Speciale MUBI / Un sogno lungo un giorno

di Alberto Libera
Un sogno lungo un giorno  - Speciale Mubi - Point Blank

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Il concetto di «epidemia dell'immaginario» risale a Petrarca e al suo De secreto conflictu curarum mearum, ma è stato ripreso in tempi recenti da Žižek nel suo omonimo saggio. Parliamo di un ordine simbolico, formale e astratto che trascende la realtà ma al contempo ne sovrintende i processi. In altre parole, un «punto fantasmatico» o «corto circuito fantasmatico» (Žižek) che non solo governa il reale ma ne diventa anche il contrappeso critico, la culla di Giuda che ne penetra i complessi meccanismi. In tal senso, potremmo pensare all'iperrealtà dell'immagine cinematografica non tanto come a una reazione all'eccesso di rappresentazione che opacizza la realtà quanto come inevitabile conseguenza  della prepotente emersione della sfera simbolica.

Forse non è un caso che dopo il descensus ad inferos di Apocalypse Now, Francis Ford Coppola realizzi un progetto in apparenza antitetico come Un sogno lungo un giorno. Il prometeico titanismo di Apocalypse Now descriveva, con ineguagliato empito visionario, lo stato allucinatorio-schizofrenico di una realtà sempre più inafferrabile e impossibile da redimere se non attraverso l'archetipo della caduta miltoniana nel «Paradiso perduto» (Kurtz come Satana, Willard come l'omerico Odisseo). Il «piccolo» itinerarium cordis di Un sogno lungo un giorno, invece, riparte proprio da dove finiva il capolavoro precedente. La realtà è ormai diventata una scena fantasmatica. Un luogo immaginario. Uno strumento che si pone a servizio del racconto e non viceversa. Se Apocalypse Now rappresentava hegelianamente la «fine della storia», Un sogno lungo un giorno, che ne costituisce il controtipo negativo, è invece lo «schermo fantasmatico» che si spalanca simbolicamente nel regno della tecnica. Se Apocalypse Now era una sorta di concretizzazione figurativa dell'anti-razionalismo e del sublime romantico, Un sogno lungo un giorno si attesta come chimera iperrealista (per una volta, il titolo italiano introduce un riferimento onirico che non tradisce il senso dell'opera) dove è impossibile riconoscere lo statuto di quanto si vede: illusione, fantasticheria, immaginazione. Protetto, non a caso, dall'involucro del genere più irreale ed escapistico dell'intera storia del cinema hollywoodiano (il musical) e allo stesso tempo ambientato nello scenario che, Baudrillard docet, è diventato ormai epitome della «scomparsa della realtà» (Las Vegas, sorta di «città-simulacro»), il film poggia su una struttura narrativa elementare. Proprio mentre festeggiano il loro quinto anniversario (che cade nel giorno dell'Indipendenza), il meccanico Hank e l'agente di viaggi Frannie litigano e si lasciano. Poco dopo, entrambi incontrano e trascorrono la notte con una persona che sembra la materializzazione del partner perfetto: per Hank è la sinuosa circense Leila, per Frannie il fascinoso cameriere Ray. Tuttavia, il mattino successivo si ritroveranno entrambi di nuovo insieme.

Come si può facilmente dedurre da questa breve esposizione della sinossi, Un sogno lungo un giorno si muove sull'ambiguo crinale che separa «immaginario» e «realtà»: è impossibile scindere i loro rispettivi domini. Leila e Ray sono il parto della mente di Hank e Frannie? Sono una fantasia? Oppure fantasmi che si muovono in un mondo dove la realtà è sempre più distorta e impercettibile? Per raccontare questo scacco percettivo, Coppola crea un mondo illusorio, pienamente artificiale («falso»), estaticamente incapsulato tra le pareti del set. Quest'ultimo non è più semplice contenitore prospettico, ambiente o sfondo, ma diventa spazio di possibilità e disponibilità: il set muta volto e cambia continuamente di segno e significato, è un «mondo a parte», organico (non esistono vuoti, cesure o separazioni) e, al contempo, l'espressione di una «visione del mondo» che orienta lo sguardo. Allo stesso tempo, è luogo di convergenza, punto d'approdo di tutti gli orizzonti immaginari: è il microcosmo al quale i personaggi fanno corrispondere le manifestazioni del proprio mondo interiore. Sbarrati i cancelli del cielo, siamo ora in un territorio che non è solo (ovviamente) lontano dalle utopie neo-hollywoodiane ma anche oltre la retorica postmoderna (ma, in fondo, già heideggeriana) del mondo diventato immagine. Perché qui sussiste un ulteriore passaggio: non solo il mondo è diventato immagine, ma questo ideale «videodrome» crea a sua volta nuovi mondi. Un'ideale prolificazione potenzialmente infinita che non si trova più solo nella mitopoiesi, ancora epico-omerica, delle lucasiane «guerre stellari» (dove la «germogliazione» di mondi è ancora tutta diegetica) ma anche all'interno del principio stesso di ri-figurazione della realtà. Ci troviamo oltre l'immagine elettronica (che pure servì al pionieristico Coppola per previsualizzare molte delle sequenze del film), ovvero un'immagine prodotta attraverso un processo di sintesi che glorifica anzitutto il dispositivo che la produce (si faccia il confronto con il successivo Blade Runner), e già in una prospettiva percettiva in qualche misura «digitale». Se l'immagine elettronica interrogava infatti lo statuto di realtà della rappresentazione e, allo stesso tempo, metteva a nudo la propria natura di manufatto «tecnico» e quindi non naturale, l'immagine digitale crea un nuovo ordine a partire dalla presa di coscienza di questa separazione tra la rappresentazione e l'oggetto rappresentato. L'immagine digitale non s'adegua più al mondo ma produce continuamente nuovi mondi. Non è più solo strumento ma – come perfettamente ha compreso David Lynch – un'ulteriore dimensione di realtà che interagisce con quanto avviene all'interno e al di là dello schermo.

Con un'evidente forzatura, si potrebbe quasi dire che ritrovare Un sogno lungo un giorno all'interno del catalogo streaming digitale di MUBI sia per certi versi un atto di debito revisionismo storico. Quando uscì, il film si rivelò un fragoroso insuccesso, fu disprezzato, sbertucciato o, peggio ancora, avvolto dal manto funebre dell'indifferenza. Certamente, non è mai stato pienamente capito (ammesso che fosse possibile farlo). Ma a quasi quarant'anni dalla sua uscita si può finalmente inquadrarlo nella giusta prospettiva. E leggerlo quindi come il portavoce di un mondo dove tutto (i sentimenti, le emozioni, i sogni, i desideri) è transitorio, fugace, destinato alla rapida obsolescenza. Dove la dimensione del presente sembra non esistere più, persa in un flusso di stimoli, di link, di possibilità. Di mondi. E dove la libertà di scelta diventa vera dichiarazione d'indipendenza.

Categoria
Francis Ford Coppola Frederic Forrest Raul Julia Teri Garr Nastassja Kinski Harry Dean Stanton 100 minuti
Usa, 1982
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Speciale MUBI / Lasciami entrare

di Fiaba Di Martino
Lasciami Entrare - Speciale Mubi - Point Blank

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Lasciami entrare è un film d’amore e come ogni (film d’) amore chiama il sangue, il sogno, la violenza e l’eternità, un ciclo di repliche (del gesto e della sua bellezza), non soltanto perché ogni storia d’amore è una storia che si ripete fantasmaticamente: nel caso specifico di questo splendido film (che ha dodici anni ma non è invecchiato di un giorno, proprio come la sua protagonista…) diretto da Tomas Alfredson, a ogni rewatch è lecita la vertigine di specchiare, nel volto prescelto di Oskar, e in quello butterato e autoimmolatosi di Håkan, la stessa persona, il medesimo ritornante destino. «L’orrore era per l’amore» avrebbe sentenziato la deltoriana Lucille/Jessica Chastain in Crimson Peak. «Un amore mostruoso che ci rende tutti mostri».

