Speciale MUBI / La tartaruga rossa

di Michaël Dudok de Wit

Educare lo sguardo, educare alla sala? Perché MUBI e la visione OTT sono in dialogo e non in opposizione alla visione al cinema .

La tartaruga rossa - Michaël Dudok de Wit

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Quando mi è stato chiesto dalla redazione di Point Blank di selezionare un film dal catalogo MUBI, la scelta de La tartaruga rossa è stata inevitabile non tanto per ragioni relative al testo ma, piuttosto, perché su questo film acquerellato di Michaël Dudok de Wit convergono memorie, aspettative e delusioni personali, tutte legate al mio rapporto con la sala, la discussione attorno al cinema e, di riflesso, attorno alle piattaforme streaming.

Facciamo ordine: è il giugno del 2019 e sono di rientro da Berlino. Ho appena visto il bioscopio dei fratelli Skladanowsky alla cineteca cittadina ed è uno di quei momenti romantici e radicali, pieni di retorica sulla bontà delle proprie scelte di vita, sul fatto che poco importano le prospettive lavorative e la carriera, perché studiare cinema, studiare visuale, era l’unica cosa che volessi, potessi e sapessi fare. Da lì a pochi giorni sarebbe cominciata una breve rassegna di dialogo tra cinema e filosofia che un piccolo comune della Brianza mi aveva chiesto di gestire, un trittico di film sotto il titolo pretenzioso di L’Effimero e l’Eterno che sarebbe proprio dovuto cominciare con La tartaruga rossa, un modo per attrarre quel pubblico di ragazzini e famiglie sul quale David Lynch prima e Ang Lee poi non avrebbero esercitato alcun ascendente. Io e il collega con cui lavoravo avevamo preparato una presentazione che integrasse dialogo e materiali audiovisivi per spiegare il lavoro geometrico di de Wit, l’uso delle linee verticali e orizzontali per separare le manifestazioni oniriche e le sequenze romantiche con i loro movimenti ascensionali, il presentarsi di una natura né maligna né accogliente, un microcosmo impressionista, incontaminato e fuori dal tempo, fatto di suoni gutturali e fonemi appena accennati. Insomma, si era deciso di farne, soprattutto, una questione di forma, così da invitare il (poco) pubblico a una conversazione sulle specificità del mezzo. Quando, pochi giorni prima della data stabilita, la società di distribuzione ci ha negato la possibilità di proiettare il film, ho avuto modo di riconsiderare alcune mie posizioni utopiche, ma anche di domandarmi del ruolo che il cinema dovrebbe assumere nei confronti di se stesso, e non l’ho fatto certo perché ci fosse stata negata la possibilità di una proiezione gratuita, quanto per la motivazione addotta: la rassegna comunale sarebbe stata di concorrenza a un Multisala da poco aperto in zona.

Non sono un critico cinematografico e probabilmente non lo sarò mai. In seguito ai miei studi mi sono però spesso trovato nella situazione di insegnare, commentare, scrivere di cinema: l’ho fatto sui blog, sulle riviste, nei licei, in università, per festival, cineforum, convegni o lezioni private. L’ho fatto per gli amici e persino per i giornali parrocchiali. Lo faccio da quando ho tredici anni e ho scritto cose di cui mi vergogno profondamente e altre che non reputo all’altezza. Mi domando quante imprecisioni avrò detto ai miei studenti nel corso degli anni e continuo a sperare che, in un modo o nell’altro, alcuni dei miei vecchi articoli spariscano da Internet. Se c’è un pensiero che però mi ha sempre motivato, un’idea che ha sempre accompagnato la mia tensione al dialogo attorno al cinema, è che la critica, la divulgazione, l’analisi e la discussione cinematografica siano un servizio. Non un servizio a se stessi, non un servizio al film ma un servizio al cinema. Sarà una visione naïf e forse un po’ patetica, ma resto fermamente convinto che il critico, l’analista, l’insegnante, tutti abbiano un ruolo e un dovere: quello di portare il cinema alle persone e non le persone al cinema. Le persone al cinema ci vanno da sole ma, prima, devono essere educate allo sguardo. E con questo non intendo che si debba spiegare dove o cosa guardare ma che si debbano fornire gli strumenti per imparare a guardare. Solo che, a volte, quando si parla di sala cinematografica, mi sembra che la macchina cinema tutta si arrocchi su se stessa, allontani i film dal proprio discorso e perda la visione d’insieme: anche nella remota ipotesi che quella sera il multisala avesse davvero perso degli spettatori a causa nostra, credo che l’immissione di cinema e di discussione sull’immagine nel tessuto sociale, abbiano un valore fondamentale per (ri?)portare il pubblico in sala e formare gli spettatori del futuro, spettatori che, volenti o nolenti, fruiranno il film in maniera molto diversa dagli spettatori novecenteschi. Ed è qui che si inserisce il discorso su MUBI e sulle OTT in generale.

Non riprenderò tutte le questioni ormai consolidate sulla frammentazione del visuale, ma andrò dritto al punto: sono uno di quelli che fatica a guardare un film su uno schermo a 13 o 18 pollici e che ancora crede nella sacralità dell’esperienza cinematografica in sala, eppure sono altrettanto convinto che le piattaforme streaming forniscano un servizio essenziale nel proporre cinema a costi contenuti, prodotti nuovi e diversificati - se non al loro interno (come insegna la stanchezza di molte produzioni Netflix), sicuramente tra di loro -, il recupero di film d’autore (guardate quanto cinema italiano c’è su Amazon Prime Video, per non parlare di John Cassavetes…), e operazioni di frontiera (The Irishman di Scorsese su Netflix, Too Old to Die Young di Refn su Prime); credo inoltre che sia un equivoco stucchevole continuare a contrapporre fruizione in sala e streaming come se fossero due mondi incompatibili in una situazione di conflitto risolvibile solo con il trionfo dell’uno o dell’altro. Penso piuttosto che non sia troppo difficile ipotizzare un dialogo che porti a uno scambio virtuoso tra i due poli e in questo senso la proposta di MUBI è paradigmatica: regolamentando l’accesso a film che per irraggiungibilità, per studio, per lavoro ma anche, ammettiamolo, per risparmiare qualcosa, io e tanti altri come me abbiamo scaricato dai siti più disparati, MUBI diventa non solo un divertimento cinefilo, ma un vero e proprio strumento formativo (non a caso, l’accesso per gli studenti delle scuole di cinema è gratuito) e archivio per i professionisti, capace anche di cogliere lo specifico della discussione cinematografica contemporanea dedicando un’intera sezione ai feed. Inoltre, MUBI mette a disposizione un catalogo che, oltre al valore archivistico (recentemente ho avuto modo di guardare gran parte della filmografia di Paul Painlevé, per dirne uno), fa da complemento alla sala, immettendo o rimettendo in circolo film che nelle sale italiane ci sono stati per poco tempo (per esempio, Zombi Child di Bertrand Bonello), non ci sono da tanto o addirittura non ci sono mai stati. Questo per me non è certo un disincentivo alla fruizione in sala, anzi, è un invito a far circolare e fruire sempre più cinema, a discuterne comunque e dovunque, che sia all’interno di una rassegna estiva gratuita, a casa, sul grande schermo o sul computer. E vedere La tartaruga rossa tra i film disponibili, si carica di un forte valore simbolico.

Autore: Pietro Lafiandra
Pubblicato il 12/08/2020
Francia, Belgio 2016
Durata: 80 minuti

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