EROTIC THRILLS - Bound, torbido inganno

di Matteo Marescalco
Bound-recensione film Wachowski

[Questo articolo apre uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto quest’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengono tracciate le linee guida del nostro lavoro per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

Tre anni prima di rivelare l’essenza metamorfica del mondo-cinema e di s-velarne il carattere simulacrale, le sorelle Lana e Lilly Wachowski sancivano il definitivo ingresso del (Neo)-noir nell’orizzonte postmoderno. Il nuovo millennio è a un passo, il topos della femme fatale è in via di ridefinizione e il cinema abbraccia una tessitura artefatta e pop che rispecchia l’incerta contemporaneità. 

Bound-Torbido inganno basa il suo intreccio sulla classica relazione tra tre personaggi che determina l’ossatura di un racconto in grado di far convivere orizzonte classico e postmoderno del genere. Corky (Gina Gershon) è una giovane appena uscita di prigione. Per guadagnarsi da vivere, la ragazza inizia a fare l’idraulico e il suo luogo di lavoro è l’appartamento adiacente a quello in cui abita Violet (Jennifer Tilly), sposata con Caesar (Joe Pantoliano), delinquente che si occupa del riciclaggio di denaro per la malavita locale. L’incontro imprevisto tra i tre personaggi sconvolge improvvisamente le loro esistenze. Animate da una furiosa passione fisica, Violet e Corky escogitano un piano per fuggire dalla città e lasciarsi alle spalle il passato.

«Puoi non credere a quello che vedi ma non puoi non credere a quello che senti»: in attesa che anche il regno del sensibile (oltre a quello del visibile) venisse presentato come fallace, il debutto alla regia delle sorelle Wachowski conteneva in provetta alcune idee di messa in scena giocate sulla travalicazione del genere e sulla messa a nudo delle sue forme. Costruito come un kammerspiel in grado di presentare una relazione omosessuale in un prodotto mainstream, Bound-Torbido inganno affida a dinamiche hitchcockiane, al decor e alla costruzione degli spazi tutta la sua forza. Guardare il film vuol dire entrare dentro un paese delle meraviglie che trita qualsiasi genere per dare vita a una creatura ibrida.

Questo esordio sperimentale costruisce la possibilità di fuga e di evasione dalla realtà attorno al desiderio che si stabilisce tra due femme fatale. È l’atto sessuale consumato tra Violet e Corky che rivela l’autentica essenza identitaria del primo personaggio e abbatte a colpi di martello una realtà di fantasmi e simulacri di genere. Il corpo femminile, quindi, non è più ridotto a un mero oggetto scopico da sottoporre a uno sguardo sadico/feticista ma si trasforma in un motore attraverso cui scheggiare le convenzioni di genere ed emanciparsi dal soggetto maschile.

Pur incarnando i tratti classici della dark lady, la Violet delle sorelle Wachowski aderisce all’archetipo ma intraprende il percorso che conduce alla sua libertà. È la scena finale a coronare il sogno di amore tra le due donne e a ribaltare lo statuto di un personaggio ricorrente che, depurato dal suo passato, è finalmente libero di vivere la sua vita al di fuori dell’universo simulacrale a cui era stato condannato.

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Lana Wachowski Lilly Wachowski Jennifer Tilly Gina Gershon Joe Pantoliano 108 minuti
USA 1996
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EROTIC THRILLS - Body of Evidence

di Alessio Baronci
Body-of-Evidence - recensione cop film

[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

Da un certo punto di vista, Body of Evidence è un fine esempio di cinematografia della crisi. Il film di Uli Edel esce infatti in un particolare contesto limbico che interessa le coordinate del noir.
All’inizio degli anni ’90 il topos della femme fatale non esiste più. Secondo alcuni (Bocchi, 2020), il modello appare disinnescato in Rischiose abitudini (1990) ma la crisi era già stata agevolata dalla ridefinizione che in quegli anni stavano subendo alcuni dei tratti essenziali della sua identità, come il corpo e il sesso, che si fanno artefatti, spettacolarizzati. Inserito alla perfezione in questa sorta di inter-regno tra una concezione passata di una figura del noir e una futura, forse già in arrivo, Body Of Evidence prende parte a una sorta di dibattito linguistico. Il film di Edel si domanda infatti come raccontare, al cinema, il mutamento della femme fatale nei momenti in cui è in atto, e non è probabilmente casuale che nel ruolo principale ci sia proprio Madonna, curatrice in quegli anni del progetto Erotica, attraverso cui ha raccontato i mutamenti dell’erotismo e la sessualità come spettacolo.

Body Of Evidence tradisce i suoi intenti analitici fin dalla storia che racconta. Nella parabola di Rebecca, sotto processo perché sospettata di aver ucciso il facoltoso amante in un gioco erotico, e dell’avvocato Frank Dulaney, che si incarica di difenderla, c’è la volontà di spogliare la femme fatale dei suoi tratti essenziali: Rebecca forse non ha ucciso il suo amante ma soprattutto, se è lei l’assassina, la sua arma non è stata il sesso. Ecco che in una manciata di sequenze la diegesi manda in pezzi non solo un archetipo ma anche le fondamenta della sua rappresentazione.
Si è utilizzato il termine rappresentazione non a caso: il film di Edel si muove infatti in un panorama di immagini depotenziate dalla postmodernità, in cui tutto ciò che si vede è artefatto e lontano dalla sua forma reale. Colpisce ad esempio quanto, almeno inizialmente, il rapporto tra Rebecca e lo spettatore si basi su una fitta rete costruita su cliché relativi alla figura della femme fatale, un tessuto di attese basato su un determinato incastro di battute e comportamenti, che la donna tuttavia sovverte nel giro di una manciata di inquadrature. Lo stesso processo è inoltre fondato su una teatralizzazione del caso giudiziario, e la sessualità incarnata da Rebecca è legata al sadomaso, una dimensione in cui erotismo, performance e gioco di ruolo dialogano di continuo. Questa rilettura iconografica della femme fatale porta giocoforza anche a un ripensamento della pulsione scopica, altro elemento venuto meno dopo dalla crisi del topos.

