Kim Ki-duk - Appunti per una filmografia infranta

di Redazione .
Kim Ki-duk Point Blank

(1996) - Coccodrillo

Un vagabondo soprannominato Coccodrillo si guadagna da vivere depredando i cadaveri dei suicidi, annegati nel fiume Han. A fargli compagnia troviamo un anziano e un bambino. Il precario equilibrio del terzetto è scosso dall’arrivo di una donna, aspirante suicida per amore, prima salvata e poi sottomessa da Coccodrillo, che ne fa una sorta di schiava sessuale. Il magnifico esordio di Kim Ki-duk rappresenta un vero e proprio manifesto teorico, nel quale troviamo condensati tutti gli aspetti salienti della sua poetica: la dialettica tra crudezza e lirismo, umane aberrazioni e folgoranti intuizioni visive, il sadomasochismo nel rapporto uomo-donna, la valenza simbolica dell’acqua e degli animali (in questo caso una tartaruga, che tornerà poi in Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera), l’astrazione spaziale, la solitudine, il pessimismo radicale. E soprattutto: la natura politica del suo cinema, come controcampo estremo del capitalismo sudcoreano, di cui Coccodrillo rappresenta un figlio mostruoso.
Giulio Casadei

(2000) - L’isola

Un uomo e una donna. Su un’isola. Ma nessun uomo è un’isola. Così le due solitudini, e le due disperazioni, finiscono per incrociarsi e unirsi. Il film che ha lanciato Kim Ki-duk a inizio millennio, spaccando la superficie dei festival, è una summa dei suoi temi: il mondo a parte, il microcosmo (anche l’eremo di Primavera sarà un’“isola”), il dolore insuperabile dell’uomo, e qui soprattutto l’incontro. Hee-Jin e Hyun-Shik, nomi mai detti, formano infatti l’apoteosi dell’incontro tra perdenti, ultimi, smarriti. È un rapporto sadomaso: ma «la violenza è un linguaggio del corpo», secondo Kim, e così gli amanti si pescano a vicenda come si pescano i pesci, con gli ami infilati in bocca e nella vagina, ovvero negli orifizi primari. E l’uomo è quel pesce scarnificato che continua ad abboccare, correlativo oggettivo dei protagonisti: anche loro abboccano all’infinito al rispettivo dolore di esistere. Ma, a sorpresa, affiora il sospetto dell’amore: il lato violento del rapporto diviene metafora di ogni storia, della perenne trattativa tra amanti, del prendersi e lasciarsi, con l’una che richiama l’altro (e viceversa) inscenando un possibile suicidio. Kim Ki-duk incide l’affresco del quadro nella prima parte con estro pittorico, astraendo il contesto, facendo dell’isola un luogo mentale (e sentimentale) di estrema suggestione. Poi, esattamente a metà film, inizia la danza d’amore e violenza degli amanti che porta al clamoroso crescendo pre-finale. Kim, geniale non per costruzione, ma per intuizione, semina simboli aperti lasciati all’interpretazione di chi guarda: fino all’ultima immagine ci chiama in causa, ci convoca, ci invita a rispettare un mistero, quello del suo cinema.
Emanuele Di Nicola

(2003) - Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera

Una porta si apre verso un mondo altro, un tempio immerso nella natura, circondato dalle acque docili e imperturbabili di un laghetto. Una cornice senza muri che delimitano il perimetro dello spazio, un varco simbolico più che funzionale conduce lo spettatore in una dimensione mistica. Le fasi della vita di un monaco, l’innocenza, con i primi segni di inconsapevole crudeltà, l’ossessione dei desideri carnali dell’adolescenza, il dolore e il tentativo di espiazione dell’età adulta, e la saggezza e compassione della vecchiaia, si alternano alle quattro stagioni. Kim Ki-duk abbandona la violenza grafica e gli scenari urbani per dipingere un mondo elegiaco, sospeso nel tempo, fatto di silenzi e di piccoli gesti, in cui perdersi nella più completa contemplazione. Un paesaggio edenico che, tuttavia, solo in apparenza conciliante mostra un tratto inquieto. Un luogo in cui si chiede protezione e si espiano i propri peccati. Il regista stesso entra nella ruota del samsara iniziando il proprio percorso terapeutico e di redenzione.
Samuel Antichi

L'isola

(2004) - La samaritana

Leone d'argento alla Berlinale 2004, decimo film di Kim Ki-duk, che a inizio millennio ancora godeva della piena fascinazione e dell'ascendente esotico - per l'attraente, indecifrabile estraneità dell'oggetto asiatico - esercitato sul pubblico occidentale. Un momentaneo periodo aureo durante il quale, se si era (altrettanto temporaneamente) abbassata d'intensità la carica cruda, il vibrato sporco dei primi lavori, non era comunque venuto meno il suo impeto a rovistare nelle viscere grette del mondo, nelle immagini lacerate che da quel mondo tentano di proteggersi. Come fanno Jae-yeong e Yeo-jin: la prima si prostituisce, s'innamora di un cliente, muore; la seconda rimette in scena il peccato del suo corpo, o forse ne rilancia e rivendica il gesto d'esistenza; mentre il padre la insegue e ripara la colpa della figlia nel modo in cui può (è una vittoria facile, ma guardiamo qualche minuto di Baby su Netflix e poi torniamo qui...). Fra i caratteri e le strade tragiche ricorrenti nel cinema di Ki-duk, a replicarsi da La samaritana in avanti (Pietà, Moebius) è il farsi implacabile e istintuale di una parabola morale che interroga la realtà dell'umano e cerca, da essa, una via d'uscita, la possibilità di una purificazione.
Fiaba Di Martino

(2004) - Ferro 3, la casa vuota

La curiosità nello sguardo; l’occhio; osservare e innamorarsi. L’arte di Kim Ki-duk rifletteva sulle proprietà sensoriali del cinema. Se puoi vederlo, puoi farlo. Vedere l’amore nelle case degli altri, negli oggetti, nei cimeli, nei vestiti da lavare, nelle fotografie appese al muro che grazie a selfie ante litteram diventano istantanee sovrapposte di paradossale complicità. Ama il prossimo tuo come te stesso, anche se non lo conosci. Nel 2004 l’autore coreano firmava un manifesto cristologico, quindi esistenziale ed ecologico. Ferro 3 – La casa vuota parte con la sicurezza dell’abitudine, rompe l’equilibrio con la dolcezza di chi riesce a dire tutto senza parlare affacciandosi di volta in volta sulla soglia – che splendido leit motiv – infine accoglie la violenza come un male necessario proprio come nei film precedenti e successivi, e si invola verso una finzione irrealizzabile che forse è stata solo un sogno, una speranza o un rimpianto. Un cinema irripetibile capace di guardare lontanissimo solo se il pugno è aperto – la mano con l’occhio disegnato nel palmo, riprodotta fieramente a Venezia mentre l’altra, di mano, reggeva il Leone d’Argento.
Paolo Di Marcelli

primavera estate autunno

(2005) - L’arco

Un arco è un’arma, ma può diventare pure un oggetto di culto, se lo si inquadra col dettaglio della cinepresa di Kim Ki-duk, che fa risaltare la levigatura del legno, il gusto decorativo dei tessuti colorati che lo avvolgono, la rigidezza della sua corda tesa. E può diventare un violino, se si sfrega quella corda con un archetto. Il regista coreano ce lo dice per tutto il film, nel racconto fascinoso di un vecchio pescatore e di una ragazzina che ha salvato per mare da neonata. Torna il regno liquido dell’acqua (L’isola) e la parola è nuovamente recisa quasi del tutto (Ferro 3), ma ora il tono si allevia ulteriormente e si fa fiabesco, con la fanciulla che è una sorta di vergine ondina e il vecchio eremita dei mari pronto a sposarla per vivere in eterno nell’idillio del mare, fuori dal mondo. Se l’arco è un violino, anche la violenza è stata tagliata via, come la corda annodata al collo del pescatore inerme che vorrebbe togliersi la vita, quando la ragazzina si rifiuta di sposarlo. E neppure il sangue schizza più come sulle case galleggianti e sugli arti spezzettati dei corpi, la sua unica traccia è una macchia sul vestito bianco della ragazzina che ha perso la verginità con un essere invisibile (il vecchio pescatore?) e per mezzo della sua freccia divina. Dove ci ha condotto ora la mitologia istintiva di Ki-duk? Lo suggerisce un commento a chiosare la poesia sonora e la levità miracolosa delle immagini: «strength and a beautiful sound like in the tautness of a bow. I want to live like this until the day I die».
Andrea Giangaspero

