Speciale MUBI / La Jetée

di Giorgio Sedona
La Jetée di Chris Marker

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Un vettore pneumatico in uno spazio digitale. La direzione che punta verso il passato. Un passato monotono senza un punto di congiunzione in nessun futuro, un costante ed eterno passato che si riversa in un presente ondivago, azzerando il divenire. Nella parcellizzazione post-fordista socio-psicologica il passato è un tempo fluido, dalla forza lavoro sempre più flessibile al conflitto psicologico che attanaglia l’individuo contemporaneo sempre più scosso dal bipolarismo economico capitalista. Il rimedio diventa il ricordo, la memoria, anch’essa d’essenza nebulosa, ma capace di spasmi raggelanti, di frammenti d’attimi fotografici, parti infinitesimali di una narrazione condensati in un'alternanza foto-audiovisiva e recuperati per i visitatori del futuro. Visioni scelte, da riportare nel presente per resistere al vuoto nuclearizzato di una nuova era. Come per Davos Hanich è il sentimento - “documento” - della visione rivissuto in un’istantanea ad innescare il ricordo della donna e del molo; così si riversa in Mubi l’innesco della visione dell’utente del miglior contenuto emotivo nella selezione dei film dimenticati ma capaci di ridare respiro alla nostra storia d’affezioni cinematografiche. E’ nella caleidoscopìa astratta dell’on demand che il contenuto (il ricordo in e de La Jetée) viene ripreso (su richiesta) e offerto alle regole della visione contemporanea. E dove tutto riemerge, la visione, per affioramento, screma. Dalla nostra posizione onniveggente, dove il passato e il futuro si appiattiscono in un prolisso presente, senza alcuno iato di progresso dell’immaginario culturale, riversiamo verso il passato, verso La Jetée, verso la certezza del ricordo emozionale. Un altrove distante, uno spazio saturo di momenti già trascorsi, di fotografie già scattate, di sapori già conosciuti, dentro a film rivisti che possono ritornare alla visione come singhiozzi sentimentali. Tra le immagini di una geografia neurale sempre più interconnessa, nel mare magnum della memoria visivo-collettiva culturale, ricorsiva, riordinabile, ammaliante nel suo sfarzo algoritmico, il sapore della rimembranza proustiana passa per l’accessibilità. Questo portale si apre sui corridoi di codici binari dove le personalità autoriali si traducono in icone, macigni sul nulla, riemersi nella liquidità di un presente cross-device. Un tempio per immagini sacre, crepe dalle quali prova a riemergere la Storia; stiamo già nei territori neurali di Ballard (grande estimatore di Chris Marker), ma dove la mostra delle atrocità viene sostituita dall'esposizione del riemerso, quel luogo dove il frammento postmodernista trova una collocazione spazio-temporale dentro ad un recipiente di vetro sottovuoto, accessibile e trasparente.     

Potremmo essere noi quell’umanità del futuro che ricerca nel passato un motivo di resistere e di esistere alla messa in scena della Storia. Spettatori oltre le stelle, marziani con lo sguardo al passato, abitanti di un futuro sconfinato, colti nell'impresa di galleggiare nel peso dei big data contents che sfiorano il limite dell’eternità digitale.

Potremmo essere noi, a tornare in vita (entità pulsanti nel magma della Storia) rivivendo, da protagonisti, quell’attimo fotografico indelebile, o reinterpretando quella selezionata scena di quel film specifico che non riusciamo a dimenticare, a destoricizzare. Dagli istanti passati in compagnia di Hélène Châtelain, rivissuti emotivamente tramite la nostra saudade cinematografica, allo zoo o al museo di storia naturale, o agli attimi su quel molo, la nostra memoria viene mossa in un gaze tour emotivo, sospinta nel passato per fuggire a quella particolare sensazione salmastra di vuoto che caratterizza il nostro presente. Protagonisti e testimoni all’umanità del domani del racconto di un’esistenza (e contestualizzando storicizzarla) in un presente sempre più onnicomprensivo, ricorsivo e infinito.

Un andirivieni pneumatico da un futuro impalpabile ad un immaginario sbriciolato, parcellizzato nella sicurezza della sua presenza e accessibilità. Cosa rimane nell’oggi de La Jetée? Quali residui rimangono nel cloud informativo del passaggio di una tempesta elettrica foto-audiovisiva che fa del tempo un “documento”? “…e in tutto questo un senso eccezionale dell’istante [..] la fotografia possiede una dimensione documentaria ineluttabile. Non duplica il tempo, come fa il film: lo sospende, lo frantuma, lo gela e nel far questo lo “documenta” (Raymond Bellour, in L’Entre-Images, La Difference, Parigi 1990). In un tempo così pienamente documentato, dove il realismo si confonde con il Reale, tutto il contenuto del tempo universale (e culturale) si solidifica dentro a dell'ambra digitalizzata. E’ nel terrore che si prova di fronte alla consapevolezza di un ricordo che si sta dissolvendo, nel brivido per il film che è accessibile in un tempo ben definito, nella soddisfazione della riscoperta della memoria riacquisita tramite la Videoteca digitale, che resistiamo e che La Jetée oggi esiste. Consapevoli che un domani quel ricordo\contenuto, emotivamente rivissuto, potrà cessare di esistere come nodo quantistico per condensarsi, nuovamente, in un cumulonembo attivo di questa grande nuvola digitale.  

Oltremodo consapevoli che si può sempre tornare nostalgicamente lì, sul quel molo di Orly, pronti a fare il salto oltre la balaustra: soddisfatti dei nostri ricordi che ci perseguitano ora come lieti fantasmi.

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Chris Marker Hélène Chatelain Davos Hanich Jacques Ledoux 28 minuti
Francia 1963
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Speciale MUBI / Sacrificio

di Andrea Fontana
Sacrificio - tarkovsky recensione film

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Erano gli anni Novanta, e allora la scoperta cinefila era davvero un’avventura. Era necessario uno sforzo di indagine, un movimento fisico, un impegno di rara intensità. Si utilizzavano canali ufficiali e meno ufficiali, si andava ai Festival per vedere film che altrimenti non si sarebbero mai visti, si leggeva (sì, si leggeva) una critica che non esiste più. Allora, nel pieno della mia adolescenza che tutto fagocitava (immagini, suoni, letture), scoprii Andrej Tarkovskij. Mi fu suggerito dai miei attuali suoceri, che notarono il fuoco ardente della passione cinefila. Non ero preparato: Tarkovskij, come Antonioni e Malick prima, mi lacerò il cervello, mi costrinse a ripensare al mondo, alla spiritualità, alla messa in scena, al racconto, alla vita e alla morte. Divorai tutto, in ordine perfettamente non cronologico. Esordi e film maturi, un percorso invertito e illogico che mi permise di immergermi in un magma di immagini, suoni e concetti tali da generare un’esperienza a tratti mistica i cui effetti, nonostante gli anni, sento ancora oggi: Andrej Rublev, L’infanzia di Ivan, Solaris, Stalker e Nostalghia. Lessi anche Scolpire il tempo che trovai criptico, complicato, filosofeggiante eppure urgente. Insomma, vidi tutto. Tutto tranne l’ultimo film del maestro russo, quel film di cui lessi tanto ma che non si trovava. Il film-testamento con cui disse addio al cinema e alla vita: Sacrificio (Offret).

Per scrivere questo pezzo, dove memoria personale e riflessione specifica si mescolano senza soluzione di continuità, ho dovuto ricostruire quel puzzle confuso che è la mia formazione cinefila. E mi sono stupito, sebbene lo sapessi, di come realtà fattuale e ricordi si ritrovino a intrecciarsi e a influenzarsi a vicenda. Quando vidi Sacrificio la prima volta? A qualche rassegna? A casa di un amico? No, sono piuttosto sicuro che lo registrai quando fu trasmesso da Fuori Orario. Tutto può essere vero e falso insieme. Fatto sta che di quel film così bergmaniano, che voleva raccontare la fine e l’inizio, ebbi una visione, la prima, decenni fa. Poi, il vuoto. Fino a quando MUBI non lo ha messo all’interno della sua programmazione. E l'ho rivisto. Una persona diversa, con una vita diversa, un po’ disilluso nei confronti del cinema eppure sempre innamorato, conscio del radicale cambiamento che il settore della critica ha vissuto nel frattempo, essendone testimone indiretto. Ed è cambiato qualcosa da una visione all’altra? Sì, ovvio. Come sempre.

È cambiata, innanzitutto, la fruizione. Il cinema è diventato liquido, quello dello streaming, quello dell’accesso per tutti e a tutto. Il dibattito sul cinema è cambiato: ora si discute se ha senso andare in sala se si può stare a casa, sul proprio divano. Lo avresti detto vent’anni fa?
È cambiato il cinema in sé, i meccanismi di distribuzione, di visione, di fruizione, di percezione. E, ancora, sono cambiato io. Improvvisamente mi rendo conto che Sacrificio racconta anche di questo disorientamento storico, di questo sentirmi e sentirci fuori luogo. Racconta di Alexander che, in un’isola svedese, festeggia il suo compleanno circondato da amici e familiari. Poi arriva la notizia di un’imminente fine, un’apocalisse. E Alexander prega affinché tutto torni come prima.

Sacrificio è stato, per Tarkovskij, un ritorno al suo cinema degli anni Settanta, dopo l’esperienza apolide di Nostalghia. È stata l’opportunità per omaggiare il grande Bergman, l’unico autore che amasse davvero, come emerge anche nei suoi diari raccolti in Martirologio. Ma, soprattutto, è stata l’occasione per riflettere sul passato, il presente e il futuro, attraverso la lente distorta e intima della fede. È in quell’astrattezza indefinita che Tarkovskij ripone il suo messaggio per il mondo, non la presunzione di saper interpretare le dinamiche del mondo ma il coraggio di gettarsi nel buio del mistero, di rifiutare la radicalità del razionale e abbracciare l’obnubilamento dell’indefinito. Soprattutto, il coraggio di sacrificarsi. Alexander, nel noto finale, brucia la casa, rinuncia al figlio simbolo del futuro, affinché il mondo possa resuscitare dalle proprie ceneri. Migliore, nuovo, diverso. Così come il cinema di Tarkovskij che, con Sacrificio, si azzera, si riduce a cenere. Vien da chiedersi come sarebbe stato il cinema tarkovskijano post Sacrificio. Domanda inutile, naturalmente.

