Fireball - Messaggeri dalle stelle

di Werner Herzog

Werner Herzog si confronta con il mistero dei meteoriti tramite una forma cinematografica sempre tesa tra la prosa dell'indagine documentaristica e la poetica della meraviglia.

Fireball: messaggeri dalle stelle - recensione film herzog

«"Hi, my name is Jean" sais the simulacrum». È una statua a parlare, quando uno spettro si adagia improvvisamente sul suo volto, mettendo in moto i suoi muscoli, colorandoli di vita. Si tratta di un giochino per turisti, uno spazio a realtà aumentata, che cala nella storia, la fa vivere, all’interno del museo della città di Ensisheim, dove è conservato il meteorite che nel 1492 cadde dal cielo e legittimò le pretese politiche della casata asburgica. In Fireball - Messaggeri dalle stelle Werner Herzog dedica la sua attenzione a questo momento interattivo: alla statua immobile è donata la parola tramite il movimento della luce proiettata. Ma la statua, la cosa, ha assunto un significato grazie alla proiezione digitale o lo possedeva già? La storia di alcuni minatori preoccupati della fine della vita sulla terra, intenti quindi a scavare rifugi entro cui calarsi per un decennio, rivelata dal racconto virtuale, era implicata nella statua, in quel calco di volto, probabilmente inventato, oppure non lo era per niente? Si può dire che la statua nascondeva un senso intellegibile oppure è stata l’interpretazione umana, cioè storica, a infondergliene uno? Questa interpretazione è giustificata oppure è illegittima, una sovra interpretazione, un’illusione? 

Questo confronto con la statua è solo uno dei tanti momenti in cui Herzog legge in controluce la materia della realtà per porre domande su questioni che riguardano l’intellegibilità della natura, il ruolo interpretativo del soggetto rispetto al mondo e alla Storia, la dimensione della sovra interpretazione, e la posizione del cinema in tutto questo. Ovviamente è probabile che il racconto della statua fosse comprovato da fonti accertate, ma il punto non riguarda la statua come oggetto del museo, piuttosto la natura simulacrale, come lo stesso Herzog apostrofa, dell’oggetto: per definizione il simulacro è l’immagine che non rinvia ad alcuna realtà sottogiacente, immagine indipendente dalla realtà, duplicazione imparziale o infedele, falso rappresentante. Nella sua accezione originaria il termine indicava curiosamente l’immagine di una divinità, cioè quanto è dato per assolutamente vero, il centro del senso, il centro della verità. I meteoriti (il titolo inglese “visitors” è più scientifico e ambiguo rispetto al “messaggeri” del titolo italiano, che sembra implicare un senso trasportato) sono oggetti-simulacri per eccellenza e la storia delle loro interpretazioni lo conferma. 

Herzog insegue questa storia, insegue cioè la direzione interpretativa che va dai soggetti umani all’oggetto spaziale - in molte sue forme, dal micro dell’antichissima polvere interstellare al macro dei meteoriti che si incastrano nel ghiaccio antartico – intervistando i soggetti, ricercatori, studiosi, accademici, preti e indigeni. Mentre rimane fissa la domanda sull’intellegibilità della natura, il valore dato all’interpretazione risulta altissimo: forza creatrice o distruttrice in cui si identifica il nostro rapporto con il mondo, motore che guida e salva, genera cultura e progresso o segna fallimento e dimenticanza, producendo anche morte. Mentre alcuni occhi sconosciuti (non computer) interpretano di notte segnali dal cielo per avvertire l’umanità di possibili minacce, l’occhio di vetro di un dinosauro suggerisce la cecità di una civiltà che ha dimenticato, o ignora, l’epicentro di se stessa. Mentre quel giorno del 1492 gli alsaziani hanno letto la caduta di una roccia a Ensisheim come il segno dell’inizio di un nuovo mondo, per il popolo Meriam nello Stretto di Torres il movimento delle stelle rappresenta la transizione di un’anima cara da questo mondo a un altro.

fireball herzog

Nella danza degli abitanti del luogo è riprodotto questo fenomeno: le braci che cadono dalle torce rappresentano la scia della stella, il movimento dei danzatori genera la transizione; la loro interpretazione dell’evento atmosferico fissa il senso tramite ricorsività cultuale, in un circolo di significato dove l’intelligibilità della natura si origina dall’interpretazione e l’interpretazione si origina dall’intelligibilità della natura. Herzog chiude il documentario con l’immagine della danza indigena perché in questo circolo ermeneutico di assoluto presente, senza distorsione storica, in cui l’atto genera la realtà di senso e il senso della realtà produce l’atto, riconosce la congiuntura tra i due termini che, se separati, producono invece il dubbio sulla disponibilità di senso propria della natura e di conseguenza sulla sovra interpretazione della visione del soggetto.

