Speciale MUBI / Hiroshima mon amour

di Veronica Vituzzi
hiroshima mon amour recensione film

Due corpi abbracciati sotto una pioggia atomica. A hard rain’s gonna fall: la fine del mondo sta per arrivare, ma non c’è da allarmarsi, perché il mondo è già finito una volta, e finirà ancora. Siamo nel 1959, 14 anni prima si concludeva la Seconda guerra mondiale lasciandosi alle spalle milioni di morti tra civili e soldati, i campi di concentramenti e poi quel giorno di agosto in cui sulla terra hanno fatto 10000 gradi in un secondo, 80000 morti in un secondo, una città, Hiroshima, spazzata via. Qualche giorno dopo, un’altra città polverizzata. Il mondo era finito, o meglio, sembrava finito, ma poi è tutto ricominciato daccapo, la vita, le persone, le gioie e i dolori, perfino la bomba atomica è ricominciata e anzi il pericolo di una catastrofe atomica sarebbe pesato sulla testa di chiunque per altri 40 anni.  Ancora oggi sembra ancora di stare costantemente sull’orlo della fine: il riscaldamento globale, le pandemie, un sistema sociale al collasso. Pare che negli ultimi cento anni l’umanità non abbia fatto altro che confrontarsi con la possibilità che tutto venga distrutto per sempre e che la nostra razza scompaia dalla terra, eppure questo non ha fermato l’incessante mulinello dell’esistenza nelle sue piccole e grandi storie, non ha impedito una sopravvivenza ostinata, lucida e ottusa, basata sulle due forze opposte e potenti del ricordo e dell’oblio.

Ed ecco allora, Hiroshima Mon Amour, e questi due corpi stretti, incuranti della costante minaccia mortale, un uomo giapponese (Eiji Okada) e una donna francese (Emmanuelle Riva) che si sono incontrati nell’ex città distrutta e devastata di Hiroshima, si sono visti e si sono amati al primo sguardo. Sembrerebbe un’avventura clandestina come ne capitano ogni giorno, e difatti la donna deve già tornare a Parigi il giorno dopo, ma bastano 24 ore per fare di questo incontro fortuito un episodio fondamentale per la vita di entrambi. Come durante una terapia psicanalitica esce fuori un nome, Nevers, quasi un lapsus nella conversazione, il sintomo di uno spazio mentale che ha preso il posto di quello fisico. La donna non pensa mai a Nevers, dove è nata e ha vissuto la sua giovinezza: ma lo sogna molto spesso. Pian piano, come accade solo nelle sedute con lo psicologo e nei dialoghi più intimi con le persone fidate, la donna quasi in trance torna indietro a quel passato che è stato per moltissimo tempo un presente doloroso e ricorda l’evento che le ha cambiato la vita e ha iniziato a renderla la persona che è tuttora: la perdita del primo grande amore, proibito e immenso, per un soldato tedesco durante l’occupazione in Francia, col conseguente collasso mentale della ragazza, già brutalizzata e rasata a zero dai suoi compaesani per il tradimento commesso contro la patria. Con la perdita di quell’amore la ragazza vive la sua personale fine del mondo; il giorno in cui finalmente lascerà la casa familiare per sempre, gli abitanti di Hiroshima vivranno la loro personale apocalisse.

La devastazione che può provocare la fine di un amore, e quella provocata da un genocidio nucleare: sorvolando sulle diverse proporzioni, il concetto è il medesimo, come le questioni che avanza. Nel 1956 Alain Resnais aveva girato Notte e nebbia documentando l’orrore dei campi di concentramento nazisti, di modo che moltissime persone, che non ne sapevano nulla o ne avevano solo sentito parlare, poterono vedere coi loro occhi le tremende immagini dei cadaveri, dei sopravvissuti disumanizzati. Allora l’urgenza morale era quella di vedere, vedere per conoscere e ricordare, ma quando a Resnais venne proposto un progetto simile sul disastro atomico di Hiroshima il regista francese si oppone ed elaborò a sua volta una storia di finzione la cui sceneggiatura fu affidata alla scrittrice francese Marguerite Duras. L’episodio di Hiroshima divenne una parte in un discorso più ampio, che concerneva le universali esigenze, uguali e contrarie, del ricordo e della dimenticanza.

resnais recensione film

La donna vuole ricordare Hiroshima, vuole con tutte le sue forze sapere, conoscere, partecipare a un evento che non ha vissuto. Snocciola tutto ciò che ha visto e imparato, l’ospedale, il museo, le foto, i resti, i cinegiornali, per quanto nulla sia comparabile all’esperienza reale (tu non hai visto nulla a Hiroshima, le risponde l’uomo). D’altra parte il ricordo di Hiroshima si concretizza in questo niente materiale, perché tutto è stato spazzato via, e ciò che è rimasto è qualcosa di nuovo, di altro, disumano, mostruoso, i corpi deformi dei sopravvissuti e dei figli dei sopravvissuti. A noi spettatori poi, non rimangono altro che le immagini, immagini bidimensionali, immagini di immagini, la copia sbiadita e piatta di una tragedia umana. Del passato rimane sempre quest’altro che è cosa nuova (immagini, lampi, echi) rispetto al passato stesso. Anche il cinema talvolta è un figlio bastardo del passato. La tentata immedesimazione nelle disgrazie altrui è fallace e fallimentare, ma è tutto ciò che rimane a chi ha solo il compito di ricordare: sarà poi lo stesso amante giapponese, quando la donna racconterà la propria storia, a immedesimarsi nel soldato tedesco, parlandole in sua vece, pallida ombra rievocata in un corpo altrui. C’è qualcosa di profondamente erotico e romantico in questo dialogo fra due persone, una che ascolta e una che parla, che rivivono insieme il trauma di una catastrofe singola e collettiva, e anzi si cede volentieri al sospetto che questo rivelarsi dei personaggi non sia in qualche modo simile all’esperienza della scrittura, proprio perché poi sarà la stessa  Marguerite Duras a ripetere l’atto in prima persona, raccontando ai propri lettori ne L’amante (1984) la storia di un altro amore proibito, quello fra lei adolescente e un facoltoso uomo giapponese in Indocina nel 1929.

L’iperbole assurda della bomba atomica si adatta bene all’iperbole melodrammatica della storia di un amore perduto. In fondo, tutti noi abbiamo vissuto queste catastrofi personali, talvolta simili a vere e proprie devastazioni dello spirito, macerie su cui si è dovuto ricostruire lo spazio mentale della propria esistenza. Un lutto, un abbandono, un esaurimento nervoso, il passato cristallizzato che affiora sotto forma di bagliori di memoria, un antico presente che nelle pieghe nascoste della coscienza continua ad accadere e accadere senza sosta.  D’altra parte l’emozione della gioia, come del dolore, ha la qualità di invadere il tempo e lo spazio, ammantata del gusto di un eterno qui ed ora che nella sua assoluta novità seppellisce tutto ciò che vi era prima. Ogni idea del domani è solo una suggestione dell’adesso. Tu mi piaci. Che avvenimento. Tu mi piaci.  Che languore all’improvviso. Che dolcezza. Tu non puoi sapere. Un’emozione che a viverla, vien da dedicarcisi tutta la vita e costruire templi e altari per farne una divinità, e invece poi bisogna staccarsene in gran parte per continuare a vivere altre esperienze che abbiano ancora il sapore di un nuovo adesso.

