenente alla sinistra radicale e alle forze moderate fedeli ai sentimenti originari su cui è stata fondata la nazione americana.

Il dramma costruito da Sorkin è una battaglia spettacolare di dati, monologhi, confronti dialettici, leggi e fattore umano. Ad arricchire il legal drama tradizionale interviene il peso specifico attribuito a giochi di parole e a semplici pronomi, reiterazioni e interpretazioni soggettive in grado di capovolgere il senso di determinate affermazioni. È così che avviene lo slittamento tra realtà delle cose e rappresentazione procedurale, replicato anche in sede di stand-up comedy da Abbie Hoffman attraverso una serie di innesti circolari che si caricano del valore di approfondimenti di repertorio. A sottolineare il carattere tradizionale della messa in scena – nonostante i già citati interstizi moderni e privi di baricentro – ci pensa una costruzione dell’immagine che contribuisce a delineare e caratterizzare le singole individualità dei sette coinvolti nel processo e a rappresentare il segmento dell’accusa come un blocco coeso e compatto ma privo di personalità.

È superfluo sottolineare quanto il film non abbia l’obiettivo di dar vita ad un’indagine storica approfondita quanto, piuttosto, quello di perseguire con afflato liberal i caratteri democratici di cui ogni civiltà dovrebbe essere dotata. E così, chi rimprovera Sorkin di aver appiattito manicheisticamente ogni analisi dettagliata e di aver ridotto la polarizzazione in nome di un finale corale e fedele alla nobile (ri)proposizione di istanze democratiche classiche, sorvola sul potere del cinema classico e sulla forza di una narrazione che riesce a mostrare la vittoria nascosta dietro una sconfitta.

Etichette
Categoria
Aaron Sorkin Eddie Redmayne Sacha Baron Cohen Joseph Gordon-Levitt Frank Langella Michael Keaton Yahya Abdul-Mateen II John Carroll Lynch Mark Rilance Jeremy Strong 129 minuti
USA 2020
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Cosa sarà

di Arianna Pagliara
Cosa sarà recensione Point Blank

L’obiettivo cui sembra mirare l’ultimo film di Francesco Bruni, presentato in chiusura alla Festa del Cinema di Roma, è essenzialmente questo: mettere in scena un dramma lacerante appellandosi però a un linguaggio dolce, a un umorismo commovente, che non vuole gridare o graffiare, ma piuttosto cullare malinconicamente lo spettatore con un racconto intimo e doloroso, in cui si mischiano ricordi, paure e speranze.
Il protagonista è Bruno Salvati (un eccellente Kim Rossi Stuart), regista deluso e arrabbiato, marito forse respinto, padre più amato che stimato, che si scopre improvvisamente malato: forse la “fragilità” è il suo destino, ma forse il destino ha messo sul suo cammino, al di là dell’oscurità fitta e opprimente della malattia, qualcosa di bello e inaspettato.
Si percepiscono qui gli echi di certi film dal sapore agrodolce che Bruni ha sceneggiato per Virzì – Tutta la vita davanti, Tutti i santi giorni - più che la continuità con l’approccio scanzonato, ma mai semplicemente epidermico, dei precedenti Tutto quello che vuoi e Scialla!. Come in quest’ultimo film, come in Noi 4, come in tanti altri film del Bruni sceneggiatore, la famiglia è il fulcro attorno a cui ruota il discorso. La riflessione sulla malattia, che pure è raccontata senza sconti, con i suoi abissi di terrore e angosciosa solitudine, nonostante la pesantezza che porta intrinsecamente con sé, si fa spesso da parte per lasciare spazio agli affetti, alle tensioni sentimentali, al bisogno (ora dei genitori,  ora dei figli) di reclamare amore e attenzione, di sciogliere i nodi dell’incomprensione, di rompere la crosta di ghiaccio della distanza, ora soffrendo e ora sperando, ostinatamente, nella riconciliazione, sforzandosi di credere in un futuro possibile proprio quando la vita, beffardamente, ci pone di fronte incertezze e interrogativi.

Il regista attinge alla (sofferta) dimensione biografica per mettere il protagonista a confronto con una serie di cose che si stratificano l’una sull’altra: non solo il tempo e la precarietà del vivere e della felicità, ma – dentro ai confini di questa riflessione ampia – anche il rapporto con una figura materna dolce quanto fuggevole (persa troppo presto?), e soprattutto con una figura paterna complessa, giudicante,  a tratti egoista, menzognera, e tuttavia infine perdonabile. Ma c’è di più: il rapporto con i figli, dunque la paternità vissuta come insufficiente e fallibile, e il raffronto maschile e femminile – inscritto sia nella coppia sia nei modi di essere dei ragazzi – che delinea un quadro difficile da tollerare per il protagonista, che vede e sente il maschile come eternamente imperfetto, debole, insufficiente quando, impietosamente, si confronta con un femminile (la moglie, la figlia) che invece appare decisamente solido, responsabile, forte, razionale. Proprio la malattia, evento esplosivo che mette ognuno di fronte alla propria autentica interiorità, aiuterà Bruno Salvati a mettere in discussione questa visione del mondo, in cui si sente in qualche modo marginalizzato ma che forse lui stesso si ostina a reputare più vera di quanto non sia in realtà.