Nel frattempo ripenso a come era bello e misterioso vivere di cinema in un periodo in cui bisognava conquistarlo. Oggi è diverso, è vero, ma, su MUBI, Sacrificio è ancora lì, a disposizione degli utenti. E penso che tutto muta, tutto cambia. Io, il cinema, la fruizione del cinema. A parte l’assolutezza di Tarkovskij. Quella rimarrà a prescindere dalle variabili della realtà.

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Andrej Tarkovskij Erland Josephson Gudrun Gisladottir Susan Fleetwood Sven Wollter 149 minuti
Francia, UK, Svezia 1986
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Speciale MUBI / A Russian Youth

di Leonardo Gregorio
a-russian-youth - recensione film

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

E se davvero il tempo fosse un animaletto soffice, come lo chiama Sokurov? È assai probabile che con lui sia d’accordo Alexander Zolotukhin, classe 1988, che del grande regista siberiano è stato allievo e su di lui ha potuto contare per la produzione creativa di A Russian Youth, suo film d’esordio, lanciato dal Forum del Festival di Berlino nel 2019 e inserito nella Videoteca di MUBI nel 2020. Perché questo è un film fuori dal tempo, perché qui di tempo ce n’è troppo e troppo poco, è dominatore e dominato, reale e irreale, un misterioso gioco di relazioni, un flusso lento, ipnotico, radicale, che scivola sui corpi, sulle cose, sull’arte, la violenza, le voci, la Storia. Che li penetra. In poco più di un’ora la Prima Guerra Mondiale e un’orchestra d’oggi misteriosamente dialogano, come in uno strano specchio, in un riflettersi paradossale che è nella lingua del cinema, una lingua dei segni. Come se il passato fosse un ritorno al futuro, come se il presente fosse già successo. Un intreccio inestricabile, una coabitazione sensoriale, quasi due film in cortocircuito.

Qui, quella dell’Occhio del Novecento è resa e resistenza insieme, una domanda assurda, irrisolvibile questione dello sguardo. Sguardo del quale il giovanissimo soldato Alexey (Vladimir Korolev) viene subito deprivato: è la sua prima battaglia, i tedeschi attaccano col gas e il ragazzo perde la vista. Da un grande imbuto metallico, allora, dovrà intercettare le aggressioni aeree del nemico. Che è più preparato, più forte. Certo, ma il film bellico, qui, non è un genere, è teoria dell’immagine e una smarginatura, lo spazio delle avventure di Alexey, che parrebbe creatura appena nata, che nulla conosce, quasi fosse un altro Pinocchio. E il Concerto per pianoforte n. 3 in re minore, op. 30 e le Danze Sinfoniche, op. 45 di Rachmaninov, nelle prove degli orchestrali, e ancor più i suoni, le voci, le interruzioni, le altre immagini di questi musicisti si insinuano dal loro mondo, dal secolo che è trascorso, nella fisicità, nella materialità quasi cartacea del racconto di guerra. Forme che si incarnano e disincarnano reciprocamente. Un’installazione vicendevole che fa di A Russian Youth una biografia collettiva e la storia di un giovane soldato cieco e dei suoi compagni, un corpo espanso, una dialettica audiovisiva, una lacerazione dolce e drammatica, un astratto luogo temporale, un’impossibile, dilatante sintesi memoriale (memoria del cinema, nel solco del maestro Sokurov, di Tarkovskij? Memoria di una nazione tra zarismo e rivoluzione che verrà? Memoria del presente? Memorie immaginarie?). Zolotukhin non confonde mai ma disorienta sempre: cosa guardano, dove guardano questi orchestrali nelle pause, nei sorrisi, quando scrutano, si incantano, ascoltano? E se Alexey fosse un loro sogno? E se quegli orchestrali in realtà fossimo noi? Ecco, dove siamo noi in questo film necessariamente immersivo e dispersivo insieme, nella guerra di Alexey che involontariamente insozza la divisa di un suo superiore e viene impietosamente punito, Alexey che gioca al solletico con un suo compagno, che ha bisogno di aiuto ma finge non sia così, che non può vedere, che cade, si rialza, si perde? Chi sono questi personaggi? Sono corpi, fantasmi? La forma qui non è gabbia concettuale ma desiderio, una forma aperta, la progressione non è drammaturgica ma immaginativa, A Russian Youth è così lontano così vicino, non è un film doppio, duplice, è un film doppiofondo, un oggetto chiaro e misterioso. E il tempo, sì, forse è davvero un animaletto soffice. Ma il cinema, questo è sicuro, non potrà mai essere il suo padrone.

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Alexander Zolotukhin Vladimir Korolev Mikhail Buturlov Filipp Dyachkov 72 minuti
Russia 2019
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Speciale MUBI / Filmstudie

di Martina Mele
Filmstudie - recensione film

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Sono ossessionata dalle immagini da sempre: scatoloni strabordanti di immagini di famiglia, album del matrimonio dei miei, album di nascita di noi tre fratelli, rullini mai sviluppati, scampoli di pellicole e filmati datati 1975 sui comizi comunisti di mio nonno. Vedere tutto e morbosamente. Perché l’immagine è un evento, una esperienza continua di molteplici prospettive sul mondo, una trasformazione della percezione che abbiamo di noi stessi.
Un film che spiega questa parte di me per così dire “voyeuristica” è Fimstudie (Film Study) di Hans Richter, cortometraggio sperimentale girato nel 1929, scoperto nel tempo della mia formazione e rivisto oggi nel 2020 attraverso MUBI. Più che uno "studio del film", Filmstudie è uno studio dell'occhio, o meglio delle modalità di visione che l'occhio può sperimentare.

filmstudie

Nel delicato periodo storico che stiamo vivendo, e soprattutto nella fase del Lockdown, il cinema ha prodotto sguardi nuovi, sguardi altri, attraverso la spasmodica frequentazione di piattaforme OTT: MUBI, RaiPlay, i servizi in streaming delle varie cineteche. Esse strappano il film dal suo contesto di destinazione originario, ovvero la sala cinematografica, per consegnarlo a nuove formule di esperienza spettatoriale. Dalla visione condivisa si è passati a una visione ancora più intima e privata e ciò ha rilanciato la necessità di riflettere sulla dimensione di crescita gnoseologica dello spettatore, movimento di cui il cinema, e in questo caso Filmstudie, è paradigmatico. Si tratta di una crescita indipendente dalle modalità di fruizione del film: «un oggetto muore quando lo sguardo vivente, disciplinato ad interpretarlo, scompare», per citare Les statues meurent aussi (1953) di Chris Marker e Alain Resnais. Sì perché la vera esperienza artistico-spettatoriale si avvera nell'insopprimibile incontro tra soggetto osservante e opera d’arte/film e non in luoghi e tempi specifici. Un incontro che il concetto gadameriano di trasmutazione in forma esplica splendidamente: con trasmutazione non s'intende un mero cambiamento bensì che un qualcosa, tutto in una volta e in quanto totalità, è qualcosa d’altro. Nella definizione di trasmutazione è incluso anche il valore gnoseologico dell’arte, e ciò significa che l’esperienza artistica rappresenta una vera e propria esperienza conoscitiva sia del reale – comportando che tale trasmutazione non contempla semplicemente il trasferimento in un altro mondo ma in una nuova conoscenza del mondo stesso in cui viviamo – sia di chi il mondo lo esperisce: l'esperienza artistica, e dunque cinematografica, è tale quando suscita un cambiamento nelle prospettive di chi la vive.

Esemplificativo di questo Zwiesprache, ovvero di questo dialogo tra immagine e spettatore, in Filmstudie è sicuramente la sovrimpressione tra occhio e volto umano a lasciar intendere la costituzione di una nuova identità soggettiva e di modus videndi rinnovati.
Dunque, alle strategie di visione proprie delle piattaforme OTT e alla contemporaneità dello spettatore rispetto ad esse (nel senso di essere immanente alla visione) è strettamente raccordata una riflessione sull'assenza di uno statuto ontologico sicuro dell'immagine che porta ad una continua messa in discussione e rielaborazione sia del concetto di sguardo che del concetto di forma: «Una forma senza sguardo è una forma cieca. Ha bisogno di uno sguardo, certo, ma guardare non è semplicemente vedere, e neanche osservare con maggiore o minore “competenza”: uno sguardo suppone l’implicazione, l’essere-affetti che si riconosce, in questa stessa implicazione, come soggetto. Reciprocamente, uno sguardo senza forma e senza formula resta uno sguardo muto»[1], scrive George Didi-Huberman.

Difendendo il principio di continuità tra esistenza e film, più che tra film e luoghi e mezzi di fruizione di quest'ultimo, ancora più durante il periodo di quarantena, le piattaforme OTT hanno recuperato l'immagine cinematografica nel suo valore di strumento auto-comprensivo per lo spettatore: il soggetto si conosce avendo, grazie a uno spettro molto vasto di rinnovati punti di vista e nuovi approcci, una più raffinata prensione percettiva di sé oltre che del mondo.

[1] Didi-Huberman G, L'immagine brucia, in Pinottti A., Somaini A, Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009, p.258.

