El Conde
Il cinema politico di Larraín trova un'altra forma obliqua per mettere in scena il potere, ragionando sul neoliberismo come struttura ritornante, dissimulata nel vuoto delle immagini.
“Non troverà nulla dentro di me, sono un guscio vuoto”. Lo sussurra nelle sue sotterranee Augusto Pinochet, dittatore cileno, ma più precisamente vampiro secolare, falsamente deceduto per scomparire dalla circolazione e non pagare i propri crimini. Sta parlando con il suo lacchè, servitore, maggiordomo e sodale collega vampiro, rassicurandolo su alcune preoccupazioni: una giovane donna è giunta alla magione desertica del generale, dicendo di essere una contabile assoldata dai figli per sistemare l’eredità del loro caro papà; in realtà è una suora mandata dalla chiesa cristiana per esorcizzare il demone vampiresco. In città, infatti, qualcuno con un lungo mantello è stato visto volare nella notte aguzzando i canini e si contano le vittime dissanguate a cui è stato strappato di netto il cuore. I famigliari del Conte (è così che si faceva chiamare il generalissimo) non se lo spiegano, perché da tempo sentono dirgli che vuole morire, che il momento delle bevute di sangue rigenerante è finito ed è ora di assopirsi mangiando verdura cotta, salutando la lunga e gloriosa vita assieme agli immobili, ai terreni e ai contratti segreti da regalare alla propria prole. Che il Conte stia preparando una sorpresa? O l’arrivo della seducente suora munita di paletto e martello ha risvegliato in lui il desiderio di vivere?
Sono domande da satira grottesca, e infatti El Conde lo è appieno: esperimento per la tv (come The Irishman,ecco una formattazione molto poco cinematografica, con tutta la complessità del secolo breve schiacciata in una camera del dramma), annotato a piè pagina di altri progetti (la trilogia biografica sul femminino chiuso dalle strutture dell’istituzioni, che si chiuderà avvicinando Maria Callas a Jackie Kennedy e Diana Spencer), alla maniera di un divertissement in linea con la tensione critofilmica del proprio cinema più frontalmente politico. Che pur essendo già arrivato a un’ideale chiusura - El Club esponenziava il pessimismo politico in un pessimismo esistenziale ragionando sulla permanenza del male – continua a cercare nuove vie formali per mettere in scena le dinamiche espressive del potere, o meglio, dei poteri - un po’ in rima con il Fairytale di Sokurov, altra satira a sigillo di un ventennale progetto politico. Ecco quindi, dopo le forme del cripto remake di Shining in Spencer (per mostrare l’inadeguatezza di un corpo all’interno di una struttura alienante), una commedia nera che non vuole scavare dentro l’opacità comportamentale di Pinochet (sta tramando qualcosa? ha un piano segreto?) ma piuttosto, con ammirevole convinzione isomorfista, lasciarsi informare da essa. Strutturandosi come una girandola di eventi sconnessi e incomprensibili, tenuti insieme solo da un ritmo indiavolato e da una labile superficie di genere, annullando ogni disanima psicologica e spingendo la propria drammaturgia a procedere a vuoto per circonvoluzioni barocche, lontane dallo scavo di qualsivoglia “ragione di fondo” degli eventi. Non per una mancata lucidità saggistica, ma piuttosto per rimarcare l’assenza, sotto la stessa robusta opacità (accuratamente inspessita dal bianco e nero di Edward Lachman), di una vera ed effettiva “ragione di fondo” nelle azioni del generale.
E cioè per esporre, con lucidità sociopolitica inusitata per l’audiovisivo, la natura strettamente strumentale che il dittatore cileno ebbe storicamente sotto il neoliberismo. È invero quest’ultima entità, e non Pinochet, a detenere un potere malignamente metafisico, ostinato a non farsi vedere, a rimanere letteralmente oltre la fisica, (magari nei panni di una femminile voce narrante che controlla gli eventi e li guida a insaputa di tutti) e a muovere allo stesso tempo i fili delle proprie marionette audacemente inconsapevoli. Come invece il dittatore, che si pensa “guscio vuoto” e cioè male puro irredimibile ed eterno (nella sua ingenua visione “senza anima”, e quindi impossibile da esorcizzare) e invece è semplicemente un “guscio vuoto” proprio nel senso più strumentale possibile: pura immagine superficiale, ad uso di altri. A differenza di un Albert Serra, che in Història de la meva mort pensava di eternare Casanova per rivelarne l’importanza seminale nella cultura, il regista cileno rilegge così il generale come un vampiro per mostrarne la natura di simulacro, copia di una copia di una copia, senza profondità, manipolabile, intercambiabile e quindi sempre ritornante – infatti nel film il vampiresco non solo si trasmette endemicamente ma si interpreta a turni, anche vestendo il sacro mantello del Conte: qualcosa di molto diverso quindi da un despota in grado di architettare e controllare un vero e determinante potere, e qualcosa di molto vicino a una sbiadita ma testarda proiezione. Pablo Larraín ancora una volta, ma in maniera del tutto nuova (e altamente fraintendibile), chiarisce che il vero potere agisce diversamente dalla sua immagine, sta all’origine, scrive il copione e lo riscrive a piacimento, “fa le cose” invece di “dirle”, le produce, non riflette ma opera, non contratta condizioni di eredità ma semplicemente genera, figlia. Come si vede nell’ultima scena: una straordinaria partenogenesi che retroillumina il film come un corpo gravido di tensioni nascoste e colori sotterranei, istanziandolo oltre ogni categorizzazione algoritmica con cui presto Netflix lo indirizzerà per il gradimento dei suoi utenti.