Dogs Don't Wear Pants

di Tamara Gasparini
Dogs don't wear pants - recensione film

Se si potesse sintetizzare Dogs Don’t Wear Pants in una singola immagine, questa sarebbe il freeze frame del volto ilare e beatamente sdentato del protagonista alla fine del film. L’espressione di un uomo che trova il sorriso ma porta addosso i segni dell’attraversamento del proprio dolore; una scena di gioia spiazzante, imprevedibile nella sua dolce amarezza. Il film, presentato alla Quinzaine des réalisateurs a Cannes 2019, terzo lavoro firmato dal cineasta finlandese Jukka-Pekka Valkeapää - che già si era fatto notare a Venezia con i precedenti The Visitor e They Have Escaped - mostra le stesse ambivalenti sfaccettature. Un po’ dramma familiare sull’elaborazione del lutto e un po’ tragedia interiore che trova la sua catarsi nel mondo delle pratiche sadomaso, Dogs Don’t Wear Pants lascia man mano intravedere una vena romanti-comica, sottile e spesso trattenuta, che rende tutto ancora più grottesco e, a tratti, surreale. Un film in cui desiderio di amore, di morte, erotismo perverso, humor nero e innocente follia vanno a braccetto. Un film quasi dadaista, che non sa tenersi dentro un solo binario ma in cui il senso e la storia deragliano continuamente da parte a parte, attraverso i vari registri.

Juha (Pekka Strang) è un uomo che ha toccato il fondo. Vive una vita asfittica nella mancanza della moglie, morta per annegamento davanti agli occhi spauriti della figlioletta, durante una gita di famiglia. Nelle acque del lago, dove si era gettato nel vano tentativo di salvarla, Juha ha, come in una versione macabra de L’Atalante, una visione estatica di pre-morte, del proprio corpo insieme a quello dell’amata sul punto di stringersi in un estremo, fatale abbraccio. Uno stato allucinatorio di beatitudine che riuscirà a rivivere solo, molti anni più tardi, grazie all’incontro con Mona (Krista Kosonen), dominatrix per vocazione, pronta ad esaudire le voglie di bondage e sottomissione dei suoi clienti. È grazie a questa discesa nel mondo BDSM, un mondo sotterraneo di tenebre luminose, fatto di neon rosa e tute di latex, a cui accede dal seminterrato di uno studio di piercing dove aveva accompagnato la figlia per il quattordicesimo compleanno, che Juha emerge a nuova vita. Entrare in quell’Eden oscuro di piacere è come attraversare la soglia del proprio subconscio, un luogo in cui sentirsi di nuovo in possesso dei propri desideri, spogliarsi della propria ordinaria apatia, risvegliarsi dal coma di una vita meccanica e chirurgicamente scandita tra la monotonia del tempo del lavoro, delle cure domestiche, parentali e dei rituali autoerotici feticistici privi di appagamento. Attraverso il soffocamento che Mona, personaggio lunare in parrucca e frustino, gli pratica, Juha rivede l’immagine di sé e della moglie nelle acque del lago e prova finalmente quell’estasi di piacere che aveva vissuto molti anni prima, un piacere perduto in quell’abisso in cui aveva lasciato anche se stesso. L’ultimo ricordo d’amore è un ricordo di morte che solo nelle mani di Mona si trasforma di nuovo in desiderio di vita.

Dogs Don’t Wear Pants racconta un percorso di trasformazione e redenzione, dalla disperazione al godimento, puntellato di momenti di humor assurdo - un primo appuntamento esilarante - e episodi di violenza sadica - comprese estirpazioni di denti e unghie – tra il ridicolo e l’insostenibile, e riadatta un dramma scurissimo in una commedia romantica sex positive inaspettata, dove il dolore fisico è la soglia da attraversare per ritrovarsi, guarirsi e ricominciare a vivere, mandando all’aria ogni ordine e aspettativa. Infierire sul corpo è l’unico modo per tornare a sentire. Per sentirsi vivi. Procurarsi (o procurare) dolore fisico diventa un rito di passaggio fondamentale per andare oltre il proprio malessere, per lenire il proprio cuore. Ironicamente, sia Juha che Mona, si occupano per professione di aggiustare corpi rotti (cardiochirurgo lui, fisioterapista lei) ma non sanno curare le proprie ferite interiori, troppo profonde. Il film insomma ci porta giù nella parte più insondabile dei desideri, inconsci, pulsionali, dove scoprire candidamente il potere taumaturgico della perversione. E lo fa con incredibile leggerezza, humor sadico e una vena di dolce disperazione. Valkeapää ha le capacità di gestire tutto questo, la materia umana di una tragicommedia multiforme, con una regia fluida e suadente, volta alla ricerca estetica della bella immagine; ha il merito di riuscire a liberare da clichès e convenzioni il racconto in nome di una libertà espressiva originale e personalissima.

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Jukka-Pekka Valkeapää Pekka Strang Krista Kosonen Jani Volanen 105 minuti
Finlandia 2019
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CINEMA E TEMPO - Donnie Darko

di Elvira Del Guercio
donnie-darko-recensione

[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane].

Il fantastico interiore diventa paura, angoscia e de-possessione. Il suo sfondo è la vita quotidiana. Il mistero è dentro di noi, in una zona da cui non emerge l’ignoto ma l’inconoscibile che travolge schemi prestabiliti e vanifica ogni certezza. I codici dell’orrore cambiano forma e allo stesso modo si muovono oggi la narrativa o il cinema che tentano di localizzarne i caratteri: non siamo più dalle parti dell’horror canonico dove il perturbante si manifesta all’esterno del soggetto, nella Realtà, modificandone i contorni e dislocando così i paradigmi cognitivi dell’Io. L’horror contemporaneo ci porta invece in una zona liminare dove paradosso e sovrannaturale abitano il mondo e lo plasmano tacitamente: invisibili come la paura-senza-volto che David Robert Mitchell rappresenta in It follows con i protagonisti perseguitati da una creatura mostruosa e che mai concretamente li tocca. Gli esempi sarebbero tanti. Qui vogliamo però provare a ragionare su un film che crediamo essere uno tra i più forti precursori di questa tendenza.