Oskar e Håkan (entrambi biondi, tristi, silenziosi) non s’incontrano mai, potrebbero essere l’uno la proiezione dell’altro, passata e futura, [onni]presente perché, dal momento in cui s’innamorano di Eli, non avranno altra vita all’infuori di lei. Ma Oskar e Håkan potrebbero essere anche tutti coloro che sono venuti prima, e tutti coloro che sono venuti dopo, se il pattern seduttivo (inevitabile, per la propria sopravvivenza) di Eli è sempre quello che vediamo attivarsi e poi dipanarsi millimetrico, dall’inizio fino alla fine del film. E se è sempre vero che, come sospirava Junie/Léa Seydoux nel capolavoro di Honoré La belle personne, «non conosci mai davvero chi ami», ogni visione/ritorno a Lasciami entrare, come ogni visione/ritorno d’amore e all’amore, è un movimento viziato dall’ambiguità, dall’inherent vice di un sentimento maledetto come la costrizione all’immortalità, alla bestialità dei succhiasangue. Mi succede ogni volta che ripercorro le immagini di questo mélo horror (esiste connubio più fascinatorio, al cinema, nella narrazione per immagini?). Mi chiedo se la ritrosia di Eli (che «non è una ragazza», né un ragazzo: più un simbolo, una sembianza), i suoi tentativi auto-umanizzanti (la caramella), il suo pericolare arditamente (l’ingresso in casa di Oskar, su insistenza di lui, senza permesso verbale esplicito), il suo abbandono e poi il suo ritorno provvidenziale con salvataggio in extremis del fanciullo con fuga d’amore annessa, non siano parte di un’affinata strategia manipolatoria, di un’arte autoconservativa suo malgrado limata alla perfezione negli anni (e nei secoli dei secoli amen). Dopotutto il cubo di Rubik, il rompicapo supremo (appunto: come l’amore), Eli lo risolve in quattro e quattr’otto. Non è un’ambiguità peregrina: nel romanzo da cui il film è tratto, John Ajvide Lindqvist restringe il margine di dubbio, chiarendo la natura di Håkan (che ha conosciuto Eli in età matura, e nutre per lei un’attrazione problematica), in opposizione a quella di Oskar, e, in un raccontino-epilogo successivo, fa intendere che il ragazzo verrà presto trasformato in un vampiro assurgendo dunque a definitivo compagno di vita/morte per Eli. Alfredson, invece, sull’ambiguità lavora, di ambiguità irrora ciascuna scena che i due condividono. Fin dall’entrata in scena di Oskar, rinchiuso dietro un vetro appannato, mentre la neve cade, come al principio di un sogno. E magari il finale lo è già, un sogno, e anche Oskar, dopo il supplizio in piscina (per mano di un bullo squilibrato e di bulletti spaesati, nella desolazione di figure adulte spettrali), è già morto, anche lui, e solo allora può avvenire, sancirsi l’unione.

Ma l’incantamento principale di Lasciami entrare rimane questo costante indagare, questo mutamento di senso e percezione emozionale che riverbera da immagini sempre uguali, da sguardi impenetrabili eppure – dal nostro esterno – mutevoli. È il bello di un film metamorfico nella sua fissità, che alla fine rileva l’ambiguità tutta in chi guarda: per me, è come la meravigliosa, inarrivabile chiusa di La rosa purpurea del Cairo. Cecilia ha perduto due anime gemelle in una, in un colpo letale di fantasia e realtà. Eppure, tornata in sala, torna a sorridere (accadrà anche a noi?). Lenita dall’inesauribile sogno del cinema, o beffata, irretita nuovamente, ciclicamente, da una finzione-fuga, da un magnifico abbaglio? È salvezza o eterna illusione, per Oskar e Cecilia? Tornando a guardarli, e a cercare nei loro occhi, nelle inquadrature, nel moto visuale di entrambi i film, nel tempo infinito di quello che è stato/è ancora il Lockdown, nello schermo piccolo di tv o pc, che imprigiona e toglie il respiro, che sottrae ampiezza prospettica, e vastità, per l’appunto, sdrucciolevolezza, al mistero, è forse più semplice appannare quei finali di pessimismo, sentirli morse, tenaglie. Oppure, al contrario, potrebbe succedere di intersecarli, nello scandaglio del digressivo archivio MUBI fatto di sottomondi cinematografici, di variabili nascoste e variazioni sul tema a ripetizione, tra Ferrara, Park Chan-wook, Franco, Amirpour, Jarmusch; espanderli, quegli sguardi, scoprirne filamenti, precursori, riflessi. E così, ancora una volta, giocare al gioco bellissimo e terribile dell’amore e del cinema, accogliere un’ibridazione in più, lasciar entrare lo splendore di quell’incertezza.

Categoria
Tomas Alfredson Kåre Hedebrant Lina Leandersson Per Ragnar Henrik Dahl Karin Bergquist 114 minuti
Svezia, 2008
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Speciale MUBI / Between Fences

di Samuel Antichi
Between Fences - Speciale Mubi - Point Blank

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Alla luce del moltiplicarsi di nuove possibilità e modalità di fruizione nell’epoca post-mediale, il cinema documentario, da sempre ai margini del normale circuito di distribuzione in sala, ad eccezione di pochi autori, ha saputo attuare un profondo processo di riconfigurazione e ri-elaborazione dei propri contenuti così come delle modalità di rappresentazione. Il proliferarsi delle piattaforme streaming ha permesso alle produzioni documentarie, tendenzialmente relegate esclusivamente a una fruizione festivaliera, di intercettare un vastissimo pubblico potenziale. I due colossi, Netflix e Amazon, negli ultimissimi anni, hanno investito molto nelle produzioni documentaristiche, così come nelle docu-series, in particolar modo attinenti a temi legati all’attualità, questioni chiave del nostro tempo, trasformazioni socio-politiche, economiche e climatiche, coniugando racconto cinematografico e ricerca scientifica. La forma documentaria è diventata infatti imprescindibile anche per il giornalismo d’inchiesta, proponendo una ri-lettura della contemporaneità, molto spesso contro corrente rispetto alla visione e all’approccio privilegiati dai mezzi d’informazione di massa tradizionali, nonostante anche queste produzioni, legate inevitabilmente a un mittente, siano mosse da un intento propagandistico, attraverso una trasfigurazione strumentalizzata e sensazionalistica della realtà (si pensi ad esempio ai documentari che mostrano teatri di guerra come quello siriano o che cercano di evidenziare luci e ombre di figure politiche).
In controtendenza a determinate produzioni, che potremmo definire mainstream, a carattere più o meno informativo, MUBI promuove una riflessione intorno alle nuove forme, sperimentazioni, ibridismi, video-saggi, attraverso un corpus di opere che ri-mette in discussione la natura ontologica del cinema documentario, che ha sempre avuto uno spazio importante all’interno della piattaforma. Oltre alle retrospettive proposte, dal documentario scientifico di Jean Painlevé alla riflessione sulle forme del paesaggio e dell’urbanizzazione proposta da Heinz Emigholz, o alla revisione critica della storia a partire dalle immagini d’archivio di Sergei Loznitsa, all’interno del catalogo hanno trovato spazio anche le opere di Avi Mograbi, regista israeliano che nel corso della sua carriera ha cercato di investigare le molteplici contraddizioni che segnano il suo paese, un luogo estremamente diviso e divisivo in cui è difficile far cadere le barriere che lo accerchiano.

Il conflitto arabo-israeliano, da sempre il centro nevralgico da cui partono le riflessioni dell’autore, si arricchisce nell’ultimo film, Between Fences, di nuovi protagonisti. Mograbi decide di focalizzare infatti l’attenzione sul confine israelo-egiziano, attraversato ogni anno da migliaia di richiedenti asilo provenienti dall’Africa. All’origine del film c’è un laboratorio teatrale condotto dal regista Chen Alon con alcuni rifugiati ospitati nel centro di Holot, gestito dal Servizio Carcerario Israeliano, situato nel cuore del deserto del Negev. La struttura, aperta nel 2013 e chiusa nel 2018, in realtà risulta essere un vero e proprio centro di detenzione in cui vengono incarcerati i richiedenti asilo, provenienti principalmente dal Sudan e dall’Eritrea, prima di venir rimpatriati. Mograbi e Alon incontrano alcuni dei migranti, costretti a rimanere in questa sorte di limbo per mesi con la speranza di venir regolarizzati. I due registi si interrogano sulla dura realtà quotidiana a cui sono costretti gli “ospiti” del centro, le difficoltà che hanno nel processo di integrazione, all’interno di una nazione costituitasi proprio a partire da un fenomeno migratorio a seguito di genocidi e persecuzioni. È possibile condividere e far rivivere un certo tipo di esperienza, trasformando la recitazione in forma di testimonianza?

