Speciale MUBI / Persona

di Ingmar Bergman

Un confronto spietato, una vicendevole messa a nudo, un atto maieutico incrociato.

Persona di Ingmar Bergman - Speciale Mubi

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, una galleria di riflessioni critiche, teoriche, emotive inserite in un format "recensione" contaminato dall'elemento autobiografico. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui]. 

Considerato tra i più alti punti d’arrivo della cinematografia di Ingmar Begman, Persona è uno dei gioielli senza tempo che fa parte del ricchissimo e prezioso catalogo MUBI. Forse in assoluto tra i classici più osannati e minuziosamente analizzati, tanto che resta difficile, oggi, scriverne senza correre il rischio di ripetersi. A meno di usare, come un fil rouge, proprio le parole del regista, che in Immagini[1] ripercorre la genesi delle sue moltissime opere tra pre-filmico e pro-filmico, abbozzando qua e là i contesti creativi, snocciolando pensieri e impressioni che sempre accompagnano la nascita di un nuovo film, raccogliendo e restituendo al lettore anche particolari che infine sono stati espunti dalla sceneggiatura ma che si rivelano molto spesso coerenti e significativi in una valutazione a posteriori.

«La signora Vogler brama la verità. L’ha cercata dappertutto e talvolta le è sembrato di aver trovato qualcosa di solido, di durevole, ma all’improvviso le veniva a mancare il terreno sotto i piedi. La verità si disintegrava e spariva, oppure, nel peggiore dei casi, si era trasmutata in una non-verità.»[2]

La protagonista (Liv Ullmann), attrice teatrale rifugiatasi in una voluta quanto inscalfibile afasia, nella descrizione sopra riportata sembra trovare la sua ragion d’essere nella volontà di ricerca del vero. Non tanto, quindi, nel rifiuto che pure oppone al mondo circostante, come si potrebbe supporre considerando l’orrore che prova – in clinica – di fronte alla violenza aberrante che le si rovescia addosso dallo schermo della tv, o come si potrebbe dedurre dalla durezza che riserva a chi, attorno a lei – la dottoressa, ma soprattutto l’infermiera (Bibi Andersson) – cerca ostinatamente di fare breccia nel muro che la circonda. 
Se questa è la premessa, la seguente riflessione del regista sintetizza l’equazione parola = menzogna da cui scaturisce la “ribellione” della Vogler.

«…Da questa situazione di crisi nacque Persona:
Lei dunque è stata un’attrice…questo forse le costa molto? E poi lei tacque. Non c’è nulla di straordinario in questo.
Comincio con una scena in cui il dottore informa l’infermiera Alma di quanto accade. È una prima scena fondamentale. Assistente e paziente si avvicinano l’una all’altra, nervi e carne. Ma lei non parla, rifiuta la propria voce. Non vuole essere falsa. 
Questo è uno dei primi appunti dell’agenda di lavoro datato 12 aprile. Qui c’è anche qualcosa che non è mai stato realizzato, ma che però ha a che fare con Persona, addirittura con il titolo: "Quando il fidanzato dell’infermiera Alma la va a trovare, per la prima volta lei sente come lui parla. Nota come si muove attorno a lei. Si spaventa nel constatare che lui si comporta come se recitasse una parte". 
Quando si sanguina, ci si sente disgustosi, e allora non si recita.
»[3]

Ci sono almeno tre punti cruciali, in queste righe, che da un lato anticipano e dall’altro perfino sorpassano lo sviluppo drammaturgico dell’opera: il rifiuto della voce/parola come rifiuto della falsità (da cui consegue il confronto/scontro “nervi e carne” tra le protagoniste, fino alla famosa “scena allo specchio”); il personaggio del fidanzato di Alma, che non prenderà forma in quanto tale nel film, ed è qui escamotage per una presa di coscienza del personaggio di lei, che forse di fatto non avviene mai del tutto, o avviene nella misura in cui – dopo essersi aperta, esposta, offerta all’altra – viene derisa, ferita, rigettata (questo a evidenziare uno slittamento, o meglio una metamorfosi, tra le premesse dell’opera e l’opera); infine, in chiusura, la consapevolezza che solo il dolore possa escludere finalmente la menzogna perché quando si sanguina non si recita. 
Occorre richiamare l’illuminante, affilato monologo della dottoressa al principio del film, che riassume in maniera limpida e lapidaria il senso delle azioni di Elisabeth indirizzando anche, se vogliamo, lo spettatore verso una precisa interpretazione di queste ultime. Dopo aver ribadito che “ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia”, la dottoressa conclude così: “Io ti capisco Elisabeth, capisco il tuo silenzio, questa tua immobilità, e perché tu abbia elevato a sistema di vita la tua assurda apatia, capisco e quasi t’ammiro. Secondo me devi continuare a recitare la tua parte fino in fondo, finché essa non perda ogni interesse e abbandonarla…così, come sei abituata a fare, passando da un ruolo all’altro.” Il silenzio, in apparenza scelta oppositiva e di resistenza all’ipocrisia e alla finzione insita nell’essere con e per l’altro, è esso stesso recita, finzione, ruolo da interpretare e poi abbandonare come un travestimento tra gli altri, che esaurisce il suo senso nell’arco di tempo della messa in scena.