Potremmo dire che - quasi vent’anni prima dell’horror che siamo soliti vedere oggi - Donnie Darko di Richard Kelly, ambientato negli anni Ottanta, anticipi quest’attitudine a inquadrare e sagomare l’invisibile, in uno spazio e tempo sospesi dove lo spettatore non sa risolversi tra due coordinate né spiegarsi se l’anomalia stia avvenendo nella mente o nel mondo del protagonista. Il terreno è quello todoroviano dell’esitazione: convivere con l’ambiguità del testo e accettarne la sregolatezza. Attraversare l’eclissi dell’ordine prestabilito nei suoi anfratti e restringimenti spazio-temporali come lo stesso Donnie.

La storia è nota. Donnie è un giovane con difficoltà relazionali, insubordinato a causa delle regole della società in cui è costretto a vivere e in cura da una psicanalista. La caduta del motore di un aereo nella sua camera da letto e il fatto di essere profeticamente sfuggito alla morte per uno dei suoi soliti attacchi di sonnambulismo saranno per lui il punto di non ritorno. Da lì in poi un coniglio dalle fattezze antropomorfe gli apparirà (in sogno, in vita, in quella dimensione a metà tra il sonno e la veglia che lo faceva girare a vuoto per la città e fare le cose più assurde?) per comunicargli l’esatta fine del mondo.
È già stato scritto tanto su Donnie Darko e su come Kelly abbia guardato ad uno specifico immaginario culturale conferendogli nuova linfa, e sul modo in cui nel film riescano a convivere diversissimi microcosmi cinematografici. Il film è così un pastiche ibrido e magnetizzante di rimandi, ricordi e modelli ridefiniti alla luce di un tempo e una cultura diversi. Ma non soltanto questo.

Sotto la luce e la nitidezza dell’ordinario, sembra dire, anche molto fiabescamente, Donnie Darko, si nascondono le spire delle tenebre (l’impietosa e inspiegabile adulthood, per Donnie…) e i confini diventano labili, le presenze ectoplasmatiche – il vettore trasparente a forma di verme che trapassa il corpo delle persone delineandone i moti e le traiettorie, quasi a stabilire dei tracciati spazio-temporali già prescritti – e i mondi dell’aldilà e terreni non più paralleli ma una cosa sola, come disvela l’ancor più enigmatico epilogo. Il perturbante è sì il coniglio antropomorfo ma proviene in realtà da un disagio e una paura intimi di cui la creatura e tutto ciò che le sue apparizioni portano con sé sembrano essere l’estensione. Nella forma di un racconto a metà tra il gotico - chi è Donnie se non lo schizofrenico uomo della folla di Poe, che va e si perde nei suoi itinerari senza meta, in una detour temporale che sembra sempre riavvolgersi su sé stessa - e l’horror costellato da presenze e irruzioni fantasmatiche, Donnie Darko parla del disagio adolescenziale e della retorica del falso benessere di quegli anni. E al di là di tutte le teorie e interpretazioni che non fanno altro che sciogliere l’ambiguità del film in categoriche chiusure, non considerandone i riverberi che tuttora risuonano, il viaggio nel tempo è per il cineasta una figurazione con cui poter riportare sul piano della concretezza ciò che invece la metafora dematerializza e sgancia dai corpi. La possibilità di abitare più mondi, e il fatto che il tempo non esista solo nel senso in cui siamo soliti pensarlo, aprono nel film a un’infinità di vie e tracciati da percorrere, soprattutto quando sono già definiti. Tracciati quindi da spezzare. È il tracciato dell’adolescenza che Donnie infrange e che Kelly racconta come un periodo pieno di paure e inquietudini tanto più quando davanti a sé incombe la minaccia del futuro. Ritorna in questo modo il senso di quella paura indicibile, e invisibile, di cui parlavamo all’inizio, e l’atavica sensazione di angoscia sfibrante provata da chi sa di essere perseguitato da qualcosa che non riesce a identificare nella concretezza del reale. Che sia l’età adulta o la fine del mondo per come lo conoscevamo.

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Richard Kelly Jake Gyllenhaal Jena Malone Drew Barrymore Mary McDonnell Maggie Gyllenhaal 113 minuti
USA 2001
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Il processo ai Chicago 7

di Matteo Marescalco
Il processo ai Chicago 7 - recensione film Sorkin

In The Social Network (scritto da Aaron Sorkin e diretto da David Fincher), lo stile di scrittura dello sceneggiatore riusciva ad adombrare i visibili stilemi autoriali del regista – e la medesima notazione è valida anche per Steve Jobs di Danny Boyle. Basterebbe il solo prologo – creato ex-novo rispetto al libro di Ben Mezrich da cui il titolo è tratto – per capire quanto il film del 2010 sia, in primo luogo, un prodotto da attribuire principalmente ad Aaron Sorkin. A veicolare il cuore del progetto, nel caso di The Social Network, non è tanto l’immagine quanto il dialogo: lo scambio di battute tra Jesse Eisenberg/Mark Zuckerberg e Rooney Mara/Erica Albright presenta due personaggi che sono settati su due velocità differenti; uno di loro è ben radicato nel tempo storico presente, l’altro ha già iniziato a inseguire il futuro.

Anche ne Il processo ai Chicago 7 la costruzione classica e invisibile dell’immagine – con rare eccezioni interstiziali dai risvolti sorprendenti – cede lo scettro del potere alla vis tragica della parola. È la dialettica a farsi carico dello scontro civile tra red state e blue state, a collegare il Black Panther Party al movimento Black Lives Matter e a esprimere la disillusione di personaggi a cui il futuro rischia di sfuggire di mano senza che il mondo nemmeno se ne accorga. Il film scritto e diretto da Aaron Sorkin si focalizza su una pagina nera della storia americana e mette piede in quel famigerato biennio 1968-1969 già battuto da Vizio di forma e da C’era una volta a...Hollywood, elegie funeree segnate da una rivoluzione culturale che non avrebbe portato a compimento le sue premesse.