In Hiroshima mon amour i ricordi del passato sono sequenze mute, dove i personaggi non parlano, brevi momenti sconnessi da collegare mentalmente, così come scorrono nella memoria. Sono frammenti di un insieme che è già perduto, pezzi di un puzzle impossibile da ricomporre integralmente, perché il ricordo è una missione impossibile, che perde di continuo parti del suo essere. Ti dimenticherò, ti sto già dimenticando, urla Emmanuelle Riva, in una finale rassegnazione a questo problema irrisolvibile: dobbiamo ricordare perché le cose vissute mantengano il loro senso e il loro valore, ma dobbiamo dimenticare perché altrimenti non si può sopravvivere, andare avanti, ricominciare. Non c’è soluzione. Il passato rimane, ma sempre in un modo diverso da quel ci si aspetterebbe. Muore, perché il presente non può mai rivivere, ma lascia un cadavere vitale di immagini, suoni, sapori, percezioni che compongono i luoghi che abitiamo nella nostra mente, posti che pur senza riconoscerli, non cessiamo di visitare ogni giorno della nostra vita. Il tuo nome è Hiroshima. Sì, e il tuo nome è Nevers, Nevers in Francia.

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Alain Resnais Emmanuelle Riva Eiji Okada 90 minuti
Francia, Giappone 1959
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Speciale MUBI / È difficile essere un dio

di Alessandro Gaudiano
È difficile essere un dio - recensione film German

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Aleksei German è refrattario al piccolo schermo. O almeno, così dovrebbe essere: il cuore pulsante del cinema di German sembra richiamare la sala cinematografica, lo schermo larger than life che avvolge e soverchia i sensi. Rivedere un film come È difficile essere un dio in streaming tramite la piattaforma MUBI comporta, necessariamente, una metamorfosi e una riflessione.

È difficile essere un dio è un'esperienza sensoriale, prima e sopra tutto il resto. Ambientato sul lontano pianeta Arkanar, avvolto in un medioevo perenne e impantanato in un'epoca oscura e ricoperta di stracci, il film avvolge lo spettatore e gli interpreti in una sfera percettiva soffocante, umida, disperante. Una premessa fantascientifica volutamente esile, mero pretesto per calare uno sguardo severo e tragico, memore del cinema di Sokurov e Zulawski, su uomini deboli e bestiali che annaspano in una formicaio privo di colori.

L'ultimo film di Aleksei German, uscito postumo nel 2013, è l'esempio più risoluto di un cinema che si risolve nella costruzione di un mondo, in senso letterale e figurato: in questo caso, è un mondo a cui sembra mancare la ragione. Manca la ragione per la fioritura di qualsiasi bellezza o arte, così come manca la ragione per andare avanti: il protagonista di questo film quasi privo di storia è stato inviato su questo pianeta per studiarlo e favorirne lo sviluppo, ma non può intervenire in modo diretto per migliorarne le condizioni o influenzarne gli eventi. Come un intellettuale impotente di fronte allo srotolarsi della storia, un Angelus Novus febbrile e stanco.

Il punto di questa non-storia sta, naturalmente, nel suo proprio vuoto: nella mancanza di una Storia, in un "semplice" passare del tempo che genera piccoli eventi, litigi, atti di violenza e piccoli movimenti senza significato per chi li sta vivendo in quel preciso momento. Il linguaggio visivo di German scioglie la sceneggiatura in un assalto percettivo fatto di lunghe inquadrature che si posano su una umanità piegata, deforme, ubriaca, imbestialita che, a suo modo, sopravvive. Spesso, i volti occupano buona parte dello spazio dell'immagine – ricordo a me stesso che, al cinema, quel volto sarebbe lungo cinque o dieci metri – e permane la sensazione di essere circondati da altre persone e altri corpi, dietro e a lato della messa in scena.

Dove mancano le persone, di solito troviamo nebbia, pioggia, fango o escrementi. Un'immagine satura, densa: se non fosse ridicolo, si direbbe un'immagine bagnata. È difficile essere un dio parla di molte cose, non ultima la condizione degli intellettuali e l'enigma del potere, ma sembra che il vero obiettivo di German fosse distillare un'immagine debordante, che si ripiega sulla macchina da presa stessa, il vero dio della sua opera: balletto meccanico che danza tra le miserie del mondo, vi si immerge e trionfa sul caos della vita.

Come sopravvive questa immagine-mito, nell'epoca degli schermi piccoli o tascabili? Nel tentativo di rispondere a questa domanda, è sembrato chiaro che la questione fosse mal posta. Ovviamente, È difficile essere un dio diventa qualcosa di diverso: un serbatoio di immaginario che evoca mondi possibili, in una sorta di paradossale mise en abyme del cinema stesso. Le sue immagini spingono per irrompere oltre i confini dello schermo, richiamano la sala e anche qualcosa di più: cinema possibili e mai nati, o già sepolti perché inconcepibili nel panorama produttivo e distributivo di oggi.

Il cinema di German sembra proprio questo: un oggetto inqualificabile e alieno (in questo senso, è vera fantascieza), frutto di persistenza e di una visione quanto mai nitida. Un oggetto che è stato chiamato ad esistere oltre ogni plausibilità economica e artistica. Rivedere queste immagini è oggi un esercizio di modestia e di consapevolezza, è riconoscere la facilità con cui dimentichiamo la forza delle immagini e la loro pervasività nelle nostre vite. Fuori da ogni formato, oltre ogni cornice.

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Aleksej Jurevič German Aleksandr Chutko Aleksandr Ilyin Laura Lauri 170 minuti
Russia 2013
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Sono innamorato di Pippa Bacca

di Arianna Pagliara
Sono innamorato di Pippa bacca recensione

Anche il primo documentario di Simone Manetti – già affermato montatore cinematografico - era una storia femminile sui generis, quella di una modella italiana che dopo una grande delusione d’amore fugge in Thailandia per diventare pluricampionessa di Thai Boxe (Goodbye Darling, I'm Off to Fight, 2016). 
Al suo secondo lungometraggio, Sono innamorato di Pippa Bacca, il regista sceglie una protagonista in grado fin da subito di catalizzare l’attenzione: perché Pippa Bacca è esuberante, radicale, coraggiosa, naïve e insieme tremendamente seria e determinata nella volontà di portare avanti il suo gesto performativo, per molti versi estremo, nel totale rispetto dell’idea ispiratrice. La certezza che offrendo fiducia  non si può che essere ricambiati con altrettanta generosità. E questa totale “apertura” verso l’umanità non è teorica ma reale, pratica senza se e senza ma.  I compromessi, dunque, non esistono.
Lo sottolinea Silvia Moro, l’artista che assieme a lei decise, nel 2008, di dare vita al progetto “Brides on Tour”: due spose in autostop attraverso undici paesi devastati dalla guerra, per portare un messaggio di pace da Milano a Gerusalemme. Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Bulgaria, Turchia, Libano, Siria, Egitto, Giordania, Israele.
I vestiti, realizzati per l’occasione, che sono essi stessi oggetto d’arte dove si stratificano simboli sopra il loro essere già simbolo, di purezza e di fertilità. Le scarpe dai tacchi pericolosamente alti, a ribadire la differenza del cammino femminile, (quello delle artiste verso una difficile  meta ma anche  quello femminile tout-court) che nonostante le difficoltà procede paziente senza scoraggiarsi giorno dopo giorno.

Manetti non vuole insistere, a ragione, sulla fine tragica di questo viaggio, che pure pesa idealmente fin dalla prima inquadratura, un a posteriori monolitico, indigeribile, che rende la performance artistica in sé un paradosso in essere. Cosa fare della consapevolezza di questo termine? Un megafono per amplificare la voce della Bacca, la sua missiva di pace e non-violenza – a quanto pare mai scontata, sempre e per sempre da ribadire? Un’occasione, l’ennesima, per riaffermare l’urgenza e l’attualità di questo messaggio? Oppure un monito da subire, un confronto/scontro con una realtà beffarda quanto immutabile, a suggerire la necessità di una presa di coscienza della nostra fallibilità? 
La sfida lanciata dalla Bacca, se riletta alla luce del suo epilogo terribile, solleva inevitabilmente questioni che trascendono l’atto performativo in sé, o forse, sarebbe meglio dire, gli restituiscono definitivamente senso, poiché su un piano – di nuovo – simbolico – alla pace e alla vita, al femminile insomma, viene opposta una violenza (maschile) che non è solo astratta e ideale (le tracce della guerra nei paesi attraversati) ma concreta e specifica (l’assassino della Bacca ha un nome e un cognome).

