The Irishman

di Martin Scorsese

Scorsese firma con l'inchiostro digitale di Netflix il suo film-testamento e l’ultimo grande film del Novecento, incongruenza tardiva che stride con la cronologia e le logiche del contemporaneo e che eppur (r)esiste.

The Irishman - recensione film scorsese netflix

«It was in the reign of George III that the aforesaid personages lived and quarrelled; good or bad, handsome or ugly, rich or poor, they are all equal now»

Via via che corrono i 200 e più minuti di The Irishman, e quest’ultima, grande storia di gangster, cinema e America si fa plumbea e funerea, è difficile non pensare al finale di Barry Lyndon e al modo in cui Kubrick ridimensiona ogni gerarchia umana, morale o sociale che sia, ponendola a confronto con la morte. Tutto svanisce, tutto si sgretola nell’orizzontalità assoluta e ineluttabile del tempo. E anche un nome che ha fatto la Storia degli Stati Uniti, sindacalista e criminale e vittima senza corpo come Jimmy Hoffa, scompare dalla memoria collettiva, residuo marginale di un’epoca esaurita e ridotta a voce di Wikipedia.
Tuttavia sarebbe un errore cercare in The Irishman lo stesso distacco clinico, lo stesso sguardo antropologico – seppur tragico, per quanto sottotraccia – del film di Kubrick; entrambi sono grandi racconti sul finire di un sistema di potere e rappresentazione collettiva, ma basta pensare al vicino, intimissimo Silence per trovare in Scorsese un modo diverso e nuovo di guardare al (suo) cinema, al (suo) mito, ai (suoi) crimini, a tutta la violenza e l’immoralità irriducibile che attraversa e determina come un fiume carsico la vita degli Stati Uniti. The Irishman è il racconto antiepico di una grande saga che attraversa la Storia, ma anche e soprattutto l’elegia funebre di un mondo novecentesco che giunge al termine, e che proprio nei suoi attimi finali cerca e raggiunge uno sguardo di pietas cristiana, redentiva, che possa accompagnare i suoi ultimi passi. Scorsese apre il suo film nei corridoi di una casa di riposo e chiude il cerchio sulla soglia della stanza di Frank "The Irishman" Sheeran, il grande sicario invisibile ormai corpo stanco e invecchiato, padre ripudiato e testimone ultimo di una storia criminale lunga quarant’anni. È lui il residuo di un mondo scomparso a cui il film concede la chiusura più umana e compassionevole, una porta aperta sulla redenzione che è però al contempo una finestra da cui noi spettatori possiamo conoscere, ascoltare e osservare un uomo che finisce, la cui storia di omicidi, amicizie coltivate e tradite, vite stravolte e manipolate, contiene il punto d’arrivo ultimo di una stagione e un modo secolare di intendere il cinema.

The Irishman è davvero l’ultimo grande film del Novecento, incongruenza tardiva che stride con la cronologia e le logiche del contemporaneo e che eppur (r)esiste, prende forma, nutrendosi paradossalmente di latte digitale e sangue di visioni on demand. Con un cortocircuito mirabile, Scorsese firma il suo film-testamento con l’inchiostro di Netflix, l’unica realtà disposta a produrre questo anti-kolossal così sperimentale dal punto di vista tecnologico e intimamente autobiografico da quello cinematografico.
Centosessanta milioni di dollari sono la cifra dichiarata ufficialmente come budget, la più grossa data in mano a Scorsese e l’unica sufficiente a sorreggere lo sforzo necessario a chiamare a raccolta tutti i testimoni di questo canto del cigno, dai volti New Hollywood di Roberto De Niro e Al Pacino alla maschera gangster di Joe Pesci, dal produttore storico Irwin Winkler all’ex sceneggiatore di Quei bravi ragazzi Nicholas Pileggi, qui in veste di produttore esecutivo. È vero, e Scorsese lo ammette candidamente, che The Irishman è un film di famiglia e una raccolta di amici, ma quando quegli amici sono le stesse persone che hanno fondato e sorretto la più grande stagione del cinema americano ecco che attraverso quei corpi si parlano al contempo le lingue del cinema e della Storia, del mito dentro e fuori dallo schermo. Come nel coevo C’era una volta a… Hollywood di Tarantino, di cui questo The Irishman sembra essere il controcampo realista, il ritorno alla dittatura del tempo e della morte dopo il sogno di fuga permesso dalla favola, Scorsese passa dalla Storia per arrivare al cinema e al suo rapporto col tempo, riflettendo anzitutto sui codici del mito e sui corpi che quei tòpoi hanno portato alla vita. Ma se per Rick Dalton e Cliff Booth l’immortalità è dietro l’angolo, appena oltre il cancello della casa dei vicini, per Frank Sheeran, Russell Bufalino, Jimmy Hoffa e tutti gli altri protagonisti di quella stagione il tempo passa implacabile e miete vittime, deturpa le carni, nonostante la magia digitale dell’Industrial Light & Magic – che ripristina i volti lasciando comunque goffi i corpi e antichi gli occhi, sentinelle che arginano l’intervento tecnologico che ha permesso al film di esistere.

È tutto qui il senso testamentario di The Irishman, summa di un modo passato di intendere ed esperire la macchina del cinema, ma anche grande cattedrale narrativa sulle forze oscure e micro-storiche che manipolano come eminenze grigie gli eventi della grande Storia, relegata a quinta teatrale attraverso gli schermi ubiquitari dell’apparecchio televisivo, il cantore per eccellenza della realtà del secondo Novecento che Scorsese non si esime dal porre ciclicamente in primo piano. Ma quest’escamotage, assieme ad altre soluzioni narrative come la confessione allo spettatore, il flashback sulla linea del tempo della strada da percorrere, la dilatazione temporale che anticipa l’omicidio che fu il più alto tradimento, sono tutti ingranaggi di un meccanismo che abbiamo già visto girare, e anche a velocità ben più aggressive e impattanti. The Irishman invece è un film totalmente sotto le righe, un racconto di frammenti, manie, dettagli, piccoli quadri umani intessuti di gesti rituali e dotati di brevi picchi di violenza, omicidi sgraziati, stanchi, tallonati dalle scritte in sovrimpressione che evocano dal fuoricampo le sorti brutali che attendono gran parte dei mafiosi che vediamo apparire sullo schermo (sarà un’ecatombe, dovuta alla violenza reciproca o dettata semplicemente dal tempo). La forza, immensa, del film deriva quindi da questa carica umana, e dal modo in cui Scorsese è riuscito a renderla il correlativo oggettivo di immagini e storie che sono anche la nostra, di storia, il nostro amore, il nostro modo di esser stati al mondo, nutrendoci di un cinema figlio di un secolo tramontato. Nessuna nostalgia, forse qualche rimpianto e il bisogno sconfinato di non sentirsi soli, di riflettere su ciò che stato regalando al passato una forma che, almeno un altro poco, possa rimanere. Anche se attraverso la paura e la solitudine mortuaria di un vecchio assassino, traditore e padre mancato, che aspetta la sua fine.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 28/10/2019

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