Free Fire

Attraverso il cinema geometrico di Ben Wheatley.

Per diverse motivazioni, è impossibile non leggere Free Fire, il sesto lungometraggio dell’inglese Ben Wheatley, in contrapposizione al precedente High-Rise - La rivolta, adattamento dell’omonimo romanzo di Ballard (tradotto in Italia col titolo vagamente capzioso de Il condominio): in primis perché dopo l’ottimo riscontro ottenuto dal film con Tom Hiddelston ci si aspettava da Wheatley un’opera che lo potesse inserire nel flusso del mainstream internazionale, ma soprattutto perché le logiche che governano i due film, nel loro essere antitetiche (sebbene inserite all’interno di una cornice simmetrica), sono anche sintomatiche del loro successo e insuccesso.

Potrebbe sembrare parodistico dirlo ma High-Rise è in tutto e per tutto un film verticale: nonostante il regista si dimostri inabile nel, o disinteressato a, articolare il pensiero ballardiano - come riusciva invece a Cronenberg nel 1996 con Crash - , evitando di rappresentare la regressione psichica dei protagonisti, il rancore di classe e le dinamiche alienanti che regolano il rapporto padri-figli in un contesto di iper-benessere, è altrettanto vero che i soggetti restano dotati di uno spessore che trascende l’opposizione protagonista/antagonista, benigno-maligno, e non perdono la loro caratterizzazione a tutto tondo.

L’organismo verticale dell’ambientazione permette una messinscena difforme, consentendo al regista di descrivere un impianto filmico stratificato composto nel suo lato estetico da una molteplicità di ambienti affascinanti, scenograficamente singolari, dalla fotografia specifica, nel suo lato ritmico da situazioni eterogenee che contravvengono al ripetersi di accadimenti trascurabili o sintetizzabili attraverso la scrittura ma che sarebbero risultati stantii se rappresentati visivamente, e nel suo lato lirico dalla composizione di un gioco di sguardi tra dominatore e dominato, potente e impotente, oppressore e oppresso, quindi anche dalla raffigurazione di una sensibilità erotica che fa leva sulla degenerazione e la perversione. In High-Rise c’è sempre qualcuno che guarda qualcun’altro, e lo fa dall’alto verso il basso o dal basso verso l’alto; la macchina da presa cambia punto di vista e angolazione, si inabissa nelle acque della piscina, si inclina verso il basso con delle plongèe che certificano la distanza fisica tra i piani e sociale tra i condomini, traccia delle traiettorie diversificate che conducono il pubblico alla sperimentazione sensoriale del film.

Contrariamente, Free Fire è un film che, sebbene come High-Rise sia ambientato in una location circoscritta e claustrofobica, si dispiega in orizzontale: al complesso di grattacieli viene sostituito un immenso grande magazzino abbandonato, alla stratificazione sociale e alle conseguenti lotte tra ceti due bande di trafficanti d’armi impegnate in uno scontro a fuoco e ai round characters i flat characters, i personaggi piatti e sempre uguali a se stessi, orizzontali per l’ appunto.

Gli intenti di Wheatley sono chiari: l’idea è quella di realizzare un film euforico, post-moderno, che dimentichi la narrazione e la sceneggiatura a favore di una spettacolarità di situazioni e di personaggi vagamente tarantiniani, talmente caricaturali da risultare tragicomici. Paradossalmente, la deficienza maggiore del film risiede però proprio nella non eccessività dello svolgimento della trama e nella gestualità degli attori, nel carattere amorfo di personaggi che, anche a causa della scelta di attori laconici come Cillian Murphy e Brie Larson, per quanto assurdi e viscosi, non riescono a suscitare quel tanto di antipatia nello spettatore che basterebbe per rendere la repulsione una delle attrattive della visione, la quale risulta viceversa algida e distaccata.

Inoltre, mentre in High-Rise l’andirivieni tra i numerosi piani dell’edificio scandiva internamente il ritmo del film e l’incrementarsi concentrico di violenza ed erotismo più di quanto un montaggio oculato non riuscisse già a fare, la dispersività dello spazio sterminato e vuoto di Free Fire immobilizza i protagonisti in un’unica dimensione spaziale-caratteriale-temporale, minando il dinamismo e la sovra-eccitazione che uno spara-tutto del genere, implicitamente, promette di avere. La macchina da presa fatica a seguire i numerosi protagonisti, dispersi in spazi che si ripetono identici a se stessi e senza soluzione di continuità, così che le cromie uniformi, le poca varietà d’ambienti e un montaggio privo di punti d’ancoraggio, non contribuiscono alla formazione di quell’andamento frenetico che invece esalta i caratteri tipici del Tarantino de Le iene attraverso l’alternarsi vorticoso di dettagli grandguignoleschi (qui disseminati con eccessiva parsimonia), l’allucinatorio progredire dei dialoghi e la pronuncia delle battute da parte degli attori.

Quello che vorrebbe essere un tono scanzonato si risolve in una progressione piatta e monotona, incapace di liberarsi della sua dimensione giocosa e al contempo di divertire, e che proprio a causa dell’artificiosità del suo intento ludico fallisce nell’instaurare con lo spettatore ciò che in High-Rise riusciva benissimo: il rapporto empatico.

Autore: Pietro Lafiandra
Pubblicato il 29/10/2017

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