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Hans Richter 7 minuti
Germania 1926
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Speciale MUBI / Jules e Jim

di Domenico Saracino
Jules e Jim - Mubi recensione film Truffaut

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Rivedere un film che si riconosce come intimamente fondamentale, nell’aver originato profondi solchi emotivi ed estetici in quel terreno fertile ma incolto che è l’animo adolescenziale, è operazione di archeologia psicoanalitica (il ri-vedere è in fondo soprattutto un ri-vedersi) e sentimentale (il ritorno a un amore passato, la riesumazione di un innamoramento, per le immagini, per i corpi).
Rivedere Jules e Jim, dunque, è per me tornare alla post maturità di un provinciale del Sud trapiantato a Roma, all’appassionato studio universitario della storia del cinema, alla prima vera infatuazione per i suoi maestosi pilastri, a notti colme di visioni e amori, odor di tabacco e spensierata voracità. È ritrovare nel triangolo amicale-amoroso tra Jules, Jim e Catherine, nelle loro confessioni e sofferenze, nelle loro corse e nei loro stalli, nei dialoghi brillanti e in certe precise parole, l’eco di un’empatia, di un’identificazione, di uno sconquassamento già sentiti, a suo tempo, e ora redivivi, rievocati come fantasmi dalla necromanzia del cinema; è rintracciare negli occhi scavati di Jeanne Moreau (occhi di marinaio che guardano lontano, iperscrutando la realtà, superandola), nella sua voce deliziosa, precipitosa, che intona Le Tourbillon de la vie, nella sua nuca e nei suoi movimenti, il ricordo di uno smarrimento amoroso, di un fervore felice che in quei momenti di visione era a lei esclusivamente riservato (ma che – non me ne voglia – era già stato e sarebbe stato dedicato a mille altre donne sullo schermo, da Monica Vitti a Margot Robbie).
Rivedere, allora, è un processo di ri-assemblamento di processi cognitivi e affettivi già attivati grazie al potere costituente e all’azione morfogena dell’immagine (Lacan e Metz), ovvero la (ri)costruzione del nostro io a partire da quelle pietre miliari del nostro immaginario che hanno via via contribuito a fabbricarlo. Ed è anche, soprattutto, un atto d’amore verso il cinema, la prova definitiva del riconoscimento del valore immenso che le immagini in movimento rivestono per i suoi accoliti. Cinefilia, insomma: pura e semplice adorazione per il cinema.
Una devozione, quella dei cinefili, che proprio con la Nouvelle Vague - di cui Jules e Jim rappresenta senza dubbio una delle creazioni più significative e rivelatrici - proprio nella Francia del dopoguerra, comincia per la prima volta nella storia ad affermarsi compiutamente, affrontando nei decenni a venire una comprensibilissima evoluzione, al passo delle trasformazioni sociali e tecnologiche. Arriviamo dunque alla conclusione di questo lungo ragionamento: se l’atto del rivedere un film è già, di per sé, frutto di una pulsione assimilabile alla cinefilia – come abbiamo cercato di suggerire –, allora rivedere uno dei film più iconici di un regista cinefilo come François Truffaut, su una piattaforma per cinefili come MUBI, sentendo l’esigenza di scriverne (la divulgazione, la diffusione, l’analisi critica, il proselitismo, finanche, sono tutti elementi fondamentali della cinefilia) è la quintessenza stessa della cinefilia, una sorta di ipercinefilia.

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Evoluzione dicevamo. Perché anche l’amore si evolve se a cambiare sono gli amanti: il cinema da un lato, sempre più frammentato nei suoi passaggi distributivi, lo spettatore appassionato dall’altro, sempre più desideroso di vedere quanto più cinema possibile, dove e quando vuole. Si potrebbe sintetizzare, prendendo in prestito le belle espressioni scelte da Thomas Elsaesser in uno dei saggi più interessanti sulla cinefilia ai tempi del digitale (in Cinephilia: Movies, Love and Memory, a cura di Marijke de Valck e Malte Hagener) che grazie agli archivi richiamabili su richiesta (on demand, se preferite) la cinefilia sia passata – almeno per le generazioni più giovani, cresciute con VHS, DVD, streaming, download e ora OTT – dall’essere «love that never lies»(la cinefilia come amore per l’originale, l’autenticità, la performance filmica come evento unico e irripetibile, ben fissato nel tempo e nello spazio) all’essere «love that never dies» (un sentimento riproducibile ad libitum, che si nutre di nostalgia e ripetizione, anytime, anywhere).

Lungi dall’essere morta, assieme al cinema stesso, come provocatoriamente profetizzato da Susan Sontag in un celeberrimo articolo apparso a metà degli anni ’90 sul New York Times, la nuova cinefilia ha abbracciato le nuove tecnologie, con tutti i benefici che derivano dalla democratizzazione dei piaceri del cinema (non più accessibili solo a una stretta cerchia di intellettuali metropolitani, frequentatori di festival e collezionisti), dovuta all’ampliamento vertiginoso degli archivi e alla moltiplicazione di piattaforme per la visione on demand dai costi tutto sommato contenuti.
Le piattaforme OTT come MUBI danno vita a una nuova età mediatica in cui i classici del passato coesistono con i cult recenti, in cui il nuovo cinema brasiliano, portato avanti da giovani cineasti ancora poco o per nulla conosciuti, coabita con i capolavori di Fassbinder, con l’esordio di Ken Loach o le opere della Nouvelle Vague. Questo significa anche crearsi la possibilità di ridare dignità a opere non particolarmente amate, fallimenti commerciali, stroncature immeritate. Film dimenticati, maltrattati, ripudiati che possono vivere una nuova vita e sentirsi nuovamente desiderati, vogliosi di uno sguardo.

Se è vero allora che la nuova cinefilia è “amore che non finisce mai” e che tiene insieme passato e presente, allora le moderne tecnologie sono il modo contemporaneo di ricordare e recuperare molti dei frammenti dell’enorme galassia della storia delle produzioni cinetelevisive. E questo, per cercatori di esperienze filmiche sempre nuove, non può che essere un bene.

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Francois Truffaut Jeanne Moreau Oskar Werner Henri Serre 100 minuti
Francia 1962
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Speciale MUBI / Fedora

di Riccardo Bellini
Fedora - recensione film Wilder

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«I am big. It’s the pictures that got small»

Come molti, non possiedo più un videoregistratore da una decina d’anni. In compenso non ho smesso di conservare le VHS di allora, che oggi occupano un modesto mobile del soggiorno (un tempo adibito a supporto per un giradischi, scomparso anch’esso). Tra queste, particolarmente cara e particolarmente consunta, riposa una copia di A qualcuno piace caldo, una delle prime fiamme del peccato della mia formazione cinefila. Film visto dozzine di volte da bambino, in compagnia di mia madre, e che ancora oggi ci lega molto. Grazie a lei, la scoperta della migliore Marylin di sempre, trascorrendo giorni tutt’altro che perduti in compagnia di Daphne-Lemmon e Josephine-Curtis. A pensarci bene, Billy Wilder è una presenza che scandisce varie tappe nella mia crescita di spettatore e studioso. Gloria Swanson arriva solo con l’adolescenza e già in piena epoca digitale, mentre appartengono a un’età molto più matura e agli albori dello streaming coatto punte di diamante come le tribolazioni del povero C.C. Baxter o il sublime e scalognato Fedora. A tutto ciò vanno ad aggiungersi, nel modo più irregolare possibile, recuperi in sala, DVD e passaggi televisivi. Vedere, rivedere, stravedere (per rifarmi a un incipit ghezziano). Difficile immaginare un panorama più ibrido e rizomatico. Impossibile, per un cinefilo cresciuto durante l’avvento del digitale e il disancoramento dell’opera dal luogo della sua fruizione, non prendere coscienza della fluidità che ha assunto la parola cinema nel suo dizionario (e lo dice comunque uno che non smetterà facilmente di esclamare «per fortuna l’ho visto in sala!»). Affatto trascurabile, quindi, riflettere su quanto questi mutamenti abbiano ripensato e continuino a ripensare le dinamiche affettive che ci legano al testo filmico.

L’avvento di MUBI si dimostra quanto mai puntuale intorno a questioni apertissime, soprattutto per la peculiarità della sua proposta di far dialogare presente e passato. Forse l’unica, nell’attuale panorama streaming, a tentare uno sconfinamento dall’impasse dicotomica nuovo/vecchio, eretici/ortodossi, apocalittici/integrati. Proprio il cinema di Wilder, scoperchiatore irrequieto con il piede sempre tra classicità e rinnovamento, funge allora da cartina tornasole  di un discorso che guarda al cinema da una prospettiva sempre più mobile, irrimediabilmente decentrata. Quasi emblematico allora che tra le riscoperte della Videoteca MUBI faccia capolino proprio una perla semi-dimenticata come Fedora.

Flop passato in sordina con una distribuzione limitata – la piattaforma di Efe Cakarel lo ha ripresentato insieme a Fondazione Prada nel progetto Perfect Failures –, ignorato dalla critica dell’epoca, frainteso come programmatico canto del cigno dell’autore, il penultimo film del regista austriaco è anche una delle sue opere più estreme. Fantasmagoria di barocco decadentismo non tanto sull’ennesima, stucchevole “morte del cinema” quanto, se rivisto oggi e lasciato dialogare con il “gemello” Viale del tramonto, sulla natura straordinariamente mutevole di un dispositivo che in meno di un secolo ha dovuto reinventarsi svariate volte, come una luce trasversalmente puntata sulla sua pulsante plasmabilità. «Il cinema è un lutto perfetto, è l’esaltazione del lavoro del lutto», dirà all’inizio del nuovo millennio Derrida. Se però il cinema è, da sempre e in modo immanente, materia di fantasmi, confronto inevitabile con la morte – e dunque al tempo stesso incessante rielaborazione – lo è anche nella misura in cui ha dovuto nel tempo confrontarsi con le istanze mutevoli dell’industria.

Fedora - recensione film Wilder 2

Fedora è sotto ogni punto di vista un film liminale. Opera installata lungo una terra di confine e un tempo sospeso, solo all’apparenza imperniata su un sentimento di nostalgia passatista. In questa accezione allora il suo carattere funereo acquista pienamente senso. Da un lato le stoccate a un sistema produttivo (americano) trasformato dalla congerie della New Hollywood («Oggi comandano i giovani barbuti. Non hanno bisogno di copioni gli basta andare in giro con una camera a mano»), dall’altro, a posteriori, l’imminente fine di quella stessa epoca di libertà creativa che si sarebbe chiusa solo tre anni più tardi, nel 1981, con un altro, ben più eclatante fallimento commerciale a firma Michael Cimino. Nel mezzo, lo sguardo che l’esule Wilder, in rotta con le Major e ora alle prese con uno dei suoi pochi film interamente girati e prodotti in Europa (la United Artists subentra solo come distributore), rivolge disilluso a quella classicità hollywoodiana che lui stesso ha contribuito a rimodellare e insieme a minare («Che cos’è? Un copione? Sarà l’ennesima porcheria hollywoodiana»). La stessa carriera di Wilder, dopo l’accoglienza tiepida di Prima pagina, si trova dunque a metà anni Settanta a una svolta che, a fronte delle difficoltà nel reperire finanziamenti per un nuovo progetto, concede al regista l’occasione di osservare Hollywood dall’esterno, aggiornando la riflessione sui suoi miti e sulla loro caducità. E ancora, ennesima conferma della natura liminale di Fedora è il suo collocarsi alle soglie del decennio, gli anni ottanta, in cui come dice Malavasi «cambia il modo di cambiare il cinema», con l’integrazione sempre più determinante con gli altri media, per cui le trasformazioni che investono la posta ontologica del cinema saranno sempre meno dipendenti da fattori intrinseci al linguaggio e sempre più connesse a mutamenti di ordine mediale. Non è un caso che Fedora si apra con l’annuncio televisivo della morte della protagonista e la diretta del pellegrinaggio alla camera mortuaria, con le telecamere pronte a vampirizzare la cerimonia in un reale già ridotto a spettacolo ininterrotto.