A cavallo tra la presidenza Johnson e quella Nixon vari movimenti di protesta contro la guerra in Vietnam organizzarono una manifestazione pacifica durante la convention del Partito Democratico a Chicago. La contestazione, però, sfociò in una serie di scontri tra manifestanti e polizia, a seguito dei quali il governo federale degli Stati Uniti aprì un processo per cospirazione e istigazione alla sommossa contro i Chicago Eight – poi divenuti Chicago Seven. Il processo fu segnato da uno sfacciato pregiudizio politico e dalle difficoltà insormontabili affrontate dai due avvocati della difesa nel tentativo di ottenere un equo procedimento giudiziale da garantire ai loro clienti. A confluire nel gruppo dei processati fu un fronte ampio appartenente alla sinistra radicale e alle forze moderate fedeli ai sentimenti originari su cui è stata fondata la nazione americana.

Il dramma costruito da Sorkin è una battaglia spettacolare di dati, monologhi, confronti dialettici, leggi e fattore umano. Ad arricchire il legal drama tradizionale interviene il peso specifico attribuito a giochi di parole e a semplici pronomi, reiterazioni e interpretazioni soggettive in grado di capovolgere il senso di determinate affermazioni. È così che avviene lo slittamento tra realtà delle cose e rappresentazione procedurale, replicato anche in sede di stand-up comedy da Abbie Hoffman attraverso una serie di innesti circolari che si caricano del valore di approfondimenti di repertorio. A sottolineare il carattere tradizionale della messa in scena – nonostante i già citati interstizi moderni e privi di baricentro – ci pensa una costruzione dell’immagine che contribuisce a delineare e caratterizzare le singole individualità dei sette coinvolti nel processo e a rappresentare il segmento dell’accusa come un blocco coeso e compatto ma privo di personalità.

È superfluo sottolineare quanto il film non abbia l’obiettivo di dar vita ad un’indagine storica approfondita quanto, piuttosto, quello di perseguire con afflato liberal i caratteri democratici di cui ogni civiltà dovrebbe essere dotata. E così, chi rimprovera Sorkin di aver appiattito manicheisticamente ogni analisi dettagliata e di aver ridotto la polarizzazione in nome di un finale corale e fedele alla nobile (ri)proposizione di istanze democratiche classiche, sorvola sul potere del cinema classico e sulla forza di una narrazione che riesce a mostrare la vittoria nascosta dietro una sconfitta.

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Aaron Sorkin Eddie Redmayne Sacha Baron Cohen Joseph Gordon-Levitt Frank Langella Michael Keaton Yahya Abdul-Mateen II John Carroll Lynch Mark Rilance Jeremy Strong 129 minuti
USA 2020
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Cosa sarà

di Arianna Pagliara
Cosa sarà recensione Point Blank

L’obiettivo cui sembra mirare l’ultimo film di Francesco Bruni, presentato in chiusura alla Festa del Cinema di Roma, è essenzialmente questo: mettere in scena un dramma lacerante appellandosi però a un linguaggio dolce, a un umorismo commovente, che non vuole gridare o graffiare, ma piuttosto cullare malinconicamente lo spettatore con un racconto intimo e doloroso, in cui si mischiano ricordi, paure e speranze.
Il protagonista è Bruno Salvati (un eccellente Kim Rossi Stuart), regista deluso e arrabbiato, marito forse respinto, padre più amato che stimato, che si scopre improvvisamente malato: forse la “fragilità” è il suo destino, ma forse il destino ha messo sul suo cammino, al di là dell’oscurità fitta e opprimente della malattia, qualcosa di bello e inaspettato.
Si percepiscono qui gli echi di certi film dal sapore agrodolce che Bruni ha sceneggiato per Virzì – Tutta la vita davanti, Tutti i santi giorni - più che la continuità con l’approccio scanzonato, ma mai semplicemente epidermico, dei precedenti Tutto quello che vuoi e Scialla!. Come in quest’ultimo film, come in Noi 4, come in tanti altri film del Bruni sceneggiatore, la famiglia è il fulcro attorno a cui ruota il discorso. La riflessione sulla malattia, che pure è raccontata senza sconti, con i suoi abissi di terrore e angosciosa solitudine, nonostante la pesantezza che porta intrinsecamente con sé, si fa spesso da parte per lasciare spazio agli affetti, alle tensioni sentimentali, al bisogno (ora dei genitori,  ora dei figli) di reclamare amore e attenzione, di sciogliere i nodi dell’incomprensione, di rompere la crosta di ghiaccio della distanza, ora soffrendo e ora sperando, ostinatamente, nella riconciliazione, sforzandosi di credere in un futuro possibile proprio quando la vita, beffardamente, ci pone di fronte incertezze e interrogativi.

Il regista attinge alla (sofferta) dimensione biografica per mettere il protagonista a confronto con una serie di cose che si stratificano l’una sull’altra: non solo il tempo e la precarietà del vivere e della felicità, ma – dentro ai confini di questa riflessione ampia – anche il rapporto con una figura materna dolce quanto fuggevole (persa troppo presto?), e soprattutto con una figura paterna complessa, giudicante,  a tratti egoista, menzognera, e tuttavia infine perdonabile. Ma c’è di più: il rapporto con i figli, dunque la paternità vissuta come insufficiente e fallibile, e il raffronto maschile e femminile – inscritto sia nella coppia sia nei modi di essere dei ragazzi – che delinea un quadro difficile da tollerare per il protagonista, che vede e sente il maschile come eternamente imperfetto, debole, insufficiente quando, impietosamente, si confronta con un femminile (la moglie, la figlia) che invece appare decisamente solido, responsabile, forte, razionale. Proprio la malattia, evento esplosivo che mette ognuno di fronte alla propria autentica interiorità, aiuterà Bruno Salvati a mettere in discussione questa visione del mondo, in cui si sente in qualche modo marginalizzato ma che forse lui stesso si ostina a reputare più vera di quanto non sia in realtà.

