The Visit

Shyamalan torna all'horror con un grande film, riflessione teorica/ironica sulla vulnerabilità dello spazio domestico, l'orrore della vecchiaia e la capacità del cinema stesso di cogliere la realtà.

In un loro studio dedicato alla natura dei new media, gli americani Bolter e Grusin individuano due strategie attraverso le quali gli strumenti di comunicazione cercano di raggiungere l\'utente con la massima autenticità: ipermediazione e immediatezza, dicotomia nella quale la prima modalità sottolinea la natura finzionale della rappresentazione mettendo in evidenza gli strumenti e le pratiche adottate, mentre la seconda nega ogni trasfigurazione pretendendo di restituire la realtà con una fedeltà assoluta.

Più nello specifico, le stesse idee le ritroviamo anche nella teoria del film e corrispondono al rapporto tra finestra e cornice, tra un cinema che nega sé stesso per diventare rappresentazione diretta del mondo e un altro che invece mette apertamente in campo la proprio natura mediatica. Come si riflette questo sullo spettatore? Da una parte gli si chiede di credere alla realtà di quanto sta guardando, dimenticando attraverso l’immedesimazione gli attori, il set, l’esistenza della macchina cinema; dall’altra lo si chiama a giocare con il medium in sé, di cui si sottolinea l’artificiosità in ottica metalinguistica.

E’ evidente come queste due logiche seguano strade diametralmente opposte, tuttavia a volte ci sono film capaci di intrecciare i due registri, di ricordarci la finzione di quanto stiamo guardando e un attimo dopo renderci totalmente partecipi della scena. The Visit di M. Night Shyamalan è uno di questi, magistrale lezione di cinema capace di manipolare i generi e giocare sulla consapevolezza esterna dello spettatore senza per questo perdere nulla del proprio potere affabulatorio.

Più di altri generi l’horror è un cinema che vive di filoni, di mode trascinate tanto per le lunghe da sconfinare spesso nella ripetizione più stantia. Di queste il pov movie (found footage o mockumentary che sia) è solo l’ultimo stanco elemento della lista.

Il fatto che The Visit ricorra proprio al mockumentary non è quindi il miglior biglietto da visita per il film di Shyamalan; tuttavia se ripensiamo al lavoro che il suo cinema ha sempre svolto sul punto di vista e sul rapporto tra visibile e fuori campo questa scelta non appare più così grossolana, ma anzi si rivela assolutamente coerente con il percorso intrapreso dal regista fino ad oggi.

Per Shyamalan infatti il mockumentary diventa lo strumento per portare avanti una riflessione teorica/ironica interna al genere, riflessione che si sviluppa da una parte e dall’altra dello schermo. Grazie all’alternanza magistrale di immediatezza e ipermediazione, finestra e cornice, Shyamalan riempie The Visit di tutto ciò che normalmente disinnesca il potere finzionale di un horror (elementi tanto ironici da sfiorare la parodia, forte ammiccamento alla consapevolezza di genere dello spettatore, dialoghi con tecnicismi intra-diegetici riferiti al finto documentario in fieri e alle strategie cinematografiche per realizzarlo) ma allo stesso tempo porta avanti il racconto di una fiaba nerissima sull’orrore della vecchiaia e sulla necessità di affrontare le proprie paure per raggiungere una catarsi personale, argomenti che possono funzionare solamente su uno spettatore calato all’interno del film e non posto di fronte ad esso. Anzi, è proprio il costante cambiamento dello spettro emotivo di chi guarda (che passa dal riso alla paura senza soluzione di continuità) ad aumentare esponenzialmente il senso di terrore che domina il film e la sua autenticità.

Con The Visit Shyamalan restituisce all’orrore fiabe come Hansel e Gretel, porta in scena come pochi la paura e il disagio suscitati dai peggiori compagni della vecchiaia, ma soprattutto decostruisce la pretesa di realtà del mockumentary per portare avanti un discorso sulla presenza del reale all’interno dell’inquadratura, sulla possibilità che ha il cinema stesso di catturare e restituire la catarsi. Perché se da una parte il terzo atto del film è puro Shyamalan nel twist e nel portare i propri personaggi a confronto con le proprie paure, il finale ultimo arriva a disinnescare anche questa logica di palingenesi, gettando una nuova luce su un film che diventa un trucco esercitato a vuoto, uno sguardo ancora una volta incapace di afferrare l’evidenza che ha già sotto gli occhi. Siamo tra il guardare e il riuscire a vedere, nello iato tra gli elementi che compongono l’immagine e la verità che giace sotto le loro forme.

Prima di concludere vale la pena spendere due ultime parole per sottolineare il carattere di paranoia domestica creato da Shyamalan attraverso il mockumentary.

Impossibile infatti capire l’esplosione di film in prima persona senza collegare tale moda al tema di paranoia e di insicurezza domestica vissuto dagli Stati Uniti negli anni Duemila. Dall’attacco dell’undici settembre si sono moltiplicati film in soggettiva dedicati all’invasione, tanto urbana (Cloverfield) quando domestica (Paranormal Activity). In particolare la saga creata da Oren Peli è un ottimo esempio di come molto cinema americano abbia ricominciato a temere il proprio spazio domestico, paura trasfigurata nell’angoscia dei suoi personaggi, inconsapevoli di ciò che accade attorno a loro mentre dormono. The Visit, nella sua consapevolezza teorica, prende di petto anche tale prospettiva, trasformando le figure per antonomasia più rassicuranti del nucleo familiare, i nonni, in mostri spaventosi e incomprensibili, per di più attivi particolarmente di notte. Ancora una volta la soggettiva dell’occhio tecnologico diventa l’ultima barriera contro gli orrori che si agitano al calar del sole, presenze che hanno ormai invaso i nostri affetti e le nostre case. E che non vedono l’ora di rinchiuderci in un grosso, unto forno.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 01/12/2015

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