(2007) - Soffio

Un uomo, una donna, una condanna a morte. Una piccola cella, che lei tappezza di carta da parati per simulare impossibili primavere e spiagge perdute, dove si consuma una passione disperata, senza passato né futuro. Un secondino che controlla i loro incontri, agli ordini di un “demiurgo” (un addetto alla sicurezza, interpretato dallo stesso regista), ora sadico ora indulgente, che osserva gli amori del prigioniero e della sua ospite attraverso uno schermo, e spingendo un pulsante decide del loro tempo e del loro desiderio.
Forse il prigioniero, in quanto tale, è un illuminato. Forse è necessario essere privati di tutto per comprendere la bellezza segreta del mondo e il valore di ogni più piccola cosa: per questo il protagonista custodisce gelosamente in bocca un capello della donna amata.
L’eros è un fuoco purificatore e assieme distruttivo, mentre il matrimonio è una farsa; la morte è imprescindibile e la crudeltà necessaria. Soffio si muove dentro le coordinate tipiche del cinema del grande maestro coreano, alle quali si aggiunge qui un complesso gioco metacinematografico. Film asciutto e ruvido, a tratti quasi grottesco, che rifiuta la meravigliosa eleganza estetica di tanti titoli precedenti, è probabilmente una delle opere più autentiche di Kim Ki-duk.
Arianna Pagliara

arco

(2011) - Arirang [Kim]… Amen

11 Dicembre 2020, muore Kim Ki-duk.
Le sale sono chiuse, il presente scorre incerto, il cinema non c’è eppure i film sono dappertutto.
2011, Arirang. Lontano dall’industria cinematografica che l’aveva osannato come il re della new wave coreana, Kim si ritira in un rifugio in montagna. Mangia, beve, dorme e piange. Non vuole più saperne della sua vita precedente. Punta la videocamera verso di sé, poi la camera diventa una pistola e la tenda un confessionale: Kim ci guarda e, con occhi gonfi di lacrime, canta a sguarciagola Arirang. Mai più.
Mai più…
Se sei nato quando lo sguardo aveva una morale, se credi che l’estetica debba essere una questione etica, Arirang rappresenta un cortocircuito totale. Cosa è giusto vedere? Cosa è vero? Cosa osceno? Qual è il limite che non si dovrebbe mai superare? E, soprattutto, dove sta scritto che non si può? Il dolore, solo al dolore non si può mentire.
Il trauma di una morte non avvenuta (l’attrice che sul set di Dream rischiò di rimanere impiccata) segna le traiettorie di tutti quei film che non vedremo mai. La morte stessa di Kim viene inscenata in una tenda che si fa teatro di posa. Kim è morto, Kim è di nuovo vivo.
Arirang: non c’è più bisogno di grandi set, siamo fatti di cinema, le immagini fanno parte del nostro stesso DNA. Guardare significa guardarsi e Arirang è l’autoritratto per eccellenza del nuovo millennio. Il cinema è ovunque: per continuare a farlo, bisogna tentare di vivere e dimenticare. Disimparare la grammatica, affidarsi unicamente al proprio dolore.
Pochi mesi dopo, alla preghiera segue Amen: munito della propria videocamera, Kim viaggia lungo quella stessa Europa che tanto l’aveva acclamato. L’uno di Arirang si fa due in una personalissima, nuova Nouvelle vague: protagonista una donna coreana, turista in terra straniera, che insegue ed è inseguita da un uomo. Lei cerca lui, lui cerca lei, nello strazio dell’unico vero amore. Un nuovo inizio, libero da qualsiasi mediazione. Addio al linguaggio, forse.
Il cinema ricomincia da capo ma niente potrà tornare più come prima. Mai più.
Arirang Kim…amen.
Samuele Sestieri

(2012) - Pietà

La locandina è figlia di un viaggio in Italia lontano nel tempo, quando Kim Ki-duk non era ancora un regista. La visione della michelangiolesca Pietà nella Basilica di San Pietro al Vaticano lo segna profondamente. Da Maria e Gesù a una madre e un figlio nei sobborghi di Seul, in una città che sta cambiando per sempre, nel cuore di un’umanità che sta cambiando per sempre. La Pietà del regista sudcoreano è un film dell’odio e dell’amore, un’opera che dice il male del capitalismo, degli uomini che hanno perso l’anima, del dominio del denaro. Un figlio che lavora per un usuraio e rende storpi gli artigiani che non riescono a restituire i loro debiti; una madre mai conosciuta, ora apparsa come una fantasma, all’improvviso. Un miracolo, un inganno, una vendetta. L’amore muore tra espiazione e redenzione. La sequenza finale, sulle note di un dolente Kyrie eleison, è da brividi. Film Leone d’oro a Venezia 2012.
Leonardo Gregorio

(2013) - Moebius

«La verità è che combattiamo una lotta interiore. 8 diventano 4, 4 diventano 2 e 2 diventano 1, cioè me. Io sono tutti e 8». Così Kim Ki-duk confessava alla sua stessa ombra in Arirang. Espressione di una poetica che in Moebius si letteralizza fino alla sua forma più radicale: la madre evira il figlio al posto del padre; il padre dona il proprio membro maschile al figlio; la madre si riunisce col figlio; il padre assiste alla scena primaria tra moglie e figlio, ormai sostituito al secondo. Il giro sul nastro è completo, la prospettiva ribaltata ma la superficie sempre la stessa. «Io sono il padre, la madre è me e la madre è il padre» chiosa il regista su un film che non necessita di altre spiegazioni e che, per l’appunto, rinuncia ai dialoghi. 3 diventano 2, 2 diventano 1. Un film sul desiderio, il conflitto interiore per eccellenza. Dunque, un film sull’assenza che il suo raggiungimento disvela. Un horror dello spirito sui guai di ogni giorno (come in Claire Denis quanto più sangue e umori vediamo, tanto più ci troviamo al cospetto di manifestazioni interiori). Anche se non tra i film migliori di Kim Ki-duk, sicuramente tra quelli che più di tutti tentano una riduzione archetipa della sua filosofia. Una virata, ma forse solo apparente. Perché, ancora una volta, si ritorna allo spirito, da cui del resto non ci si è mai allontanati. Prendere o lasciare.
Riccardo Bellini

Etichette
Categoria
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Fireball - Messaggeri dalle stelle

di Leonardo Strano
Fireball: messaggeri dalle stelle - recensione film herzog

«"Hi, my name is Jean" sais the simulacrum». È una statua a parlare, quando uno spettro si adagia improvvisamente sul suo volto, mettendo in moto i suoi muscoli, colorandoli di vita. Si tratta di un giochino per turisti, uno spazio a realtà aumentata, che cala nella storia, la fa vivere, all’interno del museo della città di Ensisheim, dove è conservato il meteorite che nel 1492 cadde dal cielo e legittimò le pretese politiche della casata asburgica. In Fireball - Messaggeri dalle stelle Werner Herzog dedica la sua attenzione a questo momento interattivo: alla statua immobile è donata la parola tramite il movimento della luce proiettata. Ma la statua, la cosa, ha assunto un significato grazie alla proiezione digitale o lo possedeva già? La storia di alcuni minatori preoccupati della fine della vita sulla terra, intenti quindi a scavare rifugi entro cui calarsi per un decennio, rivelata dal racconto virtuale, era implicata nella statua, in quel calco di volto, probabilmente inventato, oppure non lo era per niente? Si può dire che la statua nascondeva un senso intellegibile oppure è stata l’interpretazione umana, cioè storica, a infondergliene uno? Questa interpretazione è giustificata oppure è illegittima, una sovra interpretazione, un’illusione? 