Tuttavia, al di là delle considerazioni sulle tematiche che mette in campo Cosa sarà, vanno evidenziati alcuni peculiari punti di forza di questo quarto lungometraggio di Bruni. Da un lato la scelta di inscrivere il registro del tragico in quello umoristico, senza mai sbilanciarsi su nessuno dei due versanti, è sicuramente indovinata e riesce a conquistare lo sguardo spettatoriale evitando scossoni e strappi. Dall’altro – ed è forse questo aspetto che, più di ogni altro, rappresenta il quid, la singolarità del film – c’è un ottimo, studiatissimo lavoro sul corpo attoriale di Kim Rossi Stuart. La metamorfosi imposta dalla malattia, di cui il taglio dei capelli (posto quasi in apertura) è incipit e segno, è viaggio in un dolore tutto significato attraverso il corpo, tutto estroflesso, rovesciato in superficie: l’attore lo assorbe, lo fa proprio, e attorno a questo costruisce il personaggio che però non è mai solo sofferenza, ma anche, e anzi molto spesso, autoironia e gioco, oppure amarezza e rabbia, o ancora impaccio e tenerezza. E tutto questo, prima ancora che nel dialogo, prende forma attraverso la recitazione incredibilmente fisica ed espressiva del protagonista.

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Francesco Bruni Kim Rossi Stuart Lorenza Indovina Barbara Ronchi Giuseppe Pambieri Raffaella Lebboroni Fotinì Peluso Tancredi Galli 101 minuti
Italia, 2020
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CINEMA E TEMPO - Déjà Vu - Corsa contro il tempo

di Leonardo Gregorio
dejavu-recensione

[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane].

Una linearità disarticolata che squarcia la narrazione (il reale?), una riscrittura del tempo, un film letteralmente tra la vita e la morte. E ancora una volta Denzel Washington – qui al terzo film con il regista inglese, seguiranno poi Pelham 123 - Ostaggi in metropolitana e Unstoppable - Fuori controllo – a farsi perfetta incarnazione, volto e corpo, del cinema ultravorace, ultramoderno, di Tony Scott.

Ambientato a New Orleans e dedicato alla città e alla sua gente dopo l'uragano Katrina del 2005, Déjà Vu - Corsa contro il tempo è una strana, affascinante sintesi del mondo narrativo, stilistico – e teorico – di Scott. Ma c’è anche qualcos’altro. È un film che forse difficilmente esisterebbe, quantomeno in questa forma, senza l’11 settembre/01. Un’opera che racconta il suo tempo, il tempo presente, gli anni Zero del XXI secolo, così come lo facevano Top Gun negli Eighties e Nemico pubblico sul finire del decennio Novanta. Ma è anche un film di un’inquietudine più profonda, nuova, nel segno di una traiettoria quasi hitchockiana da una parte (un cortocircuito meraviglioso per un top player del dinamismo cinematografico come Scott) e un eroismo quasi inattuale, “classico”, ovvero non pienamente assimilabile all’immaginario post-traumatico del nuovo millennio americano e occidentale (e questo diventa ancora più interessante se pensiamo a un attore come Denzel Washington e ai suoi The Equalizer con Antoine Fuqua, autore decentrato ma centrale della nostra contemporaneità).

Attraversatore di generi e sperimentatore sui generis, specialista di congegni narrativi di causa-effetto, Scott in Déjà Vu - Corsa contro il tempo al contempo esaspera l’esercizio e radicalizza il discorso. La storia è quella dell’agente Doug Carlin (Washington) che indaga su un attacco terroristico responsabile dell’esplosione di un traghetto che ospitava molti marinai e le loro famiglie. Più di 500 vittime, tra le quali una donna Claire Kuchever, (Paula Patton), che in realtà – scopre ben presto l’agente – è stata assassinata prima dell’attentato. Di lì a poco Carlin entrerà in contatto con un gruppo dell’Fbi che tramite un sistema chiamato “Biancaneve” è in grado da una stanza ipertecnologica di isolare e leggere eventi del passato, solo e sempre indietro di quattro giorni rispetto al presente. Carlin è convinto che è da Claire che bisogna partire. E di lei si innamora. E da lei infine va. Torna indietro nel tempo: per salvarla, per salvare gli altri. Per modificare gli eventi, 

L’agente interpretato da Washington salta da una parte all’altra del film, da una dimensione a un’altra, si innesta su un nuovo tempo – un presente che si incunea nel passato, un passato che diventa presente: un tempo che riconfigura il film, che lo struttura, lo ridefinisce; che conferisce all’opera un’altra condizione, un‘esistenza diversa. Scott realizza così la sua personale Donna che visse due volte, ma forse anche Carlin vive due volte in quest’opera che insieme alla linea temporale libera anche il desiderio. Perché è soprattutto una storia d’amore, Déjà Vu. Forse di un amore impossibile, perché letteralmente senza tempo, amore mai nato e già stato. È un film sul vedere, ma non un film sul cinema, piuttosto sullo spettatore, sulle immagini, sul reale, sulla nostra percezione. Il velocista Scott corre contro il tempo come Denzel Washington e lo raggiunge. Lo si può fare anche senza l’ingegno artificiale di Nolan. L’impossibile è possibile, e Déjà Vu è il film di Tony Scott che non avevamo ancora visto.

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Tony Scott Denzel Washington Paula Patton Val Kilmer Jim Caviezel 126 minuti
USA, Regno Unito 1986
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CINEMA E TEMPO - Peggy Sue si è sposata

di Samuele Sestieri
peggysue-recensione

[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane].