body of ev

Attraverso l’atto sessuale Rebecca vorrebbe non soltanto ricostruire lo sguardo che l’uomo pone su di lei ma anche dominarlo e tuttavia è indubbio che la donna stia tentando di riprendere il controllo di un’entità ormai in pezzi, inerte, eco frammentaria che si ritrova quando i detective interrogano Rebecca sui dettagli pruriginosi della sua sessualità, o vuota immagine televisiva incapsulata nello schermo che manda in loop il nastro registrato dell’ultimo rapporto sessuale della donna. La destrutturazione della pulsione scopica è solo il preambolo della completa messa in scacco del rapporto di dominanza di Rebecca su Frank. La donna è infatti sottomessa all’uomo in tribunale e solo apparentemente dominatrice a letto, dato che il sesso per lei è più simile a una farsa che a un vero atto di dominazione. Ciò che rimane della femme fatale originaria non è dunque altro che un detrito riconfigurato dal postmoderno: il filmico rilegge Rebecca attraverso un filtro retrò e le poche concessioni alle convenzioni del genere sono schegge che attraversano rapide lo sguardo dello spettatore. La protagonista incarna i tratti della dark lady solo nell’ultimo atto ma il personaggio annaspa evidentemente nell’archetipo. In fondo è tutta una recita, la riemersione di un altro elemento di risulta destinato a cadere nell’oblio da cui è venuto. Non stupisce, in fondo, che il punto d’arrivo di questo tour de force sia quel “I fuck” che la donna pronuncia quando Frank scopre il suo vero piano, un’affermazione programmatica che svela quanto la femme fatale sia ormai ridotta a mero oggetto/funzione.

Tra le sue derive kitsch, Body of Evidence ha il coraggio di osservare ciò che rimane di un archetipo con particolare lungimiranza. Uli Edel usa i mezzi del nascente cinema postmoderno con spudoratezza, rendendo l’atto del prelievo parte di un ragionamento più ampio e anticipando in questo il cinema teorico dei pieni anni ’90 di De Palma e Bigelow. Body of Evidence studia ciò che è stato ma ha il coraggio di ipotizzare la strada per ricostruire quel modello. Emblematico che la storia di Rebecca termini con la sua caduta in mare, in un tuffo che la uccide ma che al contempo pare purificarne i tratti essenziali per mutarli, un anno dopo, in quelli di Catherine Tramell.

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Uli Edel Madonna Willem Dafoe Joe Mantegna Anne Archer Julianne Moore 102 minuti
Germania, USA, 1993
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EROTIC THRILLS - Brivido caldo

di Andreina Di Sanzo
Brivido-Caldo-recensione

[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

Se Phillys Dietrichson tratteggia per eccellenza la femme fatale della grande epopea del noir americano, Matty Walker ridefinisce il profilo inaugurando una nuova stagione di affascinanti e letali seduttrici, astute mantidi e ingannatrici indimenticabili. Nel 1981 con Brivido caldo viene rimodulata l’atmosfera del neo-noir, genere (ri)nato durante i decenni precedenti che ci riporta alla memoria titoli imprescindibili come Una squillo per l’ispettore Klute, Senza un attimo di tregua o Bersaglio di notte. Il film di Lawrence Kasdan sarà quindi emblematico per la nuova vita che dà alla figura della oscura ammaliatrice, restituendole la centralità e vestendola dello spirito dei tempi: dolce e avida Medusa e madre di tutto quelle creature incandescenti che, da Sharon Stone a Linda Fiorentino, hanno popolato gli anni ‘80 e ‘90.

Ispirato al romanzo di James M. Cain, Double Indemnity - già passato alla storia del cinema con il capolavoro di Billy Wilder - Brivido caldo ci porta nella canicola di Miranda Beach in Florida, dove l’avvocato Nate Racine (William Hurt) cade nella rete della fatale di Matty (Kathleen Turner), diventando il suo amante e l’assassino del ricco marito Edmund Walker (Richard Crenna). Matty diventa l’ossessione di Ned, la loro unione è vulcanica, tra amplessi, corpi bagnati e giochi psicologici che portano l’avvocato a compiere l’irreparabile pur di avere per sé quella donna.

body heat hurt

Kasdan tesse un gioco seduttivo che vede già dalla prima scena il potere nelle mani di Matty Walker: la sua strategia è quella di portare Ned a decidere di eliminare il marito che lei odia e dal quale potrebbe ereditare un ingente patrimonio. Ma a differenza del film di Wilder, dove i personaggi arrivano alla decisione dell’omicidio insieme ma premeditato da Phyllis, qui Matty riesce a convincere Ned attraverso perverse dinamiche di forza. Con Brivido caldo viene costruita una femme fatale ancora più glaciale, una fine stratega egoista, riflettendo quella che era la società americana del tempo in piena ascesa reaganiana. Matty Walker è acuta e autoironica: «sono un po’ tonta in quanto femmina», sogghigna alla scomoda cena con l’amante e il marito, mentre muove le sue pedine con disinvoltura e spiazza lo spettatore perché lo illude di potersi innamorare fino a forse risparmiare il povero avvocato dal suo machiavellico progetto. Di Phyllis ha ereditato la meschinità. Perché l’(anti)eroina di Billy Wilder è una donna odiosa che, seppur ammaliati dal suo fascino immortale, forse non riusciamo mai ad amare e speriamo sempre che a Walter Neff (Fred MacMurray) venga risparmiata la sedia elettrica. Matty è invece una strega del sesso e dell’amore, ci illude, ci manipola facendoci credere di poter, in fondo, essere diversa, conservare un briciolo di umanità. Invece crede solo nella sua felicità, caparbiamente deve riscattare il suo passato ed è disposta a tutto pur di non perdersi di nuovo.

La traiettoria dello sguardo in Brivido caldo nasce dagli occhi della signora Walker e si posa sul corpo statuario di un William Hurt all’apice dell’erotismo. È suo il corpo più eroticizzato del film: sempre assetato, nudo, accaldato. Nella danse macabre del primo incontro, la sequenza della seduzione è plastica e spudoratamente caricata, tra i due è posta una barriera che Ned, da oggetto dello sguardo, deve frantumare per raggiungere e plasmarsi al piano della donna. Tra gli altri corpi maschili in mostra, un selvaggio  Mickey Rourke, in uno dei suoi primi ruoli, un corpo che negli anni ‘90 diventerà poi iconico. A proposito di erotismo. 

Matty Walker è la nuova demoniaca femme fatale, la creatura che almeno una volta avremmo voluto essere o forse a cui vorremmo ubbidire. Portatrice di una femminilità e di un erotismo che abbraccia i desideri inconfessabili di una generazione, quella di Matty è oggi un'immagine così distante e non più tollerabile, perché abbiamo bisogno di trovarci davanti tante femminilità diverse e non più costruite per dare piacere all’occhio maschile. Matty Walker di Brivido caldo però è quel fantasma che ancora ci fa confessare su qualche chat segreta o nelle nostre fantasie, la nostra adorazione per una donna malsana, per quella funzione stereotipata che non deve essere accettata.
Brivido caldo è un film che  oggi può smuovere sì, tante polemiche, ripensamenti e qualche disapprovazione, ma ci ricorda e ci parla di un cinema che sa far eccitare. Un cinema epidermico, sensoriale. Scorretto. E che può farci sentire piacevolmente sporchi.
Sempre meglio che leggere istruzioni per l’uso e il corretto comportamento sociale in sovrimpressione sullo schermo. 

