Servant

di M. Night Shyamalan

E' sempre mistero, metafora e superpoteri: M. Night Shyamalan torna in televisione in coppia con Tony Basgallop, e battezza Apple Tv+ con uno schizofrenico compendio del suo cinema

Servant recensione serie tv Apple Tv+

Apparsi con un certo clamore nel ventaglio di titoli sul biglietto da visita della Apple TV+, i dieci episodi di Servant sono prima di tutto un sondaggio. Non (ancora) un racconto organico, ma una rosa di opzioni, un accumulo di spunti stilistici e tematici che solamente in seguito andranno a costituire il plot a lungo termine del progetto. M. Night Shyamalan, co-creatore, regista e produttore esecutivo assieme allo scrittore Tony Basgallop, ha già rivelato di aver lavorato con in testa solo avvio e conclusione (col senno di poi, la metodologia di produrre film partendo dai finali ne spiegherebbe la scanzonata carriera). Alla Apple è stato venduto appena il titolo e la prima mezzora; il blasone degli autori è bastato per ottenere l'ok. 
Servant conterà idealmente 60 episodi per sei stagioni; la prima di queste è un pilot di cinque ore, e sarà il responso pubblico a decidere lungo quali dei mille sentieri aperti si proseguirà. Se una notte d'inverno una tata infernale: tante serie, tanti film e tante storie si diramano a partire dalla scena di apertura. In un turbinio di sbalzi di tono da far girare la testa, Shyamalan e Basgallop provano ad affrontarli tutti.

Di cosa parla, Servant? Di vivi e morti, di lutto e amore, di crescere e invecchiare, di matrimonio, solitudine, dolore, religione, cucina, carne e digitale, schermi e coltelli,  culle e cineprese. Potenzialmente, di tutto, e in ogni maniera. E pensare che viene introdotto con l'economia visiva di un kammerspiel: dramma da camera, un appartamento, un gruppo ristretto di personaggi di classe media, il dialogo come motore. Qui, le maschere in scena sono quelle dei coniugi Dorothy (Lauren Ambrose, vera star) e Sean Turner (Toby Kebbell), neo-genitori della upperclass continentale americana. Lei reporter per servizi di costume, lui chef e personaggio tv in orrendi simil-Masterchef. Vivono in una bellissima casa a tre piani a Filadelfia. Dietro le tendine, l'incubo: il piccolo Jericho, primogenito dei due, è morto a tredici settimane di vita in circostanze misteriose. Dorothy è bloccata nel diniego del trauma, che ha rimosso; Sean, in accordo con il cialtrone e cocainomane fratello di lei Julian (Rupert Grint scatenato, che a dieci anni dall'addio a Ron Wesley si riscopre aspirante Steve Buscemi), le ha messo in braccio una reborn doll: inquietante e uncanny pupazzo umanoide, oggetto transitorio rappresentante il neonato scomparso, che dovrà accompagnare la madre nell'accettazione del lutto negato. Ma il lutto fatica a manifestarsi, e Dorothy è ora convinta che la bambola sia davvero suo figlio. Il già precario equilibrio deraglierà con l'arrivo a casa della tata Leanne (Nell Tiger Free), misteriosa ragazza del Wisconsin senza passato. Una Mary Poppins delle praterie, religiosa, vergine, emersa dal nulla, forza motrice violenta dell'assurdo.

Presentandosi sotto una veste, Servant cambia pelle a più riprese nel corso dei suoi dieci episodi, sfuggendo sistematico ad ogni forma di catalogazione. Difficile dire se si tratti di scelta stilistica o procedere a tentoni, e facile anzi che tale schizofrenia susciti più un indecifrabile fastidio che fascinazione. Che cos'è, in fondo? Parte come un dramma in interni e luci buie, prende una svolta da giallo con indagine, devia in black comedy all'inglese per un paio di episodi, cambia prospettiva continuamente, accumula metafore e chiavi di lettura, si riavvolge nello psicodramma domestico, e nel finale si rivela per ciò che da Shyamalan ci aspettavamo fin dall'inizio: un fantasy puro.
Dopo una falsa partenza lunga due terzi del ciclo, il dramma dei Turner appare allora come mero pretesto, e Servant rilancia i suoi sviluppi futuri verso una possibile grande saga fantastica shymalaniana: con superpoteri, magia, allegorie, predestinazione, e metanarrativa. Si presenta come un film di Haneke o di Von Trier, gioca al gatto e al topo con le aspettative, e chiude (o meglio, inizia) come fosse Carnivale. L'epica southern gothic dai toni apocalittici si mangia la storia privata, e ciò che verrà dopo è a questo punto imponderabile.

Parlare di Servant è per ora un processo alle intenzioni. La prima stagione pianta misteriosi semi destinati a maturare solamente tra altri dieci, o venti o trenta episodi ancora. Quello che si vede ora fa molto ridere, inquieta abbastanza, non commuove granché e dice poco o nulla sui duecento temi tirati in ballo in “appena” cinque ore. Shyamalan-autore è presentissimo, ed è difficile stabilire dove finisca il suo apporto e inizi quello dell'effettivo autore Basgallop, professionista tv britannico e scrittore degli episodi. Nel suo sardonico mettere in crisi i due imbecilli maschietti di casa (il cuore è iper-femminile: altro nodo importante), la serie riaccende la componente umoristica emersa nei recenti exploit del regista americano, quando incrociando orrore e cringe (personaggi incomprensibili che si comportano in maniera assurda davanti agli esterrefatti protagonisti) aveva dato il massimo in film come Split e The Visit. I quattro episodi finali virano invece verso i temi e le suggestioni di Unbreakable; lì un po' di brillantezza si perde, complice l'arrivo prepotente in scena di alcuni personaggi cliché a turbare l'equilibrio miracoloso dei quattro lead. Resta un gran divertimento fino alla fine, fruibile come una commedia dark con attori incredibili e senza un finale. Per un'analisi esauriente, se ne parlerà fra tre o quattro stagioni.

Autore: Saverio Felici
Pubblicato il 01/03/2020
USA 2019
Durata: 1 stagione da 10 episodi

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