All’ennesima visione di Peggy Sue si è sposata provate a fermarvi sulla prima e sull’ultima sequenza del film. In entrambe le scene assistiamo a dei quadretti familiari: la prima vede Kathleen Turner e la figlia Helen Hunt che si preparano per la festa dei diplomati del ‘60 mentre in tv papà Nicolas Cage promuove microonde e videoregistratori a prezzi stracciati; l’inquadratura finale è ambientata invece in una stanza d’ospedale con la famiglia di nuovo riunita che torna ad abbracciarsi come nel migliore degli happy end. In entrambe le scene un carrello all’indietro svela che le sequenze che stiamo vedendo si svolgono allo specchio. E a pensarci bene tutto il film indaga l’atto di guardarsi allo specchio col sogno proibito di andare dall’altra parte tentando di riprendersi la propria gioventù. È proprio come Alice, la dolce Peggy Sue: attraversa lo specchio per entrare in un mondo straordinario con la differenza che quel mondo sono i favolosi anni sessanta nella loro innocenza tutta cinematografica e presessantottina. Se poi scopriamo che nessuna delle due sequenze è stata girata con uno specchio allora il gioco è fatto: controfigure, gesti e oggetti replicati con precisione (quasi) millimetrica.
Fin dall’inizio, il cinema in tutto il suo artificio.

Viene il sospetto dunque che Peggy Sue, forse quanto Dracula o Un sogno lungo un giorno, rappresenti una delle più lucide e commoventi riflessioni di Francis Ford Coppola sul potere immaginifico del cinema. Le luci, i colori, i lenti e le canzoni, le pomiciate in auto e quel modo di vestire, di muoversi e di baciare, e quindi la prossemica e pure il ciuffo di Charlie, il mélo che bussa alla porta, la fuga d’amore impossibile, le lacrime della fiaba. Coppola inventa gli anni sessanta, ne fa la casa del cinema e dei sogni. Sa benissimo che ogni storia su celluloide è una storia di fantasmi, che il cinema – come una macchina del tempo – ha il potere di ridestare il desiderio, di riportare in vita i nostri spettri, di non essere mai qui e ora, ma sempre e comunque attraverso il tempo. Come in Ritorno al Futuro (che precede Peggy Sue di un anno) si viaggia nel passato solo per tornare al presente. Ma se Marty McFly corregge il tiro, trasformando di fatto i suoi genitori, Peggy Sue reimpara ad amare. Come nel più esemplare dei racconti morali, il mondo si restaura sotto i nostri occhi solo quando sta per vacillare. Ma questo di Coppola è un racconto morale interamente fondato sulla sospensione dell’incredulità: Kathleen Turner torna ventenne ma ai nostri occhi rimane una donna di quarant’anni. Non perde mai la sua esperienza. Vive intrappolata nel tempo, come in un sogno, libera di concedersi perfino un piccolo viaggio nei terreni dell’ucronia (la magnifica fuga d’amore col ragazzo dei sogni).

La vita è meravigliosa, bisogna solo saperla guardare: un ciondolo a cuore salva Peggy Sue ricordandole quell’amore che esisteva da sempre e che non può morire. Ecco cosa rimane di questo piccolo grande film sui sentimenti che restano attraverso il tempo.
Non c’è nessuno specchio, dall’altra parte siamo sempre noi.

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Francis Ford Coppola Kathleen Turner Nicolas Cage Barry Miller Catherine Hicks Joan Allen 104 minuti
USA 1986
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The Beach House

di Nicolò Comencini
the beach house recensione film

L’esordio alla regia di Jeffrey A. Brown è un film labirintico: sebbene durante la scena di apertura ci venga mostrato, in quanto spettatori e spettatrici, quello che non è dato sapere ai protagonisti — ovvero che qualcosa si sta muovendo dal fondale oceanico verso la superficie — la pellicola riesce a trascinarci in un dedalo di false piste e vicoli ciechi. La storia infatti assume dapprima i toni di un dramma sentimentale, mettendo in scena una giovane coppia intenzionata, per ritrovare l’intesa, a passare qualche giorno lontana dal mondo, per poi virare allo psico-thriller nel momento in cui i due protagonisti scoprono che il piccolo paradiso che avrebbe dovuto fare da sfondo al loro ritiro romantico è già occupato da un’altra coppia. Bisogna attendere quasi un’ora prima che l’incubo escatologico venga rivelato: un microorganismo parassitario proveniente dalle profondità marine sta contaminando ogni forma di vita, esseri umani inclusi. Quando il velo di Maya viene infine sollevato, il paradiso dalle tonalità pastello cede lo schermo a un paesaggio dalle tinte apocalittiche.

In The Beach House l’orrore cosmico non giunge da angoli remoti dell’universo, né è scatenato dall’hybris umana, ma sorge all’improvviso dagli abissi oceanici senza cause apparenti, e permea l’ambiente diffondendosi per via aerea. Brown si concede tutto il tempo necessario per nutrire l’atmosfera weird, ricorrendo a brevi ma costanti allusioni visive e narrative all’aspetto alieno di alcune forme di vita sottomarine, e a un’insolita colonna sonora elettronica, composta dal musicista britannico Roly Porter. Nelle scene più perturbanti il regista moltiplica le citazioni, omaggiando il body horror di Cronenberg in due sequenze particolarmente suggestive, e ammiccando a titoli quali The Fog e The Mist passando, anche se solo parzialmente, per i cliché della zombie invasion. Le persone contaminate si muovono infatti come morti viventi, e il loro unico scopo sembra essere quello di diffondere ulteriormente il contagio. Non solo questo movente collettivo fa da contrappeso alle microtensioni individuali della prima parte del film, ma addirittura le annichilisce, facendole risultare del tutto insignificanti.