Fedora è una vertigine congelata, una corsa a capofitto tra spazi mentali, moto paralizzato che tenta di farci vacillare a ogni svolta. Come in Viale del tramonto, è un film che abita una zona di sospensione precipitata al di là del tempo. Là il corpo senza vita di William Holden dipanava il lungo flashback del film, qui lo stesso attore nei panni del produttore Barry Detweiler riesuma in una camera mortuaria il suo ricordo della diva Fedora. Quello che segue – o anticipa – è la ricerca disperata di un ideale cinematografico a cui aggrapparsi in un momento di transizione, di un modello cui guardare nell’epoca in cui al contrario i modelli si sgretolano a beneficio dei simulacri. L’oggetto di questa ricerca, il mito di Fedora come chimera cinematografica, resta cristallizzata in immagine mentale, la cui oggettività è dunque implicitamente compromessa dal confinamento nella distanza a-temporale del ricordo. Dimensione, quella memoriale, che nel momento in cui la diva appare come manifestazione di quell’ideale vagheggiato (la magnifica scena della piscina di ninfee) acuisce la propria distanza attraverso il raddoppiamento della mise en abyme con un doppio flashback. Wilder porta così alle estreme conseguenze il discorso già intrapreso in passato e si confronta, con ottica più spiccatamente postmoderna, con l’annosa questione identitaria del cinema che proprio  a partire da allora andrà complicando senza possibilità di ritorno il proprio quadro ontologico. Lo fa con un film aderente alla sensibilità contemporanea ma tutt’altro che impegnato a seguire mode e tendenze, operando semmai all’incrocio tra modernità e postmodernità. Perché Fedora è un film ancora troppo profondamente umano, ancora troppo legato ad una realtà che esiste oltre l’immagine cinematografica, e dunque ancora troppo struggente, per dirsi cinema postmoderno. Meglio di gran lunga chiamarlo cinema di frontiera.

Fedora - recensione film Wilder 2

Vedere, rivedere, stravedere. Oggi, «nell'epoca del simultaneo, nell'epoca della giustapposizione, nell'epoca del vicino e del lontano, del fianco a fianco, del disperso» (Foucault), proprio sul concetto di frontiera si gioca la partita di MUBI, ora che i mutamenti imposti dall’affermarsi delle piattaforme OTT subiscono il sollecito dell’emergenza sanitaria e dell’impatto che questa sta avendo sulla filiera distributiva, costretta a un ripensamento delle proprie modalità repentino ma ancora rapsodico, mentre molti esercenti nuotano nell’incertezza. Ora che insomma la situazione costringe a fare i conti, su più fronti, con l’evidenza opaca di un mutamento ben più traumatico rispetto a quello vissuto da Wilder, MUBI si innerva nel contesto guardando all’innovazione ma con un’offerta editoriale consapevole del panorama ancora multiforme in cui si inserisce, e dunque della resilienza di una fetta di pubblico cinefilo non solo ancora abituata e affezionata alla sala, ma anche ad una certa disciplina nei confronti delle immagini. Così allora la scelta di smarcarsi dal groviglio di Amazon, – dove i film vengono acquistati in blocco spesso senza definire una linea precisa (sovente capita di trovare veri e propri tesori solo spulciando a lungo nelle varie categorie) –, corredando invece i titoli con recensioni della rivista online Notebook e dando agli utenti la possibilità di commentare e lasciare le proprie recensioni, come in una sorta di cineforum virtuale. E ancora, l’uscita dalla logica della raccomandazione algoritmica, oltre alla fortuna, come si è visto, di poter scoprire o riscoprire film dimenticati, flop commerciali da rileggere in un contenitore più attento al loro inserimento e non per forza esclusivi di una piccola nicchia (mentre scrivo è appena entrato in cartellone Kundun di Scorsese). Insomma, in un panorama fremente ma incerto, MUBI offre senz’altro un’alternativa che tenta, pur guardando al futuro del cinema, di parlare in modo intelligente al suo passato, trovando un punto di incontro. A differenza di Fedora, non deve occultare la giovinezza delle proprie mani per fingersi ciò che non è, né come Norma Desmond vuole illudersi di vivere in un passato museale. Certo, anche il servizio di Cakarel non è esente da pecche. Una comunicazione più chiara sulla logica con cui alcuni titoli entrati nella Videoteca – che teoricamente dovrebbe essere permanente – sono invece soggetti a scadenza (Fedora infatti non è più disponibile), migliorerebbe l’offerta. Ma del resto, si sa, nessuno è perfetto.

Categoria
Billy Wilder William Holden Marthe Keller Hildegard Knef Henry Fonda 116 minuti
Francia, Germania Ovest 1978
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Speciale MUBI / Les chansons d'amour

di Matteo Marescalco
Les Chansons d'Amour - recensione film Honoré

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Sulle rive della Senna,
giovani ragazzi a mezzogiorno
Michel con Madeleine, Pierre
con Jeanne e Germaine
che cammina con Jean.
Se il cielo è pieno di uccelli,
cosa ti importa
del fuoco che brucia all’inferno?

Nel suo Saggio sul luogo tranquillo Peter Handke sostiene che, senza alcuna intenzione né tanto meno progetto, i luoghi tranquilli si possano creare attingendo da sé stessi, a seconda delle circostanze, in mezzo a un tumulto (anzi, proprio nel pieno del tumulto) o tra le chiacchiere a volte incomparabilmente più avvilenti per lo spirito. Luoghi simili si ergono all’improvviso, dal nulla, e offrono una protezione mentre si è intenti in altre attività esperienziali. Alle volte, accade qualcosa del genere non necessariamente durante un’esperienza ma grazie al puro ricordo di essa.
Capita così che, durante un viaggio di ritorno verso casa, gli spazi poco accoglienti di un treno si trasformino nel prototipo del luogo tranquillo, animato dal fuoco ormai spento di chi cerca nel futuro indefinito il desiderio di riabbracciare il passato o dall’indistinta energia vitale di chi, indefesso, confida sempre nei giorni a venire. Quelle persone a cui, normalmente, si guarderebbe con diffidenza e con la speranza che non intacchino la nostra sfera privata restituiscono una sensazione di approdo, di accoglienza e di familiarità. Possibile dopo quanto accaduto? Necessario e sorprendente. E, così, in quell’ora mattutina, il treno diventa un luogo unico, quasi impareggiabile, scenario privilegiato e condiviso dal quale ammirare i flussi segreti delle onde. Quel luogo ha curato la mia vulnerabilità, mi ha entusiasmato, ha illuminato la penombra crepuscolare del mio intimo. Possibile che quel luogo tranquillo fosse tale in virtù di una (di certo, paradossale) fuga dalla società, di una riluttanza e di una parziale sofferenza verso ogni compagnia? O, piuttosto, è sensato credere che i rumori provenienti dal mondo di fuori – la vibrazione del treno in corsa, il chiacchiericcio dei compagni di viaggio, i ripetuti annunci agli altoparlanti – non siano altro che tracce in grado di risvegliare da lunghe fantasticherie? In tal senso, il luogo tranquillo sarebbe in grado di spingere dentro di sé a causa del suo statuto ontologico e, al tempo stesso, di cullare verso l’esterno, grazie al rumore, al frastuono e al chiasso del fuori campo, che continuamente insiste sui suoi confini. Anche il cinema, indipendentemente dal suo supporto di fruizione, è un luogo tranquillo.

Durante quelle due ore di quiete e di rinascita sono stato accompagnato dalla visione di Les chansons d’amour, distribuito online da MUBI, servizio di Video on Demand ideato nel 2007 all’interno di un bar, ulteriore luogo a cui l’immaginario collettivo accosta senza difficoltà l’aggettivo tranquillo. MUBI è considerato come il rifugio dei cinefili, una nicchia in cui godere di visioni e amori festivalieri mai distribuiti altrove, uno spazio protetto rigorosamente pensato e catalogato, un modo attraverso cui superare il conservatorismo di chi, ancora, guarda di sbieco allo streaming, e dare vita a un consapevole ed educativo (ri)circolo culturale, non una comfort zone ma uno spazio a partire dal quale ripensare criticamente la realtà.
Il film di Christophe Honoré è un musical – genere da sempre aperto alla fantasticheria. La sua nazionalità, poi, concorre a una flânerie quasi genetica e a una naturale predisposizione a narrare vicende di camminatori solitari. Un personaggio di tale genere è Ismael, vittima di due fantasmi: Julie è la sua amata, una ragazza sognatrice ma malinconica e ben disposta a condividere il fidanzato con l’amica Alice, il secondo fantôme. All’improvviso, però, Julie muore e Ismael sarà costretto a prendere una serie di decisioni sofferte e ad abbracciare un percorso di vita diverso da quello preventivato.