A partire da questo quesito, il film riflette sulla pratica del reenactment, ovvero una ricreazione di «actual people or events» (Winston, 1999, p. 163), una “fantasmatica” riconfigurazione storiografica audiovisiva (Nichols, 2008), come modalità di figurazione dell’esperienza traumatica. Il reenactment continua a mantenere un legame non tra quello che avviene davanti alla macchina da presa ma per la macchina da presa. Lo spazio diventa un palcoscenico. L’intento non è quello di raggiungere un determinato grado di verosimiglianza, quanto di mettere in scena una performance che ovviamente si discosta e si distingue rispetto all’evento passato ma che esplora il modo in cui questo agisce ancora sul presente e sulle memorie collettive e personali. Se da una parte il reenactment di un evento cerca di ricostruire il racconto del passato e l’ambientazione in maniera più attinente possibile al referente storico, reenactment as event assume la funzione epistemologica e storiografica nella creazione di un evento, prevedendo un processo formativo che riguarda «la dinamica tra l’atto performativo e l’atto di filmare come costitutivo e affettivo incontro in uno spazio e tempo condiviso» (Jasen, 2011, p. 65). 
I richiedenti asilo assumono il ruolo di reenactors, nel momento in cui recuperano, ripetono le azioni, i gesti i movimenti che hanno segnato la propria esperienza. Queste tracce traumatiche assumono funzione di coordinate anamnesiche, memory triggers che cercano di far rivivere un certo tipo di esperienza allo spettatore nella dimensione presente. A emergere dunque è una memoria traumatica corporale, il corpo diventa strumento per re-interpretare il passato. Le stesse vittime ri-performano i gesti dei torturatori e dei loro carcerieri, dando indicazione, spiegando nei dettagli le privazioni a cui erano stati sottoposti. Occupando una posizione differente, un ruolo opposto nell’universo finzionale cinematografico, i sopravvissuti vivono l’esperienza traumatica attraverso una nuova prospettiva, similarmente a quanto avveniva anche in Ghost Hunting (2017) di Raed Andoni. La ripetizione del gesto, attraverso la testimonianza, intesa come atto linguistico performativo, avviene all’interno di un luogo spoglio, un magazzino poco fuori il centro di detenzione, che diventa teatro di posa. I migranti ri-mettono in scena le esperienze passate, i soprusi e le violenze che hanno segnato il proprio percorso fino a quel momento.

La ripetizione dei gesti e delle azioni non si ripresenta attraverso un atto compulsivo (acting out), ma promuovendo un esercizio consapevole per favorire un processo di rielaborazione cognitiva del trauma (working through), così come di restituzione di una coscienza post-traumatica, formando una contro-narrazione che riflette sulle modalità di costruzione, rappresentazione e attualizzazione del ricordo.

 

- S. Jasen, Reenactment as Event in Contemporary Cinema, Phd thesis, Cultural Mediations, Carleton, University Ottawa, 2011.
- B. Winston, Honest, Straightforward Re-enactment: The Staging of Reality, in K. Bakker (a cura di), Joris Ivens and the Documentary Context, Amsterdam, Amsterdam University Press, 1999, pp. 161-70.
- B. Nichols, Documentary Reenactment and the Fantasmatic Subject, «Critical Inquiry», vol. 35, 2008, pp. 72-89.

Categoria
Avi Mograbi 85 minuti
Israele, Francia, 2016
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Speciale MUBI / La signora della porta accanto

di Andrea Pirruccio
La signora della porta accanto - Speciale Mubi

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Durante i mesi del Lockdown, il mio tempo ha talmente cambiato forma che stentavo a riconoscerlo. Alla routine dei cinque giorni lavorativi si è sostituita una ronde imprevedibile fatta di ferie obbligate e cassa integrazione, con il risultato che quando non lavoravo dodici ore al giorno, ne trascorrevo altrettante a guardare film. Eppure, nonostante l'offerta monstre di piattaforme vecchie e nuove (o proprio a causa di questa sovrabbondanza un po' asfissiante), in streaming non ho guardato nulla o quasi. Non è stato un calcolo né una scelta consapevole. Semplicemente, davanti a tutto questo ben di dio a portata di mano, io ho scelto l'oggetto fisico. Mosso da una specie di frenesia, ho comprato molti più blu-ray del solito, mentre l'intero processo correlato all'ordine ha assunto un aspetto rituale: dalla sofferta selezione dei titoli al refresh sul sito del corriere di turno per vedere quanta strada avesse già percorso il pacco e quanta ancora gliene restava da compiere, dalla voce benedetta del postino al citofono che ordinava di scendere al frenetico processo dell'unboxing, sorta di macchina del tempo tarata su natali di oltre  trent'anni fa. Pur non essendo un truffautiano (è grave, lo so), uno dei pochissimi film visti su piattaforma (MUBI) durante i giorni della clausura è stato La signora della porta accanto. Mi è venuta voglia di rivederlo perché l'ho sempre amato, perché trovo Depardieu uno degli attori più straordinari di ogni epoca e poi perché lo ricollego ogni volta a un fenomeno che io chiamo 'la maledizione del cinefilo', e che obbliga il suddetto cinefilo a consigliare titoli a bruciapelo anche a persone sconosciute o appena conosciute. Una responsabilità che ho sempre sofferto molto, perché mi dispiace l'idea di deludere le persone.

Così il film di François Truffaut lo associo, nella memoria, a un pomeriggio del mio periodo universitario torinese, quando la mamma in visita di un coinquilino, spulciando tra una pila di VHS, chiese quale avrebbe potuto guardare, facendo convergere inevitabilmente su di me gli sguardi dei presenti. Non ricordo perché scelsi proprio quello. A dirla tutta, non ricordo più neppure se la mamma lo apprezzò o meno. Quello che non dimenticherò mai è che accusai così tanto il peso di quella scelta che mi sentii quasi obbligato a rivederlo insieme a lei, cercando di interpretarne silenzi, gesti e perfino spostamenti minimi sulla poltrona. Credo che arrivai a fine visione stremato dalla tensione. Probabile allora che mi sia venuta voglia di vederlo ancora una volta per scioglierlo dal ricordo di quell'esperienza vagamente snervante. La femme d'à côté, visto sulla più cinefila delle piattaforme, è esattamente il mélo ferale che ricordavo; sin dall'incipit, con le sirene della polizia che squarciano il silenzio dell'alba di Grenoble per raggiungere il luogo in cui sono stati trovati i cadaveri dei due amanti. Ma oltre alla storia d'amor fou e ai topoi da melodramma che Truffaut padroneggiava da maestro (l'inesorabilità del fato è sottolineata dalle dissolvenze al nero che chiudono quasi ogni sequenza), quello che non avevo mai capito è quanto La signora della porta accanto sia anche un lucidissimo, quasi teorico affaire de femmes, per citare un magnifico Chabrol di qualche anno successivo: il racconto di una doppia disillusione amorosa, quella patita da due donne che si dispongono ad amare senza riserve ma si imbattono in uomini che di quell'amore riescono a decifrare – e di conseguenza a ricambiare – solo la superficie.

L'impossibile storia d'amore di Mathilde (Fanny Ardant) – che per un gioco del caso si ritrova a essere la nuova vicina di casa di Bernard (Gérard Depardieu), l'uomo di cui era disperatamente innamorata anni prima – riverbera infatti quella di madame Jouve, la narratrice del film, che in gioventù, abbandonata dall'uomo che avrebbe dovuto sposarla, aveva tentato il suicidio azzoppandosi per la vita. La comprensione tra le due donne scatta immediata e reciproca. Al loro primo incontro Odile Jouve, smentendo la definizione sprezzante con cui Bernard aveva cercato di ingabbiarla pochi giorni prima, dirà a Mathilde di non trovarla affatto complicata. Perché le donne del film non si fanno definire da formule banali, e le loro decisioni non meritano spiegazioni mediocri. Lo dice tra le righe Mathilde a Philippe, suo marito, il quale sostiene che madame Jouve abbia rifiutato l'incontro con l'uomo che l'aveva abbandonata vent'anni prima per non mostrarsi invecchiata. Il vero motivo del rifiuto di Odile – non mostrare a quell'uomo il proprio handicap per non lasciar trapelare quanto quel vecchio amore avesse rappresentato per lei, letteralmente, una questione di vita o di morte – non lo sfiora neppure. «Madame Jouve è una donna straordinaria, ma gli uomini non l'hanno mai capita», gli dice la moglie, provocandone la capitolazione senza condizioni: «Non l'avevo capita neanch'io. Gli uomini non capiscono nulla dell'amore, siamo solo dilettanti. Io ti amo Mathilde, ma non ti capisco». Come in fondo non la capisce neanche Bernard, e la sua plateale scenata pubblica davanti alla notizia che l'amante partirà per la breve luna di miele che non si era mai concessa, è più la manifestazione infantile di una volontà di possesso che un indizio d'amore. Non è un caso se, dopo essere stato perdonato dalla moglie e averne scoperto la gravidanza, Bernard scelga di tornare in famiglia, il luogo dove tutto è facilmente riconoscibile e dove i ruoli sono definiti con rassicurante chiarezza. Come non è un caso che sia Mathilde ad ammalarsi, a rifiutare il cibo fino al ricovero, a finire in cura da uno psichiatra che, esattamente come gli altri uomini, non la ascolterà. E non è un caso, infine, se sia di Mathilde la scelta di chiudere per sempre, e nell'unico modo per lei concepibile, la storia con Bernard, generando un'ulteriore eco con le passate vicende di Madame Jouve. A quest'ultima spetta, doverosamente, il compito di commentare nel finale la sorte dei due amanti: «Se dovessi scegliere una frase da incidere sulle loro tombe, sarebbe 'né con te né senza di te'. Ma nessuno ha chiesto la mia opinione». Una donna inascoltata, ancora una volta.