Lo sguardo del regista non può che arrestarsi di fronte a questi interrogativi che non possono che restare sospesi; preferisce, giustamente, ripartire dal prima per spiegare il dopo, offrendo allo spettatore tasselli preziosissimi per comporre il ritratto vivido e luminoso di una donna che non ha fatto altro se non traslare nella pratica del quotidiano quella che è, in fondo, una filosofia di vita: nessun atto provocatorio, nessuna sterile o arrogante volontà di autoaffermazione fine a se stessa, ma semplicemente il bisogno emotivo, forse etico, prima ancora che artistico, di mostrare (non dimostrare) che l’amore è possibile. In che modo? Compiendo quello che, lungi dall’essere un’avventura frutto di un capriccio imprudente, era un viaggio organizzato con meticolosa attenzione, e le cui tappe prevedevano una serie di azioni performative, filmate dalle stesse protagoniste, pensate per onorare un certo senso, un certo modo dell’essere donna: collezionando sul proprio abito ricami di artigiane locali (Silvia) oppure offrendo alle ostetriche incontrate lungo il cammino una lavanda dei piedi, l’atto cristologico per eccellenza (Pippa). Rituali che (ri)acquistano senso e forza all’interno della corposa e strutturata operazione concettuale delle due performer, punto d’arrivo, in un certo senso, di un percorso artistico maturato nel corso degli anni.

A parlare, nel film, sono soprattutto la madre e le sorelle di Pippa, un piccolo esercito tutto al femminile, fortemente coeso, che raccontano un altro modo di vivere le estati e l’infanzia: su un vecchio furgone in giro per il mondo, e poi a piedi, ininterrottamente, lungo il cammino di Santiago e oltre, e infine – come avrebbe poi scelto di fare la protagonista - in autostop. In questo senso l’operazione di Manetti è cruciale: perché restituisce all’evento il suo contesto, tracciando così la strada, attraverso ricordi e testimonianze, che ha portato Giuseppina Pasqualino di Marineo a diventare la straordinaria Pippa Bacca.

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Simone Manetti 76 minuti
Italia, 2019
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Speciale MUBI / Un couteau dans le cœur

di Elvira Del Guercio
recensione film un couteau dans le coeur Gonzales

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

La scoperta del cinema di Yann Gonzalez ha coinciso con un periodo particolare della mia formazione: l’avvicinamento a un pensiero politico che riguarda il modo in cui oggi siamo portati a ripensare il valore dell’identità, del corpo, dei nodi intricati della sessualità. Ho guardato alle corrispondenze semantiche. Al respiro universale di certe cose che leggevo in saggi accademici o romanzi e a come riuscissero a riguardare in maniera così chiara anche il mio stare al mondo. Tutto non può che avere origine dal corpo e dalla percezione fisica: materica. La madeleine di Proust, il giovane Torless e il corpo che cambia, le inquietudini di Ernesto, La vita interiore di Desideria, la non normatività di Pasolini, i desideri mediocri di Siti; il tentativo è sempre stato quello di trarre una valenza gnoseologica dalla rappresentazione della corporeità e di un desiderio sia erotico che amoroso mai domo, attraverso corpi scissi, modellati, scarnificati, dissolti. Tendenza che oggi sembra essersi intensificata. La proliferazione dei discorsi sul sesso dovuta soprattutto alla mole dei nostri circuiti mediali e tecnologici ha infatti creato una vera e propria “mitologia” della sessualità, come l’hanno acutamente definita Mirko Lino e Silvia Antosa in Sex(t)ualities, ponendo al centro il corpo in tutte le sue ramificazioni, morfologie e sintassi da destrutturare. A manifestarsi è dunque l’eventualità di un’“altra” educazione (sentimentale, intellettuale, culturale?) che abbraccia la possibilità di ridefinirsi in seno a categorie predefinite, date per scontate, considerate astoriche e immodificabili.

E cosa c’è di più politico e urgente, assolutamente contemporaneo, di un discorso che guarda alla creazione di uno spazio estetico, cinematografico, in questo caso, sismico in cui poter rivedere, se non addirittura smontare e rimontare, canoni ormai consolidati? Come ha già scritto Saverio Felice parlando di Racconti immorali di Borowczyk – suoi epigoni sono Gonzalez, Bertrand Mandico o Poggi e Vinel, tutti cineasti e cineaste dell’eccentrico, del sogno, di un “nuovo cinema queer – la riflessione sul genere e sulla sessualità è al centro del nostro presente e non si può prescindere da una rappresentazione che ne contempli un ripensamento, una re-immaginazione. Ce l’ha dimostrato magnificamente Mandico nel finale di Les garçons sauvages e nella – voluta – incompiutezza del favolistico percorso di transizione di uno dei personaggi: uomo, donna, e infine queer. Né l’uno né l’altra. Il corpo come corpo-politico dove poter smantellare relazioni sessuali e identitarie normativizzate. E arriviamo finalmente a Un couteau dans le coeur o al cosiddetto cinema infiammato, che sonda i desideri, le emozioni, i sessi e generi provando a rimuovere tutti quei sigilli che la società imprime sul corpo, stando a quanto sostenuto da Gonzalez, Mandico e co. nel loro manifesto, Flame, apparso sui Cahiers du cinéma.

coteau

In Un couteau dans le coeur l’immaginario queer non è mai esplicitamente assunto a vessillo politico né rimanda a un’appartenenza verso una sola ed esclusiva comunità, e se c’è un film che più mi ricorda l’operazione compiuta da Gonzalez è proprio Cruising di William Friedkin, con cui il regista condivide tra l’altro un determinato universo figurativo e stilistico. Il microcosmo fluttuante e dai confini porosi e malleabili del film di Gonzalez è chiaramente figlio di Friedkin e De Palma (le scene degli omicidi sono quasi identiche), per citarne solo alcuni, in un vorticoso gioco citazionistico mai nascosto anzi esposto e dichiarato. Consapevole che nel discorso culturale contemporaneo nulla si dà in forma pura – per cui ogni esperienza si svolge attraverso una pluralità di generi, codici, stilemi espressivi, in una specie di magma intersemiotico, di intreccio, cioè, dei suddetti canali in cui la componente visuale ha assunto un ruolo preponderante – Gonzalez si appropria infatti di questa materia cinematografica, rendendo sempre, e ironicamente direi, chiarissimo l’artificio. C’è quindi tutto un lavoro sulla forma, sul riuso di un codice estetico e sulla sua decomposizione (vale a dire il carattere più lampante di questa nuova onda di cineasti) e trasmutazione in una dimensione irreale, che è ad ogni modo il riflesso di quella vera, di cui si scandagliano umori e inquietudini. Non a caso ho potuto rivedere il film perché MUBI lo ha inserito in una sezione della sua Videoteca chiamata “Film dentro i film”.

