EROTIC THRILLS - Sliver

di Mattia Caruso
Sliver - recensione film noyce

[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

Era inevitabile, dopo l'enorme successo di Basic Insinct, che il cult di Paul Verhoeven – un film capace di dettare e insieme riscrivere le regole del neo-noir portandolo all'apice della popolarità – generasse la sua discreta (e il più delle volte deprecabile) sequela di epigoni. Tra questi, sicuramente un posto di rilievo è occupato dallo Sliver di Phillip Noyce, il più esplicito (e sfacciato) tentativo di replicare la formula vincente del predecessore, riprendendone atmosfere, autori e star principale.
Ripetere la stessa ricetta, però, costruendo attorno all'ormai iconica Sharon Stone un film derivativo seppur con significative variazioni, a volte non basta. Perché alla vicenda di Carla Norris (Stone), donna in carriera che si trasferisce nell'appartamento di una ragazza morta in circostanze misteriose finendo ben presto all'interno di un triangolo amoroso tra l'insistente scrittore Jack Landsford (Tom Berenger) e l'ambiguo Zeke Hawkins (William Baldwin), manca il fascino morboso ma anche l'ironia teorica di un film come Basic Instinct, e lo spessore eversivo di un outsider come Verhoeven.

Noyce, dal canto suo e da esperto di thriller qual è, cerca di limitare i danni di una sceneggiatura - tratta da un romanzo dell'autore di Rosemary's BabyIra Levin, e firmata dallo stesso Joe Eszterhas di Basic Instinct – che, nelle dinamiche, pare la copia ribaltata della precedente, con la Stone che passa da carnefice a vittima e Baldwin che diventa quasi un inquietante oggetto del desiderio, tra immancabili riferimenti hitchcockiani (questa volta a La finestra sul cortile), colpi di scena rimasticati e un'idea di thriller erotico che comincia già a dare i primi segni di cedimento.
È proprio nella sua struttura infatti che il film incespica ripetutamente, mentre i temi cari al genere non diventano altro che una riproposizione superficiale di un immaginario già stanco e svuotato, tra repressione sessuale, voyeurismo e sadomasochismo, alla ricerca di una scabrosità inevitabilmente ricondotta alla solita misoginia di fondo e a un erotismo patinatissimo e innocuo.

Messa da parte la figura della femme fatale, senza dubbio il vero fulcro narrativo dell'intero filone, è però soprattutto Sharon Stone a risentirne, un'interprete svuotata quasi completamente della propria carica erotica e di quel fascino iconico che ne aveva consacrato l'immagine perturbante. E se proprio il tema delle immagini e il loro uso improprio, tra monitor di videosorveglianza e responsabilità dello sguardo, poteva prestarsi a ben altra riflessione, Sliver preferisce stare nel solco di una critica già datata, incapace di penetrare il presente tanto quanto di assecondare le dinamiche di un genere che qui pare un contenitore vuoto, privato del suo stesso motore originario. Fino a fare di quella dark lady che era quintessenza del noir nient'altro che una presenza fantasmatica, un'immagine che vorrebbe rimandare ad altro ma che nulla conserva di quella potenza sensuale, distruttiva e irrimediabilmente scorretta che ne aveva decretato il successo.

Etichette
Categoria
Phillip Noyce Sharon Stone William Baldwin Tom Berenger Martin Landau 108 minuti
USA 1993
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Judas and The Black Messiah