Categoria
Francois Truffaut Henri Garcin Fanny Ardant Gérard Depardieu Roger Van Hool Veronique Silver 106 minuti
Francia, 1981
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Speciale MUBI / Hiroshima mon amour

di Veronica Vituzzi
hiroshima mon amour recensione film

Due corpi abbracciati sotto una pioggia atomica. A hard rain’s gonna fall: la fine del mondo sta per arrivare, ma non c’è da allarmarsi, perché il mondo è già finito una volta, e finirà ancora. Siamo nel 1959, 14 anni prima si concludeva la Seconda guerra mondiale lasciandosi alle spalle milioni di morti tra civili e soldati, i campi di concentramenti e poi quel giorno di agosto in cui sulla terra hanno fatto 10000 gradi in un secondo, 80000 morti in un secondo, una città, Hiroshima, spazzata via. Qualche giorno dopo, un’altra città polverizzata. Il mondo era finito, o meglio, sembrava finito, ma poi è tutto ricominciato daccapo, la vita, le persone, le gioie e i dolori, perfino la bomba atomica è ricominciata e anzi il pericolo di una catastrofe atomica sarebbe pesato sulla testa di chiunque per altri 40 anni.  Ancora oggi sembra ancora di stare costantemente sull’orlo della fine: il riscaldamento globale, le pandemie, un sistema sociale al collasso. Pare che negli ultimi cento anni l’umanità non abbia fatto altro che confrontarsi con la possibilità che tutto venga distrutto per sempre e che la nostra razza scompaia dalla terra, eppure questo non ha fermato l’incessante mulinello dell’esistenza nelle sue piccole e grandi storie, non ha impedito una sopravvivenza ostinata, lucida e ottusa, basata sulle due forze opposte e potenti del ricordo e dell’oblio.

Ed ecco allora, Hiroshima Mon Amour, e questi due corpi stretti, incuranti della costante minaccia mortale, un uomo giapponese (Eiji Okada) e una donna francese (Emmanuelle Riva) che si sono incontrati nell’ex città distrutta e devastata di Hiroshima, si sono visti e si sono amati al primo sguardo. Sembrerebbe un’avventura clandestina come ne capitano ogni giorno, e difatti la donna deve già tornare a Parigi il giorno dopo, ma bastano 24 ore per fare di questo incontro fortuito un episodio fondamentale per la vita di entrambi. Come durante una terapia psicanalitica esce fuori un nome, Nevers, quasi un lapsus nella conversazione, il sintomo di uno spazio mentale che ha preso il posto di quello fisico. La donna non pensa mai a Nevers, dove è nata e ha vissuto la sua giovinezza: ma lo sogna molto spesso. Pian piano, come accade solo nelle sedute con lo psicologo e nei dialoghi più intimi con le persone fidate, la donna quasi in trance torna indietro a quel passato che è stato per moltissimo tempo un presente doloroso e ricorda l’evento che le ha cambiato la vita e ha iniziato a renderla la persona che è tuttora: la perdita del primo grande amore, proibito e immenso, per un soldato tedesco durante l’occupazione in Francia, col conseguente collasso mentale della ragazza, già brutalizzata e rasata a zero dai suoi compaesani per il tradimento commesso contro la patria. Con la perdita di quell’amore la ragazza vive la sua personale fine del mondo; il giorno in cui finalmente lascerà la casa familiare per sempre, gli abitanti di Hiroshima vivranno la loro personale apocalisse.

La devastazione che può provocare la fine di un amore, e quella provocata da un genocidio nucleare: sorvolando sulle diverse proporzioni, il concetto è il medesimo, come le questioni che avanza. Nel 1956 Alain Resnais aveva girato Notte e nebbia documentando l’orrore dei campi di concentramento nazisti, di modo che moltissime persone, che non ne sapevano nulla o ne avevano solo sentito parlare, poterono vedere coi loro occhi le tremende immagini dei cadaveri, dei sopravvissuti disumanizzati. Allora l’urgenza morale era quella di vedere, vedere per conoscere e ricordare, ma quando a Resnais venne proposto un progetto simile sul disastro atomico di Hiroshima il regista francese si oppone ed elaborò a sua volta una storia di finzione la cui sceneggiatura fu affidata alla scrittrice francese Marguerite Duras. L’episodio di Hiroshima divenne una parte in un discorso più ampio, che concerneva le universali esigenze, uguali e contrarie, del ricordo e della dimenticanza.

resnais recensione film

La donna vuole ricordare Hiroshima, vuole con tutte le sue forze sapere, conoscere, partecipare a un evento che non ha vissuto. Snocciola tutto ciò che ha visto e imparato, l’ospedale, il museo, le foto, i resti, i cinegiornali, per quanto nulla sia comparabile all’esperienza reale (tu non hai visto nulla a Hiroshima, le risponde l’uomo). D’altra parte il ricordo di Hiroshima si concretizza in questo niente materiale, perché tutto è stato spazzato via, e ciò che è rimasto è qualcosa di nuovo, di altro, disumano, mostruoso, i corpi deformi dei sopravvissuti e dei figli dei sopravvissuti. A noi spettatori poi, non rimangono altro che le immagini, immagini bidimensionali, immagini di immagini, la copia sbiadita e piatta di una tragedia umana. Del passato rimane sempre quest’altro che è cosa nuova (immagini, lampi, echi) rispetto al passato stesso. Anche il cinema talvolta è un figlio bastardo del passato. La tentata immedesimazione nelle disgrazie altrui è fallace e fallimentare, ma è tutto ciò che rimane a chi ha solo il compito di ricordare: sarà poi lo stesso amante giapponese, quando la donna racconterà la propria storia, a immedesimarsi nel soldato tedesco, parlandole in sua vece, pallida ombra rievocata in un corpo altrui. C’è qualcosa di profondamente erotico e romantico in questo dialogo fra due persone, una che ascolta e una che parla, che rivivono insieme il trauma di una catastrofe singola e collettiva, e anzi si cede volentieri al sospetto che questo rivelarsi dei personaggi non sia in qualche modo simile all’esperienza della scrittura, proprio perché poi sarà la stessa  Marguerite Duras a ripetere l’atto in prima persona, raccontando ai propri lettori ne L’amante (1984) la storia di un altro amore proibito, quello fra lei adolescente e un facoltoso uomo giapponese in Indocina nel 1929.

L’iperbole assurda della bomba atomica si adatta bene all’iperbole melodrammatica della storia di un amore perduto. In fondo, tutti noi abbiamo vissuto queste catastrofi personali, talvolta simili a vere e proprie devastazioni dello spirito, macerie su cui si è dovuto ricostruire lo spazio mentale della propria esistenza. Un lutto, un abbandono, un esaurimento nervoso, il passato cristallizzato che affiora sotto forma di bagliori di memoria, un antico presente che nelle pieghe nascoste della coscienza continua ad accadere e accadere senza sosta.  D’altra parte l’emozione della gioia, come del dolore, ha la qualità di invadere il tempo e lo spazio, ammantata del gusto di un eterno qui ed ora che nella sua assoluta novità seppellisce tutto ciò che vi era prima. Ogni idea del domani è solo una suggestione dell’adesso. Tu mi piaci. Che avvenimento. Tu mi piaci.  Che languore all’improvviso. Che dolcezza. Tu non puoi sapere. Un’emozione che a viverla, vien da dedicarcisi tutta la vita e costruire templi e altari per farne una divinità, e invece poi bisogna staccarsene in gran parte per continuare a vivere altre esperienze che abbiano ancora il sapore di un nuovo adesso.

In Hiroshima mon amour i ricordi del passato sono sequenze mute, dove i personaggi non parlano, brevi momenti sconnessi da collegare mentalmente, così come scorrono nella memoria. Sono frammenti di un insieme che è già perduto, pezzi di un puzzle impossibile da ricomporre integralmente, perché il ricordo è una missione impossibile, che perde di continuo parti del suo essere. Ti dimenticherò, ti sto già dimenticando, urla Emmanuelle Riva, in una finale rassegnazione a questo problema irrisolvibile: dobbiamo ricordare perché le cose vissute mantengano il loro senso e il loro valore, ma dobbiamo dimenticare perché altrimenti non si può sopravvivere, andare avanti, ricominciare. Non c’è soluzione. Il passato rimane, ma sempre in un modo diverso da quel ci si aspetterebbe. Muore, perché il presente non può mai rivivere, ma lascia un cadavere vitale di immagini, suoni, sapori, percezioni che compongono i luoghi che abitiamo nella nostra mente, posti che pur senza riconoscerli, non cessiamo di visitare ogni giorno della nostra vita. Il tuo nome è Hiroshima. Sì, e il tuo nome è Nevers, Nevers in Francia.