Ma Un couteau dans le coeur è soprattutto un film sull’ossessione. Anzitutto per la pellicola, dato che il film è ambientato quasi interamente in uno studio cinematografico di film porno durante gli anni Settanta, considerando poi l’indimenticabile sequenza finale in cui il blow-up sul personaggio di Lois (Kate Moran) diviene rivelatore di verità, di amore. C’è poi Fassbinder, nell’autopsia dell’ossessione amorosa: Lois e l’ex compagna Anne (Vanessa Paradis) non possono non ricalcare Petra Von Kant e Marlene, il suo oggetto del desiderio, specie per come il loro rapporto si deteriora nella stessa assolutistica volontà di possesso. Passare dunque dalle parti del ricordo amoroso e cinematografico (ma anche letterario): si potrebbe davvero continuare all’infinito.
Nel film infine il discorso sul genere e sul corpo non è tematizzato o racchiuso in unico codice e diventa politico pur non avendo l’ambizione di esserlo. Apre ed esplora gli spazi del desiderio, li amplifica favorendo un’identificazione immediata, scindibile da qualsivoglia genere, classe, etnia di appartenenza. Un codice del corpo che continuerà a essere scritto e riscritto. Il cinema diventa ancora una volta luogo esemplare e paradigmatico, dove poter circoscrivere un possibile “noi” alternativo a una logica e narrazione ormai radicate. Ma passibili di rinnovo, ri-creazione, come dicevamo all’inizio. Gonzalez definisce senza censure una fenomenologia dell’oscuro e della trasgressione, delle (nuove) forme d’identità e del bisogno di appartenersi e ritrovarsi nel desiderio oltre gli schermi. Di rinascere davanti a essi. Tornando, come – spero – vedrete, sempre in una sala buia.

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Yann Gonzalez Vanessa Paradis Kate Moran 110 minuti
Francia, Messico, Svizzera 2018
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Speciale MUBI/ Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti

di Leonardo Strano
Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti - recensione film weerasethakul

Secondo Malte Hagener una delle differenze tra la cinefilia classica di stampo francese e la cinefilia digitale scaturita dall’erosione del luogo cinema riguarda il ruolo giocato dal trascendente nel desiderio. Se nel caso della cinefila classica l’esperienza era legata a un luogo fisico che univa le singolarità in una rete trans-soggettiva e le metteva in dialogo, nel caso della cinefilia digitale il rapporto con il cinema ha incontrato la progressiva caduta delle logiche binarie costituite da soggetto e oggetto, percepito e percettore, interno e esterno, a causa della penetrazione pervasiva delle immagini. Nell’esperienza della sala cinematografica il desiderio cinefilo soggettivo veniva reinquadrato da un trascendente in grado di mostrare sempre uno scarto tra individui e collettivo, vita e film, una distanza tra vita e rappresentazione, uno spazio che appunto mediava l’assoluto desiderio cinefilo di assenza di distanza, la volontà di rendere la vita un film; nel cinema della nebulosa presenza digitale invece questa distanza è stata annullata, grazie alla scomparsa di un “più grande” istituzionale, all’assoluto immanentismo dei media e all’impossibilità di pensare al di fuori di essi, e al desiderio si è aperta una possibilità, un’inaspettata porta verso il proprio compimento, quella di una “coscienza mediacinematica” (per Patricia Pisters) secondo cui tutto è film anche se non si è in sala: al tempo dell’”immagine mediatizzata in noi e della nostra immanenza in queste immagini” vita e film sembrano avere la stessa sostanza. A cavallo del cambiamento dei supporti per il cinema e della ridefinizione delle sue coordinate è avvenuto quindi un riposizionamento delle possibilità del desiderio cinefilo – che si è visto prima contrastato da un trascendente istituzionalizzato e poi invece liberato dall’assenza dello stesso trascendente - e conseguentemente delle pratiche legate ad esso. 

Secondo Hugues Perrot e Vincent Poli, scomparsa la pratica teoretica della sala, infatti, la pratica della cinefilia ha assunto le forme della continua conferma di questo nuovo desiderio illimitato, e quindi le istanze di una “ricerca del film capace, con arguzia abbagliante, di fare in modo che il cinema non sia solamente la rappresentazione della vita ma la vita stessa, per citare Bazin”. Sempre secondo loro, questa ricerca dello sguardo cinefilo assomiglia all’incontro con il corteggiatore e allo sguardo della tigre di Tropical Malady di Apichatpong Weerasethakul, un sovrapporsi di eccitazione per ciò che si può trovare e paura per ciò che si potrebbe perdere. Per chi scrive però è soprattutto nei confronti di uno dei film successivi del regista che questa ricerca pratica della cinefilia digitale si è indirizzata: Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti ha molte caratteristiche per essere manifesto del desiderio cinefilo, perché sembra porsi in linea con l’idea di un cinema esoterico in grado di portare alla luce un regno senza distanze, un mondo delle molte vite e delle immagini, uno specchio delle illusioni in cui bagnare i corpi. Quale posto migliore, allora, della neonata Videoteca di MUBI (una giostra per il gioco illimitato del desiderio e per la sua pratica) per guardare questo film e confermare con i propri occhi il pacifico ricongiungimento delle immagini in noi? Quale film migliore di questo per assistere allo sfondamento delle cornici dello schermo e assuefarsi della risorgenza delle immagini vitali, della vita più vita, del colore più colore, dell’immanenza senza fuori campo? 

Ecco, guardare Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti su MUBI è di grande importanza, ma non per riconoscere nella piattaforma un luogo di elezione per la sua visione, bensì per accorgersi di quanto esso ne sia strutturalmente lontano: il film di Weerasethakul non conferma da nessun punto di vista la nuova pratica di ricerca del desiderio cinefilo, innescata dall’illimitata voglia di assenza di distanza tra vita e film, anzi. La sua principale operazione è proprio il disinnesco dell’immanentismo positivo della coscienza mediacinematica, mediante un immanentismo negativo intenzionato a ristabilire quel trascendentale-immanente che si era perso con il sorgere del digitale e della mediatizzazione delle immagini. Un percorso (parallelo a quello compiuto dal personaggio Boonmee durante il film) che permette di guardare di nuovo dopo che tutto è diventato sguardo; per prima cosa, in un mondo di immagini affermative, rivelando la fragilità, la non indipendenza delle immagini, la loro rimovibilità – e questo è l’immanentismo negativo, ribaltamento dell’immanentismo positivo, affermazione di una realtà per rimozione. Attraverso la costruzione di immagini che sempre presentano inquadrature e geometrie inquadranti al loro interno, Weerasethakul produce un segno testuale (l’immagine di uno schermo che esiste nel campo) che richiama un segno extra testuale, quello della sala: il segno testuale aggancia l’immagine a un contesto preciso, a un luogo di appartenenza, e quindi a un sostegno, a una causa d’essere, presentando di fronte agli occhi sempre composizioni plastiche che richiamano la sala per una certa tensione strutturale, come per un segnale di continuità e omogeneità architettonica, di linee prospettiche. Per questo, quando è eliminato il luogo cinematografico dalla visione del film, l’immagine denuncia un’assenza, la non presenza della sala, una discontinuità fisica: in contrasto con la deterritorializzazione del cinema nell’immanentismo mediale l’immagine qui contribuisce a una riterritorializzazione del luogo cinema. 

Allo stesso tempo Weerasethakul disinnesca anche il concetto di corpo come simbolo immanente affermativo, rimuovendo i corpi, mostrando una carne che non è mai piantata nel terreno ma è sempre in transito. Da qui le presenze fantasmatiche o le presenze mostruose che come carta velina assorbono colore e poi si squagliano nelle pozzanghere notturne della foresta e della casa di Boonmee; presenze che dicono di una rimovibilità del corpo, di una non necessità o di una non credibilità, di una eccessiva stranezza, di un corpo che è irrilevante nel fantastico. Non è un caso che il culmine del percorso di Boonmee finisca in una grotta - ulteriore segno-sala - con il progressivo abbandono delle funzioni corporee da parte del protagonista - demolizione del corpo immanente - e l’ammissione di un mal funzionamento della propria vista: se prima il protagonista pensava di vedere perfettamente, e di comprendere il funzionamento della natura, giunto nel punto di comprensione della sua vita si accorge di non aver mai guardato davvero, e quindi comprende la fallibilità dei propri occhi. È qui che l’immanentismo negativo, questa tendenza a negare per affermare, a mostrare una rimozione, sfonda nella necessità di una provenienza altra, la consapevolezza di una presenza trascendentale: la reale immanenza contingente dell’immanentismo negativo rimanda all’esistenza di un mistero al di là che genera il qui e ora ma che si nasconde, non si può conoscere e non si può vedere neanche ad occhi aperti, se non si entra nella dimensione del credere. 

