Family Romance, LLC

di Werner Herzog

Possono delle emozioni in affitto riempire il vuoto di rapporti reali? Herzog suggerisce risposte interessanti, riflettendo sulla possibilità che il "reenactment" possa restituire una percezione di autenticità maggiore di quella che vuole riprodurre.

Family Romanc LLC - recensione film Herzog

C’è un’agenzia a Tokyo, la Family Romance, che su esplicita richiesta di committenti e in cambio di denaro si occupa di reinterpretare il ruolo di famigliari e conoscenti, defunti o più semplicemente assenti, e lo fa al di là della bontà e della nobiltà delle intenzioni. Non solo, il suo team di performer può cimentarsi a volte anche nella rimessa in scena di un evento, riempiendo in buona sostanza dei buchi; sollazza il riverbero di un ricordo e lo riplasma in una sua ricostruzione più o meno fedele. Potete allora immaginare la fascinazione di Werner Herzog quando ne è venuto a conoscenza grazie all’amico Roc Morin, nonostante le oltre settanta regie a guardare dritto in faccia l’abisso di un vulcano, le profondità oceaniche, la lotta selvaggia tra uomo e grizzly e un’intera nave trasportata sulla sommità di una montagna. Anche qui, la curiosità sembra nascere dall’unicità dell’occasione: attingere nuovamente a piene mani dal dominio dell’inesplorato e dell’inimmaginabile.

È noto che un metodo di modificazione e stilizzazione nel trattamento della materia documentaria in Herzog c’è e funziona sempre, senza che si ripeti sistematicamente secondo stilemi consolidati e innervato, al contrario, degli stimoli sempre nuovi con cui il regista approccia le sue esperienze. Nel caso di Family Romance LLC, uscito negli scorsi mesi in esclusiva per MUBI e presentato alla 72esima edizione del Festival di Cannes, il metodo sa però di una sperimentazione ben più spinta delle precedenti. E non ci riferiamo affatto alla qualità amatoriale e scarsa delle immagini, frutto delle riprese scattose, spesso sovraesposte e "pixellate" di un vecchio IPhone. L’uomo a capo dell’agenzia è davvero quel Ishii Yuichi che Herzog tiene a mettere al centro del proprio film, però la novità sta nello sforzo di trasformare il suo lavoro di performer in un film di finzione, in pratica di inabissare la realtà e stropicciarne i rimasugli nella messa in scena di una messa in scena. Ishii Yuichi è già performer delle vite degli altri, ma ora rimette pure in scena sé stesso e l’intero sistema di menzogne con cui alimenta quelle vite. Herzog non lo fa per mettere l’uomo alla berlina; la sua è una indagine à la loupe sul bisogno di illusioni lenitive dell’individuo alienato nella metropoli giapponese (e, per estensione, dell’umanità), e sul portato della loro fecondità.

