Il processo ai Chicago 7

di Aaron Sorkin

L'ultimo film scritto e diretto da Aaron Sorkin è disponibile su Netflix e rappresenta la condensazione dello stile liberal del celebre drammaturgo statunitense.

Il processo ai Chicago 7 - recensione film Sorkin

In The Social Network (scritto da Aaron Sorkin e diretto da David Fincher), lo stile di scrittura dello sceneggiatore riusciva ad adombrare i visibili stilemi autoriali del regista – e la medesima notazione è valida anche per Steve Jobs di Danny Boyle. Basterebbe il solo prologo – creato ex-novo rispetto al libro di Ben Mezrich da cui il titolo è tratto – per capire quanto il film del 2010 sia, in primo luogo, un prodotto da attribuire principalmente ad Aaron Sorkin. A veicolare il cuore del progetto, nel caso di The Social Network, non è tanto l’immagine quanto il dialogo: lo scambio di battute tra Jesse Eisenberg/Mark Zuckerberg e Rooney Mara/Erica Albright presenta due personaggi che sono settati su due velocità differenti; uno di loro è ben radicato nel tempo storico presente, l’altro ha già iniziato a inseguire il futuro.

Anche ne Il processo ai Chicago 7 la costruzione classica e invisibile dell’immagine – con rare eccezioni interstiziali dai risvolti sorprendenti – cede lo scettro del potere alla vis tragica della parola. È la dialettica a farsi carico dello scontro civile tra red state e blue state, a collegare il Black Panther Party al movimento Black Lives Matter e a esprimere la disillusione di personaggi a cui il futuro rischia di sfuggire di mano senza che il mondo nemmeno se ne accorga. Il film scritto e diretto da Aaron Sorkin si focalizza su una pagina nera della storia americana e mette piede in quel famigerato biennio 1968-1969 già battuto da Vizio di forma e da C’era una volta a...Hollywood, elegie funeree segnate da una rivoluzione culturale che non avrebbe portato a compimento le sue premesse.

A cavallo tra la presidenza Johnson e quella Nixon vari movimenti di protesta contro la guerra in Vietnam organizzarono una manifestazione pacifica durante la convention del Partito Democratico a Chicago. La contestazione, però, sfociò in una serie di scontri tra manifestanti e polizia, a seguito dei quali il governo federale degli Stati Uniti aprì un processo per cospirazione e istigazione alla sommossa contro i Chicago Eight – poi divenuti Chicago Seven. Il processo fu segnato da uno sfacciato pregiudizio politico e dalle difficoltà insormontabili affrontate dai due avvocati della difesa nel tentativo di ottenere un equo procedimento giudiziale da garantire ai loro clienti. A confluire nel gruppo dei processati fu un fronte ampio appartenente alla sinistra radicale e alle forze moderate fedeli ai sentimenti originari su cui è stata fondata la nazione americana.

Il dramma costruito da Sorkin è una battaglia spettacolare di dati, monologhi, confronti dialettici, leggi e fattore umano. Ad arricchire il legal drama tradizionale interviene il peso specifico attribuito a giochi di parole e a semplici pronomi, reiterazioni e interpretazioni soggettive in grado di capovolgere il senso di determinate affermazioni. È così che avviene lo slittamento tra realtà delle cose e rappresentazione procedurale, replicato anche in sede di stand-up comedy da Abbie Hoffman attraverso una serie di innesti circolari che si caricano del valore di approfondimenti di repertorio. A sottolineare il carattere tradizionale della messa in scena – nonostante i già citati interstizi moderni e privi di baricentro – ci pensa una costruzione dell’immagine che contribuisce a delineare e caratterizzare le singole individualità dei sette coinvolti nel processo e a rappresentare il segmento dell’accusa come un blocco coeso e compatto ma privo di personalità.

È superfluo sottolineare quanto il film non abbia l’obiettivo di dar vita ad un’indagine storica approfondita quanto, piuttosto, quello di perseguire con afflato liberal i caratteri democratici di cui ogni civiltà dovrebbe essere dotata. E così, chi rimprovera Sorkin di aver appiattito manicheisticamente ogni analisi dettagliata e di aver ridotto la polarizzazione in nome di un finale corale e fedele alla nobile (ri)proposizione di istanze democratiche classiche, sorvola sul potere del cinema classico e sulla forza di una narrazione che riesce a mostrare la vittoria nascosta dietro una sconfitta.

Autore: Matteo Marescalco
Pubblicato il 04/11/2020

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