Ma Loute

Una commedia insolita e grottesca straripante di invenzioni visive, con una natura superba che fa da sfondo al racconto.

Un’ampia baia placida e meravigliosa, con un’immensa spiaggia chiara, e una verde e rigogliosa campagna percorsa da fitte pinete fanno da cornice al racconto comico e grottesco Ma Loute, ultimo film del regista francese Bruno Dumont, in concorso a Cannes 2016 (dove ha ricevuto una nomination per la Palma d’Oro).

Sullo sfondo di questo seducente panorama della costa francese, fotografato e inquadrato con pittorica raffinatezza, si intrecciano – all’inizio del Novecento - le vicende della ricca e strampalata famiglia Van Peteghem con quelle dei poveri pescatori del luogo, che hanno il compito di “traghettare” (più spesso in braccio che in barca!) da un lato all’altro della baia gli eleganti borghesi in vacanza. A dare il titolo al film è appunto un giovane pescatore, lo sgraziato e allampanato Ma Loute, di poche parole ma dall’accento bislacco, perennemente attorniano da un nugolo di chiassosi fratellini; queste discutibili “qualità” non gli impediranno di invaghirsi e di conquistare l’enigmatica Billie Van Peteghem, volto angelico e imperiosa voce mascolina.

Nel frattempo però lungo la costa avvengono una serie di inspiegabili sparizioni, sulle quali indaga un buffo ispettore inverosimilmente obeso e sorprendentemente ingenuo. Inoltre, tanto nella sofisticata famiglia borghese quanto nella rude famiglia proletaria, si nascondono segreti inimmaginabili che lo spettatore - a differenza degli indaffarati ma inconcludenti poliziotti – riuscirà a scoprire poco a poco.

L’esasperata comicità del film, che non disdegna a tratti il Grand Guignol, passa tutta attraverso lo studio millimetrico della gestualità e della corporeità attoriale, che – come insegnava l’inarrivabile Chaplin – si meccanizza e si oggettivizza. Dal tentativo di ricucire l’incolmabile scarto tra il dato biologico e sensibile da un lato e dato meccanico e inerte dall’altro, nasce un’ironia fantasiosa che si apre, fellinianamente, al surreale (soprattutto nell’epilogo, che vira felicemente verso territori onirici). Ma Dumont fa di più, nel senso che omaggiando e citando certi stilemi comici degli albori della storia del cinema li spinge all’iperrealismo attraverso il sonoro, che gioca a richiamare i materiali attraverso i rumori: ecco allora che il grasso e goffo commissario trasfigura in un pupazzo di gomma e poi – letteralmente – in un pallone gonfio d’aria pronto a prendere il volo, mentre gli altezzosi Van Peteghem si piegano su scricchiolanti giunture di legno quando tentano, con non poche difficoltà, di accomodarsi sulle sdraio in giardino.

Esagerazione e parossismo sono poi le modalità che la comicità dumontiana predilige per descrivere, esacerbandole, le differenze sociali. I consumati attori nei panni dei Van Peteghem (una divertita e meravigliosa Juliette Binoche, un eccezionale Fabrice Luchini e infine Valeria Bruni Tedeschi, perfettamente calata nella parte) sono tutti vezzi verbali e birignao; mentre i proletari – Ma Loute e i genitori, egregiamente interpretati da attori pressoché alle prime armi – esibiscono volti burberi e modi rozzi e selvaggi, più bestiali che umani. Stessa cosa per le ambientazioni e le scenografie, pensate e costruite con inventiva e attenzione: da una parte l’eccentrica villa in stile “egiziano tolemaico” dei Van Peteghem, dall’altra il tetro e dimesso casolare dei pescatori.

Sulle orme dell’apprezzata serie televisiva P’tit Quinquin - di cui recupera l’ambientazione e la grottesca ironia – Dumont insiste dunque sulla via della commedia, mettendo per ora da parte i toni più seri e drammatici che hanno caratterizzato, fin qui, il suo percorso cinematografico.

In Ma Loute sono infatti le dinamiche dell’umorismo che contano – rimarcate in senso visivo e sonoro con stravaganza e originalità – più che l’indagine psicologica dei personaggi; ogni potenziale tragedia prontamente si stempera in farsa, e se i nodi non vengono al pettine non è tanto per l’inadeguatezza e la superficialità dei bizzarri poliziotti, quanto perché il registro del film impone di piegare la realtà al non-sense, preferendo la fantasticheria alla logicità dei nessi causa-effetto, la divagazione all’analisi, la ricerca estetico-linguistica a quella drammatico-psicologica. Se è vero che Ma Loute sacrifica decisamente la tensione narrativa all’inventiva stilistica e visiva, rischiando di impantanare e diluire eccessivamente l’azione, tuttavia ha gioco facile nel farsi perdonare questi suoi limiti poiché offre in cambio, allo spettatore, una libertà d’immaginazione superba e davvero rara.

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 31/08/2016

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