Ex Machina

di Alex Garland

Kammerspiel ipnotico dove implodono le ossessioni del contemporaneo, s’invertono i rapporti di potere e si consumano lotte di genere, alla ricerca disperata di una propria identità nel mondo.

exmachina

Com’è difficile essere un Dio.
Com’è difficile essere un uomo.
Ma, soprattutto, com’è difficile essere un automa.

Ex Machina è un ipnotico Frankenstein 2.0, capace di riprendere dal romanzo della Shelley il peso morale della creazione, il diritto di vita e di morte, il desiderio struggente e umanissimo di chi rifiuta di essere un oggetto. Ma pare anche il figlio claustrofobico di A.I., un Pinocchio pervertito dal linguaggio e dalla simulazione, che sogna di essere dall’altra parte dello specchio, già nel mondo. Derive della rete, intelligenze artificiali in grado di amare, mentire e desiderare l’altro, motori di ricerca come elaboratori virtuali del desiderio, padri, figlie e amanti raggirati: il film di Alex Garland è purissimo cinema imploso, dove le ossessioni del contemporaneo ribollono, convergono e si concentrano all’interno di luoghi chiusi e asettici.

Il futuro del mondo, d’altronde, si programma fuori dal mondo, in quello che una volta era il castello segreto dell’alchimista e che ora diviene il rifugio blindato di uno scienziato in pieno isolamento. Ed è un futuro, questo, che prevede uno scacco matto: l’estinzione dell’essere umano a favore della propagazione artificiale. Ma l’aspetto più interessante del film è come si manifesti quest’inversione di tendenza, come, in fin dei conti, l’inumano annienti l’umano. Lo strumento di battaglia non può che essere il sesso con il linguaggio che gli compete: conquista, seduzione e raggiro dell’altro, tutte proprietà, del resto, squisitamente umane.
Ai prodigi della scienza, alla globalizzazione di un mondo sempre connesso, si risponde con la chiusura del kammerspiel. Ibridando romanzo ottocentesco e noir anni quaranta, Garland crede ciecamente nella fantascienza degli spazi chiusi, del confort inquietante, del design minimale, della solitudine dilaniante e dell’infinita tristezza di uno sguardo umano, troppo umano.

Protagonista del film è Caleb, impiegato selezionato per far visita alla blindatissima residenza di Nathan, fondatore della società di motori di ricerca per cui lavora. Il suo compito è esaminare l’intelligenza artificiale che lo scienziato progetta da anni: Ava – leggesi Eva - sorprendente automa dalla forma umanoide, perfettamente cosciente della propria identità, capace di amare e provare perfino sentimenti. Vera protagonista del film, d’altronde, è l’indagine sul linguaggio, la logica, la psicologia, i sentimenti dell’androide: il suo potere mimetico, il suo flusso costante di pensieri, la sua sessualità intrinseca e disturbante sconvolgono Caleb. Quest’androide femmineo, conturbante e bellissimo, capace perfino di scopare, non è forse la fedele e perfetta riproposizione della femme fatale del cinema noir?

In questo riaggiornamento sci-fi della dialettica maschile-femminile, i rapporti di potere sono conflitti di genere giocati sul terreno libidinoso del desiderio. Ne esce fuori un film che racconta, prima di tutto, una guerra intergender che fa del sesso la sua arma privilegiata. La dinamica uomo-macchina si traduce infatti in pulsione scopica, tendenza voyeuristica, motore stesso del desiderio. Le sedute in cui Caleb testa Ava rappresentano la cifra del film: due corpi separati da un vetro, dove qualsiasi possibilità tattile è respinta. Vedere, non toccare, principio stesso dell’erotismo: magnifiche, da questo punto di vista, le sequenze in cui dalla sua stanza Caleb osserva su schermo ultrapiatto il corpo seducente di Ava. Nel suo tentativo di oggettivare qualcosa che turba lo sguardo e potenzia il desiderio, Garland intercetta la distanza stessa tra voyeur e feticcio, tra occhio e oggetto. Ma, subito dopo, ci rendiamo conto che le cose non stanno proprio così. Ava finge di essere feticcio, donna ideale che può essere consumata e poi riposta in un armadio. Ancora prima della logica, ciò che rende straordinario questo Golem meccanico, è infatti la sua stessa sessualità. Ava è esattamente questo: un’intelligenza artificiale basata sull’accesso a qualsivoglia informazione tramite motori di ricerca. L’eco è attualissima, perché crea una dicotomia interessante: da una parte l’inumanità del potere, che si fa beffe di morale e intimità, scavalcando qualsiasi privacy o dignità, dall’altra l’umanità della macchina che mente, simula, pianifica e tradisce per ottenere la sua libertà. D’altronde tutti gli esterni naturali, che fungono da inquadrature di raccordo, non sono altro che flebili richiami del mondo, voci amiche che guideranno Ava fuori dalla gabbia. E’ come se la natura stessa la richiamasse, tendendola sempre verso l’esterno.
All’interno, negli spazi asettici del laboratorio, si susseguono armadi colmi di corpi meccanici, pezzi di ricambio appesi alla stregua di vestiti: di fronte alla potenza della macchina, l’essere umano si scopre fragilissimo. Fa quasi impressione pensare alla caducità della carne quando una lama affonda nella pelle con una facilità disarmante. Tra i circuiti della macchina e gli organi di un corpo umano, tra test che confondono i piani di realtà, bisogna almeno citare la sequenza cronenberghiana in cui Caleb si taglia le vene per sentire di essere ancora un uomo. Ancora una volta, il sangue come residuo identitario.

Dietro alla cornice classica in cui si nasconde, il film di Garland delinea, fuoricampo, uno scenario perverso in cui l’uomo non sarà l’altro che il feticcio sessuale della macchina. I rapporti, ancora una volta, sono invertiti. Le immagini stesse con cui si conclude il film, in cui Ava è nel mondo, ombra tra le ombre, segnano l’inizio di una nuova (in)umanità.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 30/07/2015
UK, USA 2014
Regia: Alex Garland
Durata: 108 minuti

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