Il trascendentale è l’esistenza di un segno extra testuale che sostiene un segno testuale, è una assenza che sostiene una presenza, è l’altro che permette questo; è qualcosa che va oltre al corpo, perché lo nega e lo rimuove o lo riprende con sé, oppure perché lo eccede, come una trasformazione che incorre quando si cerca di comprenderlo (fotografandolo per esempio, come nel caso di Boonsong, trasformato nell’essere che cercava di rendere intellegibile). Boonmee alla fine si accorge proprio dell’inutilità del conoscere e della necessità del credere, dopo che già era costretto a credere che le due presenze in casa sua fossero sua moglie e suo figlio. L’incontro con il trascendentale avviene più frontalmente nell’episodio centrale della principessa e del pesce: secondo un processo di avvicinamento continuamente rimandato al mistero, la principessa, prima circondata da vari schermi premonitori di distanza invalicabile, incontra poi uno specchio d’acqua che riflette in maniera illusoria il suo volto da giovane (ancora rimozione-eccezione del corpo) e da cui si palesa un pesce parlante; la loro unione sessuale rimanda alla possibilità di una trascendenza incontrata e creduta, senza possibilità di comprensione, come indica lo schermo di acqua non trasparente, bensì invalicabile, che diventa poi notte. Come si diceva sopra, la riscoperta del trascendente però non si limita all’attestazione di un invisibile, ma porta con sé il suo opposto. Se infatti l’obnubilamento mediale aveva reso nulla l’opposizione tra trascendente e immanente, sulla scorta di un’immanenza assoluta in grado di inglobare il tutto, il ritorno del trascendentale richiama un risultato visibile condizionato, cioè un immanente, che si esplicita in ciò che l’immanentismo positivo aveva soppresso: rielaborazione di una distanza, dello spazio in cui si vive come uomini nella natura. Lo spazio in cui stanno a galla gli esseri torna a emergere come crogiolo di spazi soggettivi che si intersecano in una trans-soggettività, risultato di una forza non manifesta che preme ai confini del reale e ne scolpisce i contorni. 

Da un immanentismo negativo a una ristabilita contrapposizione tra trascendente e immanente: quella di Weerasethakul è una teoria che sfocia nella pratica, il percorso di un concetto che si fa sensibilità, universale che sta nel particolare; in questo senso un processo tragico, ma alla maniera orientale perché intendibile solo nello spazio trans-soggettivo, recupero dello spazio non come terreno trasparente di comunicazione (la comunicazione commerciale che sta attraversando la Thailandia verso la Cina) ma come spazio di distanza tra soggetti, tra detriti a mollo nella memoria della Storia (mito per riacquisire patrimonio storico contro mitologia dell’ideologia imposta). Lo sguardo che percorre il percorso è ridefinito, nasce di nuovo dopo essere usciti dalla grotta, tanto che rispetto allo sdoppiamento dei corpi dei protagonisti nel finale non c’è dislivello. Si crede alla presenza di un invisibile che produce un visibile sempre sul punto di essere rimosso, secondo la legge di una continua contrazione del desiderio e non di un progressivo ingigantimento delle sue possibilità. Perché il desiderio sta nel tempo futuro (tempo dell’altro, tempo dell’attesa) di un reale che può scomparire e non nella continua presentificazione del soddisfacimento di una realtà mediata; riposizionare la tensione trascendentale nel desiderio riporta lo sguardo in una posizione di scoperta e dialogo, in un momento dove la pressione del nulla sulla carne spinge a vivere. 

Tornano in mente le parole di Martin Buber: "Può accadere che, nella penombra di una sala da concerto, tra due ascoltatori che non si conoscono ma che percepiscono con la stessa purezza qualche nota di Mozart, si stabilisca un rapporto dialogico, appena avvertibile e tuttavia elementare, e che già da tempo sarà sprofondato nel nulla, quando si riaccenderanno le luci." Al cinema solo il buio accende la luce. 

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Apichatpong Weerasethakul Thanapat Saisaymar Jenjira Pongpas Sakda Kaewbuadee: 114
Thailandia 2010
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Speciale MUBI / Our Beloved Month of August

di Alessia Astorri
Our Beloved Month of August

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

 

INTERVISTATORE:
Quindi è la fine della cinefilia, non l’inizio.
I critici amano l’idea che redimerà la realtà,
mentre è il contrario, la distrugge.

MIGUEL GOMES:
Non lo so. Non ho letto questi critici.

(David Phelps per Notebook, Mubi
Intervista a Miguel Gomes, 28 dicembre 2012)

C’è una straordinarietà nel flusso del reale, la realtà è la sua stessa cifratura: il silenzio che spalanca la reclusione soffocante di un Cavalo Dinheiro rompe quel flusso e ne fa vuoto colmo di memorie fotografiche; le canzoni che intervallano come clip musicali il Our Beloved Month of August (Aquele Querido Mês de Agosto) gomesiano documentano la finzione, mentre simulano la realtà. Attraverso il suono scorre un codice, tecnico e immaginifico, così soggettivo da essere oggetto di discussione della troupe che i titoli di coda didascalizzano, mestiere per mestiere, dito puntato al fonico che registra tracce che non ci sono, che pure lui sente, fantasmi nell’ambiente sonoro: e mentre si parla, irrompe, over, il brano Adeus Amigo, a spiazzare nuovamente il senso di realtà, quel tentativo di buonsenso documentaristico che Miguel Gomes avrebbe programmaticamente respinto al pari della finzione, enunciando l’impossibilità della coesistenza delle due cose, nel successivo Mille e una notte – quel capolavoro fluviale, epico, cine-monumentale che poche sale, e per poco tempo, hanno conosciuto.
In quella doppia abdicazione al narrare storie di fantasia e al denunciare la miserevole condizione politico-economica del Portogallo, perché «non si può fare un film militante che dimentica la militanza e inizia a evadere dalla realtà: è tradimento, disimpegno, dandismo», il regista-Gomes evaderà il proprio ruolo per farvi ritorno sotto (finta) minaccia di morte e a (vera) norma di legge, e svicolerà la contraddizione delegando il racconto a un narratore antonomastico: Shaharazade.

Il mese di agosto è una Shaharazade ante litteram, un pretesto che si sostanzia e diventa immagine cinematografica consapevole di esserlo. È allo spettatore che sfuggono i confini; si sfumano le tracce di una codificazione che farebbe di tutto ciò un sistema di segni. La regia gomesiana è invece quell’occhio di volpe al di là del recinto che, non visto, si svela e disperde galli e galline al di qua: scavalcando la provocazione vontrieriana, rimescolando le carte ordinate di un Rosi, ricontestualizzando l’intimismo di un Reygadas, è cinema del singolo e della comunità, della realtà e dell’incanto, della semplicità delle immagini e della complessità dei dubbi, della concretezza e della perplessità, della coerenza e della contraddizione, della prossimità e della divagazione.
Il mese di agosto è nel verso di una canzone che parla del ritorno e in una che parla di addio: “Mio caro mese di agosto / per te passo tutto l’anno a sognare”, cantava negli anni ’90 Dino Meira, autore di quella musica popolare che, coverizzata su basi elettroniche, molesta i palchi estivi dei paesini per la gioia popolare del ritrovarsi, del celebrare l’appartenenza a un luogo nelle sue stagioni. “Amico mio, non dimentico il tuo volto (…) il nostro sole, il nostro caro mese di agosto” lo omaggiava Tony Carreira in Adeus Amigo. Poche cose sono portoghesi come l’addio e il ritorno. È questione, come sempre, di geografia e poi di storia. Del situarsi al margine di un continente e al principio di un oceano, dell’aver solcato il secondo un tempo, dell’essere piombati ancora più al margine del primo, un altro; dell’essere gli ex colonizzatori neocolonizzati d’Europa, impossibilitati al viaggio, costretti alla migrazione, con la propria comunità di migranti, con alle spalle il sogno del Quinto Impero e 48 anni di dittatura; con indosso, sul piccolo palco di un paesino del nord – un sud Italia retrodatato – mentre si intona una canzone sentimentale, una t-shirt gialloverde con su scritto “Brazil”.