 

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Lawrence Kasdan William Hurt Kathleen Turner Mickey Rourke Ted Danson Richard Crenna 113 minuti
USA 1981
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EROTIC THRILLS - Sliver

di Mattia Caruso
Sliver - recensione film noyce

[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

Era inevitabile, dopo l'enorme successo di Basic Insinct, che il cult di Paul Verhoeven – un film capace di dettare e insieme riscrivere le regole del neo-noir portandolo all'apice della popolarità – generasse la sua discreta (e il più delle volte deprecabile) sequela di epigoni. Tra questi, sicuramente un posto di rilievo è occupato dallo Sliver di Phillip Noyce, il più esplicito (e sfacciato) tentativo di replicare la formula vincente del predecessore, riprendendone atmosfere, autori e star principale.
Ripetere la stessa ricetta, però, costruendo attorno all'ormai iconica Sharon Stone un film derivativo seppur con significative variazioni, a volte non basta. Perché alla vicenda di Carla Norris (Stone), donna in carriera che si trasferisce nell'appartamento di una ragazza morta in circostanze misteriose finendo ben presto all'interno di un triangolo amoroso tra l'insistente scrittore Jack Landsford (Tom Berenger) e l'ambiguo Zeke Hawkins (William Baldwin), manca il fascino morboso ma anche l'ironia teorica di un film come Basic Instinct, e lo spessore eversivo di un outsider come Verhoeven.

Noyce, dal canto suo e da esperto di thriller qual è, cerca di limitare i danni di una sceneggiatura - tratta da un romanzo dell'autore di Rosemary's BabyIra Levin, e firmata dallo stesso Joe Eszterhas di Basic Instinct – che, nelle dinamiche, pare la copia ribaltata della precedente, con la Stone che passa da carnefice a vittima e Baldwin che diventa quasi un inquietante oggetto del desiderio, tra immancabili riferimenti hitchcockiani (questa volta a La finestra sul cortile), colpi di scena rimasticati e un'idea di thriller erotico che comincia già a dare i primi segni di cedimento.
È proprio nella sua struttura infatti che il film incespica ripetutamente, mentre i temi cari al genere non diventano altro che una riproposizione superficiale di un immaginario già stanco e svuotato, tra repressione sessuale, voyeurismo e sadomasochismo, alla ricerca di una scabrosità inevitabilmente ricondotta alla solita misoginia di fondo e a un erotismo patinatissimo e innocuo.

Messa da parte la figura della femme fatale, senza dubbio il vero fulcro narrativo dell'intero filone, è però soprattutto Sharon Stone a risentirne, un'interprete svuotata quasi completamente della propria carica erotica e di quel fascino iconico che ne aveva consacrato l'immagine perturbante. E se proprio il tema delle immagini e il loro uso improprio, tra monitor di videosorveglianza e responsabilità dello sguardo, poteva prestarsi a ben altra riflessione, Sliver preferisce stare nel solco di una critica già datata, incapace di penetrare il presente tanto quanto di assecondare le dinamiche di un genere che qui pare un contenitore vuoto, privato del suo stesso motore originario. Fino a fare di quella dark lady che era quintessenza del noir nient'altro che una presenza fantasmatica, un'immagine che vorrebbe rimandare ad altro ma che nulla conserva di quella potenza sensuale, distruttiva e irrimediabilmente scorretta che ne aveva decretato il successo.

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Phillip Noyce Sharon Stone William Baldwin Tom Berenger Martin Landau 108 minuti
USA 1993
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Judas and The Black Messiah

di Saverio Felici
Judas and the Black Messiah recensione film King

Judas and The Black Messiah di Shaka King è bello, e in fondo tanto dovrebbe bastare. Che la storia di Fred Hampton venisse raccontata in un film rispettoso era tutt'altro che pronosticabile, vista la patologica ritrosia dei media USA nell'approcciarsi alla propria peraltro già marginalizzata tradizione antagonista; mezzo secolo dopo l'omicidio, era lecito temere che al chairman delle Black Panther di Chicago sarebbe toccato il mortificante trattamento-MLK, trasformato da leader socialista in vita a sorta di Padre Pio liberal-pacifista in morte – prassi standard dei centristi statunitensi nei confronti delle proprie icone di estrema sinistra, che Malcolm X aveva provveduto ad evidenziare già sessant'anni fa. I film dedicati all'eredità del Black Panther Party, forse il movimento più radicale ad essere emerso in seno allo Zio Sam dal dopoguerra a oggi, già si contano sulle dita di una mano (un low budget di Mario Van Peebles nel 1995, e un pugno di documentari); e chi più della Hollywood democratica neo-bideniana, ancora paralizzata dall'urto delle rivolte BLM, poteva avere interesse nel rimasticare l'eredità di Hampton, di Huey P. Newton, Bobby Seale, Angela Davis e Assata Shakur, magari per risputare fuori dei disinfettati santini del dissenso moderato?

Nel riportare alla luce il rimosso violento della cultura americana, il rispetto viene per forza prima dell'originalità, e in quel senso Judas and The Black Messiah è quasi un capolavoro. Il film di Shaka King è bello - non perfetto, ma giusto: è cosciente del proprio ruolo epocale, al punto da sacrificare consapevolmente gli aspetti più turbolenti e traumatici della vicenda (la storia del Giuda del titolo, l'informatore FBI William O'Neal, che vendette il leader popolare alla polizia la notte dell'omicidio) in direzione di un'esauriente quanto formulatica rievocazione da period piece. È un film scritto da gente che ha studiato, e sa andare oltre l'annacquata narrazione mainstream sul civil rights movement. Tanto basta a rendere impietoso il confronto con il suo blockbuster-gemello della stagione, il piagnisteo paternalista del Processo ai Chicago Seven; rispetto al cerchiobottismo del vecchio riformista Sorkin, il film di King ha il coraggio di inquadrare con chiarezza la natura politica del COINTELPRO - e della guerra etnica contro il movimento che J. Edgar Hoover non esitò a definire storicamente «la più grande minaccia» alla sicurezza interna del paese.