Categoria
Alain Resnais Emmanuelle Riva Eiji Okada 90 minuti
Francia, Giappone 1959
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Speciale MUBI / È difficile essere un dio

di Alessandro Gaudiano
È difficile essere un dio - recensione film German

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Aleksei German è refrattario al piccolo schermo. O almeno, così dovrebbe essere: il cuore pulsante del cinema di German sembra richiamare la sala cinematografica, lo schermo larger than life che avvolge e soverchia i sensi. Rivedere un film come È difficile essere un dio in streaming tramite la piattaforma MUBI comporta, necessariamente, una metamorfosi e una riflessione.

È difficile essere un dio è un'esperienza sensoriale, prima e sopra tutto il resto. Ambientato sul lontano pianeta Arkanar, avvolto in un medioevo perenne e impantanato in un'epoca oscura e ricoperta di stracci, il film avvolge lo spettatore e gli interpreti in una sfera percettiva soffocante, umida, disperante. Una premessa fantascientifica volutamente esile, mero pretesto per calare uno sguardo severo e tragico, memore del cinema di Sokurov e Zulawski, su uomini deboli e bestiali che annaspano in una formicaio privo di colori.

L'ultimo film di Aleksei German, uscito postumo nel 2013, è l'esempio più risoluto di un cinema che si risolve nella costruzione di un mondo, in senso letterale e figurato: in questo caso, è un mondo a cui sembra mancare la ragione. Manca la ragione per la fioritura di qualsiasi bellezza o arte, così come manca la ragione per andare avanti: il protagonista di questo film quasi privo di storia è stato inviato su questo pianeta per studiarlo e favorirne lo sviluppo, ma non può intervenire in modo diretto per migliorarne le condizioni o influenzarne gli eventi. Come un intellettuale impotente di fronte allo srotolarsi della storia, un Angelus Novus febbrile e stanco.

Il punto di questa non-storia sta, naturalmente, nel suo proprio vuoto: nella mancanza di una Storia, in un "semplice" passare del tempo che genera piccoli eventi, litigi, atti di violenza e piccoli movimenti senza significato per chi li sta vivendo in quel preciso momento. Il linguaggio visivo di German scioglie la sceneggiatura in un assalto percettivo fatto di lunghe inquadrature che si posano su una umanità piegata, deforme, ubriaca, imbestialita che, a suo modo, sopravvive. Spesso, i volti occupano buona parte dello spazio dell'immagine – ricordo a me stesso che, al cinema, quel volto sarebbe lungo cinque o dieci metri – e permane la sensazione di essere circondati da altre persone e altri corpi, dietro e a lato della messa in scena.

Dove mancano le persone, di solito troviamo nebbia, pioggia, fango o escrementi. Un'immagine satura, densa: se non fosse ridicolo, si direbbe un'immagine bagnata. È difficile essere un dio parla di molte cose, non ultima la condizione degli intellettuali e l'enigma del potere, ma sembra che il vero obiettivo di German fosse distillare un'immagine debordante, che si ripiega sulla macchina da presa stessa, il vero dio della sua opera: balletto meccanico che danza tra le miserie del mondo, vi si immerge e trionfa sul caos della vita.

Come sopravvive questa immagine-mito, nell'epoca degli schermi piccoli o tascabili? Nel tentativo di rispondere a questa domanda, è sembrato chiaro che la questione fosse mal posta. Ovviamente, È difficile essere un dio diventa qualcosa di diverso: un serbatoio di immaginario che evoca mondi possibili, in una sorta di paradossale mise en abyme del cinema stesso. Le sue immagini spingono per irrompere oltre i confini dello schermo, richiamano la sala e anche qualcosa di più: cinema possibili e mai nati, o già sepolti perché inconcepibili nel panorama produttivo e distributivo di oggi.

Il cinema di German sembra proprio questo: un oggetto inqualificabile e alieno (in questo senso, è vera fantascieza), frutto di persistenza e di una visione quanto mai nitida. Un oggetto che è stato chiamato ad esistere oltre ogni plausibilità economica e artistica. Rivedere queste immagini è oggi un esercizio di modestia e di consapevolezza, è riconoscere la facilità con cui dimentichiamo la forza delle immagini e la loro pervasività nelle nostre vite. Fuori da ogni formato, oltre ogni cornice.

Categoria
Aleksej Jurevič German Aleksandr Chutko Aleksandr Ilyin Laura Lauri 170 minuti
Russia 2013
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Sono innamorato di Pippa Bacca

di Arianna Pagliara
Sono innamorato di Pippa bacca recensione

Anche il primo documentario di Simone Manetti – già affermato montatore cinematografico - era una storia femminile sui generis, quella di una modella italiana che dopo una grande delusione d’amore fugge in Thailandia per diventare pluricampionessa di Thai Boxe (Goodbye Darling, I'm Off to Fight, 2016). 
Al suo secondo lungometraggio, Sono innamorato di Pippa Bacca, il regista sceglie una protagonista in grado fin da subito di catalizzare l’attenzione: perché Pippa Bacca è esuberante, radicale, coraggiosa, naïve e insieme tremendamente seria e determinata nella volontà di portare avanti il suo gesto performativo, per molti versi estremo, nel totale rispetto dell’idea ispiratrice. La certezza che offrendo fiducia  non si può che essere ricambiati con altrettanta generosità. E questa totale “apertura” verso l’umanità non è teorica ma reale, pratica senza se e senza ma.  I compromessi, dunque, non esistono.
Lo sottolinea Silvia Moro, l’artista che assieme a lei decise, nel 2008, di dare vita al progetto “Brides on Tour”: due spose in autostop attraverso undici paesi devastati dalla guerra, per portare un messaggio di pace da Milano a Gerusalemme. Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Bulgaria, Turchia, Libano, Siria, Egitto, Giordania, Israele.
I vestiti, realizzati per l’occasione, che sono essi stessi oggetto d’arte dove si stratificano simboli sopra il loro essere già simbolo, di purezza e di fertilità. Le scarpe dai tacchi pericolosamente alti, a ribadire la differenza del cammino femminile, (quello delle artiste verso una difficile  meta ma anche  quello femminile tout-court) che nonostante le difficoltà procede paziente senza scoraggiarsi giorno dopo giorno.

Manetti non vuole insistere, a ragione, sulla fine tragica di questo viaggio, che pure pesa idealmente fin dalla prima inquadratura, un a posteriori monolitico, indigeribile, che rende la performance artistica in sé un paradosso in essere. Cosa fare della consapevolezza di questo termine? Un megafono per amplificare la voce della Bacca, la sua missiva di pace e non-violenza – a quanto pare mai scontata, sempre e per sempre da ribadire? Un’occasione, l’ennesima, per riaffermare l’urgenza e l’attualità di questo messaggio? Oppure un monito da subire, un confronto/scontro con una realtà beffarda quanto immutabile, a suggerire la necessità di una presa di coscienza della nostra fallibilità? 
La sfida lanciata dalla Bacca, se riletta alla luce del suo epilogo terribile, solleva inevitabilmente questioni che trascendono l’atto performativo in sé, o forse, sarebbe meglio dire, gli restituiscono definitivamente senso, poiché su un piano – di nuovo – simbolico – alla pace e alla vita, al femminile insomma, viene opposta una violenza (maschile) che non è solo astratta e ideale (le tracce della guerra nei paesi attraversati) ma concreta e specifica (l’assassino della Bacca ha un nome e un cognome).

Lo sguardo del regista non può che arrestarsi di fronte a questi interrogativi che non possono che restare sospesi; preferisce, giustamente, ripartire dal prima per spiegare il dopo, offrendo allo spettatore tasselli preziosissimi per comporre il ritratto vivido e luminoso di una donna che non ha fatto altro se non traslare nella pratica del quotidiano quella che è, in fondo, una filosofia di vita: nessun atto provocatorio, nessuna sterile o arrogante volontà di autoaffermazione fine a se stessa, ma semplicemente il bisogno emotivo, forse etico, prima ancora che artistico, di mostrare (non dimostrare) che l’amore è possibile. In che modo? Compiendo quello che, lungi dall’essere un’avventura frutto di un capriccio imprudente, era un viaggio organizzato con meticolosa attenzione, e le cui tappe prevedevano una serie di azioni performative, filmate dalle stesse protagoniste, pensate per onorare un certo senso, un certo modo dell’essere donna: collezionando sul proprio abito ricami di artigiane locali (Silvia) oppure offrendo alle ostetriche incontrate lungo il cammino una lavanda dei piedi, l’atto cristologico per eccellenza (Pippa). Rituali che (ri)acquistano senso e forza all’interno della corposa e strutturata operazione concettuale delle due performer, punto d’arrivo, in un certo senso, di un percorso artistico maturato nel corso degli anni.

