Donne ai primi passi (Cuties)

di Maïmouna Doucouré

Efficace racconto della relazione schizofrenica fra il corpo femminile e il sesso nella società odierna, interpretato da una protagonista divisa fra due mondi egualmente limitanti.

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L’equivoco è di casa, in Mignonnes (o Cuties, o Donne ai primi passi che dir si voglia). Un equivoco che si è allargato a macchia d’olio fino a contagiare anche la realtà. Non ci interessa qui trattare delle polemiche nate intorno al film di Maïmouna Doucouré, concretizzatesi nelle richieste di ritiro da Netflix, che ne è il distributore: diremmo solo che è stato, appunto, tutto un grande equivoco.

Come sempre, il grande protagonista della storia – e della diatriba – è il corpo femminile, e il suo legame indissolubile dal concetto di prodotto sessuale. Una donna che si spoglia, una donna che balla, una donna e basta, anzi, solo una ragazzina, beh, non importa, tanto il risultato è lo stesso: se c’è l’immagine del corpo poco vestito di una donna, allora si sta parlando per forza di sesso. Lo scopre sulla propria pelle la piccola Amy, undici anni, di famiglia senegalese emigrata in Francia, la quale cerca una fuga dalla propria cultura di origine e l’accettazione a scuola inseguendo e conquistando pian piano un gruppo di compagne che hanno intenzione di vincere, a colpi di passi di ballo sensuali e spregiudicati, un ambitissimo concorso di danza.

Nel patto non scritto e non esplicito che le giovanissime protagoniste del film hanno già stipulato con la società in cui vivono, il riconoscimento passa per l’espressione della desiderabilità del loro corpo. È l’unico mezzo per accedere a ciò che desiderano: l’ammirazione degli altri, l’autostima di sé, un senso giocoso di bellezza e gioia di vivere. Il sesso non le interessa, il loro personale desiderio sessuale non è mai raccontato né espresso – probabilmente perché troppo giovani per provarlo davvero -  ma questo non conta, perché per farsi spazio nel mondo devono sembrare scopabili. Devono pertanto comportarsi come se invece il sesso le interessasse moltissimo, perché altrimenti che senso avrebbe il loro corpo, il loro ballo, la loro stessa esistenza? Ovviamente però bisogna far tutto questo anche cercando di proteggersi, con gran fatica, dal duplice rischio di essere giudicate bambine, e quindi poco interessanti, o prostitute, pertanto indegne di rispetto.

Da qui il dramma in cui cade Amy, in un vortice di scelte impulsive disperate – imparare i passi più maliziosi, vestirsi sempre più aderente, pubblicare foto sexy online – divisa dalla sua religione che le impone di coprirsi e abbassare gli occhi, e un contesto esterno di cui fraintende le implacabili regole invisibili e i limiti, fino a essere rifiutata da entrambi i mondi. Ciò che rattrista maggiormente, in Mignonnes, è l’evidenza della sincera autentica gioia delle sue protagonista derivata dall’atto di danzare. A volte, quando si è bambini e poi pian piano si cresce, si riesce ad avvertire la bellezza del fatto stesso di avere un corpo, dell’evenienza di poter esser scoperti, visti e amati dagli altri, e quella pelle stessa raccoglie in sé le possibilità future dell’amore, della libertà, della vita stessa. Le ragazzine cercano di esprimere quel sentimento ispirandosi ai modelli che vedono in giro – oramai, perlopiù online – figure spesso sessualizzate, per cui pensano che la libertà stia tutta in quegli atteggiamenti sensuali, interrogandosi raramente su ciò che pensano loro per prime del sesso, anche perché nessuno pone loro domande al riguardo. Gli adulti vedono le ragazzine svestite e ammiccanti, e si convincono che già stiano pensando al sesso, che non abbiano pudore, le desiderano e le disprezzano allo stesso tempo. Ecco qui, il grande equivoco raccontato da Mignonnes: credere (gli adulti) che l’oggetto- corpo sessualizzato c’entri effettivamente col sesso, e non con l’acquisto capitalista del riconoscimento sociale, e credere (gli adolescenti) che tutto questo non c’entri affatto con l’idea consumistica del corpo.

Ma il problema non è il corpo, è l’idea: Amy rifiuta infine sia gli abiti che i suoi parenti si aspettano che indossa, sia quelli scollati che ha iniziato a indossare con le nuove amiche, anche se in realtà ha amato indossare entrambi. La terza via, caratterizzata da una decisione finalmente consapevole in quanto comprensiva delle contraddizioni insite nelle due culture in cui vive, la porta a indossare quelli che considera i propri vestiti, che diventano la sua idea di sé, accettando di deludere, se serve, le aspettative di chi la circonda. Peccato che sia una scelta narrativa talmente repentina, ideale solo per concludere e appianare il dramma del film, da risultare inverosimile all’interno del racconto. Maïmouna Doucouré, così coraggiosa nel descrivere un tema così complesso, si perde proprio sul finale, cercando una soluzione consolatoria che poco dice della realtà di un percorso di formazione che, in virtù della schizofrenia culturale in cui è collocato, può durare anni e forse, non trovare mai sollievo.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 19/10/2020

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