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Se da un lato è esplicita l’angoscia di origine ambientale, che ci permette di inserire la pellicola nel prolifico filone eco-horror, Brown decide di adottare un punto di vista originale, mostrandoci l’apocalisse attraverso una lente macro. Veniamo immersi così in un microcosmo fatto di singoli individui e non di masse, privi del flusso di informazioni che pervade il nostro quotidiano. Più la pellicola avanza più ci rendiamo conto di non essere solo osservatori esterni, ma protagonisti nostro malgrado della vicenda: al pari dell’eroina, assistiamo agli avvenimenti mentre accadono, e non sopravvivremo abbastanza a lungo da scoprirne le cause, le conseguenze o la portata. Il risultato è un coinvolgimento totale dello spettatore: quando la protagonista, ormai vittima del contagio, ripete ossessivamente la frase «don’t be scared», “non avere paura”, più volte ripresa nel corso del film, lo fa guardando dritto in camera: il quarto muro viene infranto, e Brown ci rivela così che abbiamo respirato anche noi quell’aria contaminata, e che, anche se ancora non ce ne rendiamo conto, il microorganismo abissale circola già nel nostro corpo. Non dobbiamo avere paura poiché l’unica scelta che ci è data è quella di rassegnarci all’inevitabile.
L’identificazione risulta poi amplificata per ragioni extra-narrative: sebbene non fosse, per ovvie ragioni, nelle intenzioni del regista, nel film è difficile non cogliere traccia degli eventi degli ultimi mesi. In fondo, ci viene raccontato di un organismo microscopico che non solo minaccia la nostra esistenza, ma che, irrompendo in maniera del tutto improvvisa nel quotidiano, modifica la nostra percezione della realtà. Tuttavia, il parallelo non tiene su tutti i fronti, e, sebbene questa coincidenza possa partecipare al successo della pellicola, non è certo lei a renderla valida.

Senza alcuna pretesa di essere rivoluzionario, The Beach House è un film che riesce davvero nel suo intento, ovvero quello di perturbare lo spettatore posizionandolo al centro dell’incubo, e generando un senso di irrequietezza che perdura anche dopo averne terminato la visione. Con la sua prima opera, Brown ci ricorda che l’orrore cosmico può celarsi efficacemente anche nell’infinitamente piccolo, senza per questo risultare meno terrificante, e che, contrariamente a quanto afferma un luogo comune, il mare non è sempre una buona idea.

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Jeffrey A. Brown Lianna Liberato Noah Le Gros Maryann Nagel Jake Weber 88 minuti
USA 2020
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CINEMA E TEMPO - L'esercito delle 12 scimmie

di Riccardo Bellini
esercito-12-scimmie-recensione-gilliam

[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane].

Così conosco una musica dolce nel mio ricordo senza ricordamene neppure una nota:
so che si chiama la partenza o il ritorno

Dino Campana, La Verna

Yesterday was a million years ago
In all my past lives I played an asshole
Marilyn Manson, The Last Day on Earth

Rivisto in questi giorni, con il serrarsi delle misure emergenziali anti-Covid e il timore per un secondo Lockdown, L’esercito delle 12 scimmie non può che ricondurci alla nostra attualità. Non tanto, come si potrebbe banalmente pensare, perché nel film si parla di un virus che ha falcidiato il 99% dell’umanità (del resto di opere su contagi e apocalissi batteriologiche ne abbiamo sentite menzionare a profusione nei mesi scorsi), quanto per il fatto che l’opera di Terry Gilliam gioca la carta del più classico dei paradossi dei viaggi nel tempo per imperniarsi sul concetto di una temporalità immobile, un falso movimento destinato a ripiegare l’orizzonte degli eventi su se stesso. L’immagine di un futuro distopico che torna ricorsivamente e senza successo, nella persona di James Cole (Bruce Willis), ad ammonire il passato sull’imminenza di una catastrofe rivissuta in un loop da incubo, eppure inevitabile, finisce con il riflettere il fallimento di fronte al quale ci hanno posto la recente crisi e soprattutto i suoi ultimi sviluppi. Nell’evidente mancanza di misure preventive e di una progettualità a lungo termine, nonostante ormai i mesi di forzata convivenza con il virus, la quotidianità di questa crisi sembra delineare il quadro di una società che, come il protagonista del film di Gilliam e quello de La jetée di Chris Marker, non può fare altro che assistere alla propria morte non solo senza poter intervenire ma senza nemmeno comprendere il significato di quella scena madre che costantemente ritorna e di cui è protagonista. È questa situazione di stallo paradossale, di beffardo cul-de-sac, a parlare con più evidente efficacia a un presente che sembra condannarsi a una cristallizzazione promossa dalla coazione a ripetere.

«Cos’è un virus che diventa pandemia, se non un ribaltamento del tempo lineare, dove tempo va inteso anche come epoca e presente?» si chiede Emanuele Di Nicola sulle nostre pagine, in un'originale riflessione su Tenet. Film in cui, nota Di Nicola, il villain Sator si interroga non a caso sui motivi per cui il futuro muove guerra al passato, additando come causa la scarsa cura dell’uomo per il proprio ambiente. Il che ovviamente si adatta benissimo alla presente emergenza. Ecco però che se in Tenet la logica da blockbuster impone il lieto fine, ergo l’intervento correttivo del futuro sul passato, ne L’esercito delle 12 scimmie non si può dire lo stesso. La visione di Gilliam si colloca anzi agli antipodi rispetto alle dinamiche nolaniane. Mentre Tenet è un film di pura azione, dove il concetto di viaggio temporale va inteso nel senso più letterale del termine, la distopia sci-fi di Gilliam ci costringe alla claustrofobia di un moto solo apparente. Non c’è scampo, nessuna via di fuga per James Cole, le cui peregrinazioni spaziotemporali in realtà lo conducono per i primi minuti di film da un luogo concentrazionario all’altro (la prigione sotterranea del 2035 prima, il manicomio in cui conosce Goines poi), mesta anticipazione della gabbia temporale a cui sarà (è) condannato il protagonista. Non lo vediamo nemmeno spostarsi da un luogo all’altro – se non in un'unica scena in cui Cole si ritrova per errore nel bel mezzo della Prima Guerra Mondiale – né assistiamo alla sua smaterializzazione, tenuta fuori campo per accrescere il clima di paranoia e instabilità del film. Del resto, l’inquietante interrogativo sulla salute mentale del personaggio ci suggerisce che l’unico viaggio intrapreso potrebbe stare tutto nella testa di Cole. Una prospettiva che si fa letterale ne La jetée, dove appunto è la fissazione intorno a un preciso ricordo, prima ancora che lo sviluppo tecnologico, a permettere il viaggio nel tempo dipanato attraverso i fotogrammi di un «photo-roman», in un’opera che, prima di qualsiasi altro paradosso temporale, illumina lo stesso paradosso alla base del cinema in quanto movimento illusorio, dispositivo capace meglio di tutti tanto di catturare il tempo (il riferimento deleuziano ante-litteram a Vertigo viene ripreso e sviluppato dallo stesso Gilliam) quanto evidentemente a scardinarlo secondo traiettorie molteplici.