A parlare, nel film, sono soprattutto la madre e le sorelle di Pippa, un piccolo esercito tutto al femminile, fortemente coeso, che raccontano un altro modo di vivere le estati e l’infanzia: su un vecchio furgone in giro per il mondo, e poi a piedi, ininterrottamente, lungo il cammino di Santiago e oltre, e infine – come avrebbe poi scelto di fare la protagonista - in autostop. In questo senso l’operazione di Manetti è cruciale: perché restituisce all’evento il suo contesto, tracciando così la strada, attraverso ricordi e testimonianze, che ha portato Giuseppina Pasqualino di Marineo a diventare la straordinaria Pippa Bacca.

Categoria
Simone Manetti 76 minuti
Italia, 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Speciale MUBI / Un couteau dans le cœur

di Elvira Del Guercio
recensione film un couteau dans le coeur Gonzales

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

La scoperta del cinema di Yann Gonzalez ha coinciso con un periodo particolare della mia formazione: l’avvicinamento a un pensiero politico che riguarda il modo in cui oggi siamo portati a ripensare il valore dell’identità, del corpo, dei nodi intricati della sessualità. Ho guardato alle corrispondenze semantiche. Al respiro universale di certe cose che leggevo in saggi accademici o romanzi e a come riuscissero a riguardare in maniera così chiara anche il mio stare al mondo. Tutto non può che avere origine dal corpo e dalla percezione fisica: materica. La madeleine di Proust, il giovane Torless e il corpo che cambia, le inquietudini di Ernesto, La vita interiore di Desideria, la non normatività di Pasolini, i desideri mediocri di Siti; il tentativo è sempre stato quello di trarre una valenza gnoseologica dalla rappresentazione della corporeità e di un desiderio sia erotico che amoroso mai domo, attraverso corpi scissi, modellati, scarnificati, dissolti. Tendenza che oggi sembra essersi intensificata. La proliferazione dei discorsi sul sesso dovuta soprattutto alla mole dei nostri circuiti mediali e tecnologici ha infatti creato una vera e propria “mitologia” della sessualità, come l’hanno acutamente definita Mirko Lino e Silvia Antosa in Sex(t)ualities, ponendo al centro il corpo in tutte le sue ramificazioni, morfologie e sintassi da destrutturare. A manifestarsi è dunque l’eventualità di un’“altra” educazione (sentimentale, intellettuale, culturale?) che abbraccia la possibilità di ridefinirsi in seno a categorie predefinite, date per scontate, considerate astoriche e immodificabili.

E cosa c’è di più politico e urgente, assolutamente contemporaneo, di un discorso che guarda alla creazione di uno spazio estetico, cinematografico, in questo caso, sismico in cui poter rivedere, se non addirittura smontare e rimontare, canoni ormai consolidati? Come ha già scritto Saverio Felice parlando di Racconti immorali di Borowczyk – suoi epigoni sono Gonzalez, Bertrand Mandico o Poggi e Vinel, tutti cineasti e cineaste dell’eccentrico, del sogno, di un “nuovo cinema queer – la riflessione sul genere e sulla sessualità è al centro del nostro presente e non si può prescindere da una rappresentazione che ne contempli un ripensamento, una re-immaginazione. Ce l’ha dimostrato magnificamente Mandico nel finale di Les garçons sauvages e nella – voluta – incompiutezza del favolistico percorso di transizione di uno dei personaggi: uomo, donna, e infine queer. Né l’uno né l’altra. Il corpo come corpo-politico dove poter smantellare relazioni sessuali e identitarie normativizzate. E arriviamo finalmente a Un couteau dans le coeur o al cosiddetto cinema infiammato, che sonda i desideri, le emozioni, i sessi e generi provando a rimuovere tutti quei sigilli che la società imprime sul corpo, stando a quanto sostenuto da Gonzalez, Mandico e co. nel loro manifesto, Flame, apparso sui Cahiers du cinéma.

coteau

In Un couteau dans le coeur l’immaginario queer non è mai esplicitamente assunto a vessillo politico né rimanda a un’appartenenza verso una sola ed esclusiva comunità, e se c’è un film che più mi ricorda l’operazione compiuta da Gonzalez è proprio Cruising di William Friedkin, con cui il regista condivide tra l’altro un determinato universo figurativo e stilistico. Il microcosmo fluttuante e dai confini porosi e malleabili del film di Gonzalez è chiaramente figlio di Friedkin e De Palma (le scene degli omicidi sono quasi identiche), per citarne solo alcuni, in un vorticoso gioco citazionistico mai nascosto anzi esposto e dichiarato. Consapevole che nel discorso culturale contemporaneo nulla si dà in forma pura – per cui ogni esperienza si svolge attraverso una pluralità di generi, codici, stilemi espressivi, in una specie di magma intersemiotico, di intreccio, cioè, dei suddetti canali in cui la componente visuale ha assunto un ruolo preponderante – Gonzalez si appropria infatti di questa materia cinematografica, rendendo sempre, e ironicamente direi, chiarissimo l’artificio. C’è quindi tutto un lavoro sulla forma, sul riuso di un codice estetico e sulla sua decomposizione (vale a dire il carattere più lampante di questa nuova onda di cineasti) e trasmutazione in una dimensione irreale, che è ad ogni modo il riflesso di quella vera, di cui si scandagliano umori e inquietudini. Non a caso ho potuto rivedere il film perché MUBI lo ha inserito in una sezione della sua Videoteca chiamata “Film dentro i film”.

Ma Un couteau dans le coeur è soprattutto un film sull’ossessione. Anzitutto per la pellicola, dato che il film è ambientato quasi interamente in uno studio cinematografico di film porno durante gli anni Settanta, considerando poi l’indimenticabile sequenza finale in cui il blow-up sul personaggio di Lois (Kate Moran) diviene rivelatore di verità, di amore. C’è poi Fassbinder, nell’autopsia dell’ossessione amorosa: Lois e l’ex compagna Anne (Vanessa Paradis) non possono non ricalcare Petra Von Kant e Marlene, il suo oggetto del desiderio, specie per come il loro rapporto si deteriora nella stessa assolutistica volontà di possesso. Passare dunque dalle parti del ricordo amoroso e cinematografico (ma anche letterario): si potrebbe davvero continuare all’infinito.
Nel film infine il discorso sul genere e sul corpo non è tematizzato o racchiuso in unico codice e diventa politico pur non avendo l’ambizione di esserlo. Apre ed esplora gli spazi del desiderio, li amplifica favorendo un’identificazione immediata, scindibile da qualsivoglia genere, classe, etnia di appartenenza. Un codice del corpo che continuerà a essere scritto e riscritto. Il cinema diventa ancora una volta luogo esemplare e paradigmatico, dove poter circoscrivere un possibile “noi” alternativo a una logica e narrazione ormai radicate. Ma passibili di rinnovo, ri-creazione, come dicevamo all’inizio. Gonzalez definisce senza censure una fenomenologia dell’oscuro e della trasgressione, delle (nuove) forme d’identità e del bisogno di appartenersi e ritrovarsi nel desiderio oltre gli schermi. Di rinascere davanti a essi. Tornando, come – spero – vedrete, sempre in una sala buia.

Categoria
Yann Gonzalez Vanessa Paradis Kate Moran 110 minuti
Francia, Messico, Svizzera 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Speciale MUBI/ Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti

di Leonardo Strano
Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti - recensione film weerasethakul

Secondo Malte Hagener una delle differenze tra la cinefilia classica di stampo francese e la cinefilia digitale scaturita dall’erosione del luogo cinema riguarda il ruolo giocato dal trascendente nel desiderio. Se nel caso della cinefila classica l’esperienza era legata a un luogo fisico che univa le singolarità in una rete trans-soggettiva e le metteva in dialogo, nel caso della cinefilia digitale il rapporto con il cinema ha incontrato la progressiva caduta delle logiche binarie costituite da soggetto e oggetto, percepito e percettore, interno e esterno, a causa della penetrazione pervasiva delle immagini. Nell’esperienza della sala cinematografica il desiderio cinefilo soggettivo veniva reinquadrato da un trascendente in grado di mostrare sempre uno scarto tra individui e collettivo, vita e film, una distanza tra vita e rappresentazione, uno spazio che appunto mediava l’assoluto desiderio cinefilo di assenza di distanza, la volontà di rendere la vita un film; nel cinema della nebulosa presenza digitale invece questa distanza è stata annullata, grazie alla scomparsa di un “più grande” istituzionale, all’assoluto immanentismo dei media e all’impossibilità di pensare al di fuori di essi, e al desiderio si è aperta una possibilità, un’inaspettata porta verso il proprio compimento, quella di una “coscienza mediacinematica” (per Patricia Pisters) secondo cui tutto è film anche se non si è in sala: al tempo dell’”immagine mediatizzata in noi e della nostra immanenza in queste immagini” vita e film sembrano avere la stessa sostanza. A cavallo del cambiamento dei supporti per il cinema e della ridefinizione delle sue coordinate è avvenuto quindi un riposizionamento delle possibilità del desiderio cinefilo – che si è visto prima contrastato da un trascendente istituzionalizzato e poi invece liberato dall’assenza dello stesso trascendente - e conseguentemente delle pratiche legate ad esso. 