Che cosa resta, dunque, a Elisabeth? Le resta la possibilità di sanguinare. Come in uno specchio, di fronte all’infermiera/amica/nemica che darà definitivamente voce la propria voce – ai suoi pensieri più reconditi e intollerabili, primo fra tutti il rifiuto della maternità. 
La dimostrazione del fatto che il dolore e la paura ci impongono di sospendere repentinamente l’interpretazione dei nostri ruoli (etero o autoimposti) Elisabeth la palesa allo spettatore nel momento in cui, temendo che l’altra le getti sul viso dell’acqua bollente, romperà istintivamente l’incantesimo del silenzio esclamando quel “No, sei pazza!” che resterà l’unica frase da lei pronunciata durante tutto il film. Per il resto, di fatto, il mutismo che lei sceglie per non mentire sarà lo stesso che impedirà, come una diga, alla verità/dolore di venire fuori. È qui che Bergman, con piglio quasi surrealista (approccio preannunciato dal carosello di immagini in apertura? che a loro volta contengono significati stratificati…), mette in scena quello scambio, quella fusione identitaria tra le protagoniste mirabilmente, quanto nitidamente e semplicemente, significata sullo schermo dall’accostamento delle due metà dei loro volti.

«L’accordo è un monologo che viene duplicato. Il monologo viene per così dire da due parti: prima da Elisabeth Vogler, poi dall’infermiera Alma. Sven Nykvist e io avevamo progettato originariamente di sistemare le luci in maniera convenzionale su Liv Ullmann e Bibi Anderson. Ma la cosa non funzionava. Allora decidemmo di lasciare la metà del loro volto nel buio completo… insomma, non avrebbe dovuto esserci neppure una sfumatura di luce. Questo era inoltre un passo naturale a combinare, proprio nella fase finale del monologo, i mezzi volti illuminati in modo che si fondessero in un unico volto. 
La maggior parte delle persone ha, chi più chi meno, un lato migliore del volto. Le immagini dei volti di Liv e di Bibi illuminati per metà, che noi unimmo insieme, dimostrarono il lato peggiore di ciascuna di loro. 
Quando ebbi indietro la doppia copia del film dal laboratorio, pregai Liv e Bibi di venire nella stanza di montaggio. Bibi grida sorpresa: "Ma Liv, come sembri strana!". E Liv risponde. “Ma sei tu, Bibi, che sembri veramente strana!”. Rifiutavano entrambe il loro mezzo volto meno bello.
»[4]

Persona è dunque un confronto spietato, una messa a nudo, un gettare via la maschera (persōna in latino appunto, e anche nel senso junghiano del termine) per far emergere l’anima (alma, che è anche il nome dell’infermiera). Le attrici che rifiutano ognuna il “mezzo volto meno bello dell’altra” sono specchio dei personaggi che interpretano, personaggi intenti, più o meno consapevolmente, nella ricerca di se stessi attraverso l’altro, in una sorta di atto maieutico incrociato. La casa sulla costa nuda e rocciosa e il mare inteso come spazio primordiale, sono un paesaggio ridotto al grado zero, un grande vuoto vivo dove l’amore e la sofferenza delle due donne prendono forma, si amplificano, riecheggiano.
Vicendevolmente, l’una attraverso la parola (e quindi l’amore, l’abbandono, e poi il rancore e la rabbia conseguenti al rifiuto), l’altra attraverso il silenzio (che è freddezza e derisione ma non basta a proteggere dal sentire, dal vivere), porteranno alla luce certe reciproche consapevolezze fino a quel momento rigettate.
Per Alma, si tratta di una presa di coscienza dello scarto incolmabile tra i propri istinti e desideri profondi e, di contro, il conformarsi a scelte di vita socialmente condizionate (il matrimonio, i figli). O forse, di più, si tratta della raggiunta consapevolezza, e accettazione, dell’esistenza della nostra parte animale e istintuale che agisce per se stessa, una potenza che pretende di autoaffermarsi, di realizzarsi anche contro la nostra volontà. 
Per Elisabeth – il personaggio più complesso e quindi costretto ad abbattere più barriere nel percorso di discesa dentro sé – si tratta di comprendere anzitutto che il rifiuto della parola non riesce a porre in atto, da solo, la negazione della menzogna. Perché mentono, continuamente, i suoi occhi, i suoi sorrisi, le sue carezze, fino a irretire la povera Alma che, subendo il fascino algido e misterioso dell’attrice, si apre per essere infine ferita. Perché Elisabeth è incapace d’amore: ed è questo il nocciolo caldo del suo dolore, esplicitato da Alma nella “scena allo specchio”, nella quale la descrizione della maternità non voluta di Elisabeth si compone di parole taglienti come lame che spalancano un abisso senza fondo.

 

[1] Ingmar Bergman, Immagini, Garzanti, Milano, 1992

[2] Ibidem, p. 50

[3] Ibidem, p. 47

[4] Ibidem, p. 52

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 14/07/2020
Svezia, 1966
Durata: 85 minuti

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