gomes recensione

Il mese di agosto è quello in cui gli emigrati in vacanza tornano a casa, per passarci, appunto, un mese, per rivedere amici e parenti, per lamentarsi della terra che amano in cui è stato impossibile restare. “Viajo porque preciso, volto porque te amo”, Viaggio perché devo, torno perché ti amo, per dirlo col titolo del film brasiliano di un altro Gomes, Marcelo, e di Karim Aïnouz. Storia dell’andare e del disperdersi, viaggio di lavoro nel sertão che diventa rarefazione dei legami, progressivo abbandono, riconoscimento antropologico nella geologia del paesaggio. Ad Arganil, distretto di Coimbra, non c’è deserto, ma suoni di boschi e torrenti e la rarefazione è tutta demografica. Gira un pollo sullo spiedo per la festa patronale, girano le rotative della “Comarca de Arganil” che annuncia la festa. Fondato il primo gennaio 1901, il giornale, che diffondeva notizie della regione, diventò un punto di riferimento per gli emigrati in Angola, Mozambico, Brasile, e successivamente Francia e Germania, tanto da essere rinominato “lettera di famiglia”, ci racconta il nipote del fondatore.
Nel mese di agosto quella famiglia torna vicina con i suoi legami e i suoi conflitti. Di una madre non si hanno più notizie. L’hanno presa gli alieni, ma è bene che resti un segreto. Su uno sfondo di pianeti dispersi nel buio cosmico, l’ombra di padre e figlia si abbracciano con troppa intensità. E troppo intensi sono i fuochi di agosto, tanto da bruciare ettari di bosco, da uccidere chi non fa in tempo a fuggire o ad essere salvato – a Pedrógão Grande, nel 2017, a 9 anni da questo film, a 2 dal successivo che torna a citare il dramma degli incendi, è stato il disastro, per scarsità di risorse. I fuochi dell’animo ardono di desideri illeciti, ma in fondo realizzabili, per via di quell’estate che, ad agosto, risolve i rancori e assolve i Tabù fra le lenzuola, espleta il distacco fra le lacrime o con un riso liberatorio. Sentimenti transizionali. Lessico cinematografico. Visioni retrospettive.

Aquele querido mes de agosto compare, con inediti sottotitoli italiani, nel suo debordante flusso, nel flusso delle immagini online che diventa selezione autoriale su una piattaforma, MUBI, che, narra la leggenda, nasce in un bar di Tokyo dal vuoto cinefilo procurato nel suo futuro CEO dall’impossibilità di vedere In the Mood for Love, hic et nunc. Dove lo streaming si è sostituito al possesso, il nuovo possesso è la reperibilità. Bene immateriale e transitorio di pietre miliari e di titoli di passaggio, scie festivaliere, altrimenti destinati a restare invisibili. Il tutto sugli individual media che salvarono gli animi in quarantena. Non è scontato in quale direzione procederà l’arte mutevole per eccellenza, su quale rotta viaggi il presente – ci è stata offerta una discreta lezione di imprevedibilità.
In attesa dell’autunno, in un’estate di sale chiuse, città vuote e comete vicinissime, c’è ancora tutto un agosto, da vivere, da ripensare, da amare moltissimo, gomesianamente, senza dandismo.

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Miguel Gomes Sónia Bandeira Fábio Oliveira Joaquim Carvalho Andreia Santos 150 minuti
Aquele Querido Mês de Agosto
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Speciale MUBI / La Jetée

di Giorgio Sedona
La Jetée di Chris Marker

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Un vettore pneumatico in uno spazio digitale. La direzione che punta verso il passato. Un passato monotono senza un punto di congiunzione in nessun futuro, un costante ed eterno passato che si riversa in un presente ondivago, azzerando il divenire. Nella parcellizzazione post-fordista socio-psicologica il passato è un tempo fluido, dalla forza lavoro sempre più flessibile al conflitto psicologico che attanaglia l’individuo contemporaneo sempre più scosso dal bipolarismo economico capitalista. Il rimedio diventa il ricordo, la memoria, anch’essa d’essenza nebulosa, ma capace di spasmi raggelanti, di frammenti d’attimi fotografici, parti infinitesimali di una narrazione condensati in un'alternanza foto-audiovisiva e recuperati per i visitatori del futuro. Visioni scelte, da riportare nel presente per resistere al vuoto nuclearizzato di una nuova era. Come per Davos Hanich è il sentimento - “documento” - della visione rivissuto in un’istantanea ad innescare il ricordo della donna e del molo; così si riversa in Mubi l’innesco della visione dell’utente del miglior contenuto emotivo nella selezione dei film dimenticati ma capaci di ridare respiro alla nostra storia d’affezioni cinematografiche. E’ nella caleidoscopìa astratta dell’on demand che il contenuto (il ricordo in e de La Jetée) viene ripreso (su richiesta) e offerto alle regole della visione contemporanea. E dove tutto riemerge, la visione, per affioramento, screma. Dalla nostra posizione onniveggente, dove il passato e il futuro si appiattiscono in un prolisso presente, senza alcuno iato di progresso dell’immaginario culturale, riversiamo verso il passato, verso La Jetée, verso la certezza del ricordo emozionale. Un altrove distante, uno spazio saturo di momenti già trascorsi, di fotografie già scattate, di sapori già conosciuti, dentro a film rivisti che possono ritornare alla visione come singhiozzi sentimentali. Tra le immagini di una geografia neurale sempre più interconnessa, nel mare magnum della memoria visivo-collettiva culturale, ricorsiva, riordinabile, ammaliante nel suo sfarzo algoritmico, il sapore della rimembranza proustiana passa per l’accessibilità. Questo portale si apre sui corridoi di codici binari dove le personalità autoriali si traducono in icone, macigni sul nulla, riemersi nella liquidità di un presente cross-device. Un tempio per immagini sacre, crepe dalle quali prova a riemergere la Storia; stiamo già nei territori neurali di Ballard (grande estimatore di Chris Marker), ma dove la mostra delle atrocità viene sostituita dall'esposizione del riemerso, quel luogo dove il frammento postmodernista trova una collocazione spazio-temporale dentro ad un recipiente di vetro sottovuoto, accessibile e trasparente.     

Potremmo essere noi quell’umanità del futuro che ricerca nel passato un motivo di resistere e di esistere alla messa in scena della Storia. Spettatori oltre le stelle, marziani con lo sguardo al passato, abitanti di un futuro sconfinato, colti nell'impresa di galleggiare nel peso dei big data contents che sfiorano il limite dell’eternità digitale.

Potremmo essere noi, a tornare in vita (entità pulsanti nel magma della Storia) rivivendo, da protagonisti, quell’attimo fotografico indelebile, o reinterpretando quella selezionata scena di quel film specifico che non riusciamo a dimenticare, a destoricizzare. Dagli istanti passati in compagnia di Hélène Châtelain, rivissuti emotivamente tramite la nostra saudade cinematografica, allo zoo o al museo di storia naturale, o agli attimi su quel molo, la nostra memoria viene mossa in un gaze tour emotivo, sospinta nel passato per fuggire a quella particolare sensazione salmastra di vuoto che caratterizza il nostro presente. Protagonisti e testimoni all’umanità del domani del racconto di un’esistenza (e contestualizzando storicizzarla) in un presente sempre più onnicomprensivo, ricorsivo e infinito.