Nell’ossessione per un’immagine, l'unica possibile per un futuro da ricostruire e al tempo stesso frammento rivelatore di un destino già segnato, e nella difficoltà di ricollocarla, il film di Gilliam riprende così il modello di riferimento per restituire una riflessione se possibile ancora più disperata, a suo modo struggente, che oggi sembra parlare alla cecità dei tempi in cui viviamo, mentre le nostre vite paventano il ritorno al loop di un eterno presente che rischia di erodere il futuro collettivo. Con puntuale ironia, L’esercito delle 12 scimmie è costellato di riferimenti a profezie e premonizioni. Ma gli stessi avvertimenti di James Cole sull’imminente contagio sono tali solo agli occhi degli uomini del 1996, mentre dal punto di vista del protagonista non corrispondono che all’ovvietà di un dato storico. È in questa incapacità ad agire per modificare quanto già previsto, in questo perenne ritorno ad un tempo fuor di sesto che l’opera di Gilliam affonda inconsapevolmente la lama e riesce a parlare al nostro presente.

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Terry Gilliam Bruce Willis Madeleine Stowe Brad Pitt Christopher Plummer Jon Seda David Morse 129 minuti
USA 1995
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CINEMA E TEMPO - Non ci resta che piangere

di Domenico Saracino
Non ci resta che piangere - recensione film benigni troisi

[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane.
Questo dossier propone una serie di film che, in modo molto diverso tra loro, riflettono e “sperimentano” il viaggio nel tempo; una costellazione di titoli, per provare a capire come il cinema abbia affrontato l’argomento nelle sue diverse ramificazioni].

Tra i film che nella prima metà degli anni ’80 hanno utilizzato l’espediente del viaggio nel tempo come materiale narrativo, Non ci resta che piangere occupa una posizione quasi unica, certamente insolita, disinteressato, così com’è, agli elementi fanta o para-scientifici che dominano gran parte delle produzioni coeve, soprattutto statunitensi.
Non c’è, nel film del duo Benigni-Troisi, fascinazione alcuna per i meccanismi, le ricerche e gli strumenti tecnici e tecnologici che consentirebbero il viaggio nel tempo, né un briciolo di interesse per presupposti teorici o elaborate speculazioni scientifico-filosofiche. Non ci sono cyborg venuti dal futuro (Terminator, uscito negli Usa due mesi prima della distribuzione italiana di Non ci resta che piangere) né scintillanti ed evolutissime DeLorean genialmente modificate da scienziati capaci di utilizzare un “flusso canalizzatore” (Ritorno al Futuro, il film sul tema più iconico e celebre della storia del cinema, uscì pochi mesi dopo, nell’estate del 1985, negli USA). Non a caso nell’opera italica le macchine del tempo non sono neanche contemplate, nominate.
E a guardar bene non vi si rintraccia neanche un barlume di proposito storicistico, filologico, in quella che è, nei fatti, una rappresentazione intenzionalmente approssimativa e disorganica della realtà storica della fine del Medioevo e del Rinascimento. Infatti le scenografie di Francesco Frigeri, al suo esordio come scenografo, non fanno che enfatizzare la natura posticcia, avulsa, volutamente bozzettistica, della costruzione cinematografica, come egli stesso ebbe a dichiarare («con due personaggi così bisognava dare sfogo ad una fantasia sfrenata seppur ancorata agli stereotipi dell’epoca»).

Tutto questo accade, molto semplicemente (e forse banalmente) perché Non ci resta che piangere non è un film sul viaggio del tempo ma con un viaggio nel tempo. E questo non è imputabile al mero fatto che si tratti di un film comico, dunque non un film di genere fantascientifico o con richiami di quel tipo. Anche A spasso nel tempo, fatti i dovuti distinguo con il film di Troisi e Benigni, è un film comico incentrato sulle (dis)avventure di due simpatici protagonisti alle prese con stravolgimenti temporali. Ma il film di Carlo Vanzina una macchina del tempo ce l’ha e i viaggi nel tempo si moltiplicano nello srotolarsi della trama. Non ci resta che piangere non è soltanto una commedia; è un film surreale, poeticamente (e, pensando al Benigni di Cioni in Berlinguer ti voglio bene, forse anche ferocemente) nostalgico per la vita pre-industriale, per un mondo semplice, sgombro (sottopopolato e sotto consumato, di suolo ma non soltanto), dégagé. Un mondo ancora fortemente local, non ancora global né tantomeno glocal. Nel 1492, l’anno della scoperta delle Americhe in cui Saverio (Benigni) e Mario (Troisi) si ritrovano senza l’ausilio di marchingegno alcuno, l’unica risposta che gli autoctoni possono dare ai due viaggiatori temporali che chiedono cosa si trova fuori da Frittole è…Frittole. Non c’è altro che Frittole per loro.