La distanza tra i due termini, soggetto e oggetto, fraintende la natura contestuale della dimensione originaria dell’umano, quella dimensione della metafisica delle origini in cui non esiste il soggetto di matrice moderna ma soltanto uomini meravigliati dall’accadere del mondo che producono una sapienza poetica. La stessa sapienza poetica degli antichi artigiani del tempio di Darb-I-Imam Shrine in Iran, in grado di immaginare 500 anni fa la simmetria quintupla dei quasicristalli, ritenuta impossibile dalla scienza fino alla sua scoperta all’interno di un frammento di meteorite. La distanza indebita tra soggetto e oggetto è quella di un pensiero tecnico dei fatti in cui il soggetto domina con la comprensione gli oggetti, dispone di essi, li conosce come strumenti, mezzi, e così intende gli enti, come strumenti. Ma questa distanza coglie la “verità da contabili” (si legge così nella Dichiarazione del Minnesota del regista) non la verità profonda, la verità poetica, estetica, delle cose, restituita invece da un luogo (la passeggiata antartica del contro-finale) in cui saltano tutte le misure soggettive, le regole dell’inquadratura, le dimensioni umane di dominio, perché si sente la trascendenza che stravolge l’orizzonte umano. Gli scienziati che Herzog intervista non confessano le loro pretese scientifiche ma la loro passione per la meraviglia, sono mossi dal piacere per la poetica della scoperta, e in questa misura non sono diversi dai danzatori indigeni. 

Che ruolo ha il cinema di Herzog rispetto a questo circolo ermeneutico e questa distanza? Il cinema è quello spettro, quel movimento da proiettare sulle cose affinché assumano senso, o è la traccia di una luce interna, è il portare alla luce un segreto nascosto nelle cose? L’immagine documentaria di Herzog non definisce nulla perché non è legata al fatto, per quanto possa sembrare interessata alla didascalia della spiegazione; piuttosto è impegnata in un processo di racconto che cerca di ridimensionare la posizione, l’importanza del soggetto che rappresenta rispetto all’oggetto rappresentato. La dinamica rappresentante-rappresentato è ribaltata da un approccio che ha abbandonato l’idea di intreccio formalizzante e risignificante, in un riconoscimento di debito nei confronti della causa della rappresentazione, cioè l’oggetto. L’immagine di Herzog non è più in competizione con l’immagine dell’evento, è illuminata da esso nella misura in cui riconosce che esso è la causa che la trascende e la legittima. È un linguaggio documentario che lascia parlare le cose, che ascolta le immagini e lascia loro lo spazio dichiarando la loro bellezza, la loro pericolosità, la loro propria ambiguità. La distanza tra soggetto e oggetto è ribaltata così in asimmetria tra individuo e mondo, asimmetria comunque reintegrata nel circolo in cui mondo e individuo si interpellano vicendevolmente. Quando il regista si sente in dovere di scusarsi perché interviene nel mondo rappresentato o commenta che anche la luce di un semplice cellulare può riconoscere la bellezza, confessa la povertà del mezzo rispetto alla ricchezza del mondo per riconoscere il debito e l’asimmetria. D’altra parte, non rinuncia all’interpretazione della realtà quando monta assieme in un intreccio la dispersione delle esperienze.

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La risposta sull’intellegibilità della natura forse è vicina a questo riconoscimento di asimmetria integrata nel circolo dell’interpretazione. Si riconosce che la natura registrata assume connotati misteriosi, non è strettamente intellegibile, ma non nel senso che non porta su di sé alcun senso, bensì nella misura in cui il suo senso sempre si ritrae, malgrado la rappresentazione. La rincorsa al senso è sovra interpretante se non rispetta l’origine stessa del senso, se il polo del soggetto si distingue dall’oggetto, ma questa rincorsa è legittima e fondamentale quando si compie nella tensione della sua incompiutezza costitutiva, come controparte di un processo più ampio. Rispetto alla forma del documentario invece questa asimmetria circolare recupera una dimensione simbolica non arbitraria e linguistica, perché originaria e indistinta dall’esperienza umana, grazie alla quale, paradossalmente anche l’immagine del cinema, o l’immagine in senso lato, torna a essere urgente: fuori dalle regole del linguaggio, l’immagine, o la rappresentazione, non è più una sovra interpretazione, una messa in forma illegittima, ma la traccia, la ferita lasciata aperta dal passaggio dell’invisibile, la roccia lentamente scolpita dal vento, il cristallo che tiene in sé la storia del mondo. L’immagine-simulacro non è più staccata dalla realtà, è suo segno, come le ombre degli esploratori che adombrano il ghiaccio o quelle dei dinosauri fotografate dalla luce un attimo prima dell’impatto.

Autore: Leonardo Strano
Pubblicato il 17/12/2020
USA 2020
Regia: Werner Herzog
Interpreti: Clive Oppenheimer
Durata: 97 minuti

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