Il Conformista incontra The Departed” lo avevano pitchato Keith e Kennie Lucas, stand-up comedians e scrittori, autori del progetto poi sviluppato da Ryan Coogler in produzione. Suona bene, e rende l'idea di cosa sarebbe potuta essere la versione ideale di un film “soltanto” ottimo. L'assenza di uno sguardo in grado di capitalizzare la fulminante premessa non è certo imputabile al solo regista; è sintomo piuttosto di una più ampia mancanza, che questa nuova generazione di autori black deve ancora dimostrare di saper colmare. Cresciuta in seno al sistema-Hollywood, protetta e premiata e coccolata, quella di Barry Jenkins, Jordan Peele e lo stesso Coogler è una scuola competente e preparata, ma che non ha ancora partorito un Maestro capace di farsi carico di progetti all'altezza delle ispirazioni citate. Lo fu Spike Lee, prima di finire digerito dal consenso e dalle cattedre universitarie, per la prima storica generazione di registi afroamericani a inizio '90; una visione altrettanto dirompente, oggi, non si vede.

Impeccabile e by the book, il film di Shaka King si aggrappa alla coperta di Linus del Biopic con la morsa dello studente modello terrorizzato dall'idea di sbagliare il compito. Judas and the Black Messiah ama forse troppo il suo Hampton (o sa, cinicamente, che la commozione paga più della provocazione): è tutto per i suoi primi piani, la sua canonica love story, i suoi infuocati discorsi (trascritti dagli originali) declamati dal camaleontico Daniel Kaluuya. Il dramma edipico del burattino O'Neal, costretto a manipolare l'estinzione dell'unico vagito di coscienza di classe tra comunità marginalizzate nella storia USA, si fa da parte: e con lui il vero ideale Oscar del film, quel Lakeith Stanfield già volto dei pochi lavori veramente originali di questa new wave in cerca di leader (l'Atlanta di Glover, ma soprattutto Sorry to Bother You di Boots Riley, tra i migliori film politici americani dell'ultimo decennio). La sua prova straziante, magistrale, è lo zenit di una carriera – ma si è visto nominato da Non Protagonista, in quello che è un po' l'epilogo della vicenda.

Anteponendo il proprio ruolo didattico a tutto il resto, Judas and The Black Messiah sfuma parzialmente la sua rabbia nell'elegia commossa. Fred Hampton conosceva bene le ragioni geopolitiche che non permettevano (e non permettono) l'esistenza di una rete organizzata di assistenza sociale e socialista su suolo Americano; ma il film non sembra esserne sicuro, non lo segue (o semplicemente, non sputa nel piatto in cui mangia premi e incassi), chiude un occhio sulle responsabilità strutturali riagganciandosi all'aneddotica individualista (i potenti sono ignoranti e razzisti - conclusione non diversa da quella cui approdava Sorkin, nel personaggio di Langella), cristallizzata nel caricaturale villain del bavoso Hoover/Sheen. Ed è un po' un peccato, perché questi attori e questa vicenda avrebbero meritato uno sguardo capace di andare oltre le foto dei personaggi reali sui titoli di coda a uso lacrime. Un lampo di lucidità e faccia tosta in più ne avrebbe fatto un capolavoro di cinema civile: ciò che resta è “soltanto” la più importante (anche perché unica) ricostruzione dell'esperienza Black Panther – e il biopic più bello dell'anno.

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Shaka King Lakeith Stanfield Daniel Kaluuya Jesse Plemmons Dominique Fishback Martin Sheen 126 minuti
USA 2021
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Sex and Sensibility - La femme fatale come misura scomoda

di Pier Maria Bocchi
Basic Instict Sharone Stone

[Questo articolo apre uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto quest’introduzione, in cui vengono tracciate le linee guida del nostro lavoro per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

Il 10 marzo 2021 Sharon Stone compie 63 anni. Non mi pare sia un evento eccezionale, non è una cifra tonda, non scavalla in zone anagrafiche sensibili. Tuttavia i notiziari italiani (non saprei degli esteri) celebrano l’anniversario con servizi tematici, insistendo sulla sola immagine paradigmatica a loro disposizione, quella di Basic Instinct, e sull’autenticità terrena e umana di una sex-symbol evidentemente intramontabile. È curioso – vado a memoria – che si tratti di un appuntamento mediatico che si ripete ogni anno, a ogni candelina dell’attrice. Escluse le star locali, e fatta eccezione per Madonna, non ricordo altre icone dello show business cinematografico lusingate – e viziate – con tale regolarità informativa. Non Julia Roberts, ad esempio. Non Meryl Streep. Non Nicole Kidman. E dubito che gli esibiti impegni umanitari della signora contino a questo proposito qualcosa: datemi una Hollywood non scopertamente (e ipocritamente, direbbero in tanti) filantropica e cambiamo la Storia.

Credo che la ragione italiana di questa emblematica persistenza appartenga alla radicata coscienza maschilista e patriarcale di un paese dalla memoria cortissima e dedicato direi interamente al culto degli ex voto, sia sacri, sia profani, perché le due cose – è noto – non possono andare separate. Non importa che Sharon Stone interpreti altri ruoli: è Catherine Tramell, gambe accavallate, tacchi alti, no mutandine, sigaretta, piglio arrogante, davanti a un plotone di polizia che interroga e che fissa, sbircia, luma, a scrivere un modulo estetico e il proprio modulo. Non c’è altro, non può esserci altro. Da noi la dark lady del film di Paul Verhoeven è l’unica prospettiva scopica ammissibile e perciò da festeggiare – bisogna ammetterlo - con coerenza ideologica; un oggetto sessuale che è la geografia di una concupiscenza ancora oggi primitiva, la proporzione sistemica di uno sguardo egemonico fondato e modellato sul desiderio padronale, sul possesso e, nei casi “migliori”, sulla sottomissione. Con una precisazione interessante, però, ancorché assolutamente nefanda e perciò inconfessabile in una società fallocratica: che la sottomissione non è una fantasticheria a senso unico, cioè dell’uomo nei confronti della donna, è piuttosto una condizione auspicabilmente reciproca, in particolare quando entra in gioco una femmina (fatale) così algida, statuaria, decisa, attiva.