Secondo Hugues Perrot e Vincent Poli, scomparsa la pratica teoretica della sala, infatti, la pratica della cinefilia ha assunto le forme della continua conferma di questo nuovo desiderio illimitato, e quindi le istanze di una “ricerca del film capace, con arguzia abbagliante, di fare in modo che il cinema non sia solamente la rappresentazione della vita ma la vita stessa, per citare Bazin”. Sempre secondo loro, questa ricerca dello sguardo cinefilo assomiglia all’incontro con il corteggiatore e allo sguardo della tigre di Tropical Malady di Apichatpong Weerasethakul, un sovrapporsi di eccitazione per ciò che si può trovare e paura per ciò che si potrebbe perdere. Per chi scrive però è soprattutto nei confronti di uno dei film successivi del regista che questa ricerca pratica della cinefilia digitale si è indirizzata: Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti ha molte caratteristiche per essere manifesto del desiderio cinefilo, perché sembra porsi in linea con l’idea di un cinema esoterico in grado di portare alla luce un regno senza distanze, un mondo delle molte vite e delle immagini, uno specchio delle illusioni in cui bagnare i corpi. Quale posto migliore, allora, della neonata Videoteca di MUBI (una giostra per il gioco illimitato del desiderio e per la sua pratica) per guardare questo film e confermare con i propri occhi il pacifico ricongiungimento delle immagini in noi? Quale film migliore di questo per assistere allo sfondamento delle cornici dello schermo e assuefarsi della risorgenza delle immagini vitali, della vita più vita, del colore più colore, dell’immanenza senza fuori campo? 

Ecco, guardare Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti su MUBI è di grande importanza, ma non per riconoscere nella piattaforma un luogo di elezione per la sua visione, bensì per accorgersi di quanto esso ne sia strutturalmente lontano: il film di Weerasethakul non conferma da nessun punto di vista la nuova pratica di ricerca del desiderio cinefilo, innescata dall’illimitata voglia di assenza di distanza tra vita e film, anzi. La sua principale operazione è proprio il disinnesco dell’immanentismo positivo della coscienza mediacinematica, mediante un immanentismo negativo intenzionato a ristabilire quel trascendentale-immanente che si era perso con il sorgere del digitale e della mediatizzazione delle immagini. Un percorso (parallelo a quello compiuto dal personaggio Boonmee durante il film) che permette di guardare di nuovo dopo che tutto è diventato sguardo; per prima cosa, in un mondo di immagini affermative, rivelando la fragilità, la non indipendenza delle immagini, la loro rimovibilità – e questo è l’immanentismo negativo, ribaltamento dell’immanentismo positivo, affermazione di una realtà per rimozione. Attraverso la costruzione di immagini che sempre presentano inquadrature e geometrie inquadranti al loro interno, Weerasethakul produce un segno testuale (l’immagine di uno schermo che esiste nel campo) che richiama un segno extra testuale, quello della sala: il segno testuale aggancia l’immagine a un contesto preciso, a un luogo di appartenenza, e quindi a un sostegno, a una causa d’essere, presentando di fronte agli occhi sempre composizioni plastiche che richiamano la sala per una certa tensione strutturale, come per un segnale di continuità e omogeneità architettonica, di linee prospettiche. Per questo, quando è eliminato il luogo cinematografico dalla visione del film, l’immagine denuncia un’assenza, la non presenza della sala, una discontinuità fisica: in contrasto con la deterritorializzazione del cinema nell’immanentismo mediale l’immagine qui contribuisce a una riterritorializzazione del luogo cinema. 

Allo stesso tempo Weerasethakul disinnesca anche il concetto di corpo come simbolo immanente affermativo, rimuovendo i corpi, mostrando una carne che non è mai piantata nel terreno ma è sempre in transito. Da qui le presenze fantasmatiche o le presenze mostruose che come carta velina assorbono colore e poi si squagliano nelle pozzanghere notturne della foresta e della casa di Boonmee; presenze che dicono di una rimovibilità del corpo, di una non necessità o di una non credibilità, di una eccessiva stranezza, di un corpo che è irrilevante nel fantastico. Non è un caso che il culmine del percorso di Boonmee finisca in una grotta - ulteriore segno-sala - con il progressivo abbandono delle funzioni corporee da parte del protagonista - demolizione del corpo immanente - e l’ammissione di un mal funzionamento della propria vista: se prima il protagonista pensava di vedere perfettamente, e di comprendere il funzionamento della natura, giunto nel punto di comprensione della sua vita si accorge di non aver mai guardato davvero, e quindi comprende la fallibilità dei propri occhi. È qui che l’immanentismo negativo, questa tendenza a negare per affermare, a mostrare una rimozione, sfonda nella necessità di una provenienza altra, la consapevolezza di una presenza trascendentale: la reale immanenza contingente dell’immanentismo negativo rimanda all’esistenza di un mistero al di là che genera il qui e ora ma che si nasconde, non si può conoscere e non si può vedere neanche ad occhi aperti, se non si entra nella dimensione del credere. 

Il trascendentale è l’esistenza di un segno extra testuale che sostiene un segno testuale, è una assenza che sostiene una presenza, è l’altro che permette questo; è qualcosa che va oltre al corpo, perché lo nega e lo rimuove o lo riprende con sé, oppure perché lo eccede, come una trasformazione che incorre quando si cerca di comprenderlo (fotografandolo per esempio, come nel caso di Boonsong, trasformato nell’essere che cercava di rendere intellegibile). Boonmee alla fine si accorge proprio dell’inutilità del conoscere e della necessità del credere, dopo che già era costretto a credere che le due presenze in casa sua fossero sua moglie e suo figlio. L’incontro con il trascendentale avviene più frontalmente nell’episodio centrale della principessa e del pesce: secondo un processo di avvicinamento continuamente rimandato al mistero, la principessa, prima circondata da vari schermi premonitori di distanza invalicabile, incontra poi uno specchio d’acqua che riflette in maniera illusoria il suo volto da giovane (ancora rimozione-eccezione del corpo) e da cui si palesa un pesce parlante; la loro unione sessuale rimanda alla possibilità di una trascendenza incontrata e creduta, senza possibilità di comprensione, come indica lo schermo di acqua non trasparente, bensì invalicabile, che diventa poi notte. Come si diceva sopra, la riscoperta del trascendente però non si limita all’attestazione di un invisibile, ma porta con sé il suo opposto. Se infatti l’obnubilamento mediale aveva reso nulla l’opposizione tra trascendente e immanente, sulla scorta di un’immanenza assoluta in grado di inglobare il tutto, il ritorno del trascendentale richiama un risultato visibile condizionato, cioè un immanente, che si esplicita in ciò che l’immanentismo positivo aveva soppresso: rielaborazione di una distanza, dello spazio in cui si vive come uomini nella natura. Lo spazio in cui stanno a galla gli esseri torna a emergere come crogiolo di spazi soggettivi che si intersecano in una trans-soggettività, risultato di una forza non manifesta che preme ai confini del reale e ne scolpisce i contorni. 

Da un immanentismo negativo a una ristabilita contrapposizione tra trascendente e immanente: quella di Weerasethakul è una teoria che sfocia nella pratica, il percorso di un concetto che si fa sensibilità, universale che sta nel particolare; in questo senso un processo tragico, ma alla maniera orientale perché intendibile solo nello spazio trans-soggettivo, recupero dello spazio non come terreno trasparente di comunicazione (la comunicazione commerciale che sta attraversando la Thailandia verso la Cina) ma come spazio di distanza tra soggetti, tra detriti a mollo nella memoria della Storia (mito per riacquisire patrimonio storico contro mitologia dell’ideologia imposta). Lo sguardo che percorre il percorso è ridefinito, nasce di nuovo dopo essere usciti dalla grotta, tanto che rispetto allo sdoppiamento dei corpi dei protagonisti nel finale non c’è dislivello. Si crede alla presenza di un invisibile che produce un visibile sempre sul punto di essere rimosso, secondo la legge di una continua contrazione del desiderio e non di un progressivo ingigantimento delle sue possibilità. Perché il desiderio sta nel tempo futuro (tempo dell’altro, tempo dell’attesa) di un reale che può scomparire e non nella continua presentificazione del soddisfacimento di una realtà mediata; riposizionare la tensione trascendentale nel desiderio riporta lo sguardo in una posizione di scoperta e dialogo, in un momento dove la pressione del nulla sulla carne spinge a vivere. 