Questo confronto con la statua è solo uno dei tanti momenti in cui Herzog legge in controluce la materia della realtà per porre domande su questioni che riguardano l’intellegibilità della natura, il ruolo interpretativo del soggetto rispetto al mondo e alla Storia, la dimensione della sovra interpretazione, e la posizione del cinema in tutto questo. Ovviamente è probabile che il racconto della statua fosse comprovato da fonti accertate, ma il punto non riguarda la statua come oggetto del museo, piuttosto la natura simulacrale, come lo stesso Herzog apostrofa, dell’oggetto: per definizione il simulacro è l’immagine che non rinvia ad alcuna realtà sottogiacente, immagine indipendente dalla realtà, duplicazione imparziale o infedele, falso rappresentante. Nella sua accezione originaria il termine indicava curiosamente l’immagine di una divinità, cioè quanto è dato per assolutamente vero, il centro del senso, il centro della verità. I meteoriti (il titolo inglese “visitors” è più scientifico e ambiguo rispetto al “messaggeri” del titolo italiano, che sembra implicare un senso trasportato) sono oggetti-simulacri per eccellenza e la storia delle loro interpretazioni lo conferma. 

Herzog insegue questa storia, insegue cioè la direzione interpretativa che va dai soggetti umani all’oggetto spaziale - in molte sue forme, dal micro dell’antichissima polvere interstellare al macro dei meteoriti che si incastrano nel ghiaccio antartico – intervistando i soggetti, ricercatori, studiosi, accademici, preti e indigeni. Mentre rimane fissa la domanda sull’intellegibilità della natura, il valore dato all’interpretazione risulta altissimo: forza creatrice o distruttrice in cui si identifica il nostro rapporto con il mondo, motore che guida e salva, genera cultura e progresso o segna fallimento e dimenticanza, producendo anche morte. Mentre alcuni occhi sconosciuti (non computer) interpretano di notte segnali dal cielo per avvertire l’umanità di possibili minacce, l’occhio di vetro di un dinosauro suggerisce la cecità di una civiltà che ha dimenticato, o ignora, l’epicentro di se stessa. Mentre quel giorno del 1492 gli alsaziani hanno letto la caduta di una roccia a Ensisheim come il segno dell’inizio di un nuovo mondo, per il popolo Meriam nello Stretto di Torres il movimento delle stelle rappresenta la transizione di un’anima cara da questo mondo a un altro.

fireball herzog

Nella danza degli abitanti del luogo è riprodotto questo fenomeno: le braci che cadono dalle torce rappresentano la scia della stella, il movimento dei danzatori genera la transizione; la loro interpretazione dell’evento atmosferico fissa il senso tramite ricorsività cultuale, in un circolo di significato dove l’intelligibilità della natura si origina dall’interpretazione e l’interpretazione si origina dall’intelligibilità della natura. Herzog chiude il documentario con l’immagine della danza indigena perché in questo circolo ermeneutico di assoluto presente, senza distorsione storica, in cui l’atto genera la realtà di senso e il senso della realtà produce l’atto, riconosce la congiuntura tra i due termini che, se separati, producono invece il dubbio sulla disponibilità di senso propria della natura e di conseguenza sulla sovra interpretazione della visione del soggetto.

La distanza tra i due termini, soggetto e oggetto, fraintende la natura contestuale della dimensione originaria dell’umano, quella dimensione della metafisica delle origini in cui non esiste il soggetto di matrice moderna ma soltanto uomini meravigliati dall’accadere del mondo che producono una sapienza poetica. La stessa sapienza poetica degli antichi artigiani del tempio di Darb-I-Imam Shrine in Iran, in grado di immaginare 500 anni fa la simmetria quintupla dei quasicristalli, ritenuta impossibile dalla scienza fino alla sua scoperta all’interno di un frammento di meteorite. La distanza indebita tra soggetto e oggetto è quella di un pensiero tecnico dei fatti in cui il soggetto domina con la comprensione gli oggetti, dispone di essi, li conosce come strumenti, mezzi, e così intende gli enti, come strumenti. Ma questa distanza coglie la “verità da contabili” (si legge così nella Dichiarazione del Minnesota del regista) non la verità profonda, la verità poetica, estetica, delle cose, restituita invece da un luogo (la passeggiata antartica del contro-finale) in cui saltano tutte le misure soggettive, le regole dell’inquadratura, le dimensioni umane di dominio, perché si sente la trascendenza che stravolge l’orizzonte umano. Gli scienziati che Herzog intervista non confessano le loro pretese scientifiche ma la loro passione per la meraviglia, sono mossi dal piacere per la poetica della scoperta, e in questa misura non sono diversi dai danzatori indigeni. 

Che ruolo ha il cinema di Herzog rispetto a questo circolo ermeneutico e questa distanza? Il cinema è quello spettro, quel movimento da proiettare sulle cose affinché assumano senso, o è la traccia di una luce interna, è il portare alla luce un segreto nascosto nelle cose? L’immagine documentaria di Herzog non definisce nulla perché non è legata al fatto, per quanto possa sembrare interessata alla didascalia della spiegazione; piuttosto è impegnata in un processo di racconto che cerca di ridimensionare la posizione, l’importanza del soggetto che rappresenta rispetto all’oggetto rappresentato. La dinamica rappresentante-rappresentato è ribaltata da un approccio che ha abbandonato l’idea di intreccio formalizzante e risignificante, in un riconoscimento di debito nei confronti della causa della rappresentazione, cioè l’oggetto. L’immagine di Herzog non è più in competizione con l’immagine dell’evento, è illuminata da esso nella misura in cui riconosce che esso è la causa che la trascende e la legittima. È un linguaggio documentario che lascia parlare le cose, che ascolta le immagini e lascia loro lo spazio dichiarando la loro bellezza, la loro pericolosità, la loro propria ambiguità. La distanza tra soggetto e oggetto è ribaltata così in asimmetria tra individuo e mondo, asimmetria comunque reintegrata nel circolo in cui mondo e individuo si interpellano vicendevolmente. Quando il regista si sente in dovere di scusarsi perché interviene nel mondo rappresentato o commenta che anche la luce di un semplice cellulare può riconoscere la bellezza, confessa la povertà del mezzo rispetto alla ricchezza del mondo per riconoscere il debito e l’asimmetria. D’altra parte, non rinuncia all’interpretazione della realtà quando monta assieme in un intreccio la dispersione delle esperienze.

herz

La risposta sull’intellegibilità della natura forse è vicina a questo riconoscimento di asimmetria integrata nel circolo dell’interpretazione. Si riconosce che la natura registrata assume connotati misteriosi, non è strettamente intellegibile, ma non nel senso che non porta su di sé alcun senso, bensì nella misura in cui il suo senso sempre si ritrae, malgrado la rappresentazione. La rincorsa al senso è sovra interpretante se non rispetta l’origine stessa del senso, se il polo del soggetto si distingue dall’oggetto, ma questa rincorsa è legittima e fondamentale quando si compie nella tensione della sua incompiutezza costitutiva, come controparte di un processo più ampio. Rispetto alla forma del documentario invece questa asimmetria circolare recupera una dimensione simbolica non arbitraria e linguistica, perché originaria e indistinta dall’esperienza umana, grazie alla quale, paradossalmente anche l’immagine del cinema, o l’immagine in senso lato, torna a essere urgente: fuori dalle regole del linguaggio, l’immagine, o la rappresentazione, non è più una sovra interpretazione, una messa in forma illegittima, ma la traccia, la ferita lasciata aperta dal passaggio dell’invisibile, la roccia lentamente scolpita dal vento, il cristallo che tiene in sé la storia del mondo. L’immagine-simulacro non è più staccata dalla realtà, è suo segno, come le ombre degli esploratori che adombrano il ghiaccio o quelle dei dinosauri fotografate dalla luce un attimo prima dell’impatto.

