Hammamet

di Gianni Amelio

La Providence di Bettino Craxi: una lezione di complessità contro la semplificazione del presente e della Storia.

Hammamet di Gianni Amelio

Per affrontare un film come Hammamet bisogna partire da una premessa fondamentale: non c’è giudizio nell’opera di Gianni Amelio. Gli ultimi giorni di Craxi, incarnato mimeticamente in Pierfrancesco Favino, non passano sui carboni ardenti dell’assoluzione né della condanna, quindi non è opportuno cercare l’una o l’altra, e tantomeno condannare il film per un presunto cerchiobottismo che è nella testa di chi guarda. Come sempre l’errore che può avvenire nel confronto con l’opera è non vedere ciò che sta sullo schermo, ma piuttosto riferirsi alle proprie aspettative personali che vivono in un terreno extracinematografico. È poi normale che un film su Bettino Craxi riaccenda il dibattito sulla sua figura controversa, ma proprio per questo occorre sondare con attenzione il famoso “specifico filmico”, senza farsi distrarre dal rumore di fondo.

Quello che inscena il regista calabrese, prima di tutto, non è un film su Craxi ma sulla sua fine, sull’ultimo frammento della vita: non a caso si chiama Hammamet, titolo-luogo del periodo esiziale che diventerà anche la sua tomba. Il politico in azione si vede solo nella prima sequenza, peraltro magistrale, nel congresso vinto del Partito socialista dove già affiorano i germi della caduta: qui per l’unica volta troviamo un Craxi arrogante, che silenzia il confronto con Vincenzo (Giuseppe Cederna), carattere in cui si riconosce l’ex ministro Vincenzo Balzamo, socialista pentito frustrato dal leader che gli oppone l’evidenza del denaro («Non ti piace la vita comoda?»). È questa la sola occasione in cui Craxi assomiglia ai personaggi de Il Regno di Rodrigo Sorogoyen, politici corrotti che trattano tra loro in un gioco di pesi e contrappesi, intenti a negare l’ovvio, salvarsi o trascinare giù tutti insieme. Poi inizia un altro un film.

Craxi, chiamato solo il presidente (ma sia lui che gli altri sono facilmente riconoscibili), è già in Tunisia. Introdotti dal piano sequenza dei bambini africani che corrono, arriviamo alla sua villa: è bella ma non sfarzosa, come gli fanno notare, perché contiene un elemento decadente, qualcosa che non torna, una luce fioca o una spiaggia sporca. Si tratta di un luogo che prelude al dissolvimento. È qui che si apre la Totentanz di Bettino Craxi, la danza del socialista con la morte: al contrario di Mitterand ne Le passeggiate al campo di Marte di Robert Guédiguian, un altro socialista alla fine, Bettino è però tormentato. Se entrambi i presidenti si trovano a scrutare il mistero della dipartita “con piccoli occhi mortali”, l’italiano deve fare i conti con una materia complessa e non riconciliata. Viene circondato dalla figlia Anita (Livia Rossi), nella realtà Stefania ma qui omonima della figlia di Garibaldi, che come Bettino “fu ferito ad una gamba”; dalla moglie senza nome (Silvia Cohen), che guarda vecchi film e cerca di alleviare la sofferenza del marito evocando il passato; soprattutto da Fausto (Luca Filippi), figlio di Vincenzo che è venuto a portare un messaggio post-mortem a Bettino e con lui instaura il rapporto più stretto, posizionandosi in veste di alter ego registico che filma il videoracconto del protagonista. Sono sporadiche le comparse del figlio (Alberto Paradossi), dell’ex rivale di partito (Renato Carpentieri) e dell’amante (Claudia Gerini) che interviene nello spazio di un addio. Il padre si mostra in sogno, nell’ultimo struggente ruolo di Omero Antonutti.

Craxi malato vive e ricorda: mangia cibo vietato, scherza col nipote, fa i conti con se stesso e il mondo intorno. A tratti prova ancora a comandare, a dirigere le vite degli altri: quanti figli fare, come trattare un bambino. Ma la partita si gioca soprattutto nella sua testa: non a caso il racconto si apre con una visione o un ricordo, un bimbo che spacca il vetro con la fionda. È il “primo errore” del giovane Bettino, piccolo irrequieto che scaglia la prima pietra perché non è senza peccato, presagio dei massi rotolati nell’età adulta. Hammamet è un film mentale: si svolge nella psiche del protagonista e la dispiega nel confronto con sé e gli altri, che a vari livelli sono sue emanazioni, dalla figlia orgogliosa e tenace al nipote fragile, passando per la figura di Fausto che da Craxi è profondamente segnata e per questo vuole ucciderlo. Bettino fa autoscrittura: definisce se stesso, si difende, dà la sua versione. A tradirlo è l’immagine mentale che gli appare, come nel fondamentale risveglio dal sogno: l’uomo ha sognato di trovarsi ancora in Parlamento ma, dopo il discorso inquisitore di un giudice, è finalmente riuscito a spiegarsi e tutti gli danno ragione. Mentre lo racconta alla figlia si commuove: così getta la maschera, e quelle lacrime diventano immediatamente significative di un desiderio inconscio che attesta la voglia di tornare, di essere compresi ma è anche un’implicita ammissione di responsabilità. Il sogno ha tradito l’apologia di Craxi. Ecco perché il film a cui Hammamet sembra più avvicinarsi è Providence di Alain Resnais: nel capolavoro del 1977 lo scrittore malato Claude Langham aspettava i figli nel suo castello, in attesa della morte. Nel frattempo scriveva il suo racconto mentale, un romanzo psichico in cui ha ragione sempre lui, e torto gli altri, tranne poi venire smentito all’ultima sequenza. Senza paragoni con il magistero del francese, così è anche per il Craxi di Amelio, costretto in un luogo finale: Hammamet è la sua Providence, il terreno ultimo in cui immaginare una storia. Una versione parziale e non definitiva.

Nella sceneggiatura scritta con Alberto Taraglio, poi, la complessità craxiana viene ulteriormente sfaccettata dalla resa del suo pensiero politico, stratificato e profondo: l’ex leader riflette sulla trasformazione linguistica del popolo che diventa gente, prefigurando un’epoca post-ideologica che conduce direttamente all’oggi, alla fine dei partiti e l’inizio dei populismi; respinge “la lealtà degli stupidi”, mettendo in dubbio il presente nutrito di esecutori e yes men, rivendicando un tempo in cui il pensiero critico era il presupposto e il confronto con l’altro la prassi da coltivare con cura. Nell’intricata tela narrativa non tutto è in quadro, alcuni stralci suonano pleonastici, il personaggio interpretato da Luca Filippi non convince fino in fondo. Così come discutibile è la coda finale sul “segreto di Craxi”, che nel racconto già era stato ampiamente restituito: d’altronde Amelio ci aveva regalato la notevole ripresa sulla spiaggia davanti al carro armato, in cui Bettino espone “la verità” ma noi non la sentiamo. La prova che la verità è inconoscibile.

Hammamet si offre quindi come un racconto aperto, ed è proprio questa la sua forza: non chiudere la questione ma anzi riproporla, pensarla, metterla sul tavolo davanti agli occhi. In tal senso contiene una lezione di complessità contro la semplificazione del presente e della Storia. Non è un film impeccabile, ma conferma Gianni Amelio come un regista importante del nostro cinema: uno che preferisce la tormentata domanda alla facile risposta.

Autore: Emanuele Di Nicola
Pubblicato il 09/01/2020

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