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Tornando al principio, è significativo dunque quanto i media facciano il gioco dell’egemonia sessuale mentre favoriscono, di anno in anno, e loro malgrado, l’eterna riproduzione di un’idea di donna a suo modo archetipica, oggi probabilmente obsoleta eppure così necessaria, così meravigliosa. Ancora adesso Catherine Tramell non è soltanto il simbolo di un’espressione cinematografica purtroppo perduta, bensì – con sempre maggior forza, di compleanno in compleanno - la rappresentazione di una verità epistemologica, che cioè l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato). Credere alla femme fatale di Basic Instinct significa credere che il cinema, al di là dei suoi “destinatari” e dell’ambiguità dei suoi cerimoniali, possa fare ancora la differenza. Perché le dark lady del noir e del neo-noir questo incarnano, una differenza di senso e una differenza visuale, la nota non allineata, la sbavatura nella quale inevitabilmente (e con estremo godimento) abbandonarsi. Provate a presupporre un mondo senza femmine spietate, doppiogiochiste, perverse, malsane, che usano e si usano, che sfruttano e si sfruttano quali emblemi del dominio delle idee, materia della bramosia, cosa bellissima di cui disporre: non è un bel mondo, non sono belle immagini, eppure non è un brutto sogno, è il nostro mondo, questo qui, che non ha più sesso da offrire sul banco, gambe accavallate e poi aperte, no mutandine, sigaretta, piglio arrogante, però ne ha invece tanto da teorizzare, tutelare, agevolare nelle sue intonazioni aggiornate.

Ma la dark lady non è semplicemente un costrutto, è carne viva; non è un principio o una formulazione dell’anima, è un corpo contundente, un volume, un ingombro. Quanto mi augurerei di essere travolto di nuovo da un impiccio così erotico, dai brividi caldi delle nemiche del conformismo, quelle che non ci stanno a essere piegate e addomesticate, che non invocano l’uguaglianza, che cercano e difendono la disomogeneità di genere con le unghie laccate, con il rossetto, con i fianchi, con il seno prosperoso e con la vulva. Vorrei quindi che la donna più stereotipata tornasse a perseguitarmi. Perché vorrei tornare a vederla, a osservarne le curve, a lasciarmi sedurre dal suo profumo. Sono stufo della sola teoria. Sarei l’uomo più felice della terra se una nuova Catherine Tramell mi scopasse a sangue, trafiggendomi o anche soltanto minacciandomi con un punteruolo per il ghiaccio. Pretendo di identificarmi ancora con Gary Oldman, che in Triplo gioco (1993, Peter Medak) teme in isolamento nel deserto il ritorno di Mona (Lena Olin), che quasi l’ha stritolato con le gambe; esigo di essere ancora Peter Berg comandato e stuprato da Linda Fiorentino in L’ultima seduzione (1994, John Dahl), o Matt Dillon nel threesome con Neve Campbell e Denise Richards in Sex Crimes – Giochi pericolosi (1998, John McNaughton). Vorrei insomma che la femme fatale fosse ancora una verità dimensionale, non un’astrazione. Da ammirare nuda, non con gli abiti eleganti della dottrina. Imploro il cinema di mostrarmi ancora un ombelico, un fondoschiena, di farmi percepire ancora un orgasmo, e non esclusivamente un cuore verde come il denaro come quello di Rosamund Pike di I Care a Lot (2020, J Blakeson). Non voglio una cartina al tornasole: voglio un film.

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EROTIC THRILLS - Il danno

di Veronica Vituzzi
Il danno - Luois Malle recensione film

[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

Il danno, tratto dall’omonimo romanzo di Josephine Hart, poggia la sua struttura narrativa sulla simmetria inversa fra l’aspetto esteriore dei suoi personaggi e la potenza dei moti emotivi che li agitano interiormente. I protagonisti sono eleganti, freddamente composti, conversano con tono calmo e posato tra di loro, ma già al primo sguardo Stephen (Jeremy Irons) e Anna (Juliette Binoche), rispettivamente padre e fidanzata del medesimo uomo, si ritrovano avvinti in un’intensa relazione clandestina. Un’iniziale riflessione tradurrebbe Anna come la più classica femme fatale, che forte dei suoi raffinati abiti e di una disarmante disponibilità sessuale avvinghia il partner in una spirale maledetta di passioni; ma la complessità del penultimo film di Louis Malle esige un più ampio spettro di indagine sui parallelismi fra i due personaggi.

Stephen è un influente politico di successo, uomo razionale, perbene, rispettabile, con una moglie premurosa e due figli – di cui il maschio, è il fidanzato di Anna – eppure ciò che l’amante provoca in lui non è solo un sommovimento sessuale quanto l’intera distruzione delle sue illusioni inerenti la vita che ha condotto fino ad allora. La famiglia, il lavoro, la rispettabilità si rivelano tutti doveri compiuti in ottemperanza a una società che richiede obbedienza alle proprie regole in cambio di un’integrazione entro la collettività. Difatti una volta colto nell’atto di violare il patto con la propria classe di appartenenza Stephen perderà tutto e si emarginerà dal mondo.
La colpa dell’uomo è dunque quella di mettere i propri desideri al primo posto; per questo sarà punito. Il medesimo trauma è però già accaduto ad Anna a quindici anni, quando il fratello cui la legava un morboso legame fusionale si uccide dopo averla messa davanti a un’impossibile aut aut: o lui o gli altri uomini. Anna perde il fratello solo per aver osato baciare un ragazzo, violando così un antico patto incestuoso; subito dopo, come un atto dovuto a se stessa si dà al suo fidanzato dell’epoca, Peter. Il trauma della perdita è dunque anche una dolorosa affermazione del proprio desiderio.

«Chi ha subito un danno è pericoloso. Sa di poter sopravvivere» dice Anna a Stephen, raccontando la sua storia: una sopravvivenza a volte deforme e disfunzionale, altre grata e consapevole. Nel film si comprende progressivamente che Anna, ancora danneggiata, non può esimere dal resistere alla tentazione di rimettere in scena le stesse dinamiche della sua antica tragedia, con l’intenzione però di dargli un lieto fine. Nei paralleli rapporti fra Martyn, equilibrato, ingenuo, fisicamente identico al fratello, e con Stephen, può rivivere le duplici dinamiche di un felice legame fraterno e di una segreta passione sessuale, senza dover rinunciare a nessuna delle due esperienze. La risoluzione di questa costante conflittualità fra ciò che si è e ciò che si deve essere per gli altri consiste dunque nell’esprimere in assoluto segreto il più spudorato degli tradimenti a favore di un’esclusiva quanto taciuta fedeltà a se stessi. Soli con se stessi i due protagonisti si abbandonano a scene di amplessi che Malle costruisce come coreografie, danze simili a riti liberatori, cui gli amanti si arrendono infinitamente felici e dimentichi di tutto. La freddezza della messinscena accentua, in forma di una gabbia che trattiene ai margini un animale in lotta, l’esasperata agitazione degli animi contenuta a stento.