Tuttavia, al di là delle considerazioni sulle tematiche che mette in campo Cosa sarà, vanno evidenziati alcuni peculiari punti di forza di questo quarto lungometraggio di Bruni. Da un lato la scelta di inscrivere il registro del tragico in quello umoristico, senza mai sbilanciarsi su nessuno dei due versanti, è sicuramente indovinata e riesce a conquistare lo sguardo spettatoriale evitando scossoni e strappi. Dall’altro – ed è forse questo aspetto che, più di ogni altro, rappresenta il quid, la singolarità del film – c’è un ottimo, studiatissimo lavoro sul corpo attoriale di Kim Rossi Stuart. La metamorfosi imposta dalla malattia, di cui il taglio dei capelli (posto quasi in apertura) è incipit e segno, è viaggio in un dolore tutto significato attraverso il corpo, tutto estroflesso, rovesciato in superficie: l’attore lo assorbe, lo fa proprio, e attorno a questo costruisce il personaggio che però non è mai solo sofferenza, ma anche, e anzi molto spesso, autoironia e gioco, oppure amarezza e rabbia, o ancora impaccio e tenerezza. E tutto questo, prima ancora che nel dialogo, prende forma attraverso la recitazione incredibilmente fisica ed espressiva del protagonista.

Categoria
Francesco Bruni Kim Rossi Stuart Lorenza Indovina Barbara Ronchi Giuseppe Pambieri Raffaella Lebboroni Fotinì Peluso Tancredi Galli 101 minuti
Italia, 2020
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

CINEMA E TEMPO - Déjà Vu - Corsa contro il tempo

di Leonardo Gregorio
dejavu-recensione

[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane].

Una linearità disarticolata che squarcia la narrazione (il reale?), una riscrittura del tempo, un film letteralmente tra la vita e la morte. E ancora una volta Denzel Washington – qui al terzo film con il regista inglese, seguiranno poi Pelham 123 - Ostaggi in metropolitana e Unstoppable - Fuori controllo – a farsi perfetta incarnazione, volto e corpo, del cinema ultravorace, ultramoderno, di Tony Scott.

Ambientato a New Orleans e dedicato alla città e alla sua gente dopo l'uragano Katrina del 2005, Déjà Vu - Corsa contro il tempo è una strana, affascinante sintesi del mondo narrativo, stilistico – e teorico – di Scott. Ma c’è anche qualcos’altro. È un film che forse difficilmente esisterebbe, quantomeno in questa forma, senza l’11 settembre/01. Un’opera che racconta il suo tempo, il tempo presente, gli anni Zero del XXI secolo, così come lo facevano Top Gun negli Eighties e Nemico pubblico sul finire del decennio Novanta. Ma è anche un film di un’inquietudine più profonda, nuova, nel segno di una traiettoria quasi hitchockiana da una parte (un cortocircuito meraviglioso per un top player del dinamismo cinematografico come Scott) e un eroismo quasi inattuale, “classico”, ovvero non pienamente assimilabile all’immaginario post-traumatico del nuovo millennio americano e occidentale (e questo diventa ancora più interessante se pensiamo a un attore come Denzel Washington e ai suoi The Equalizer con Antoine Fuqua, autore decentrato ma centrale della nostra contemporaneità).

Attraversatore di generi e sperimentatore sui generis, specialista di congegni narrativi di causa-effetto, Scott in Déjà Vu - Corsa contro il tempo al contempo esaspera l’esercizio e radicalizza il discorso. La storia è quella dell’agente Doug Carlin (Washington) che indaga su un attacco terroristico responsabile dell’esplosione di un traghetto che ospitava molti marinai e le loro famiglie. Più di 500 vittime, tra le quali una donna Claire Kuchever, (Paula Patton), che in realtà – scopre ben presto l’agente – è stata assassinata prima dell’attentato. Di lì a poco Carlin entrerà in contatto con un gruppo dell’Fbi che tramite un sistema chiamato “Biancaneve” è in grado da una stanza ipertecnologica di isolare e leggere eventi del passato, solo e sempre indietro di quattro giorni rispetto al presente. Carlin è convinto che è da Claire che bisogna partire. E di lei si innamora. E da lei infine va. Torna indietro nel tempo: per salvarla, per salvare gli altri. Per modificare gli eventi, 