Le ch recensione

Probabilmente, è del tutto impossibile non innamorarsi di una passeggiata filmica come Les chansons d’amour nel corso di un viaggio in treno durante il quale riabbracciare, finalmente, il mondo esterno. Le luci di notte, la foschia mattutina, la neve al tramonto, le strade bagnate dalla pioggia, i cafè e i cinema diventano gli spazi di un persistente nomadismo che si nutre di un desiderio destinato a non trovare mai il suo compimento. Le peregrinazioni sentimentali dei personaggi sono sospese tra gioia e tristezza e si riflettono in continue interazioni tra parole e musica, dove le canzoni sono filmate come stacchi provvisori e flussi di coscienza che donano a Ismael, Julie e Alice la possibilità di abbandonare la loro afasia e rifugiarsi in un luogo tranquillo. Un film del genere rischia di non uscire indenne dalla potenziale accusa di snobismo intellettuale e di pretenziosità. Tuttavia, nella mia situazione di viaggiatore in preda a tremori sentimentali di natura autistica, i tre protagonisti del film mi hanno accompagnato dal mutismo della timorosa partenza al ritorno del linguaggio e delle parole – di certo non in preda a un volteggio musicale. La scomparsa nel luogo tranquillo e l’esperienza di profondità così ammutolite e isolate hanno depurato la sorgente del linguaggio, restituendomi parole nuove e una sconosciuta voglia di condividere con gli altri.

Anche il cinema casalingo può (ancora) adempiere a una funzione del genere: non chiusura in sé ma ulteriore pretesto al dialogo con il nostro intimo e con l’altro, restituzione del soggetto alla storia e introiezione di una mappa critica attraverso cui orientarsi nel presente. D’altronde, qualsiasi visione è dettata dalla somma di tante piccole sensazioni individuali e collettive e ogni luogo tranquillo è una vertigine sensoriale che arricchisce un cammino che, altrimenti, nella nostra contemporaneità, rischia di essere sempre più privo di appigli.

Categoria
Christophe Honoré Louis Garrel Ludivine Sagnier Clotilde Hesme Chiara Mastroianni 95 minuti
Francia 2007
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Speciale MUBI / Sitcom - La famiglia è simpatica

di Emanuele Di Nicola
recensione sitcom ozon film

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini.
Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "
Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Sitcom, ovvero Situation Comedy. François Ozon manovra l’archetipo per il suo esordio al lungometraggio del 1998, che non va però confuso con l’inizio dell’esperienza pellicolare: i cortometraggi del francese sono parte integrante della sua opera, ne anticipano i temi e in alcuni casi ne rappresentano perfino la quintessenza, come accade per il suo capolavoro breve, Une robe d’été (1996) che gira poco prima di questo film. A 31 anni il giovane Ozon impugna la cinepresa, scrive e dirige Sitcom, con pochi soldi e una durata di 85 minuti: lo fa con l’amica Marina de Van nella parte di Sophie, già attrice nel corto Regarde le mer e futura grande regista sconosciuta, per esempio dell’epocale Dans ma peau (2002) che riscrive l’apprendistato ozoniano incrociandolo con Cronenberg. Nel ruolo della madre c’è Évelyne Dandry, che vince il premio come miglior attrice al Festival di Sitges 1998, primo riconoscimento internazionale della filmografia ozoniana. Per il resto il regista recluta piccoli attori amici, come Stéphane Rideau e Adrien de Van, fratello di Marina nella vita e nella finzione, insieme a volti più noti della cinematografia francofona come François Marthouret (il padre) che danno fiducia all’autore.

È una parodia, Sitcom. Composta da un unico canovaccio: c’è una perfetta famiglia borghese che viene completamente sconvolta dall’arrivo di un roditore. L’animale, un topo bianco dagli occhi rossi chiaramente posticcio, funge da grimaldello per far deflagrare il non detto, ossia smascherare la reale natura del nucleo apparentemente idilliaco. Prima di questo, però, c’è un tendaggio: il cinema lungo di Ozon inizia infatti con un sipario che si apre, denunciando da subito la sua natura di rappresentazione e riflessione sulla messa in scena, sul topos e lo stereotipo. Ma c’è di più: dopo questa immagine generatrice ascoltiamo una strage di famiglia, un padre che apre il fuoco sui parenti ma fuori campo, lasciando la sostanza del fatto solo al nostro udito. Può sembrare la classica struttura ad anello, con inizio e finale circolare e in mezzo la storia evocata in flashback, ma non è così: si scoprirà poi che l’inizio (la strage) è un momento sognato da un personaggio, non un “vero” evento, e dunque la sequenza del massacro domestico non esiste nel racconto. Il cinema ozoniano inizia con un sipario e un inganno. Ozon vuole giocare.

Da qui si sviluppa un divertissement acido e sfacciato, segnato dai colori assoluti delle sitcom televisive (il maglione rosa della mamma, il verde acceso di Sophie) e intimamente citazionista: è il Teorema di Ozon, certo, come molta critica lo ha definito – ma sarebbe più giusto dire la parodia di Teorema, la sua messa in satira. E non basta, perché dentro ci sono tracce di Indovina chi viene a cena? con il personaggio di Abdu interpretato da Jules-Emmanuel Eyoum Deido, fidanzato nero della figlia che si presenta a casa dei genitori e resta vittima del discorso post-coloniale della borghesia quando, a tavola a bocca piena, i francesi perbene dissertano sugli Stati africani di cui sbagliano la collocazione. Ma Abdu è anche omosessuale e seduce il figlio Nicolas, in un altro sabotaggio dello stereotipo che costringe lo spettatore a un ulteriore riposizionamento nei confronti delle figure sulla scena. C’è il tiro al bersaglio antiborghese, figlio di Buñuel non solo tematicamente e in alcune scelte di stile, per esempio nell’utilizzo narrativo del sogno come concretizzazione di un inconscio mostruoso. E c’è l’ombra di Rainer Werner Fassbinder, amato da Ozon che adatterà un suo soggetto in Gocce d’acqua su pietre roventi (2000), ma già qui emerge l’interno borghese marchiato dal rapporto tra dominanti e dominati e avvolto in un’atmosfera queer, in una sessualità fluida che può sempre svoltare verso l’orgia e l’incesto. Nella famiglia di Sitcom vivono poi gli elementi che si svilupperanno nel successivo cinema ozoniano: la differenza tra l’immagine e la realtà, che porta spesso alla confusione dei piani che si conclude con la sconfitta del reale e la vittoria della superficie; la scoperta dell’omosessualità che squarcia il velo borghese; i contrasti psicologici nascosti tra amanti, amici e vicini. Non a caso alcuni titoli successivi riscrivono stralci di Sitcom: le “belle statuine” di Potiche non sono forse contenute nelle porcellane di questa borghesia? E l’irruzione del fantastico nel reale come forma di rivelazione, non avviene forse anche in Ricky, il bambino con le ali è così diverso dal finto roditore? E la lettura politica, la sessualità libera che spacca lo schema normato dei sessi, non si ritrova forse nel film più politico di Ozon, Una nuova amica?

Nell’epoca pre-social Ozon già sapeva che la propria immagine precostruita è sempre falsa, che l’autoscrittura di sé non regge: basta un topolino per ribaltarla. Ecco perché Sitcom è eccessivo, sovraccarico e anche troppo stravagante: si risolve in ultima istanza in un grande scherzo, una beffa del giovane Ozon che sta tra John Waters e la Troma (attenzione al topo gigante). Ma ecco perché, al tempo stesso, è un film pieno di talento che col senno di poi racconta la nascita di un autore centrale nel cinema contemporaneo: un azzardo che non si ripeterà, nel successivo Amanti criminali (1999) Ozon già diventa più “serio” e struggente, già draga i sentimenti e straccia i cuori. Ma Sitcom è rimasto: lo sa bene Dominik Moll che nel 2005 girò Lemming – Due volte lei, la storia di una coppia che viene terremotata da un roditore infilato nel tubo di scarico della cucina. Vi ricorda qualcosa? Che Moll abbia visto Ozon non è provato, naturalmente, ma è anche un’intima certezza.

Nota a margine personale. Il primo film che ho visto a un festival è stato 5x2 di François Ozon, in concorso a Venezia 2004. A costo di retorica, ricordo benissimo l’emozione (sì, l’emozione) di entrare a diciannove anni nella sala del Lido per godere di un titolo che ancora oggi adoro, così come ricordo l’ovazione a fine proiezione per Ozon e Valeria Bruni Tedeschi. Ho rivisto Sitcom su MUBI, una piattaforma, la migliore italiana: ebbene l’autore è lo stesso, ma lo schermo di casa è il contrario del festival. È il suo negativo. E in mezzo? In mezzo c’è la sala cinematografica. Al tempo del Lockdown, delle sale chiuse e dei film visti sul cellulare, è sempre più urgente tornarci. La ricchezza di MUBI conferma paradossalmente la necessità di spegnere altri schermi, rientrare in quel luogo chiamato cinema e spalancare gli occhi. Sempre restando ozoniani.

Categoria
François Ozon Évelyne Dandry François Marthouret Marina de Van Adrien de Van Stéphane Rideau 85 minuti
Francia 1998
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Di MUBI e del nome del cinema

di Matteo Berardini
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[A partire da alcune questioni teoriche preliminari presentiamo il nostro SPECIALE MUBI, una galleria critica ed emotiva di film selezionati dalla piattaforma OTT più cinefila della rete].

Il nome della rosa, il nome del cinema. Nel 1980 Umberto Eco chiude il suo primo romanzo rielaborando una citazione del monaco benedettino Bernardo di Cluny: «stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus», che in italiano significa «la rosa originaria esiste solo nel nome, ci restano soltanto nudi nomi». Una frase che ai più ricorda lo shakespeariano «a rose by any other name» ma che di fatto va interpretata in senso opposto: per Shakespeare infatti l’essenza della rosa è in grado di sopravvivere immutata nel tempo e, così come Giulietta, conserva le sue qualità anche se viene chiamata con un altro nome; per Eco al contrario tutto cambia e ciò che è stato sopravvive alle forze della Storia solo nelle forme della nuda denominazione, coordinata epistemologica soggetta a tensioni sincroniche e diacroniche che ne riscrivono l’identità. Di qui il nome della rosa, a indicare quel che di un’idea e di un fatto resiste al tempo, pur mutando. Di qui il nome del cinema, per chiederci cosa resta e cos’è che invece sta cambiando, rapidamente, sotto i nostri occhi.