Come ogni personalità problematica Anna finisce però per rivivere esattamente fino in fondo il proprio dramma giovanile e perde di nuovo il fratello-fidanzato. Però è proprio questo tornare ai fantasmi del passato in età adulta, in una sorta di epifania freudiana, a liberarla definitivamente dai vecchi legami dolorosi, così da far dire a Stephen «non era diversa da tutte le altre». La normalità, superato il trauma, torna ad essere l’esperienza di un ritrovato equilibrio. A Stephen invece, che come un passaggio di testimone ha vissuto lui stesso l’evento di un danno, dopo essersi ritirato ad una vita immobile e solitaria non rimane che contemplare in una gigantografia sul muro un’immagine di desiderio impossibile e utopica che è la presenza al tempo stesso di figlio e amante nella propria vita. Adesso è lui il diverso, il danneggiato, l’eretico.

C’è però un terzo personaggio ne Il danno che il regista include in disparte nella storia, e non è, come si potrebbe immaginare, la moglie di Stephen, prima ignara e poi rabbiosa donna e madre che anche nel suo piccolo intrattiene un evidente legame possessivo col figlio; si parla qui piuttosto della figlia minore, acerba preadolescente che tutto osserva in silenzio, per prima intuendo che qualcosa non va nel padre. È l’unico personaggio di cui in fondo non conosciamo la sorte, e la sua presenza nel film, quasi pura comparsa muta eppure presente e consapevole, pone la domanda di cosa ne sia stato di lei, e se anche essa sia destinata, come Anna, a tramandare come un virus la ferita che il padre senza volere ha inflitto anche nei suoi confronti.

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Louis Malle Jeremy Irons Juliette Binoche Miranda Richardson Rupert Graves Peter Stormare 112 minuti
Francia, Regno Unito 1992
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Apples

di Arianna Pagliara
Apples di Christos Nikou, recensione Point Blank

A metà tra la distopia vintage e malinconica dell’acclamato Her di Spike Jonze e il minimalismo straniante dello spietato Dogtooth di Yorgos Lanthimos potremmo, idealmente, collocare Apples, opera prima del greco Christos Nikou e film d’apertura della sezione Orizzonti alla Mostra del Cinema di Venezia 2020.
Quella con Lanthimos, autore radicale e spregiudicato, per Nikou non è semplicemente una assonanza esteriore o “geografica”, perché proprio per Dogtooth è stato assistente alla regia. È dal Lanthimos degli esordi infatti, squisitamente greco – più che da quello elegante ed esteticamente “levigato” dei film internazionali - che il regista sembra ereditare certi toni lividi e dimessi, l’asciuttezza quasi grottesca della recitazione terribilmente scarna, la capacità di calare il conturbante e lo sconcertante in una quotidianità che è assieme familiare e desolante. Ma con il suo maestro – se così è possibile definirlo – Nikou non sembra condividere la concezione nichilistica e senza possibilità di riscatto dei rapporti umani. Se in Lanthimos il sentimento è quasi sempre inautentico, oppure impossibilitato e inquinato - ora dalla violenza soverchiante imposta dall’esterno, ora da indicibili pulsioni tutte interne all’io – in questo film di Nikou, al contrario, l’amore è vivo e pulsante, e proprio per questo è sofferenza insostenibile, fino al punto da tentare la strada disperata, e per forza di cose fallimentare, dell’autonegazione.
A ben guardare, il fulcro del discorso – l’impossibilità dell’accettazione del dolore - è quasi un topos, un universale, un tema mille volte praticato. Ma Nikou, non senza un’ironia spaesante e lunare, ammanta la vicenda di umori distopici, inventando, quasi per trastullare lo spettatore, un futuro in cui una misteriosa pandemia causa amnesie improvvise e irreversibili a un numero impressionante di persone.

Il soggetto del film è stato scritto anni fa, in tempi non sospetti, e va letto nella sua chiara valenza metaforica. E tuttavia osservare oggi un mondo più che noto (perché la sua descrizione è del tutto esente dal fantascientifico e dal futuribile) adeguarsi e riorganizzarsi impassibile attorno all’ignoto provoca quasi una vertigine. L’ordinario ha ormai assorbito lo straordinario, il destabilizzante, l’inaspettato. Nulla di strano, allora, se un uomo alla guida lascia all’improvviso l’auto sulla strada e si accascia a terra, perché non sa più dove sta andando né quale sia il proprio nome.  Se non si hanno con sé i documenti, viene prontamente chiamata un’ambulanza e si viene portati in un apposito Centro che accoglie coloro che “hanno dimenticato”. Ricevono una divisa, un posto letto e un numero in luogo del nome che la memoria ha cancellato. Vagano in ciabatte per i corridoi lunghi e spogli di questo limbo grigiastro sperando che qualcuno, un parente, un amico, li venga a cercare. Ma se non succede?
Ad Aris, il protagonista, non accade. Entra allora in un apposito programma per crearsi una nuova identità. Gli verrà dato un appartamento - le stanze nude arredate con qualche mobile anni ’50 - e una polaroid (ma in che epoca siamo?). Dei vestiti che non sono della sua taglia. Una cesta di arance che sostituirà con delle mele, l’unica cosa che è certo di amare. Un album dei ricordi con le pagine ancora vuote: dovrà riempirlo lui, con le foto che testimonieranno le sue nuove esperienze. La voce asciutta dei medici, attraverso una serie di audiocassette, gli dirà cosa fare. Un giro in bici, un pomeriggio a pescare, una serata in discoteca, un funerale. In questo iter surreale, in questo scenario disperante e bizzarro che vuole ridurre l’esperienza a un elenco prestabilito e ponderabile di eventi - escludendone il portato di casualità e quindi di conseguenza annullandone l’autenticità – incontrerà una donna, che come lui (o meglio, più di lui) “ha dimenticato”.

L’identità è memoria, autoconsapevolezza, è la summa delle nostre reazioni agli eventi, delle nostre (in)capacità di vivere e comprendere i sentimenti nel caos informe e palpitante del vivere. Aris sogna l’azzeramento per contenere il dolore, ma anche il dolore ha un senso e un peso nel nostro orizzonte identitario, anche il dolore è indispensabile per (ri)conoscersi.
Il film di Nikou, con agilità e acume, offre delle coordinate sociali definite che si prestano a interpretazioni stratificate, ma lavora anche in profondità spostando il discorso su un territorio più intimo. Soprattutto, lo fa con un approccio stilistico assolutamente libero e disinvolto, e valorizzando la magnetica espressività minimalista del protagonista Aris Servetalis (già interprete di Kinetta e Alps di Lanthimos). 

