CINEMA E TEMPO - Donnie Darko

di Richard Kelly

Sotto la luce dell'ordinario si nascondono le spire delle tenebre, dell'età adulta e della fine del mondo.

donnie-darko-recensione

[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane].

Il fantastico interiore diventa paura, angoscia e de-possessione. Il suo sfondo è la vita quotidiana. Il mistero è dentro di noi, in una zona da cui non emerge l’ignoto ma l’inconoscibile che travolge schemi prestabiliti e vanifica ogni certezza. I codici dell’orrore cambiano forma e allo stesso modo si muovono oggi la narrativa o il cinema che tentano di localizzarne i caratteri: non siamo più dalle parti dell’horror canonico dove il perturbante si manifesta all’esterno del soggetto, nella Realtà, modificandone i contorni e dislocando così i paradigmi cognitivi dell’Io. L’horror contemporaneo ci porta invece in una zona liminare dove paradosso e sovrannaturale abitano il mondo e lo plasmano tacitamente: invisibili come la paura-senza-volto che David Robert Mitchell rappresenta in It follows con i protagonisti perseguitati da una creatura mostruosa e che mai concretamente li tocca. Gli esempi sarebbero tanti. Qui vogliamo però provare a ragionare su un film che crediamo essere uno tra i più forti precursori di questa tendenza.

Potremmo dire che - quasi vent’anni prima dell’horror che siamo soliti vedere oggi - Donnie Darko di Richard Kelly, ambientato negli anni Ottanta, anticipi quest’attitudine a inquadrare e sagomare l’invisibile, in uno spazio e tempo sospesi dove lo spettatore non sa risolversi tra due coordinate né spiegarsi se l’anomalia stia avvenendo nella mente o nel mondo del protagonista. Il terreno è quello todoroviano dell’esitazione: convivere con l’ambiguità del testo e accettarne la sregolatezza. Attraversare l’eclissi dell’ordine prestabilito nei suoi anfratti e restringimenti spazio-temporali come lo stesso Donnie.

La storia è nota. Donnie è un giovane con difficoltà relazionali, insubordinato a causa delle regole della società in cui è costretto a vivere e in cura da una psicanalista. La caduta del motore di un aereo nella sua camera da letto e il fatto di essere profeticamente sfuggito alla morte per uno dei suoi soliti attacchi di sonnambulismo saranno per lui il punto di non ritorno. Da lì in poi un coniglio dalle fattezze antropomorfe gli apparirà (in sogno, in vita, in quella dimensione a metà tra il sonno e la veglia che lo faceva girare a vuoto per la città e fare le cose più assurde?) per comunicargli l’esatta fine del mondo.
È già stato scritto tanto su Donnie Darko e su come Kelly abbia guardato ad uno specifico immaginario culturale conferendogli nuova linfa, e sul modo in cui nel film riescano a convivere diversissimi microcosmi cinematografici. Il film è così un pastiche ibrido e magnetizzante di rimandi, ricordi e modelli ridefiniti alla luce di un tempo e una cultura diversi. Ma non soltanto questo.

Sotto la luce e la nitidezza dell’ordinario, sembra dire, anche molto fiabescamente, Donnie Darko, si nascondono le spire delle tenebre (l’impietosa e inspiegabile adulthood, per Donnie…) e i confini diventano labili, le presenze ectoplasmatiche – il vettore trasparente a forma di verme che trapassa il corpo delle persone delineandone i moti e le traiettorie, quasi a stabilire dei tracciati spazio-temporali già prescritti – e i mondi dell’aldilà e terreni non più paralleli ma una cosa sola, come disvela l’ancor più enigmatico epilogo. Il perturbante è sì il coniglio antropomorfo ma proviene in realtà da un disagio e una paura intimi di cui la creatura e tutto ciò che le sue apparizioni portano con sé sembrano essere l’estensione. Nella forma di un racconto a metà tra il gotico - chi è Donnie se non lo schizofrenico uomo della folla di Poe, che va e si perde nei suoi itinerari senza meta, in una detour temporale che sembra sempre riavvolgersi su sé stessa - e l’horror costellato da presenze e irruzioni fantasmatiche, Donnie Darko parla del disagio adolescenziale e della retorica del falso benessere di quegli anni. E al di là di tutte le teorie e interpretazioni che non fanno altro che sciogliere l’ambiguità del film in categoriche chiusure, non considerandone i riverberi che tuttora risuonano, il viaggio nel tempo è per il cineasta una figurazione con cui poter riportare sul piano della concretezza ciò che invece la metafora dematerializza e sgancia dai corpi. La possibilità di abitare più mondi, e il fatto che il tempo non esista solo nel senso in cui siamo soliti pensarlo, aprono nel film a un’infinità di vie e tracciati da percorrere, soprattutto quando sono già definiti. Tracciati quindi da spezzare. È il tracciato dell’adolescenza che Donnie infrange e che Kelly racconta come un periodo pieno di paure e inquietudini tanto più quando davanti a sé incombe la minaccia del futuro. Ritorna in questo modo il senso di quella paura indicibile, e invisibile, di cui parlavamo all’inizio, e l’atavica sensazione di angoscia sfibrante provata da chi sa di essere perseguitato da qualcosa che non riesce a identificare nella concretezza del reale. Che sia l’età adulta o la fine del mondo per come lo conoscevamo.

Autore: Elvira Del Guercio
Pubblicato il 06/11/2020

Articoli correlati

Ultimi della categoria