Tornano in mente le parole di Martin Buber: "Può accadere che, nella penombra di una sala da concerto, tra due ascoltatori che non si conoscono ma che percepiscono con la stessa purezza qualche nota di Mozart, si stabilisca un rapporto dialogico, appena avvertibile e tuttavia elementare, e che già da tempo sarà sprofondato nel nulla, quando si riaccenderanno le luci." Al cinema solo il buio accende la luce. 

Categoria
Apichatpong Weerasethakul Thanapat Saisaymar Jenjira Pongpas Sakda Kaewbuadee: 114
Thailandia 2010
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Speciale MUBI / Our Beloved Month of August

di Alessia Astorri
Our Beloved Month of August

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

 

INTERVISTATORE:
Quindi è la fine della cinefilia, non l’inizio.
I critici amano l’idea che redimerà la realtà,
mentre è il contrario, la distrugge.

MIGUEL GOMES:
Non lo so. Non ho letto questi critici.

(David Phelps per Notebook, Mubi
Intervista a Miguel Gomes, 28 dicembre 2012)

C’è una straordinarietà nel flusso del reale, la realtà è la sua stessa cifratura: il silenzio che spalanca la reclusione soffocante di un Cavalo Dinheiro rompe quel flusso e ne fa vuoto colmo di memorie fotografiche; le canzoni che intervallano come clip musicali il Our Beloved Month of August (Aquele Querido Mês de Agosto) gomesiano documentano la finzione, mentre simulano la realtà. Attraverso il suono scorre un codice, tecnico e immaginifico, così soggettivo da essere oggetto di discussione della troupe che i titoli di coda didascalizzano, mestiere per mestiere, dito puntato al fonico che registra tracce che non ci sono, che pure lui sente, fantasmi nell’ambiente sonoro: e mentre si parla, irrompe, over, il brano Adeus Amigo, a spiazzare nuovamente il senso di realtà, quel tentativo di buonsenso documentaristico che Miguel Gomes avrebbe programmaticamente respinto al pari della finzione, enunciando l’impossibilità della coesistenza delle due cose, nel successivo Mille e una notte – quel capolavoro fluviale, epico, cine-monumentale che poche sale, e per poco tempo, hanno conosciuto.
In quella doppia abdicazione al narrare storie di fantasia e al denunciare la miserevole condizione politico-economica del Portogallo, perché «non si può fare un film militante che dimentica la militanza e inizia a evadere dalla realtà: è tradimento, disimpegno, dandismo», il regista-Gomes evaderà il proprio ruolo per farvi ritorno sotto (finta) minaccia di morte e a (vera) norma di legge, e svicolerà la contraddizione delegando il racconto a un narratore antonomastico: Shaharazade.

Il mese di agosto è una Shaharazade ante litteram, un pretesto che si sostanzia e diventa immagine cinematografica consapevole di esserlo. È allo spettatore che sfuggono i confini; si sfumano le tracce di una codificazione che farebbe di tutto ciò un sistema di segni. La regia gomesiana è invece quell’occhio di volpe al di là del recinto che, non visto, si svela e disperde galli e galline al di qua: scavalcando la provocazione vontrieriana, rimescolando le carte ordinate di un Rosi, ricontestualizzando l’intimismo di un Reygadas, è cinema del singolo e della comunità, della realtà e dell’incanto, della semplicità delle immagini e della complessità dei dubbi, della concretezza e della perplessità, della coerenza e della contraddizione, della prossimità e della divagazione.
Il mese di agosto è nel verso di una canzone che parla del ritorno e in una che parla di addio: “Mio caro mese di agosto / per te passo tutto l’anno a sognare”, cantava negli anni ’90 Dino Meira, autore di quella musica popolare che, coverizzata su basi elettroniche, molesta i palchi estivi dei paesini per la gioia popolare del ritrovarsi, del celebrare l’appartenenza a un luogo nelle sue stagioni. “Amico mio, non dimentico il tuo volto (…) il nostro sole, il nostro caro mese di agosto” lo omaggiava Tony Carreira in Adeus Amigo. Poche cose sono portoghesi come l’addio e il ritorno. È questione, come sempre, di geografia e poi di storia. Del situarsi al margine di un continente e al principio di un oceano, dell’aver solcato il secondo un tempo, dell’essere piombati ancora più al margine del primo, un altro; dell’essere gli ex colonizzatori neocolonizzati d’Europa, impossibilitati al viaggio, costretti alla migrazione, con la propria comunità di migranti, con alle spalle il sogno del Quinto Impero e 48 anni di dittatura; con indosso, sul piccolo palco di un paesino del nord – un sud Italia retrodatato – mentre si intona una canzone sentimentale, una t-shirt gialloverde con su scritto “Brazil”.

gomes recensione

Il mese di agosto è quello in cui gli emigrati in vacanza tornano a casa, per passarci, appunto, un mese, per rivedere amici e parenti, per lamentarsi della terra che amano in cui è stato impossibile restare. “Viajo porque preciso, volto porque te amo”, Viaggio perché devo, torno perché ti amo, per dirlo col titolo del film brasiliano di un altro Gomes, Marcelo, e di Karim Aïnouz. Storia dell’andare e del disperdersi, viaggio di lavoro nel sertão che diventa rarefazione dei legami, progressivo abbandono, riconoscimento antropologico nella geologia del paesaggio. Ad Arganil, distretto di Coimbra, non c’è deserto, ma suoni di boschi e torrenti e la rarefazione è tutta demografica. Gira un pollo sullo spiedo per la festa patronale, girano le rotative della “Comarca de Arganil” che annuncia la festa. Fondato il primo gennaio 1901, il giornale, che diffondeva notizie della regione, diventò un punto di riferimento per gli emigrati in Angola, Mozambico, Brasile, e successivamente Francia e Germania, tanto da essere rinominato “lettera di famiglia”, ci racconta il nipote del fondatore.
Nel mese di agosto quella famiglia torna vicina con i suoi legami e i suoi conflitti. Di una madre non si hanno più notizie. L’hanno presa gli alieni, ma è bene che resti un segreto. Su uno sfondo di pianeti dispersi nel buio cosmico, l’ombra di padre e figlia si abbracciano con troppa intensità. E troppo intensi sono i fuochi di agosto, tanto da bruciare ettari di bosco, da uccidere chi non fa in tempo a fuggire o ad essere salvato – a Pedrógão Grande, nel 2017, a 9 anni da questo film, a 2 dal successivo che torna a citare il dramma degli incendi, è stato il disastro, per scarsità di risorse. I fuochi dell’animo ardono di desideri illeciti, ma in fondo realizzabili, per via di quell’estate che, ad agosto, risolve i rancori e assolve i Tabù fra le lenzuola, espleta il distacco fra le lacrime o con un riso liberatorio. Sentimenti transizionali. Lessico cinematografico. Visioni retrospettive.

Aquele querido mes de agosto compare, con inediti sottotitoli italiani, nel suo debordante flusso, nel flusso delle immagini online che diventa selezione autoriale su una piattaforma, MUBI, che, narra la leggenda, nasce in un bar di Tokyo dal vuoto cinefilo procurato nel suo futuro CEO dall’impossibilità di vedere In the Mood for Love, hic et nunc. Dove lo streaming si è sostituito al possesso, il nuovo possesso è la reperibilità. Bene immateriale e transitorio di pietre miliari e di titoli di passaggio, scie festivaliere, altrimenti destinati a restare invisibili. Il tutto sugli individual media che salvarono gli animi in quarantena. Non è scontato in quale direzione procederà l’arte mutevole per eccellenza, su quale rotta viaggi il presente – ci è stata offerta una discreta lezione di imprevedibilità.
In attesa dell’autunno, in un’estate di sale chiuse, città vuote e comete vicinissime, c’è ancora tutto un agosto, da vivere, da ripensare, da amare moltissimo, gomesianamente, senza dandismo.

Categoria
Miguel Gomes Sónia Bandeira Fábio Oliveira Joaquim Carvalho Andreia Santos 150 minuti
Aquele Querido Mês de Agosto
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Iscriviti a