Arte giovane e novecentesca, il cinema nasce e si afferma in un contesto culturale in cui la riflessione estetica è già ampiamente codificata; filosofi, critici e intellettuali di vario genere possono usufruire fin da subito di un vasto armamentario di strumenti e prospettive per studiare l’ultimo arrivato, e questo fa sì che la storia del cinema diventi nel giro di pochi anni anche storia del pensiero sul cinema, in un percorso che mescola teorie e pratiche con maggior intensità e frequenza rispetto a quanto accaduto nelle altre arti. In questi cento e più anni quindi non solo muta il cinema, nelle sue cifre tecnologiche e sociali, ma anche il pensiero riguardo la sua essenza, l’impalcatura via via estetica, filosofica e politica che interroga la natura mercuriale del dispositivo ponendo periodicamente l’inesausta domanda: che cos’è il cinema? cosa intendiamo oggi con il nome del cinema? Ma se il quesito è intrinseco alla storia stessa del mezzo oggi il suo peso ontologico appare di ben altra portata, considerato l’orizzonte digitale del mondo contemporaneo e il nuovo ruolo, pervasivo e frammentato, che le immagini esercitano in quella struttura del sentire (Williams/Jameson) plasmata attorno a noi dagli stessi mass media digitali. La definizione forse più calzante di quest’insorgenza mutante la offre Henry Jenkins, quando parla di cultura convergente per descrivere l’insieme sincretico di pratiche e logiche con le quali l’informazione viene oggi gestita contemporaneamente da media diversi attraverso la lingua franca del digitale, grazie alla quale le reti di comunicazione si attivano come inneschi acidi attorno all’individuo dissolvendone l’identità.

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In questo nuovo assetto un ruolo pivotale lo svolge quindi il cinema, che in un mondo iperreale intessuto di convergenze mediali e schermi multipiattaforma, immagini frammentate e reti globali, vede rivoluzionati i suoi vecchi apparati di produzione, distribuzione e fruizione, dissolti in un magma informe da cui emergono e si rimodellano costantemente nuovi usi e consumi culturali. Tra questi spicca per urgenza e diffusione la rivoluzione intavolata dalle piattaforme over-the-top (OTT), la cui logica di visione on demand riassume in sé molte delle aporie e potenzialità dei nostri tempi digitali. Questo editoriale ha quindi due scopi: anzitutto porre alcune questioni teoriche relative alle OTT e all’iconosfera di cui sono espressione; infine, avviare da queste uno speciale monografico in cui, con un fuoco di fila di riflessioni cinefile, teoriche, emotive, attraverseremo trasversalmente il catalogo di MUBI. La scelta è dettata dal fatto che MUBI, tra le più promettenti e incisive piattaforme OTT, ha deciso in pieno Lockdown di ampliare la sua usabilità cinefila aggiungendo alla nativa modalità In cartellone (per cui ogni giorno un film viene caricato e lasciato sulla piattaforma per un mese in un ciclo a continua evoluzione) una nuova sezione denominata Videoteca, grazie alla quale è possibile accedere a un secondo e più ampio catalogo coerente con l’identità cinefila del servizio.
Sulle specifiche di MUBI e sull’importanza che ha nel panorama mediale contemporaneo torneremo meglio a breve; intanto facciamo un passo indietro e mettiamo a fuoco l’argomento scardinando la domanda teorica per eccellenza (che cosa è oggi il cinema?) per sostituirla, sulla scia delle più recenti riflessioni di Casetti (La galassia Lumière), con un’altra che sia più utile e pertinente al percorso: che cos’è oggi l’esperienza filmica? e cosa identifica e legittima tale esperienza? esiste l’esperienza filmica over-the-top, e se esiste si nutre delle stesse coordinate e categorie che determinano i precedenti usi culturali?

Come ogni fatto culturale anche l’esperienza filmica è il risultato di forze storiche e sociali, e in quanto tale segue l’evolversi del cinema manifestando modelli divergenti e spesso coesistenti. In un primo periodo la visione di un film era necessariamente connessa alla presenza in sala, e da questa interazione spaziale discendeva una serie di comportamenti e abitudini che disciplinavano e rendevano riconoscibile quel tipo di esperienza. Con il moltiplicarsi delle possibilità tecnologiche la fruizione di un film si scardina dalla presenza in sala, si creano altri tempi e luoghi di visione; l’esperienza filmica allarga i propri confini in parallelo all’aumentare dell’affordance dello spettatore, ovvero alla sua capacità di intervenire attivamente sulla visione controllandone in autonomia velocità, ritmo, mezzi di utilizzo e programmazione. A riguardo Casetti parla di rilocalizzazione dell’esperienza filmica, un termine che richiama la frammentazione e reinvenzione delocalizzante tipica del lavoro post-fordista per la quale l’azione lavorativa (occidentale) perde la centralità spaziale della fabbrica per disperdersi in nuove strutture più individuali e puntiformi. Contemporaneamente il venir meno della sala comporta anche una perdita di verticalità istituzionale e riconoscibilità sociale: guardare brani di un film rimontato dal proprio smartphone mentre si viaggia sull’autobus è ancora un’esperienza filmica? «Oggi si diventa spettatori filmici cercando il cinema dove non era mai stato» scrive Casetti, sottolineando come l’assenza della sala possa spingere il consumo cinematografico nel terreno del consumo mediale generale, non più specificatamente audiovisivo. Non si tratta quindi di chiedersi se un film pensato, creato e distribuito via smartphone sia ancora cinema, quanto piuttosto se la sua fruizione possa ancora essere intesa come esperienza filmica. In piena convergenza digitale è evidente che la crisi postmoderna dei grandi racconti di cui parla Lyotard non riguarda solo le ideologie direttrici dell’azione politica e sociale, ma anche le coordinate del nostro agire culturale. A fronte di questa massiccia rilocazione, chi può dire se sto esperendo un film o compiendo un consumo mediale d’altro genere? Chi/cosa certifica e legittima cosa è esperienza filmica rispetto a cosa non lo è? Anytime, everything, everywhere sono le parole chiave del consumo culturale di oggi, reificate da quella crescita esponenziale dell’affordance spettatoriale permessa dai nuovi dispositivi e piattaforme e fonte di un rapporto col medium ben lontano dalla passività del vecchio accomodamento in sala. Tuttavia a un tale e inedito livello di libertà (o meglio autonomia scopica) non corrisponde ancora una forma cristallizzata di esperienza che possa dirsi collettivamente definita.

mubi smartphone

Delle tre keyword citate quella che ci sembra più interessante nel riflettere sulle modalità di visione on demand è everything, ogni cosa, iperbole con la quale si fa riferimento alla crescente offerta di titoli messa a disposizione dai maggiori player sul mercato. Netflix, Prime Video, Disney+ in particolare garantiscono l’accesso a migliaia di contenuti audiovisivi, con un’immediatezza e una disposizione liquida del materiale che non ha eguali nella storia del cinema. Tuttavia, di fronte a questo enorme supermercato dell’immagine, dove ogni forma audiovisiva è accessibile e convive con i suoi simili in un’organizzazione spaziale rizomatica pressoché priva di percorsi interni, gerarchie o tassonomie di sorta (se non per le profilazioni degli utenti offerte dai big data e qualche labile disposizione per genere), non rischiamo forse che l’esperienza filmica over-the-top si trasformi in consumo mediale indifferenziato, visione compulsiva e frammentata che di quei testi e quelle immagini perde ogni percezione spazio-temporale, con conseguenti bias cognitivi e crisi di comprensione storico-culturale?
Sintetizzando il pensiero di Baudrillard, il sociologo Krishan Kumar scrive che «i mezzi di comunicazione hanno creato una nuova realtà elettronica in cui immagini e simboli hanno cancellato dalle nostre menti l’idea che al di là di tali immagini e simboli esista un mondo oggettivo». Di fronte un’accessibilità, ripetiamolo, inedita per quantità e qualità del materiale audiovisivo offerto, alla quale non corrisponde però alcuna tassonomia gnoseologica che esuli da logiche di marketing e binge-watching, non sembra lontano quell’estasi della comunicazione per cui (sempre Baudrillard) «il nostro mondo diventa un mondo di pura simulazione, la generazione per immagini di un reale senza origine o realtà: un iperreale». Ben lontani da qualsivoglia posizione luddista, ci sembra importante considerare le magnifiche potenzialità offerte dall’esperienza filmica over-the-top come l’occasione per riflettere sulla più generale epistemologia simulacrale che tali modalità di accesso e organizzazione dei testi filmici rischiano di portare con sé. Cioè un impoverimento dei nostri usi culturali che si manifesta anzitutto nella crisi delle categorie – prettamente moderne – di spazio e tempo, da cui sole discende quel senso della Storia che è forse l’antidoto necessario affinché, anche se immersi in questa navigazione orizzontale di archivi digitali on demand (e nell’esperienza filmica OTT che ne consegue), si possa ancora interagire con testi densi e non simulacri privi di corpo. Solo così la visione e l’esplorazione significherà ancora «un rapporto denso con la realtà, ma anche la partecipazione del soggetto al “senso della storia”» (Malavasi).

Kevin Lynch, uno dei grandi urbanisti del Novecento, è autore di un testo intitolato L’immagine della città in cui viene introdotto il tema della figurabilità, ovvero «la qualità che conferisce a un oggetto fisico una elevata probabilità di evocare in ogni osservatore un’immagine vigorosa». Secondo Lynch infatti ogni cittadino possiede il suo spazio urbano in quanto immagine, e da quest’esperienza deriva una mappatura mentale che permette a ciascuno di regolare la propria interazione con lo spazio urbano. Di conseguenza una città ordinata è altamente figurabile e tale caratteristica rende il cittadino più conscio e felice del proprio ambiente; una città deve favorire «la facilità con cui le sue parti possono venir riconosciute e possono venir organizzate in un sistema coerente» perché solo così sarà leggibile e permetterà a chi la esperisce di ricavare da essa un sistema di immagini coerente e sufficiente a orientarsi.