Etichette
Categoria
Werner Herzog Clive Oppenheimer 97 minuti
USA 2020
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

LACENO D'ORO #45 - "Dove sono stato" e "Giorno di scuola"

di Elvira Del Guercio
mauro santini laceno d'oro

Presentati in occasione della quarantacinquesima edizione del festival irpino Laceno d’oro International Film Festival, Dove sono stato – cortometraggio realizzato quasi vent’anni fa e visibile per la retrospettiva che il festival dedica a Corso Salani - e Giorno di scuola di Mauro Santini sono due film molto diversi.
Da un lato, c’è il tentativo di recuperare, più che un’amicizia in carne e ossa, ciò che resta del proprio tempo in una rielaborazione memoriale che passa per il viaggio e il movimento, nei cui interstizi le immagini e parole di Santini “recitate” dalla voice off spezzata di Corso Salani diventano un tutt’uno. Dall’altro c’è Giorno di scuola, girato letteralmente insinuandosi tra gli alunni e le alunne della scuola di Pieve Torina, ricostruita dopo il terremoto del 2016. La collettività cui Santini decide di dare voce tenta di rialzarsi all’indomani di quella strage partendo proprio dalla ricostruzione fisica e morale di uno di quegli spazi sociali e culturali da cui non si dovrebbe mai prescindere.

Il messaggio – se di messaggio vogliamo parlare – del film di Santini risulta per questo particolarmente risonante, tanto più pensando al contesto pandemico in cui ci troviamo oggi, dove si decide di poter fare a meno della scuola come luogo fondamentale per pensare a delle pratiche di rinnovamento, o come in questo caso, per mettere in atto una vera e propria rinascita, prima ancora che spazio di aggregazione altrettanto importante.

Giorno di scuola è un progetto nato dall’incontro con Giuliano De Minicis, Tonino Dominici e Sandro Paradisi che con il Gruppo Succisa Virescit hanno dato vita alla raccolta fondi che ha portato alla costruzione della nuova scuola di Pieve Torina. Nel film lo sguardo di Santini è ravvicinatissimo e si muove agile tra le reazioni di ogni bambino e bambina in classe e negli spazi antistanti la scuola: si colgono così l’intimità e la magia, quasi, di quei rapporti che cominciano a poco a poco a prendere forma e l’importanza delle connessioni che ogni maestro o maestra è in grado di instaurare attraverso il dialogo e anzitutto la pazienza, qualità che non sembrano mai essere un peso. E potremmo parlare, in questo senso, di una poetica della cura, riferendoci al modo in cui il cineasta marchigiano si avvicina alle cose del mondo e le segue, timidamente, appunto, come ricordava anche Ghezzi.

sanitni

Il movimento quieto e circoscritto di Giorno di scuola si contrappone alla sintassi nevrotica e pulsionale di Dove sono stato, in cui lo sguardo di Santini si ferma poco a osservare ciò che gli sta intorno attraversando strade e città freneticamente, in maniera quasi “cortazariana” per certi aspetti, e a questo concorrono la limpidezza e fragilità delle parole accompagnate dalla voce di Salani e che non stanno lì a spiegare ciò che vediamo – la concordanza tra testo e immagini è spesso indefinita – quanto ad ampliarne la percezione conducendo lo spettatore, in maniera sempre più radicata e profonda, nello stato mentale dell’io narrante che racconta la vicenda essendone al contempo (l’unico) partecipe.

Categoria
Mauro Santini
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Shirley

di Nicolò Comencini
Shirley - recensione film

In una cronaca pubblicata sul giornale francese Libération qualche anno fa, il filosofo Paul B. Preciado distingue due modi di concepire una biografia: il primo consiste nell’utilizzare la scrittura come strumento di ricostruzione meticolosa del tempo e dell’azione, mentre il secondo «partendo dall’impossibilità della biografia, intende la scrittura come una tecnologia della soggettività, come una pratica performativa di produzione di vita». L’ultimo lungometraggio di Josephine Decker, il biodrama Shirley, dedicato alla scrittrice Shirley Jackson, rappresenta un esempio paradigmatico di questo secondo processo biografico applicato alla settima arte.

Negli ultimi anni, il mondo del cinema ha espresso un interesse crescente nei confronti di Jackson e dei suoi scritti: dalla serie prodotta da Netflix The Haunting of Hill House al lungometraggio Mistero al castello Blackwood di Stacie Passon, molte sono le opere dell’autrice recentemente adattate per il grande e il piccolo schermo. Nel concepire Shirley, primo film destinato al grande pubblico, Decker opta però per il racconto biografico.
Basato sull’omonimo romanzo di Susan Scarf, questo biopic atipico si serve di un episodio fittizio per invitarci dentro le mura di casa Jackson nel periodo che precede la pubblicazione del romanzo The Hangsaman, a sua volta ispirato, a detta del primo editore, a un fatto di cronaca realmente accaduto e mai risolto: la scomparsa della giovane studentessa Paula Jean Welden.

Shirley Jackson ci viene raccontata come una donna controversa: imprevedibile, spesso sgradevole, e agorafobica. Al di fuori della sua abitazione c’è il mondo accademico americano degli inizi degli anni ’50, di cui la scrittrice non si sente parte, e in cui nuota invece abilmente il marito Stanley Hyman. È un universo intellettuale e borghese, che si regge su una serie di ipocrisie, di solide gerarchie e di rigidi codici sociali. Il film riconosce in modo esplicito il legame di parentela con Chi ha paura di Virginia Woolf, sia per l’ambientazione nel milieu accademico, sia per la relazione tossica della coppia protagonista (che vampirizza due giovani sposi nutrendosi delle loro illusioni), sia per il costante interrogativo sul limite tra finzione e realtà. Shirley — che come progetto vanta una consistente componente femminile, dalla regia allo scriptaggiunge anche una denuncia non troppo velata dell’oppressione patriarcale su cui si regge il sogno americano. Al contempo, anche la solidarietà tra le due donne protagoniste si rivela impossibile: per portare a termine il romanzo, Shirley ha bisogno di sovrapporre la figura di Rose a quella di Paula, conducendo la prima nella stessa zona d’ombra in cui si sarebbe potuta trovare la seconda prima di sparire senza lasciar traccia.

La macchina da presa non si limita a offrirci una riproduzione più o meno fedele di un accadimento biografico, ma si prende la libertà dell’invenzione narrativa per dare vita alla scrittrice: il graphein diventa così produttore di bios. Il punto di partenza non è più il vero storico, ma l’artificio narrativo che, lungi dal tradire i protagonisti della vicenda, attribuisce loro ancora più spessore. Se è vero che alcune condizioni biografiche — il fatto che Jackson avesse tre figli all’epoca della vicenda narrata, per citarne una — non vengono rispettate, è altrettanto vero che questo modus operandi sembra essere l’unico in grado di rendere giustizia a una scrittrice che Joyce Carol Oates definisce “troppo estrosamente originale” per essere imitata.

Interrogando il processo creativo, come già aveva fatto nella sua precedente pellicola Madeline’s Madeline, Decker mette a punto un complesso gioco di specchi: così come Jackson si serve del personaggio fittizio di Rose per sormontare il blocco dello scrittore e portare a termine il suo romanzo, la registra texana sfrutta l’espediente narrativo per esplorare la relazione tra Jackson e Hyman, nonché il rapporto tra la scrittrice (e più in generale, la figura dell’artista) e le sue creazioni.
Con Shirley, Decker ci immerge nella metanarrazione, mostrandoci non solo l’impossibilità di separare l’artista dalla propria opera, ma anche come la costante dialettica tra finzione narrativa e (im)possibilità biografica sia a sua volta una fonte inesauribile di vita e fiction. Il risultato è un’immagine frattale in cui la danza di corteggiamento tra illusione e realtà si ripropone su diversa scala, producendo un effetto perturbante, ipnotico e vertiginoso.