Un andirivieni pneumatico da un futuro impalpabile ad un immaginario sbriciolato, parcellizzato nella sicurezza della sua presenza e accessibilità. Cosa rimane nell’oggi de La Jetée? Quali residui rimangono nel cloud informativo del passaggio di una tempesta elettrica foto-audiovisiva che fa del tempo un “documento”? “…e in tutto questo un senso eccezionale dell’istante [..] la fotografia possiede una dimensione documentaria ineluttabile. Non duplica il tempo, come fa il film: lo sospende, lo frantuma, lo gela e nel far questo lo “documenta” (Raymond Bellour, in L’Entre-Images, La Difference, Parigi 1990). In un tempo così pienamente documentato, dove il realismo si confonde con il Reale, tutto il contenuto del tempo universale (e culturale) si solidifica dentro a dell'ambra digitalizzata. E’ nel terrore che si prova di fronte alla consapevolezza di un ricordo che si sta dissolvendo, nel brivido per il film che è accessibile in un tempo ben definito, nella soddisfazione della riscoperta della memoria riacquisita tramite la Videoteca digitale, che resistiamo e che La Jetée oggi esiste. Consapevoli che un domani quel ricordo\contenuto, emotivamente rivissuto, potrà cessare di esistere come nodo quantistico per condensarsi, nuovamente, in un cumulonembo attivo di questa grande nuvola digitale.  

Oltremodo consapevoli che si può sempre tornare nostalgicamente lì, sul quel molo di Orly, pronti a fare il salto oltre la balaustra: soddisfatti dei nostri ricordi che ci perseguitano ora come lieti fantasmi.

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Chris Marker Hélène Chatelain Davos Hanich Jacques Ledoux 28 minuti
Francia 1963
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Speciale MUBI / Sacrificio

di Andrea Fontana
Sacrificio - tarkovsky recensione film

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Erano gli anni Novanta, e allora la scoperta cinefila era davvero un’avventura. Era necessario uno sforzo di indagine, un movimento fisico, un impegno di rara intensità. Si utilizzavano canali ufficiali e meno ufficiali, si andava ai Festival per vedere film che altrimenti non si sarebbero mai visti, si leggeva (sì, si leggeva) una critica che non esiste più. Allora, nel pieno della mia adolescenza che tutto fagocitava (immagini, suoni, letture), scoprii Andrej Tarkovskij. Mi fu suggerito dai miei attuali suoceri, che notarono il fuoco ardente della passione cinefila. Non ero preparato: Tarkovskij, come Antonioni e Malick prima, mi lacerò il cervello, mi costrinse a ripensare al mondo, alla spiritualità, alla messa in scena, al racconto, alla vita e alla morte. Divorai tutto, in ordine perfettamente non cronologico. Esordi e film maturi, un percorso invertito e illogico che mi permise di immergermi in un magma di immagini, suoni e concetti tali da generare un’esperienza a tratti mistica i cui effetti, nonostante gli anni, sento ancora oggi: Andrej Rublev, L’infanzia di Ivan, Solaris, Stalker e Nostalghia. Lessi anche Scolpire il tempo che trovai criptico, complicato, filosofeggiante eppure urgente. Insomma, vidi tutto. Tutto tranne l’ultimo film del maestro russo, quel film di cui lessi tanto ma che non si trovava. Il film-testamento con cui disse addio al cinema e alla vita: Sacrificio (Offret).

Per scrivere questo pezzo, dove memoria personale e riflessione specifica si mescolano senza soluzione di continuità, ho dovuto ricostruire quel puzzle confuso che è la mia formazione cinefila. E mi sono stupito, sebbene lo sapessi, di come realtà fattuale e ricordi si ritrovino a intrecciarsi e a influenzarsi a vicenda. Quando vidi Sacrificio la prima volta? A qualche rassegna? A casa di un amico? No, sono piuttosto sicuro che lo registrai quando fu trasmesso da Fuori Orario. Tutto può essere vero e falso insieme. Fatto sta che di quel film così bergmaniano, che voleva raccontare la fine e l’inizio, ebbi una visione, la prima, decenni fa. Poi, il vuoto. Fino a quando MUBI non lo ha messo all’interno della sua programmazione. E l'ho rivisto. Una persona diversa, con una vita diversa, un po’ disilluso nei confronti del cinema eppure sempre innamorato, conscio del radicale cambiamento che il settore della critica ha vissuto nel frattempo, essendone testimone indiretto. Ed è cambiato qualcosa da una visione all’altra? Sì, ovvio. Come sempre.

È cambiata, innanzitutto, la fruizione. Il cinema è diventato liquido, quello dello streaming, quello dell’accesso per tutti e a tutto. Il dibattito sul cinema è cambiato: ora si discute se ha senso andare in sala se si può stare a casa, sul proprio divano. Lo avresti detto vent’anni fa?
È cambiato il cinema in sé, i meccanismi di distribuzione, di visione, di fruizione, di percezione. E, ancora, sono cambiato io. Improvvisamente mi rendo conto che Sacrificio racconta anche di questo disorientamento storico, di questo sentirmi e sentirci fuori luogo. Racconta di Alexander che, in un’isola svedese, festeggia il suo compleanno circondato da amici e familiari. Poi arriva la notizia di un’imminente fine, un’apocalisse. E Alexander prega affinché tutto torni come prima.

Sacrificio è stato, per Tarkovskij, un ritorno al suo cinema degli anni Settanta, dopo l’esperienza apolide di Nostalghia. È stata l’opportunità per omaggiare il grande Bergman, l’unico autore che amasse davvero, come emerge anche nei suoi diari raccolti in Martirologio. Ma, soprattutto, è stata l’occasione per riflettere sul passato, il presente e il futuro, attraverso la lente distorta e intima della fede. È in quell’astrattezza indefinita che Tarkovskij ripone il suo messaggio per il mondo, non la presunzione di saper interpretare le dinamiche del mondo ma il coraggio di gettarsi nel buio del mistero, di rifiutare la radicalità del razionale e abbracciare l’obnubilamento dell’indefinito. Soprattutto, il coraggio di sacrificarsi. Alexander, nel noto finale, brucia la casa, rinuncia al figlio simbolo del futuro, affinché il mondo possa resuscitare dalle proprie ceneri. Migliore, nuovo, diverso. Così come il cinema di Tarkovskij che, con Sacrificio, si azzera, si riduce a cenere. Vien da chiedersi come sarebbe stato il cinema tarkovskijano post Sacrificio. Domanda inutile, naturalmente.

Nel frattempo ripenso a come era bello e misterioso vivere di cinema in un periodo in cui bisognava conquistarlo. Oggi è diverso, è vero, ma, su MUBI, Sacrificio è ancora lì, a disposizione degli utenti. E penso che tutto muta, tutto cambia. Io, il cinema, la fruizione del cinema. A parte l’assolutezza di Tarkovskij. Quella rimarrà a prescindere dalle variabili della realtà.

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Andrej Tarkovskij Erland Josephson Gudrun Gisladottir Susan Fleetwood Sven Wollter 149 minuti
Francia, UK, Svezia 1986
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Speciale MUBI / A Russian Youth

di Leonardo Gregorio
a-russian-youth - recensione film

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E se davvero il tempo fosse un animaletto soffice, come lo chiama Sokurov? È assai probabile che con lui sia d’accordo Alexander Zolotukhin, classe 1988, che del grande regista siberiano è stato allievo e su di lui ha potuto contare per la produzione creativa di A Russian Youth, suo film d’esordio, lanciato dal Forum del Festival di Berlino nel 2019 e inserito nella Videoteca di MUBI nel 2020. Perché questo è un film fuori dal tempo, perché qui di tempo ce n’è troppo e troppo poco, è dominatore e dominato, reale e irreale, un misterioso gioco di relazioni, un flusso lento, ipnotico, radicale, che scivola sui corpi, sulle cose, sull’arte, la violenza, le voci, la Storia. Che li penetra. In poco più di un’ora la Prima Guerra Mondiale e un’orchestra d’oggi misteriosamente dialogano, come in uno strano specchio, in un riflettersi paradossale che è nella lingua del cinema, una lingua dei segni. Come se il passato fosse un ritorno al futuro, come se il presente fosse già successo. Un intreccio inestricabile, una coabitazione sensoriale, quasi due film in cortocircuito.