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Christos Nikou Aris Servetalis Sofia Georgovasili Anna Kalaitzidou Argyris Bakirtzis 90 minuti
Grecia, Polonia, Slovenia, 2020
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Tutte a casa - memorie digitali da un mondo sospeso

di Carmen Albergo
Tutte a casa - recensione film D'Eredità

“Tutte a casa. Memorie digitali da un mondo sospeso” è il titolo del social movie realizzato dal collettivo “Tutte a casa” , per la regia di Nina Baratta, Cristina D'Eredità, Eleonora Marino. Il collettivo, composto da 16 donne professioniste dello spettacolo, nasce  durante il lockdown della primavera 2020, come opportunità allargata a tutte le donne, coinvolte per età ed estrazioni differenti, a riflettere in modo ponderato sui mutamenti del loro lavoro e delle loro relazioni ai tempi del Covid -19. Anche per questo il film è stato trasmesso in prima visione Tv per la ricorrenza dell’8 Marzo 2021, a gettare uno sguardo mirato su un anno esatto trascorso in stato di emergenza, ancora purtroppo attuale.  Questa opera di video - diario collettivo, nasce anche dall’intento dichiarato di voler valorizzare la dimensione social che connota la  cultura contemporanea e che trova nel web,  campo esperenziale ormai abituale.

 Tutte a casa” come organismo, opera e linguaggio, è il risultato esemplare, di una ben curata, etica e strategica gestione di community on line, politiche di azione dal basso (il crowdfunding con cui è stata portata a termine la fase di post produzione) nonché dei dispositivi cellulari come strumento descrittivo (ben 8000 i video pervenuti). Ma non è tutto, perché il suo reale valore aggiunto emerge se calato, con tutte le dovute differenze di genere e produzione, all’interno dell’universo audiovisivo globale, che incalzato drasticamente dalla quarantena forzata, ha trovato  nel reclutamento amatoriale contenuto di genere proprio. Nel panorama italiano si va in linea di massima dall’autorialità di Gabriele  Salvatores con “Fuori era primavera” (spaccato d’attualità, dove uno sguardo demiurgo, in una frenesia d’emozioni tra pubblico e privato, suggella l’iconografia massmediale del tempo: il Papa solo in piazza S. Pietro; i camion militari a Bergamo...) passando per il boom degli spot pubblicitari, realizzati con la collaborazione di clienti pro-sumer, in cui sull’onda del mantra “Andrà tutto bene” (stereotipi di) donne e uomini (a prescindere che si pubblicizzi cibo, telefonia, polizze assicurative) si mostrano per lo più mentre cucinano le une, suonano strumenti musicali gli altri (bambini al seguito senza diversificazione) sino ai video clip, girati come veri media events su instagram e al proliferare di web-diary dalle disparate finalità ludico-didattiche.

 Tutte a casa. Memorie digitali da un mondo sospeso” al contrario si prende la responsabilità di approfondire il proprio focus d’osservazione, cercando di delineare un attendibile contesto intorno alle singole testimonianze, nonchè di eludere quanto possibile il rischio dei clichè e dell’assuefazione al flusso di immagini già  (ab)usate nell’immaginario mediatico. Solo in forza di questa impostazione programmatica l’intenzionalità della narrazione, che è per ovvie ragioni sapiente costruzione di montaggio, può darsi come documento condiviso di  memoria collettiva viva, che nel farsi è interrogarsi continuo.

Il film ha l’evidente pregio di mantenere un tono equilibrato e distensivo e di portare allo stesso livello chi si racconta e chi ascolta, tenendo fede al confronto fecondo su cui poggia l’intero progetto, sin dalla locandina illustrata dall’artista visuale Chiara Fazi:  una  molteplicità di pianeti gravita nello spazio, da ognuno si affacciano donne a tracciare l’una con l’altra traiettorie di sguardi reciproci. Partendo dunque dalla propria “sfera” d’azione, la casa, unica praticabile e sacrificata alle esigenze della convivenza familiare protratta, alcune donne bramano ardentemente un rifugio esclusivo di silenzio, altre invece misurano incredule il confino della postazione di lavoro. Un esempio pragmatico della complementarietà di prospettiva è il caso di due donne mature, ritrovatesi d’improvviso a dover abbracciare il concetto di “on line”, che per una rappresenta l’inconsistenza dei mancati festeggiamenti di una laurea in video-conferenza, per l’altra è invece miracolo della tecnologia e privilegio, che le consente di partecipare al compleanno del nipotino.  E sullo sfondo della smaterializzazione del contatto fisico, ecco far capolino i nativi digitali, che hanno nei piccolissimi schermi l’imprinting degli affetti familiari.

Fil rouge costante di questa galleria di autoritratti strettamente femminili (in cui sovente attraverso confidenze, fugaci apparizioni, controcampi e  fuori campo, sono esposti anche padri e mariti) non può che essere la deflagrazione del sovraccarico materno, che è simbiosi totale con l’ecosistema familiare e professionale: faccende domestiche, smart working, cura e sorveglianza dei figli, ma anche per converso dei genitori disabili,  diventano inscindibile multitasking di sopravvivenza senza soluzione di continuità, con l’unica priorità di non perdere la testa. La madre/figlia (im)perfetta e ragionevole ammette che tutto il suo stremo non possono equiparare le risorse e il sostegno garantite da una sana comunità educativa. Tra le mura domestiche, faccia a faccia con se stesse, vanno quindi in frantumi convenzioni e convinzioni, come la precisione e la finalità della cura estetica, impalcatura secolare del canone femminile, che dall’ironia dei rimedi fai da te passa rapidamente ad una vera e propria rivoluzione del gesto, quale può essere un drastico taglio di capelli,  a simboleggiare il coraggio del taglio netto col passato e con gli schemi imposti.  Gesti simbolici, ma soprattutto liberazioni reali, quelle di donne che non hanno più retto  il macigno fisico e morale della violenza domestica, aggravata dalla coabitazione col proprio aguzzino e sono evase, proprio quando sembrava vietato.  

Saper impugnare dunque il proprio sguardo “in camera” (tanto nello specifico audiovisivo, quanto in quello fisico di uno spazio recluso) in modo emancipato e partecipato, pare essere la conquista, qui veicolata come antidoto all’implosione del microcosmo individuale quando, parafrasando Susan Sontag, il dolore sconvolgente degli altri è dolore di tutti.