Etichette
Categoria
Josephine Decker Elisabeth Moss Micheal Stuhlbarg Odessa Young Logan Lerman 107 minuti
USA 2020
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

TORINO 2020 / "El elemento enigmático" + "The Philosophy of Horror: A Symphony of Film Theory"

di Andreina Di Sanzo
The Philosophy of Horror: A Symphony of Film Theory

Esperienza sensoriale di circa 40 minuti, El elemento enigmático di Alejandro Fadel manifesta già dal suo titolo l’atmosfera di mistero. Presentato al Torino Film Festival nella sezione Le stanze di Rol, il film è un viaggio di tre uomini nascosti da tute e caschi, enigmatici come dei Daft Punk dell’ambient, volati in uno spazio siderale, sconosciuto e forse crudele. Questo film che propende molto alla video arte, nulla racconta se non quello che ambiguamente propone allo spettatore, chiamato a interrogarsi su cosa può o non può accadere. I tre astronauti comunicano senza parlare (leggiamo dai sottotitoli i loro dialoghi mentali) e vagano per questi spazi sconosciuti ritrovandosi di fronte il nulla avvolgente. Tra gas psichedelici emanati dalle rocce e corpi abbandonati, l’imperturbabilità di questo strano oggetto non viene smossa. Le domande filosofiche che i tre si pongono non chiedono risposte e nulla aggiungono al film che fa dell’arcano la sua cifra. Ma qualcosa per tutta la durata sembra aleggiare, è quell’Unheimliche freudiano, che aleggia in questo pianeta proibito, tutto accompagnato dalle musiche di Jorge Crowe, ambient industriale così profondamente inquietante. Tutto è sospensione, mistero, in un horror fantascientifco sperimentale, che mette in conflitto la brutalità umana contro la potenza impassibile della natura. 

el-elemento-enigmatico-recensione-film-alejandro-fadel

Segue a questo curioso oggetto, un’altra esperienza psichedelica: The Philosophy of Horror: A Symphony of Film Theory. I registi Péter Lichter e Bori Máté lavorano sulle immagini di uno dei film più iconici del cinema horror, Nightmare. Alcune sequenze tratte dai primi due capitoli della saga vengono modificate come se si agisse con dei reagenti chimici, quindi l’immagine è disturbata, non corrisponde più al film che tutti conosciamo. Intanto quello che ascoltiamo dalla voice-over sono degli estratti da The Philosophy of Horror or Paradoxes of the Heart di Noël Carroll, fondamentale testo teorico sull’estetica dell’horror. Questo esperimento vuole riflettere sul rapporto tra immagine e spettatore, la teoria di Carroll viene applicata alla materia filmica, cosicché - come nel film precedente - chi guarda è costretto a interrogarsi sulla relazione tra ciò che vediamo e ciò che il film non vuole mostrarci.
In questi due mediometraggi sperimentali, si indaga ancora una volta, il rapporto tra il genere e le teorie sul genere, tra l’immagine e la decostruzione di questa immagine, e ancora, tra chi guarda e chi è guardato e (probabilmente) manipolato da quello sguardo sempre imperscrutabile. 

Etichette
Categoria
Argentina 2020 - Canada 2020
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Elegia americana

di Matteo Marescalco
Elegia americana - Point Blank recensione

Due anni dopo aver raccolto il timone di Phil Lord & Christopher Miller alla guida di Solo: A Star Wars Story - portando in scena un inno all’epica della sala cinematografica e della profondità degli spazi in tempi di ambienti sintetici e rilocazione dell’immagine filmica in nuovi ambienti esperienziali, l’istituzionale Ron Howard ha curato la regia di Elegia americana, nuovo ambizioso progetto targato Netflix nonché trasposizione dell’omonimo caso editoriale autobiografico firmato da J.D. Vance. Scritto nel 2016, il progetto di Vance si è posto l’ambizioso obiettivo di rivelare al mondo il cuore profondo degli Stati Uniti e di indagare sull’esistenza di quel bacino elettorale di cruciale importanza per l’elezione di Donald Trump nel 2016 all’interno della Bible Belt, la cintura di stati particolarmente retrogradi e abitati dai cosiddetti hillbillies, termine dispregiativo con cui solitamente si designano le persone che risiedono nelle aree rurali e montuose degli USA.

Attraverso il suo punto di vista di maschio bianco eterosessuale, J.D. Vance racconta in prima persona la vicenda della sua famiglia disfunzionale dominata da figure femminili fortemente matriarcali. Brillante studente di diritto a Yale, Vance è stato cresciuto da una nonna attiva e saggia e da una madre instabile e tossicodipendente. Convinta fino in fondo della validità dell’american dream, la nonna ha sempre incoraggiato il nipote a sfruttare quell’unico sentiero che il suo status sociale gli garantisce di percorrere senza perderlo mai di vista. Alla vigilia di un colloquio da cui potrebbe dipendere il suo futuro, una crisi famigliare costringe J.D. al ritorno a casa. Il viaggio si trasforma nel motivo per ritrovare la madre, riaprire ferite e risvegliare traumi mai risolti, ma fornisce al ragazzo anche l’occasione per riscattare definitivamente il suo passato e plasmare il presente con la speranza di dar vita ad un futuro migliore.

Per certi versi, Elegia americana è un’operazione assai affine a quella portata avanti da Ron Howard in Solo, nonché profondamente iscritta nel cuore di un autore che ha spesso raccontato storie di individui che si battono per la famiglia, per un sogno e, in definitiva, per il loro avvenire. Questa volta il background su cui si erge la messa in gioco del coraggio individuale e della conquista del successo attraverso la sola forza del proprio ingegno è l’America bianca e rurale di cui Vance è originario. Se nella sua precedente regia Howard garantiva la sopravvivenza dell’immaginario cinematografico classico dentro la deriva magmatica dei nuovi media, sottolineando il peso specifico delle icone e dell’esperienza in sala, adesso il regista invita inevitabilmente alla fruizione casalinga di un racconto segnato in modo irrimediabile dall’ottimismo del cinema di Frank Capra. Ridotto nel formato, il classicismo dell’operazione, questa volta, sopravvive attraverso le vicende dei personaggi che racconta.

Più semplice e lineare di quanto possa essere stato presentato nell’ambito del dibattito politico contemporaneo, Elegia americana appiattisce i conflitti e le dinamiche familiari per concentrarsi sulla storia di redenzione del suo protagonista che, probabilmente, è troppo “scritta” e destinata a raggiungere il suo obiettivo fin dalle prime sequenze. In questo itinerario, c’è tanto spazio per momenti di empatia forzata, un po’ meno per l’umanità di personaggi che sembrano ridotti a figurine da collezione con la mera funzione di sostenere il viaggio intrapreso da Vance. Questa storia esagerata, sopra le righe e segnata da due performance attoriali che, paradossalmente, cercano la naturalezza attraverso il massimo della “mediazione” – a fungere da maschera è la scarnificazione di due attrici (s)truccate fino ai limiti del possibile – colpisce per la sua linearità sentimentale ma, allo stesso tempo, delude per un non so che di fittizio e artificioso, caratteristiche che, quando sono in ballo drammi umani, finiscono per privare il racconto della potenza naturalistica di cui avrebbe avuto bisogno.

Etichette
Categoria
Ron Howard Amy Adams Glenn Close Gabriel Basso Haley Bennett Freida Pinto 117 minuti
USA 2020
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Torino 2020 / The Oak Room

di Matteo Berardini
the oak room - recensione film

Sei già stato qui.
Davanti a un bancone, bicchiere in mano, al riparo mentre fuori dalla porta neve e ghiaccio mimano la loro piccola fine del mondo.
Sei già stato qui.
In un locale quasi avvolto nel buio, un’oscurità catramosa, dentro un mare notturno da cui emergono sottili linee di luce, scritte e insegne che tracciano le coordinate dell’ambiente come barriere coralline al neon. C’è atmosfera qui, c’è l’ultimo calore della giornata e odore di legno, e torba e alcol sparso sul tavolo ancora appiccicoso. Ma soprattutto ci sono storie, storie avvolte in loro stesse, una dentro l’altra, evocate da voci al caldo mentre fuori gela e imperversa la tempesta.
Potrebbe essere un racconto di Stephen King questo The Oak Room, un racconto come tanti dello scrittore del Maine, in cui le storie prendono corpo dentro un bar in chiusura, ultimo bastione prima della ritirata notturna. L’impianto è dei più semplici: c’è un uomo al bancone che ascolta e racconta, e c’è un ragazzo perduto, tornato in città dopo la morte del padre e delusioni familiari e torti affettivi, che ascolta e racconta a sua volta. E in un ballo a due di recriminazioni, scuse mancate e storie offerte come materia di scambio per vecchi pegni di famiglia, i racconti dei due generano altri bar e avventori notturni, storie che innescano altre storie come scatole cinesi in cui la narrazione stessa si pone in primo piano e svela tutti i suoi meccanismi.