A muoversi verso la penisola iberica possono essere solo Mario e Saverio, uomini di quel ‘900 a cui aspirano a ricongiungersi, conoscitori della geografia mondiale e, soprattutto, della Storia, delle storie, delle cose a venire, meravigliosamente, comicamente ridotte ad una dimensione iper-individuale. Il viaggio in Spagna per fermare Colombo, ammantato dalla favella di Benigni di un nobile obiettivo pacifista dall’afflato mondiale, ecumenico (impedire lo sterminio degli indigeni e la riduzione in schiavitù degli africani) non è che una divertente e picaresca macchinazione per impedire la nascita stessa di Fred, il fidanzato statunitense, conosciuto nella base Nato di Pisa, che avrebbe poi spezzato il cuore della sorella Gabriellina, insopportabile cruccio dell’affranto Saverio.
Siamo chiaramente, ampiamente, fuori da ogni velleità critica e intellettuale alla Pasolini della “trilogia della vita” (la superiorità della natura sulla cultura, l’ammirazione per il mondo delle borgate e del cristianesimo primitivo, l’interesse letterario per il Medioevo, l’autenticità dell’erotismo, la lotta contro la morte). Il salto temporale non è che un pretesto per consentire un confronto tra il modo di vivere dei moderni e quello dei predecessori, per giocare con la Storia – da Cristoforo Colombo a Leonardo da Vinci, passando per Savonarola, oggetto della celebre, spassosissima lettera – e, allo stesso tempo, esaltare i contrasti tra Benigni e Troisi (non solo dialettali, anzi soprattutto caratteriali), concentrandosi sulle gag e sullo sviluppo di quel poco di scheletro drammaturgico che i due attori/autori avevano imbastito, decidendo di affidarsi a guizzi e improvvisazioni piuttosto che a rigidi binari narrativi.

Non ci resta che piangere non è che un sonetto giocoso, uno sberleffo anarchico e irreale, del tutto disinteressato alla tessitura e alla progressione del racconto verso il suo finale. Non importa, allora, se Saverio e Mario riusciranno a tornare o meno al loro secolo, alle loro vite di prima, ché esse erano già tronche, incompiute, irrealizzate. E perciò splendidamente umane.
Ecco, quindi: il viaggio nel tempo è qui soltanto la metafora, il compimento ulteriore, oltre misura, l’iperbole di uno spaesamento, di un perdersi che se all’inizio può apparire amaro (la disperazione, soprattutto di Mario, quando si convince del salto indietro di cinque secoli) finisce man mano per stemperare l’acredine della scomparsa e schiudersi al caso, all’avventura.
Forse allora, viaggiare nel tempo, non è, in fondo, che un’altra possibilità, l’invenzione di una vita nuova.

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Roberto Benigni Massimo Troisi Roberto Benigni Massimo Troisi Amanda Sandrelli 111 minuti
Italia 1984
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Twentynine Palms

di Andreina Di Sanzo
twentynine palms - recensione film dumont

I raggi del sole infuocano le terre aride di Twentynine Palms, California. E riflettono i sentimenti altrettanto inariditi dei due protagonisti. Due viaggiatori, in pena, nel desolato deserto di una terra di nessuno, regno di una natura primordiale, non più madre, ma matrigna e carnefice.

Bruno Dumont realizza nel 2003 il suo film più estremo e lampante, presentato al Festival di Venezia dove ebbe un’accoglienza tutt’altro che positiva. La storia è molto semplice: un uomo e una donna, si amano, si odiano, viaggiano. L’asciuttezza di Dumont in Twentynine Palms raggiunge un livello di tale rarefazione da rendere la visione violenta e al tempo stesso toccante. Katia, interpretata dal volto segnato di Katja Golubeva, e David procedono a bordo di un Hammer nei rettilinei californiani, fermandosi ai piedi di pale eoliche o tra le rocce polverose per sfogarsi in amplessi violenti che utilizzano come pacificatore di una relazione rabbiosa. I capricci della ragazza o i dispetti dell’uomo sono segnali di un’insoddisfazione condivisa. Ma in questo film Dumont cerca l’ovvio, non richiede l’analisi approfondita di personaggi, che non sono altro che la personificazione di sintomi. Segnali di ogni tipo, amplificati da un paesaggio potente e inquietante, preannunciano una tragedia già scritta ma Dumont, qui, per un momento, elude l’ovvio con un inaspettato che porta comunque a un finale che lo spettatore non può che immaginare.

La semplice linearità della storia segue il percorso del viaggio su infinite strade del paesaggio statunitense. Dumont, nella terra di Hollywood, realizza l’opera più antinarrativa e antispettacolare della sua filmografia - curioso come invece negli ultimi lavori si sia avvicinato al musical, lo spettacolo per eccellenza (seppur a modo suo!). La bestialità umana, descritta nei suoi film precedenti come L’umanità o L'età inquieta, in Twentynine Palms diventa unico referente visivo. L’arido delle terre californiane fa da contorno a un sentimento prosciugato da qualsiasi accezione positiva, rincuorante. Ogni atto sessuale è un omicidio, perché ne prefigura il dolore, il pianto e le urla. Dumont realizza un film su una carnalità ormai mortifera, scevra di qualsiasi erotismo o atto d’amore. Le due creature ferine si muovono nello spazio della loro relazione ormai perita, senza mettere in piedi un discorso politico, così come gli amanti di Zabriskie Point o le strade a doppia corsia dei newhollywoodiani. Lo spazio circostante diventa teatro claustrofobico e stringente. Nella filmografia di Dumont Twentynine Palms è la visione più faticosa e catartica. Perché solo un film che sfida così tanto la logica di una narrazione accondiscendente può portare l’autore a realizzare quel capolavoro spirituale di Hors Satan, summa della sua opera.

(Menzione particolare alla dolcissima scena del gelato, a ogni revisione risulta sicuramente il momento più triste e profetico dell’intero film).

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Bruno Dumont Ekaterina Golubeva David Wissak 119 minuti
Francia, Germania, USA 2003
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