Qui, quella dell’Occhio del Novecento è resa e resistenza insieme, una domanda assurda, irrisolvibile questione dello sguardo. Sguardo del quale il giovanissimo soldato Alexey (Vladimir Korolev) viene subito deprivato: è la sua prima battaglia, i tedeschi attaccano col gas e il ragazzo perde la vista. Da un grande imbuto metallico, allora, dovrà intercettare le aggressioni aeree del nemico. Che è più preparato, più forte. Certo, ma il film bellico, qui, non è un genere, è teoria dell’immagine e una smarginatura, lo spazio delle avventure di Alexey, che parrebbe creatura appena nata, che nulla conosce, quasi fosse un altro Pinocchio. E il Concerto per pianoforte n. 3 in re minore, op. 30 e le Danze Sinfoniche, op. 45 di Rachmaninov, nelle prove degli orchestrali, e ancor più i suoni, le voci, le interruzioni, le altre immagini di questi musicisti si insinuano dal loro mondo, dal secolo che è trascorso, nella fisicità, nella materialità quasi cartacea del racconto di guerra. Forme che si incarnano e disincarnano reciprocamente. Un’installazione vicendevole che fa di A Russian Youth una biografia collettiva e la storia di un giovane soldato cieco e dei suoi compagni, un corpo espanso, una dialettica audiovisiva, una lacerazione dolce e drammatica, un astratto luogo temporale, un’impossibile, dilatante sintesi memoriale (memoria del cinema, nel solco del maestro Sokurov, di Tarkovskij? Memoria di una nazione tra zarismo e rivoluzione che verrà? Memoria del presente? Memorie immaginarie?). Zolotukhin non confonde mai ma disorienta sempre: cosa guardano, dove guardano questi orchestrali nelle pause, nei sorrisi, quando scrutano, si incantano, ascoltano? E se Alexey fosse un loro sogno? E se quegli orchestrali in realtà fossimo noi? Ecco, dove siamo noi in questo film necessariamente immersivo e dispersivo insieme, nella guerra di Alexey che involontariamente insozza la divisa di un suo superiore e viene impietosamente punito, Alexey che gioca al solletico con un suo compagno, che ha bisogno di aiuto ma finge non sia così, che non può vedere, che cade, si rialza, si perde? Chi sono questi personaggi? Sono corpi, fantasmi? La forma qui non è gabbia concettuale ma desiderio, una forma aperta, la progressione non è drammaturgica ma immaginativa, A Russian Youth è così lontano così vicino, non è un film doppio, duplice, è un film doppiofondo, un oggetto chiaro e misterioso. E il tempo, sì, forse è davvero un animaletto soffice. Ma il cinema, questo è sicuro, non potrà mai essere il suo padrone.

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Alexander Zolotukhin Vladimir Korolev Mikhail Buturlov Filipp Dyachkov 72 minuti
Russia 2019
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Speciale MUBI / Filmstudie

di Martina Mele
Filmstudie - recensione film

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Sono ossessionata dalle immagini da sempre: scatoloni strabordanti di immagini di famiglia, album del matrimonio dei miei, album di nascita di noi tre fratelli, rullini mai sviluppati, scampoli di pellicole e filmati datati 1975 sui comizi comunisti di mio nonno. Vedere tutto e morbosamente. Perché l’immagine è un evento, una esperienza continua di molteplici prospettive sul mondo, una trasformazione della percezione che abbiamo di noi stessi.
Un film che spiega questa parte di me per così dire “voyeuristica” è Fimstudie (Film Study) di Hans Richter, cortometraggio sperimentale girato nel 1929, scoperto nel tempo della mia formazione e rivisto oggi nel 2020 attraverso MUBI. Più che uno "studio del film", Filmstudie è uno studio dell'occhio, o meglio delle modalità di visione che l'occhio può sperimentare.

filmstudie

Nel delicato periodo storico che stiamo vivendo, e soprattutto nella fase del Lockdown, il cinema ha prodotto sguardi nuovi, sguardi altri, attraverso la spasmodica frequentazione di piattaforme OTT: MUBI, RaiPlay, i servizi in streaming delle varie cineteche. Esse strappano il film dal suo contesto di destinazione originario, ovvero la sala cinematografica, per consegnarlo a nuove formule di esperienza spettatoriale. Dalla visione condivisa si è passati a una visione ancora più intima e privata e ciò ha rilanciato la necessità di riflettere sulla dimensione di crescita gnoseologica dello spettatore, movimento di cui il cinema, e in questo caso Filmstudie, è paradigmatico. Si tratta di una crescita indipendente dalle modalità di fruizione del film: «un oggetto muore quando lo sguardo vivente, disciplinato ad interpretarlo, scompare», per citare Les statues meurent aussi (1953) di Chris Marker e Alain Resnais. Sì perché la vera esperienza artistico-spettatoriale si avvera nell'insopprimibile incontro tra soggetto osservante e opera d’arte/film e non in luoghi e tempi specifici. Un incontro che il concetto gadameriano di trasmutazione in forma esplica splendidamente: con trasmutazione non s'intende un mero cambiamento bensì che un qualcosa, tutto in una volta e in quanto totalità, è qualcosa d’altro. Nella definizione di trasmutazione è incluso anche il valore gnoseologico dell’arte, e ciò significa che l’esperienza artistica rappresenta una vera e propria esperienza conoscitiva sia del reale – comportando che tale trasmutazione non contempla semplicemente il trasferimento in un altro mondo ma in una nuova conoscenza del mondo stesso in cui viviamo – sia di chi il mondo lo esperisce: l'esperienza artistica, e dunque cinematografica, è tale quando suscita un cambiamento nelle prospettive di chi la vive.

Esemplificativo di questo Zwiesprache, ovvero di questo dialogo tra immagine e spettatore, in Filmstudie è sicuramente la sovrimpressione tra occhio e volto umano a lasciar intendere la costituzione di una nuova identità soggettiva e di modus videndi rinnovati.
Dunque, alle strategie di visione proprie delle piattaforme OTT e alla contemporaneità dello spettatore rispetto ad esse (nel senso di essere immanente alla visione) è strettamente raccordata una riflessione sull'assenza di uno statuto ontologico sicuro dell'immagine che porta ad una continua messa in discussione e rielaborazione sia del concetto di sguardo che del concetto di forma: «Una forma senza sguardo è una forma cieca. Ha bisogno di uno sguardo, certo, ma guardare non è semplicemente vedere, e neanche osservare con maggiore o minore “competenza”: uno sguardo suppone l’implicazione, l’essere-affetti che si riconosce, in questa stessa implicazione, come soggetto. Reciprocamente, uno sguardo senza forma e senza formula resta uno sguardo muto»[1], scrive George Didi-Huberman.

Difendendo il principio di continuità tra esistenza e film, più che tra film e luoghi e mezzi di fruizione di quest'ultimo, ancora più durante il periodo di quarantena, le piattaforme OTT hanno recuperato l'immagine cinematografica nel suo valore di strumento auto-comprensivo per lo spettatore: il soggetto si conosce avendo, grazie a uno spettro molto vasto di rinnovati punti di vista e nuovi approcci, una più raffinata prensione percettiva di sé oltre che del mondo.

[1] Didi-Huberman G, L'immagine brucia, in Pinottti A., Somaini A, Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009, p.258.

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Hans Richter 7 minuti
Germania 1926
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