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In questo bisogno di cogliere nella città un «vigoroso significato espressivo» ritroviamo la necessità moderna di organizzare il sapere secondo gerarchie spazio-temporali che rispondano a un linguaggio unico, complessivo e sovraordinato. La figurabilità dello spazio urbano come esempio concreto di grande racconto, direbbe Lyotard, che nel nostro discorso possiamo paragonare a una grande storia del cinema organizzata secondo categorie critiche utili a conservare quelle coordinate spaziotemporali (quindi storiche) che caratterizzano ogni film e ne permettono una fruizione consapevole, ragionata. Sennonché i grandi archivi on demand di Netflix & co. tutto sono fuorché disposizioni ordinate e culturalmente guidate dei film ivi accessibili; al contrario la loro architettura digitale è volutamente caotica, evita la chiarezza espositiva e sfugge a uno sguardo dall’alto, ha poco della tassonomia biblioteconomica e molto del cestone 3x2 offerto dagli autogrill attraversati di passaggio tra un casello e l’altro. Recuperare Lynch ci è utile quindi per notare come, a contrasto, a dominare l’orizzonte mediale OTT non sia la razionalità integrale della figurabilità moderna ma la logica postmoderna del frammento,  per la quale «collassano le distinzioni gerarchiche ed emerge un pluralismo senza centro e senza gerarchie, senza egemonie né criteri di gusto dominanti, del tutto funzionale alle esigenze dell’industria culturale» (Canova). Ancora Lyotard ci dice che «il sapere è materia di giochi televisivi» e questo accade quando il consumo globalizzato di schegge mediali diventa il trionfo ultimo del feticismo della merce e dell’uso culturale ridotto a consumo. Perché guardiamole queste infinite library di titoli e licenze, avventuriamoci e perdiamoci in questo labirinto orizzontale in cui ogni testo fa caso a sé, ogni film è esperito al di fuori del suo spazio-tempo originario: mai come in questo momento abbiamo avuto accesso – facile, immediato, a costo relativamente contenuto – alla storia del cinema, eppure a questa crescita di accessibilità corrisponde un appiattimento del materiale che rischia come effetto contrario di annullarne ogni storicità.
Già Jameson negli anni Ottanta parlava di crisi della cartografia cognitiva e descriveva il tempo postmoderno come un eterno presente composto da frammenti infinitamente ricombinabili perché ormai scevri di ogni ancoraggio storico. «Oggi sperimentiamo il mondo non tanto come una lunga esistenza che si svolge nel tempo, quanto come una rete che collega punti riavvolgendosi nella sua stessa matassa» (Foucault), e non per compilare riferimenti e citazioni casuali (frammentarie anch’esse…) quanto per sottolineare quanta importanza hanno le categorie storiche di spazio e tempo nell’organizzazione del sapere, e quanto arido diventi l’uso culturale di una tradizione artistica se la sua Storia viene ridotta a schegge autonome prive di contesto, frammenti disposti su scaffali digitali come fossero momenti di un eterno presente sempre accessibile, sempre coerente, sempre leggibile. Perché bisogna dircelo, questa intelligibilità universale dell’immagine promessa dall’archivio on demand è un miraggio operato dalle forze mercificanti dell’industria culturale, le cui strategie di vendita e consumo ipertrofizzate dal digitale hanno come scopo quello di approvvigionare un masticamento di immagini che sia il più possibile continuo e ciclico. Nell’architettura di Netflix & co., sistematicamente rizomatica e priva di figurabilità, centri di senso, coordinate verticali e organizzazioni gerarchiche, tutte «le tradizioni stilistiche si appiattiscono, diventano tutte uguali, tutte indifferentemente consumabili o imitabili con la massima disinvoltura» (ancora Canova). Spazio e tempo si dissolvono, e anche il film più famoso della storia del cinema diviene sede di contrasti e faide più o meno politicizzate, più o meno centrate, comunque ruotanti attorno a una generale crisi percettiva suscitata dal dato storico.
Quindi, come rispondere a questa tendenza? Quali antidoti mettere in campo che non siano anacronistici e sterili? Come evitare che l’esponenziale crescita del consumo on demand appiattisca lo spazio e il tempo dei nostri gesti culturali in un presente eterno, liscio rizoma digitale il cui cyberspazio si fa pericolosamente vicino all’iperreale popolato da simulacri, cioè immagini che non richiamano nient’altro che altre immagini, teorizzato da Baudrillard? E cosa c’entra MUBI?

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Fondata dall’imprenditore e matematico Efe Çakarel (MIT e Stanford come alma mater, da lì diversi anni alla Goldman Sachs in curriculum), MUBI nasce nel 2007 con il nome The Auters e l’intento di affermarsi sia come social network cinefilo sia come distributore streaming di film d’autore. Fin dall’inizio quindi convivono nella piattaforma strategie di coinvolgimento social (feed personalizzato, profili aziendali sulle altre reti sociali, forum interno e possibilità per gli utenti di collaborare alla blogosfera cinefila tramite recensioni, liste di film, voti) e accesso on demand. Tuttavia, rispetto alle OTT concorrenti, MUBI si distingue offrendo ai suoi utenti una breve finestra temporale per la visione dei film (i 30 giorni messi a disposizione dalla modalità In cartellone); una tempistica vincolante, che limita l’affordance spettatoriale e aggira la logica  postmoderna del supermercato infinitamente accessibile e frammentato, rivalorizzando così l’azione di scelta (tanto individuale, del singolo utente che è costretto a organizzare le proprie visioni prima che scadano e non deve più perdersi in un oceano rizomatico di titoli, quanto collettiva, dello staff che è chiamato in prima persona a costruire giorno dopo giorno una linea editoriale che unisca esigenze di identificazione del brand, familiarità spettatoriale con i titoli amati, e scoperta di nuovi film altrimenti nascosti e spesso difficilmente reperibili). Al momento in cui si scrive la comunità cinefila di MUBI ammonta a “10.307.931 cinefili”, un numero aggiornato in tempo reale ed esibito sulla pagina Feed della piattaforma, a sottolineare quanto sia rilevante per questa OTT alimentare il senso di comunità tra gli abbonati. Che i suoi utenti si sentano parte di qualcosa infatti è particolarmente importante per una piattaforma che in termini di numeri raccoglie il 5% degli abbonati Netflix – un confronto chiaramente impari e utile soltanto a chiarire come MUBI agisca coerentemente al modello della cosiddetta coda lunga (Anderson), secondo la quale in tempi di frammentazione dell’offerta culturale livelli alti di consumo possono essere raggiunti non più grazie a pochi best seller ma attraverso molti prodotti più specifici e particolarmente validi per ridotte porzioni di pubblico. MUBI quindi non può né vuole essere una piattaforma g-local di scala mondiale al pari di Amazon o Disney+, il suo modello economico ragiona su una scala totalmente diversa che punta a una specificità editoriale basata sull’incontro di logiche social e inedite dinamiche d’archivio. Del resto gran parte del marketing di MUBI ruota attorno alla conservazione del concetto di limite, di film “pochi ma buoni” offerti in una precisa finestra temporale, e smaschera le contraddizioni intrinseche a un’offerta concorrente che punta su un’overdose testuale spesso fonte di smarrimento per i suoi spettatori (oltre che innesco per tutte le questioni gnoseologiche sin qui dibattute).

mubi marketing

MUBI come soluzione all’iperreale quindi? Ultima difesa e bastione contro l’avanzare del Nulla che trasforma la storia del cinema in una galleria di simulacri? Non proprio ovviamente, di certo non solo. Perché anzitutto con questa logica del frammento e di una nuova organizzazione della conoscenza dobbiamo comunque farci i conti (a meno che non si voglia dismettere l’intera Internet e i suoi flussi orizzontali); secondariamente perché non è di soluzioni che siamo in cerca ma di alternative, di sistemi culturali che spingano il sistema OTT verso nuovi e più intensi orizzonti di alfabetizzazione all’immagine, azione educativa, diffusione di film altrimenti invisibili e/o inaccessibili. In questa sede non possiamo approfondire il discorso relativo alle potenzialità educative insite nella tecnologia dello streaming on demand, ma è necessario sottolineare come il terzo elemento decisivo del modello MUBI – dopo il ruolo della scelta e la conservazione del limite – sia la presenza di un ampio paratesto critico all’interno della piattaforma, un’infosfera di articoli, video-saggi, recensioni, analisi, liste, interviste e presentazioni di film che ha lo scopo di guidare lo spettatore offrendo «critical maps, passways and illuminations to the worlds of contemporary and classic film». Così recita l’abstract di presentazione di Notebook, la pubblicazione quotidiana con cui MUBI condivide (con tutti, non solo gli utenti) prestigiosi strumenti critici atti a conservare l’identità dei film, la loro storicità, la loro specifica esistenza come prodotti culturali da esperire come parti di un tutto.

Prima di concludere – quella che è evidentemente una porzione incompleta di una traiettoria culturale più vasta – torniamo un momento alla Videoteca, a quella nuova modalità di fruizione il cui inserimento ha innescato questo lavoro. Apparentemente una sezione simile, ennesimo archivio di titoli su scaffale, si pone in aperta contraddizione con il ruolo resistente e culturalmente determinante che abbiamo descritto per MUBI; eppure bastano pochi momenti di navigazione per rendersi conto che non siamo davanti a una sorta di Netflix bis per cinefili. La Videoteca infatti è studiata per essere estensione naturale della filosofia critica che anima MUBI , ne è reificazione cosciente perché la sua offerta è ugualmente studiata, catalogata, organizzata secondi criteri critici e storici che inspessiscono il nostro rapporto con l’immagine ed esemplificano la portata distributiva di un sistema che rende visionabile un tipo di cinema incompatibile con le precedenti forme di consumo. Certo non mancano le contraddizioni intrinseche al mezzo, come la scarsa comunicazione riguardo arrivi e dipartite di titoli o il potenziale senso di vertigine che incombe nella fruizione delle OTT dalle library più ampie, ma è indubbio che volendo immaginare il futuro del cinema e della sua fruizione si possa trovare in MUBI qualcosa a cui guardare con curiosità, studio e fiducia. Ed è per questo che abbiamo deciso di selezionare, ciascun redattore liberamente, un elenco di titoli presenti al momento (ma non è chiaro per quanto…) nella versione italiana della Videoteca, per dedicare a ciascuno di essi uno scritto che esuli dalla semplice recensione e guardi tanto al più generale contesto audiovisivo fin qui tracciato quanto al rapporto emotivo e biografico che ogni redattore ha con il film scelto. Perché la Storia non è solo questione di spazi e tempi storicizzati, di date, luoghi, contesti passati, ma è anche la somma di tante piccole storie, l’incasellarsi vivo e argentino di ricordi, legami, emozioni suscitate dal film e in esso ancora contenute. Anche da qui passa la via di fuga dal simulacro: dalle nostre vite, dal nostro passato, da ciò che è entrato e ancora vive nel fondo dei nostri occhi.
Buona lettura, e buone visioni.