A questo punto si potrebbe pensare a un neonoir sulla scia di Tarantino, magari agli avventori assediati dalla neve di The Hateful Eight, ma saremmo fuori strada. Non c’è nulla di pulp postmoderno in The Oak Room, per lo meno nulla che voglia decostruire per ironizzare, scollegando i personaggi dal reale attraverso il potere affabulatorio del racconto. La parola, in Tarantino e soprattutto nel tarantinismo che ne è derivato, è uno strumento che poco ha a che fare con il ruolo atavico che la storia porta con sé, non serve a ordinare il mondo ma ad apparecchiare le premesse della sua deflagrazione. The Oak Room, al contrario, è un neonoir che ha il classicismo nel midollo, è Shahrazād, è un b-movie sfacciato e fuori tempo che riconosce l’importanza ancestrale che le storie da sempre hanno e ne evidenzia la capacità creatrice, ordinatrice appunto, attraverso la quale cerchiamo di spiegarci il reale e organizzarlo in forme gestibili.

Via via che il racconto orale prende forma, il film di Cody Calahan semina suggestioni e suggerimenti, dispiegando sentieri narrativi la cui architettura ci suggerisce combinazioni, incastri, colpi di scena, quando in realtà nulla di ciò deve necessariamente accadere. Lo scheletro narrativo che via via emerge esiste soltanto nella nostra mente, perché se le storie ci illudono di poter prevedere, anticipare e quindi reagire agli eventi, in quanto ascoltatori/spettatori ci aspettiamo che determinate svolte accadano, che determinate coincidenze vengano confermate. E questo perché immaginare che gli eventi seguano una logica causale – e non siano piuttosto schegge fattuali lanciate da un Dio ubriaco che gioca a dadi con il mondo – ci tranquillizza e mette in una posizione di maggior controllo. È per questo che The Oak Room è ben di più di una voce calda che racconta mentre fuori fa freddo, è più di un intelligente neonoir capace di gestire le limitazioni di budget stimolando l’evocazione e l’immaginazione dello spettatore; Calahan e il suo sceneggiatore Peter Genoway ci seducono con l’ambientazione e l’affabulazione dei personaggi per dire qualcosa di profondamente vero riguardo la finzione. E cioè che ci serve raccontare storie e le racconteremo sempre, che siamo fatti di racconti, libri di sangue e carne con cui mettere ordine al caos del reale, ponendoci al centro di una progressione sensata di eventi. Senza dimenticare, però, che ciascuno di noi è anche, sempre, il racconto di qualcun altro, protagonista di una storia di cui non conosciamo il narratore.

Etichette
Categoria
Cody Calahan RJ Mitte Peter Outerbridge Ari Millen 90 minuti
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Torino 2020 / Mom i Befriended Ghost + Red Aninsri

di Saverio Felici
Mom-i-Befriended-Ghosts-recensione-film-Voronov

E' difficile che Mom i Befriended Ghosts, pur con il suo spudorato aggancio al presente, sia stato scritto, prodotto e girato in questi ultimi otto mesi; il fatto che si tratti di una storia di pandemia, quarantena e apocalisse dimostra solo come il sentore di un nulla in attesa, appena al di là di noi, fosse presente a maturare nell'inconscio occidentale già da diverso tempo. La Fine del Mondo è in trending topic, e ci resterà: è lei lo spettro che da un decennio si aggira per il mondo e per il cinema, e che definirà in maniera inalterabile le opere che nei prossimi anni proveranno a confrontarsi con il presente. E' armageddonwave: tutti vogliamo e dobbiamo discutere di un possibile futuro senza umanità, e se una volta solo Mad Max o Wall-e potevano permetterselo, è ora il tema prescelto anche per registi esordienti, con quaranta rubli di budget e un unico protagonista: il Pianeta stesso.

Mom i Befriended Ghosts risponde a tutte queste caratteristiche e, si sarà capito, è un film che parla di Apocalisse. Lo scarto con la trattazione classica sta nella rinuncia ai toni utopici/distopici, alla fantasticheria di nuove società barbariche in futuri post-atomici. Il post-atomico stesso pare un concetto superato; la minaccia oggi non è una grande esplosione ma un'angoscia invisibile, fantasmatica: pestilenze senza nome, stravolgimenti climatici e sociali inarrestabili. Il film dell'esordiente Sasha Voronov taglia fuori il collettivo ed elabora i mutati rapporti del singolo nei confronti di questo mondo “dopo”, svuotato, in cui nessun violento nuovo ordine sta nascendo, ma in una silenziosa e agonizzante ultima Era l'anthropos va ormai perdendo la sua centralità.
I settanta interessanti minuti di Mom i Befriended Ghosts offrono dunque un antipasto di ciò che sarà il nuovo cinema apocalittico dei prossimi anni: visione proibita, ammaliante nel suo orrore, del “world without us”. Panorami inconcepibili, inorganici, dove la Natura stessa, ex madre benevola e fruttifera di un tempo che il film non accarezza più neanche in forma di flashback, è ora una divinità ostile e indifferente, in un presente congelato nell'inferno del ghiaccio eterno. Un inferno in cui si aggira in rassegnato silenzio la protagonista (Alla Mitrofanova): la sua cittadina siberiana è stata quarantenata in seguito al diffondersi di una misteriosa malattia, ed è ora ridotta a un morente feudo in mezzo al nulla sorvegliato da milizie. Fuggita alla ricerca di non si sa bene cosa, il film ne accompagna il vagabondare per i campi in una serie di raggelate sequenze, in un desolato assaggio del nuovo mondo.

Lo svuotamento dell'inquadratura, bianca, grigia, senza neanche il respiro offerto dal campo lungo o dalla panoramica, impone allo spettatore la realtà di una rassegnazione universale, di una fine accettata e metabolizzata. Il messianesimo biblico di un Cuaron e di tante trattazioni simili sembra retaggio di un altro modo di approcciarsi al soggetto. Al termine della civiltà, l'uomo è tornato allo stadio di cavernicolo della steppa, alle ere glaciali; la sua precaria sopravvivenza passa per un percorso a ritroso nella distruzione dei più ancestrali tabù, di fronte alla silenziosa testimonianza dei fantasmi del titolo. Fantasmi non da intendersi come revenant, ritornanti capaci di riverberare sul presente la propria esistenza passata - ma come eco calanti, ormai impercettibili. Il presente storico, il nostro, ha nel film lo stesso valore delle antiche civiltà dimenticate nei miti lovecraftiani. Attore principale, appena “truccato”, è quindi un luogo, la Siberia, confine dell'umano per definizione: e gli spettri del titolo sono anche i suoi relitti urbani sovietici, ridotti a un pugno di  isolate infrastrutture sommerse nel gelo e nella neve, come già la Statua della Libertà sprofondava nella sabbia del Pianeta delle Scimmie di Schaffner. Una spettralità che si esplicita in sequenze a dir poco haunting, e che rimandano il film alla sua matrice tarkovskiana; un aggancio a dei padri nobili che, fossero vivi oggi, non si esimerebbero dall'affrontare questo tipo di narrativa.

Mom i Befriended Ghosts resta più che altro un biglietto da visita, un film in orizzontale, fatto di scene e non di plot: potrebbe durare venti minuti come sette ore o per sempre, accompagnando la protagonista nella sua camminata nel non-mondo potenzialmente all'infinito. Si accontenta di passare appena l'ora di minutaggio, un lavoro in piccolo che rinuncia sportivamente a una magniloquenza che non avrebbe comunque potuto rendere, limitando il suo percorso a quattro-cinque passaggi obbligati. Più che mai vorremmo vederne di più, ma è indubbio che il cinema dell'immediato futuro non ce ne negherà.