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Nina Baratta Cristina D'eredità Eleonora Marino 87 minuti
Italia, 2021
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Die innere Sicherheit

di Leonardo Strano
Die innere Sicherheit - recensione film petzold

Interessanti questioni di titoli e traduzioni per avvicinarsi al testo. Il primo lungometraggio per il cinema di Christian Petzold si intitola in lingua originale tedesca Die innere Sicherheit. L’espressione in italiano è traducibile letteralmente in due modi: “la sicurezza interna” o “la sicurezza interiore”. Il sottile gioco di parole tedesco è più o meno ripreso nella perspicace traduzione francese - Controle d’identitè - e in quella inglese, più scoperta - The State I Am In. Cosa costringe queste interpretazioni, distanziate tra loro da lievi slittamenti di senso ma tutte evidentemente concentrate su uno sforzo di sintesi particolare, al gioco di parola, alla figura aperta a più significati, in definitiva all’ambivalenza referenziale? Le immagini del film stesso, per come sono pensate, costruite, per quello che raccontano e per come lo raccontano: la storia della figlia adolescente di due ex terroristi, costretti a nascondersi in attesa di una fuga verso il Portogallo, è la storia di una minaccia alla sicurezza interna di un paese o è la storia di una sicurezza interiore, psicologica, minacciata da una situazione compromettente? È la storia della fuga da un controllo di un’identità tra nascondigli obbligati e traduzioni continue (essendo la ragazza abile traduttrice), o la storia di un’identità fuori controllo perché in via di definizione? O ancora, la storia dell’incidenza psicologica dei cambiamenti politici e geografici di un corpo? L’immagine, risultato che sta a metà tra queste opzioni ed è il corpo di queste tensioni, sembra sostare nell’indefinitezza. 

Ma forse non è indefinitezza la parola giusta per questa rappresentazione che mortifica gli sviluppi della trama fino a contrarla in pretesto, cioè condizione di partenza proiettata in altri discorsi, corpo da muovere verso altre virtualità. Più che la figura dell’indefinito al regista interessa la figura del non ancora definito, di ciò che è in corso, di ciò che è in transito verso una definizione, verso un significato. Non gli interessa la storia di due criminali che sono costretti a fuggire perché sono due personaggi incastrati nel meccanismo del thriller e della suspense, dell’indefinito, ma la storia di questi due criminali come figure che non possiedono definizione, costrette a sostare in non luoghi, a vivere come fantasmi (e questo è non a caso il film che apre la Trilogia dei Fantasmi) intrappolati nel qui e ora di uno spazio che sta a metà tra l’irreversibilità del passato e l’irraggiungibilità del futuro. La figura del non luogo è forse quella che più definisce il film, la categoria della riflessione sul contemporaneo che più influenza il cinema del regista: il termine per Marc Augé non identifica, come potrebbe sembrare, spazi antropologici che non sono luoghi, ma luoghi in opposizione a quelli antropologici, luoghi senza identità, senza storia, senza relazione; i luoghi come aeroporti o porti marittimi, stazioni o centri commerciali, svincoli autostradali, alberghi, campi di accoglienza per profughi, sono gli spazi in cui Petzold proietta l’azione del dramma, parentesi in cui si può solo sostare, senza radicarsi, solo attraversare, senza davvero pensare, solo transitare. Il non luogo è un’astrazione (composta soprattutto da segni direzionali, ordini non valoriali ma al massimo semaforici) in cui i passeggeri sono interpreti en travesti che stanno sempre nel tra, come nell’oscillazione terminologica di un termine durante una traduzione. 

Il film non gestisce queste astrazioni, queste categorie riflessive che raccontano il contemporaneo da vicino, mettendole a tesi in maniera fredda e calcolata, ma le incarna in un discorso di sensibilità: il film (e il cinema di Petzold tutto, assieme al suo ex insegnante Harub Farocki) non è guidato da un principio astrattivo che rilegge le storie in virtù di una dimostrazione, bensì da un principio estrattivo, che essenzializza, coglie il punctum sofferto del contemporaneo, un frammento volante che per un momento riflette l’origine del boato che l’ha mandato in aria, e poi si concreta, ricomposto, in un volto, in una sensazione, in una situazione.
Ci sono molti segni testuali di questa ricomposizione o messa in situazione lungo tutto il film – su tutti la differenza tra la mappatura della rapina finale e la rapina vera e propria – ma il segno principale è il volto di Jeanne, la ragazza protagonista. È coerente che dei tre personaggi sia lei la protagonista del film, sia suo il punto di vista che porta dentro al discorso: che cos’è l’adolescenza se non desiderio di definizione e di senso di fronte a una crisi che mette in dubbio le certezze sulla propria identità? È intorno alla figura adolescenziale (interpretata da Julia Hummer) che ruota tutto il campo simbolico ed è proprio nella sintesi dei suoi tratti, nello studio dei suoi movimenti, nell’attenzione per le sue reazioni, che il discorso concettuale e astratto assume un corpo, un’urgenza. La crisi antropologica dei corpi in via di disintegrazione identitaria – corpi spettrali anche nelle tracce delle videocamere elettroniche che ne certificano lo sfarfallio – è vissuta come una condanna incomprensibile da un corpo che al contrario degli altri corpi - sempre più decisi a scomparire per sopravvivere, a diventare indefiniti indefinibili – vuole esistere, restare, vuole vivere e provare sentimenti. Il dramma di un corpo che inizia a essere sentito come problematico e non vuole essere cancellato si agita in un ordito psicologico che vede l’usuale confronto genitore-adolescente cedere il passo a un più interessante scontro in cui la posta è il desiderio di esistere e confermarsi, fino a ribaltamenti che mettono in discussione gli schieramenti e lasciano la vicenda sul bordo di un problema insoluto. Ed è proprio il finale rotto, concentrato su volto di ragazza che in un colpo di vento si fa donna presente nel proprio corpo vivente e non solo sopravvissuto di fronte alla tragedia, a essere immagine già matura, sintesi dei profondi brani teorici trascritti in una grafia apparentemente molto leggibile.

Nel volto di Jeanne c’è già la prova di tutti i prossimi volti spaccati nell’ambivalenza referenziale dei discorsi di Petzold, i volti in crisi e in cerca di definizione, i volti in transito nella morte, i volti sofferenti ma vivi, perché stanno in piedi nel rumore confuso del mondo che sbiadisce.

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Christian Petzold Julia Hummer Barbara Hauer Richy Muller 98 min
Germaina, 2000
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