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Speciale MUBI / Persona

di Arianna Pagliara
Persona di Ingmar Bergman - Speciale Mubi

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, una galleria di riflessioni critiche, teoriche, emotive inserite in un format "recensione" contaminato dall'elemento autobiografico. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui]. 

Considerato tra i più alti punti d’arrivo della cinematografia di Ingmar Begman, Persona è uno dei gioielli senza tempo che fa parte del ricchissimo e prezioso catalogo MUBI. Forse in assoluto tra i classici più osannati e minuziosamente analizzati, tanto che resta difficile, oggi, scriverne senza correre il rischio di ripetersi. A meno di usare, come un fil rouge, proprio le parole del regista, che in Immagini[1] ripercorre la genesi delle sue moltissime opere tra pre-filmico e pro-filmico, abbozzando qua e là i contesti creativi, snocciolando pensieri e impressioni che sempre accompagnano la nascita di un nuovo film, raccogliendo e restituendo al lettore anche particolari che infine sono stati espunti dalla sceneggiatura ma che si rivelano molto spesso coerenti e significativi in una valutazione a posteriori.

«La signora Vogler brama la verità. L’ha cercata dappertutto e talvolta le è sembrato di aver trovato qualcosa di solido, di durevole, ma all’improvviso le veniva a mancare il terreno sotto i piedi. La verità si disintegrava e spariva, oppure, nel peggiore dei casi, si era trasmutata in una non-verità.»[2]

La protagonista (Liv Ullmann), attrice teatrale rifugiatasi in una voluta quanto inscalfibile afasia, nella descrizione sopra riportata sembra trovare la sua ragion d’essere nella volontà di ricerca del vero. Non tanto, quindi, nel rifiuto che pure oppone al mondo circostante, come si potrebbe supporre considerando l’orrore che prova – in clinica – di fronte alla violenza aberrante che le si rovescia addosso dallo schermo della tv, o come si potrebbe dedurre dalla durezza che riserva a chi, attorno a lei – la dottoressa, ma soprattutto l’infermiera (Bibi Andersson) – cerca ostinatamente di fare breccia nel muro che la circonda. 
Se questa è la premessa, la seguente riflessione del regista sintetizza l’equazione parola = menzogna da cui scaturisce la “ribellione” della Vogler.

«…Da questa situazione di crisi nacque Persona:
Lei dunque è stata un’attrice…questo forse le costa molto? E poi lei tacque. Non c’è nulla di straordinario in questo.
Comincio con una scena in cui il dottore informa l’infermiera Alma di quanto accade. È una prima scena fondamentale. Assistente e paziente si avvicinano l’una all’altra, nervi e carne. Ma lei non parla, rifiuta la propria voce. Non vuole essere falsa. 
Questo è uno dei primi appunti dell’agenda di lavoro datato 12 aprile. Qui c’è anche qualcosa che non è mai stato realizzato, ma che però ha a che fare con Persona, addirittura con il titolo: "Quando il fidanzato dell’infermiera Alma la va a trovare, per la prima volta lei sente come lui parla. Nota come si muove attorno a lei. Si spaventa nel constatare che lui si comporta come se recitasse una parte". 
Quando si sanguina, ci si sente disgustosi, e allora non si recita.
»[3]

Ci sono almeno tre punti cruciali, in queste righe, che da un lato anticipano e dall’altro perfino sorpassano lo sviluppo drammaturgico dell’opera: il rifiuto della voce/parola come rifiuto della falsità (da cui consegue il confronto/scontro “nervi e carne” tra le protagoniste, fino alla famosa “scena allo specchio”); il personaggio del fidanzato di Alma, che non prenderà forma in quanto tale nel film, ed è qui escamotage per una presa di coscienza del personaggio di lei, che forse di fatto non avviene mai del tutto, o avviene nella misura in cui – dopo essersi aperta, esposta, offerta all’altra – viene derisa, ferita, rigettata (questo a evidenziare uno slittamento, o meglio una metamorfosi, tra le premesse dell’opera e l’opera); infine, in chiusura, la consapevolezza che solo il dolore possa escludere finalmente la menzogna perché quando si sanguina non si recita. 
Occorre richiamare l’illuminante, affilato monologo della dottoressa al principio del film, che riassume in maniera limpida e lapidaria il senso delle azioni di Elisabeth indirizzando anche, se vogliamo, lo spettatore verso una precisa interpretazione di queste ultime. Dopo aver ribadito che “ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia”, la dottoressa conclude così: “Io ti capisco Elisabeth, capisco il tuo silenzio, questa tua immobilità, e perché tu abbia elevato a sistema di vita la tua assurda apatia, capisco e quasi t’ammiro. Secondo me devi continuare a recitare la tua parte fino in fondo, finché essa non perda ogni interesse e abbandonarla…così, come sei abituata a fare, passando da un ruolo all’altro.” Il silenzio, in apparenza scelta oppositiva e di resistenza all’ipocrisia e alla finzione insita nell’essere con e per l’altro, è esso stesso recita, finzione, ruolo da interpretare e poi abbandonare come un travestimento tra gli altri, che esaurisce il suo senso nell’arco di tempo della messa in scena.

Che cosa resta, dunque, a Elisabeth? Le resta la possibilità di sanguinare. Come in uno specchio, di fronte all’infermiera/amica/nemica che darà definitivamente voce la propria voce – ai suoi pensieri più reconditi e intollerabili, primo fra tutti il rifiuto della maternità. 
La dimostrazione del fatto che il dolore e la paura ci impongono di sospendere repentinamente l’interpretazione dei nostri ruoli (etero o autoimposti) Elisabeth la palesa allo spettatore nel momento in cui, temendo che l’altra le getti sul viso dell’acqua bollente, romperà istintivamente l’incantesimo del silenzio esclamando quel “No, sei pazza!” che resterà l’unica frase da lei pronunciata durante tutto il film. Per il resto, di fatto, il mutismo che lei sceglie per non mentire sarà lo stesso che impedirà, come una diga, alla verità/dolore di venire fuori. È qui che Bergman, con piglio quasi surrealista (approccio preannunciato dal carosello di immagini in apertura? che a loro volta contengono significati stratificati…), mette in scena quello scambio, quella fusione identitaria tra le protagoniste mirabilmente, quanto nitidamente e semplicemente, significata sullo schermo dall’accostamento delle due metà dei loro volti.

«L’accordo è un monologo che viene duplicato. Il monologo viene per così dire da due parti: prima da Elisabeth Vogler, poi dall’infermiera Alma. Sven Nykvist e io avevamo progettato originariamente di sistemare le luci in maniera convenzionale su Liv Ullmann e Bibi Anderson. Ma la cosa non funzionava. Allora decidemmo di lasciare la metà del loro volto nel buio completo… insomma, non avrebbe dovuto esserci neppure una sfumatura di luce. Questo era inoltre un passo naturale a combinare, proprio nella fase finale del monologo, i mezzi volti illuminati in modo che si fondessero in un unico volto. 
La maggior parte delle persone ha, chi più chi meno, un lato migliore del volto. Le immagini dei volti di Liv e di Bibi illuminati per metà, che noi unimmo insieme, dimostrarono il lato peggiore di ciascuna di loro. 
Quando ebbi indietro la doppia copia del film dal laboratorio, pregai Liv e Bibi di venire nella stanza di montaggio. Bibi grida sorpresa: "Ma Liv, come sembri strana!". E Liv risponde. “Ma sei tu, Bibi, che sembri veramente strana!”. Rifiutavano entrambe il loro mezzo volto meno bello.
»[4]

Persona è dunque un confronto spietato, una messa a nudo, un gettare via la maschera (persōna in latino appunto, e anche nel senso junghiano del termine) per far emergere l’anima (alma, che è anche il nome dell’infermiera). Le attrici che rifiutano ognuna il “mezzo volto meno bello dell’altra” sono specchio dei personaggi che interpretano, personaggi intenti, più o meno consapevolmente, nella ricerca di se stessi attraverso l’altro, in una sorta di atto maieutico incrociato. La casa sulla costa nuda e rocciosa e il mare inteso come spazio primordiale, sono un paesaggio ridotto al grado zero, un grande vuoto vivo dove l’amore e la sofferenza delle due donne prendono forma, si amplificano, riecheggiano.
Vicendevolmente, l’una attraverso la parola (e quindi l’amore, l’abbandono, e poi il rancore e la rabbia conseguenti al rifiuto), l’altra attraverso il silenzio (che è freddezza e derisione ma non basta a proteggere dal sentire, dal vivere), porteranno alla luce certe reciproche consapevolezze fino a quel momento rigettate.
Per Alma, si tratta di una presa di coscienza dello scarto incolmabile tra i propri istinti e desideri profondi e, di contro, il conformarsi a scelte di vita socialmente condizionate (il matrimonio, i figli). O forse, di più, si tratta della raggiunta consapevolezza, e accettazione, dell’esistenza della nostra parte animale e istintuale che agisce per se stessa, una potenza che pretende di autoaffermarsi, di realizzarsi anche contro la nostra volontà. 
Per Elisabeth – il personaggio più complesso e quindi costretto ad abbattere più barriere nel percorso di discesa dentro sé – si tratta di comprendere anzitutto che il rifiuto della parola non riesce a porre in atto, da solo, la negazione della menzogna. Perché mentono, continuamente, i suoi occhi, i suoi sorrisi, le sue carezze, fino a irretire la povera Alma che, subendo il fascino algido e misterioso dell’attrice, si apre per essere infine ferita. Perché Elisabeth è incapace d’amore: ed è questo il nocciolo caldo del suo dolore, esplicitato da Alma nella “scena allo specchio”, nella quale la descrizione della maternità non voluta di Elisabeth si compone di parole taglienti come lame che spalancano un abisso senza fondo.

 

[1] Ingmar Bergman, Immagini, Garzanti, Milano, 1992

[2] Ibidem, p. 50

[3] Ibidem, p. 47

[4] Ibidem, p. 52

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Ingmar Bergman Liv Ullmann Bibi Andersson Margaretha Krook Gunnar Björnstrand 85 minuti
Svezia, 1966
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