Red-Aninsri

Se il gelo dell'anima, i temi dilatati e le visioni notturne sono alla base del russissimo film di Voronov, la scelta di accoppiarvi il caldo, tenero e politico corto thailandese Red Aninsri è un punto in favore della fantasia dei programmatori del TFF. Il film di Ratchapoom Boonbunchachoke è un contorto teorema metaforico sulla falsissima riga dello pseudo-noir complottista alla Rivette (intrighi collettivi riflessi sul triviale privato), carico di “messaggi” su identità sessuale, politica, libertà espressiva, nazionalismo, impegno civile. Una (generica,  ma tant'è...) tesi contro la dittatura in ogni sua forma incastrata su una scarica di idee visive e sonore per metà delle quali molti registi mainstream darebbero un braccio. Trenta minuti, dodici scene; la sezione aurea del cinema sperimentale.

Etichette
Categoria
Sasha Voronov Alla Mitrofanova 73 minuti
Russia 2020
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Family Romance, LLC

di Andrea Giangaspero
Family Romanc LLC - recensione film Herzog

C’è un’agenzia a Tokyo, la Family Romance, che su esplicita richiesta di committenti e in cambio di denaro si occupa di reinterpretare il ruolo di famigliari e conoscenti, defunti o più semplicemente assenti, e lo fa al di là della bontà e della nobiltà delle intenzioni. Non solo, il suo team di performer può cimentarsi a volte anche nella rimessa in scena di un evento, riempiendo in buona sostanza dei buchi; sollazza il riverbero di un ricordo e lo riplasma in una sua ricostruzione più o meno fedele. Potete allora immaginare la fascinazione di Werner Herzog quando ne è venuto a conoscenza grazie all’amico Roc Morin, nonostante le oltre settanta regie a guardare dritto in faccia l’abisso di un vulcano, le profondità oceaniche, la lotta selvaggia tra uomo e grizzly e un’intera nave trasportata sulla sommità di una montagna. Anche qui, la curiosità sembra nascere dall’unicità dell’occasione: attingere nuovamente a piene mani dal dominio dell’inesplorato e dell’inimmaginabile.

È noto che un metodo di modificazione e stilizzazione nel trattamento della materia documentaria in Herzog c’è e funziona sempre, senza che si ripeti sistematicamente secondo stilemi consolidati e innervato, al contrario, degli stimoli sempre nuovi con cui il regista approccia le sue esperienze. Nel caso di Family Romance LLC, uscito negli scorsi mesi in esclusiva per MUBI e presentato alla 72esima edizione del Festival di Cannes, il metodo sa però di una sperimentazione ben più spinta delle precedenti. E non ci riferiamo affatto alla qualità amatoriale e scarsa delle immagini, frutto delle riprese scattose, spesso sovraesposte e "pixellate" di un vecchio IPhone. L’uomo a capo dell’agenzia è davvero quel Ishii Yuichi che Herzog tiene a mettere al centro del proprio film, però la novità sta nello sforzo di trasformare il suo lavoro di performer in un film di finzione, in pratica di inabissare la realtà e stropicciarne i rimasugli nella messa in scena di una messa in scena. Ishii Yuichi è già performer delle vite degli altri, ma ora rimette pure in scena sé stesso e l’intero sistema di menzogne con cui alimenta quelle vite. Herzog non lo fa per mettere l’uomo alla berlina; la sua è una indagine à la loupe sul bisogno di illusioni lenitive dell’individuo alienato nella metropoli giapponese (e, per estensione, dell’umanità), e sul portato della loro fecondità.

In un caso in particolare, Ishii Yuichi rimette in scena un ricordo, il momento in cui una donna ha scoperto di aver vinto una somma milionaria alla lotteria. La ricreazione dell’evento offre un ristoro sicuro che consiste nella riproduzione di un ricordo estatico (per usare un termine caro a Herzog); la vista che si schiude a un imprevisto, un evento fuori misura. Il godimento della donna non sta appunto nella consapevolezza dell’enorme guadagno acquisito, quanto nell’effetto sorpresa che l’attimo della scoperta ha prodotto sul suo sguardo. Sul primo piano della donna sembra riattualizzarsi quell’estasi mediante l’atto performativo, sia pure finzionale. Ma Herzog scarta dalle facili soluzioni, fa un passo ulteriore e si insinua con tenacia su un terreno impervio, quello della doppia riproducibilità degli eventi, dello slittamento tra i piani di verità e finzione che già i grandi autori iraniani, Kiarostami e Makhmalbaf, avevano indagato con esiti enormi. Secondo l’uso di approcci personali, i due registi hanno mosso le loro pedine in un reenactment che problematizza la struttura narrativa mediante dei transfert e dei giochi di ruolo. In Close-up (1990), il fanatico Sabzian finge di essere il regista Makhmalbaf per vivere il sogno del Cinema, e Kiarostami s’impegna a riprodurre più o meno fedelmente gli eventi di questo inganno sfruttando gli stessi protagonisti dello scandalo. In Pane e fiore (1996), Makhmalbaf porta alle estreme conseguenze il reenactment. L’autore ricorda l’episodio in cui da giovane accoltellò un poliziotto: entra nel ruolo di sé stesso nella finzione e decide di ricostruire gli eventi di quel giorno chiedendo a due ragazzi di reinterpretare le versioni di sé e del poliziotto da giovani. In entrambi i casi l’impressione documentaristica e la restituzione di un calco della realtà non funzionano a dovere e si sfaldano, ed entrambi aprono così alla plasticità del reale, alla sua pluridiscorsività, con un impianto di rivolgimenti e slittamenti continui tra i vari piani della finzione. E molto similmente funziona il gioco performativo in Herzog. Interpretando il padre scomparso e mai conosciuto di una ragazzina, Ishii Yuichi cuce interamente su di sé quel ruolo per un tempo prolungato, fino a rivelare una falla nella sua performance, il tabù di un coinvolgimento emotivo che s’insinua e di cui invece non si dovrebbe macchiare. Ishii lo sottolinea alla madre della ragazzina; la sua è una farsa che dura da troppo e che deve troncare per sola necessità, un’impostura coalescente che rischia di corrompere il suo impianto di illusioni consolidate.

herzog family romance

Apparentemente, o comunque solo superficialmente, l’assolvimento metodico di un ruolo che pretende di sostituirsi alla realtà (sia essa da riproporre o da inventare da zero, come nel caso del padre assente nella vita della ragazzina) non può che essere castrato dalla consapevolezza della menzogna. L’unica strada possibile è una scappatoia, azzerare il transfert rivelando alla figlia che il padre è morto. Ma Ishii Yuichi sta già interpretando sé stesso per Herzog, e la difficoltà del suo personaggio in Family Romance, LLC è la sua stessa difficoltà, che fuori dal film già ha provato il dolore della separazione da una figlia non sua. Ishii sta negoziando la sua identità due volte, in quanto sé stesso e in quanto finto padre.
Riprendendo una riflessione di Fabrizio Deriu, la pratica del reenactment non produce un identico, in quanto l’esecuzione performativa coltiva una specifica abilità: conduce l’azione in un margine più o meno ampio che si apre tra il “preordinato” (cioè la partitura, il passato da riprodurre) e il “contingente”, l’occasione irripetibile e unica di ogni singola esecuzione. La riscrittura del passato o la scrittura da zero di un ruolo aprono allo stesso modo questo margine: entrambe rispondono della imprevedibilità della realtà, che sfugge alla volontà di potenza del cinema, e dell’unicità della performance. La solidità di Ishii si rompe alle idiosincrasie di un’identità che vorrebbe ma non può ricoprire, e che, nel tentativo di riprodurla, lo sta spingendo fuori da sé, a un’alterità. Nel margine-soglia della sua messa in scena performativa si apre l’autenticità di un sentimento d’amore per la ragazzina, così autentico da scalzare, nonostante la natura finzionale, la realtà forse anestetizzata dei rapporti invece reali, domestici, con la moglie e i figli. 