In un caso in particolare, Ishii Yuichi rimette in scena un ricordo, il momento in cui una donna ha scoperto di aver vinto una somma milionaria alla lotteria. La ricreazione dell’evento offre un ristoro sicuro che consiste nella riproduzione di un ricordo estatico (per usare un termine caro a Herzog); la vista che si schiude a un imprevisto, un evento fuori misura. Il godimento della donna non sta appunto nella consapevolezza dell’enorme guadagno acquisito, quanto nell’effetto sorpresa che l’attimo della scoperta ha prodotto sul suo sguardo. Sul primo piano della donna sembra riattualizzarsi quell’estasi mediante l’atto performativo, sia pure finzionale. Ma Herzog scarta dalle facili soluzioni, fa un passo ulteriore e si insinua con tenacia su un terreno impervio, quello della doppia riproducibilità degli eventi, dello slittamento tra i piani di verità e finzione che già i grandi autori iraniani, Kiarostami e Makhmalbaf, avevano indagato con esiti enormi. Secondo l’uso di approcci personali, i due registi hanno mosso le loro pedine in un reenactment che problematizza la struttura narrativa mediante dei transfert e dei giochi di ruolo. In Close-up (1990), il fanatico Sabzian finge di essere il regista Makhmalbaf per vivere il sogno del Cinema, e Kiarostami s’impegna a riprodurre più o meno fedelmente gli eventi di questo inganno sfruttando gli stessi protagonisti dello scandalo. In Pane e fiore (1996), Makhmalbaf porta alle estreme conseguenze il reenactment. L’autore ricorda l’episodio in cui da giovane accoltellò un poliziotto: entra nel ruolo di sé stesso nella finzione e decide di ricostruire gli eventi di quel giorno chiedendo a due ragazzi di reinterpretare le versioni di sé e del poliziotto da giovani. In entrambi i casi l’impressione documentaristica e la restituzione di un calco della realtà non funzionano a dovere e si sfaldano, ed entrambi aprono così alla plasticità del reale, alla sua pluridiscorsività, con un impianto di rivolgimenti e slittamenti continui tra i vari piani della finzione. E molto similmente funziona il gioco performativo in Herzog. Interpretando il padre scomparso e mai conosciuto di una ragazzina, Ishii Yuichi cuce interamente su di sé quel ruolo per un tempo prolungato, fino a rivelare una falla nella sua performance, il tabù di un coinvolgimento emotivo che s’insinua e di cui invece non si dovrebbe macchiare. Ishii lo sottolinea alla madre della ragazzina; la sua è una farsa che dura da troppo e che deve troncare per sola necessità, un’impostura coalescente che rischia di corrompere il suo impianto di illusioni consolidate.

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Apparentemente, o comunque solo superficialmente, l’assolvimento metodico di un ruolo che pretende di sostituirsi alla realtà (sia essa da riproporre o da inventare da zero, come nel caso del padre assente nella vita della ragazzina) non può che essere castrato dalla consapevolezza della menzogna. L’unica strada possibile è una scappatoia, azzerare il transfert rivelando alla figlia che il padre è morto. Ma Ishii Yuichi sta già interpretando sé stesso per Herzog, e la difficoltà del suo personaggio in Family Romance, LLC è la sua stessa difficoltà, che fuori dal film già ha provato il dolore della separazione da una figlia non sua. Ishii sta negoziando la sua identità due volte, in quanto sé stesso e in quanto finto padre.
Riprendendo una riflessione di Fabrizio Deriu, la pratica del reenactment non produce un identico, in quanto l’esecuzione performativa coltiva una specifica abilità: conduce l’azione in un margine più o meno ampio che si apre tra il “preordinato” (cioè la partitura, il passato da riprodurre) e il “contingente”, l’occasione irripetibile e unica di ogni singola esecuzione. La riscrittura del passato o la scrittura da zero di un ruolo aprono allo stesso modo questo margine: entrambe rispondono della imprevedibilità della realtà, che sfugge alla volontà di potenza del cinema, e dell’unicità della performance. La solidità di Ishii si rompe alle idiosincrasie di un’identità che vorrebbe ma non può ricoprire, e che, nel tentativo di riprodurla, lo sta spingendo fuori da sé, a un’alterità. Nel margine-soglia della sua messa in scena performativa si apre l’autenticità di un sentimento d’amore per la ragazzina, così autentico da scalzare, nonostante la natura finzionale, la realtà forse anestetizzata dei rapporti invece reali, domestici, con la moglie e i figli. 

L’identità costruita da Ishii non può essere negoziata o confinata, sussiste compresente all’originale. Questo l’uomo lo sa, e in un finale meraviglioso, fermatosi appena all’esterno di una casa che sembrerebbe essere sua, osserva la mano di una bambina contro il vetro della porta d’ingresso. È quella di sua figlia o l’immagine coatta di una bambina che non gli appartiene? Herzog non si pronuncia in alcun chiarimento né tantomeno accenna a una chiusura. Restano solo questo corpo rannicchiato e queste dita che spingono forse per incontrarlo, e per superare il margine-soglia della parete.

Autore: Andrea Giangaspero
Pubblicato il 07/12/2020
USA, 2020
Regia: Werner Herzog
Durata: 90 minuti

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