L’agente interpretato da Washington salta da una parte all’altra del film, da una dimensione a un’altra, si innesta su un nuovo tempo – un presente che si incunea nel passato, un passato che diventa presente: un tempo che riconfigura il film, che lo struttura, lo ridefinisce; che conferisce all’opera un’altra condizione, un‘esistenza diversa. Scott realizza così la sua personale Donna che visse due volte, ma forse anche Carlin vive due volte in quest’opera che insieme alla linea temporale libera anche il desiderio. Perché è soprattutto una storia d’amore, Déjà Vu. Forse di un amore impossibile, perché letteralmente senza tempo, amore mai nato e già stato. È un film sul vedere, ma non un film sul cinema, piuttosto sullo spettatore, sulle immagini, sul reale, sulla nostra percezione. Il velocista Scott corre contro il tempo come Denzel Washington e lo raggiunge. Lo si può fare anche senza l’ingegno artificiale di Nolan. L’impossibile è possibile, e Déjà Vu è il film di Tony Scott che non avevamo ancora visto.

Etichette
Categoria
Tony Scott Denzel Washington Paula Patton Val Kilmer Jim Caviezel 126 minuti
USA, Regno Unito 1986
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

CINEMA E TEMPO - Peggy Sue si è sposata

di Samuele Sestieri
peggysue-recensione

[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane].

All’ennesima visione di Peggy Sue si è sposata provate a fermarvi sulla prima e sull’ultima sequenza del film. In entrambe le scene assistiamo a dei quadretti familiari: la prima vede Kathleen Turner e la figlia Helen Hunt che si preparano per la festa dei diplomati del ‘60 mentre in tv papà Nicolas Cage promuove microonde e videoregistratori a prezzi stracciati; l’inquadratura finale è ambientata invece in una stanza d’ospedale con la famiglia di nuovo riunita che torna ad abbracciarsi come nel migliore degli happy end. In entrambe le scene un carrello all’indietro svela che le sequenze che stiamo vedendo si svolgono allo specchio. E a pensarci bene tutto il film indaga l’atto di guardarsi allo specchio col sogno proibito di andare dall’altra parte tentando di riprendersi la propria gioventù. È proprio come Alice, la dolce Peggy Sue: attraversa lo specchio per entrare in un mondo straordinario con la differenza che quel mondo sono i favolosi anni sessanta nella loro innocenza tutta cinematografica e presessantottina. Se poi scopriamo che nessuna delle due sequenze è stata girata con uno specchio allora il gioco è fatto: controfigure, gesti e oggetti replicati con precisione (quasi) millimetrica.
Fin dall’inizio, il cinema in tutto il suo artificio.

Viene il sospetto dunque che Peggy Sue, forse quanto Dracula o Un sogno lungo un giorno, rappresenti una delle più lucide e commoventi riflessioni di Francis Ford Coppola sul potere immaginifico del cinema. Le luci, i colori, i lenti e le canzoni, le pomiciate in auto e quel modo di vestire, di muoversi e di baciare, e quindi la prossemica e pure il ciuffo di Charlie, il mélo che bussa alla porta, la fuga d’amore impossibile, le lacrime della fiaba. Coppola inventa gli anni sessanta, ne fa la casa del cinema e dei sogni. Sa benissimo che ogni storia su celluloide è una storia di fantasmi, che il cinema – come una macchina del tempo – ha il potere di ridestare il desiderio, di riportare in vita i nostri spettri, di non essere mai qui e ora, ma sempre e comunque attraverso il tempo. Come in Ritorno al Futuro (che precede Peggy Sue di un anno) si viaggia nel passato solo per tornare al presente. Ma se Marty McFly corregge il tiro, trasformando di fatto i suoi genitori, Peggy Sue reimpara ad amare. Come nel più esemplare dei racconti morali, il mondo si restaura sotto i nostri occhi solo quando sta per vacillare. Ma questo di Coppola è un racconto morale interamente fondato sulla sospensione dell’incredulità: Kathleen Turner torna ventenne ma ai nostri occhi rimane una donna di quarant’anni. Non perde mai la sua esperienza. Vive intrappolata nel tempo, come in un sogno, libera di concedersi perfino un piccolo viaggio nei terreni dell’ucronia (la magnifica fuga d’amore col ragazzo dei sogni).

La vita è meravigliosa, bisogna solo saperla guardare: un ciondolo a cuore salva Peggy Sue ricordandole quell’amore che esisteva da sempre e che non può morire. Ecco cosa rimane di questo piccolo grande film sui sentimenti che restano attraverso il tempo.
Non c’è nessuno specchio, dall’altra parte siamo sempre noi.

Etichette
Categoria
Francis Ford Coppola Kathleen Turner Nicolas Cage Barry Miller Catherine Hicks Joan Allen 104 minuti
USA 1986
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Iscriviti a