L’identità costruita da Ishii non può essere negoziata o confinata, sussiste compresente all’originale. Questo l’uomo lo sa, e in un finale meraviglioso, fermatosi appena all’esterno di una casa che sembrerebbe essere sua, osserva la mano di una bambina contro il vetro della porta d’ingresso. È quella di sua figlia o l’immagine coatta di una bambina che non gli appartiene? Herzog non si pronuncia in alcun chiarimento né tantomeno accenna a una chiusura. Restano solo questo corpo rannicchiato e queste dita che spingono forse per incontrarlo, e per superare il margine-soglia della parete.

Etichette
Categoria
Werner Herzog Ishii Yuichi Mahiro Tanimoto 90 minuti
USA, 2020
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

CINEMA E TEMPO - L'uomo venuto dall'impossibile

di Jacopo Bonanni
l'uomovenutodall'impossibile-recensione

«If you’re lost you can look and you’ll find me, time after time»
Cindy Lauper, Time After Time

«Un giorno gli uomini diranno, guardandosi indietro,
che sono stato il precursore del XX secolo»

Jack the Ripper, From Hell

Nella sua vita, ancora prima di essere un romanziere, H.G Wells è stato un utopista, un inventore di futuri possibili, tanto da preconizzare attraverso le sue opere fenomeni di portate epocale come: il socialismo, le guerre mondiali, i viaggi spaziali e l’emancipazione femminile. Nei panni dei suoi personaggi Wells ha attraversato il passato, a partire dall’età della pietra (Un racconto dell’Età della Pietra), per raggiungere il presente, fino a spingersi verso altri futuri: sia quelli che avevano risolto i penosi problemi della sua epoca (Nei giorni della cometa), sia quelli che avevano fallito (La guerra dell’aria). A bordo della sua creazione più longeva – la macchina del tempo – è andato ed è tornato più volte per narrare ciò che aveva visto; la sua macchina è diventata la matrice stessa, lo strumento e il meccanismo creativo della narrativa che ha contribuito a plasmare: la fantascienza. Per questa ragione il cinema non ha mai smesso di amarlo e se ancora oggi può esplorare le insidie e le meraviglie che si celano tra le pieghe del tempo e dello spazio, può farlo prendendo in prestito le sue intuizioni letterarie.

Ora immaginate cosa accadrebbe se Wells, oltre che scriverne, avesse “realmente” creato un marchingegno in grado di viaggiare nel tempo. Lo utilizzerebbe davvero per conoscere cosa gli riserva il futuro o ne avrebbe timore? E se il suo dispositivo cadesse inavvertitamente nelle mani sbagliate? Sono queste le premesse teoriche da cui parte lo scrittore di best-seller Nicholas Meyer per mettere a punto una delle digressioni cinematografiche più originali e affascinanti, tratte da un’opera di Wells: L’uomo venuto dall’impossibile (Time After Time, 1979). Sulla scia del successo ottenuto dal sul brillante pastiche letterario dedicato a Sherlock Holmes (Sherlock Holmes: Soluzione sette per cento) Meyer esordisce al cinema con un’altra avvincente avventura “d’altri tempi” a base di suspence, adrenalina e romanticismo, che nasconde - tra le righe - un’aspra riflessione sulla duplicità dell’animo umano e sulla natura endemica del male. Protagonista della storia è il visionario romanziere inglese – interpretato da Malcolm McDowell – qui nelle vesti inedite di uno stralunato detective all’inseguimento del serial killer per antonomasia - Jack lo Squartatore (David Warner) - fuggito dal passato per rifugiarsi nel futuro, approfittando delle possibilità tecnologiche offerte dall’ingenuo inventore della macchina del tempo.

Dieci anni dopo il primo adattamento cinematografico di H.G Wells, Meyer dirige quello che oggi definiremmo una sorta di sequel spirtuale o remake alternativo del film culto L’Uomo che visse nel futuro di George Pal del 1960, spostando il focus dell’azione dall’Inghilterra vittoriana di fine ottocento all’America post Watergate dei tardi anni settanta. Infatti è soltanto compiendo un viaggio nel presente che Wells comprende come, attraverso la visione disincantata del regista, il futuro utopico da lui teorizzato in realtà non sia altro che una “terra straniera”: un’epoca fredda e inospitale dove la violenza – spettacolarizzata dai mass-media - è all’ordine del giorno. La società è ormai assuefatta a ogni tipo di sopruso tanto che il serial killer può agire in maniera del tutto indisturbata. Come osserva lo stesso Jack lo Squartatore, quella società non gioca secondo le regole civili ipotizzate da Wells - il cui idealismo è sconfitto in partenza - ma secondo la logica brutale del cinico doppelgänger del protagonista: uno spietato precursore della modernità, che ritroveremo fatalmente in un ruolo analogo anche nel coevo Assassinio su commissione di Bob Clark. Anche in questo caso, come nel film di Pal, sarà soltanto l’amore di una giovane e risoluta donna del futuro - l’attrice Mary Steenburgen - a salvare Wells dall’autocommiserazione, impedendo così alla sua nemesi di perpetrare i suoi crimini ad libitum.

Al di là dell’enfasi sulla meccanizzazione del viaggio nel tempo e le relative implicazioni etiche e morali, per Meyer l’archetipo del viaggio è solo un pretesto, un escamotage narrativo, che utilizza per dare forma e sostanza ai sogni (e agli incubi) del suo tempo. Il suo è un viaggio metaforico al termine dell’utopia che ha caratterizzato gli anni sessanta, un tour delle contraddizioni della sua generazione che ha visto tramontare i grandi ideali di “pace e amore”, travolti dalla guerra del Vietnam, l’assassinio dei Kennedy e quello di Martin Luther King. È un ritratto caustico degli anni settanta camuffato da commedia sci-fi. Non a caso il film è ambientato proprio nella città di S. Francisco nel 1979, quando l’ex capitale mondiale del “flower power” era ormai assurta alle cronache del tempo come “riserva di caccia” del “Killer dello Zodiaco”, le cui azioni riverberano nelle parole e nei gesti del primo predatore seriale della storia moderna. Il film ribadisce l’abilità del regista statunitense nel riuscire a raccontare storie ucroniche sulla base di audaci paradossi temporali, amalgamando con ironia personaggi reali e fittizi, digressioni filosofiche e considerazioni personali. Come per altri autori postmoderni anche per Meyer il tempo è un’illusione al pari del cinema, tanto è vero che il regista non inventa nulla in senso letterale ma preferisce riscrivere, riutilizzare, rivisitare ciò che è stato immaginato da altri. Tutte caratteristiche che emergeranno in seguito anche nei lungometraggi di Star Trek – di cui dirigerà alcuni dei capitoli più apprezzati dai fan della saga – e in modo ancora più evidente nel suo (post)apocalittico film tv The Day After del 1983.

Nominato per il premio Hugo nel 1980 e vincitore di ben tre Saturn Awards (gli Oscar della fantascienza), Time After Time pur senza essere un capolavoro assoluto del suo genere resta – a quarant’anni di distanza dalla sua realizzazione - una pietra miliare per chiunque si approcci alla fantascienza moderna. Il film anticipa e sintetizza di fatto tutti quei meccanismi narrativi e quegli elementi stilistici che, a partire dagli anni ottanta, ritroveremo disseminati in ogni pellicola incentrata sul tema del viaggio nel tempo: da Terminator a Ritorno al Futuro, fino ad arrivare ai giorni nostri. Perché, se è vero che la fortunata trilogia di Zemeckis è debitrice in primis dell’adattamento di George Pal, lo è altrettanto del suo aggiornamento a cura di Meyer, di cui Ritorno al Futuro - soprattutto il terzo capitolo - rielaborerà personaggi, suggestioni e riferimenti.

In particolar modo quella malinconica considerazione finale di H.G Wells al termine del suo viaggio nel futuro, secondo cui: «Ogni epoca è uguale alla precedente, soltanto l’amore le rende più sopportabili!»

Etichette
Categoria
Nicholas Meyer Malcolm McDowell David Warner Mary Steenburgen 108 minuti
USA 1979
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Iscriviti a