di Saverio Felici
Judas and the Black Messiah recensione film King

Judas and The Black Messiah di Shaka King è bello, e in fondo tanto dovrebbe bastare. Che la storia di Fred Hampton venisse raccontata in un film rispettoso era tutt'altro che pronosticabile, vista la patologica ritrosia dei media USA nell'approcciarsi alla propria peraltro già marginalizzata tradizione antagonista; mezzo secolo dopo l'omicidio, era lecito temere che al chairman delle Black Panther di Chicago sarebbe toccato il mortificante trattamento-MLK, trasformato da leader socialista in vita a sorta di Padre Pio liberal-pacifista in morte – prassi standard dei centristi statunitensi nei confronti delle proprie icone di estrema sinistra, che Malcolm X aveva provveduto ad evidenziare già sessant'anni fa. I film dedicati all'eredità del Black Panther Party, forse il movimento più radicale ad essere emerso in seno allo Zio Sam dal dopoguerra a oggi, già si contano sulle dita di una mano (un low budget di Mario Van Peebles nel 1995, e un pugno di documentari); e chi più della Hollywood democratica neo-bideniana, ancora paralizzata dall'urto delle rivolte BLM, poteva avere interesse nel rimasticare l'eredità di Hampton, di Huey P. Newton, Bobby Seale, Angela Davis e Assata Shakur, magari per risputare fuori dei disinfettati santini del dissenso moderato?

Nel riportare alla luce il rimosso violento della cultura americana, il rispetto viene per forza prima dell'originalità, e in quel senso Judas and The Black Messiah è quasi un capolavoro. Il film di Shaka King è bello - non perfetto, ma giusto: è cosciente del proprio ruolo epocale, al punto da sacrificare consapevolmente gli aspetti più turbolenti e traumatici della vicenda (la storia del Giuda del titolo, l'informatore FBI William O'Neal, che vendette il leader popolare alla polizia la notte dell'omicidio) in direzione di un'esauriente quanto formulatica rievocazione da period piece. È un film scritto da gente che ha studiato, e sa andare oltre l'annacquata narrazione mainstream sul civil rights movement. Tanto basta a rendere impietoso il confronto con il suo blockbuster-gemello della stagione, il piagnisteo paternalista del Processo ai Chicago Seven; rispetto al cerchiobottismo del vecchio riformista Sorkin, il film di King ha il coraggio di inquadrare con chiarezza la natura politica del COINTELPRO - e della guerra etnica contro il movimento che J. Edgar Hoover non esitò a definire storicamente «la più grande minaccia» alla sicurezza interna del paese.

Il Conformista incontra The Departed” lo avevano pitchato Keith e Kennie Lucas, stand-up comedians e scrittori, autori del progetto poi sviluppato da Ryan Coogler in produzione. Suona bene, e rende l'idea di cosa sarebbe potuta essere la versione ideale di un film “soltanto” ottimo. L'assenza di uno sguardo in grado di capitalizzare la fulminante premessa non è certo imputabile al solo regista; è sintomo piuttosto di una più ampia mancanza, che questa nuova generazione di autori black deve ancora dimostrare di saper colmare. Cresciuta in seno al sistema-Hollywood, protetta e premiata e coccolata, quella di Barry Jenkins, Jordan Peele e lo stesso Coogler è una scuola competente e preparata, ma che non ha ancora partorito un Maestro capace di farsi carico di progetti all'altezza delle ispirazioni citate. Lo fu Spike Lee, prima di finire digerito dal consenso e dalle cattedre universitarie, per la prima storica generazione di registi afroamericani a inizio '90; una visione altrettanto dirompente, oggi, non si vede.

Impeccabile e by the book, il film di Shaka King si aggrappa alla coperta di Linus del Biopic con la morsa dello studente modello terrorizzato dall'idea di sbagliare il compito. Judas and the Black Messiah ama forse troppo il suo Hampton (o sa, cinicamente, che la commozione paga più della provocazione): è tutto per i suoi primi piani, la sua canonica love story, i suoi infuocati discorsi (trascritti dagli originali) declamati dal camaleontico Daniel Kaluuya. Il dramma edipico del burattino O'Neal, costretto a manipolare l'estinzione dell'unico vagito di coscienza di classe tra comunità marginalizzate nella storia USA, si fa da parte: e con lui il vero ideale Oscar del film, quel Lakeith Stanfield già volto dei pochi lavori veramente originali di questa new wave in cerca di leader (l'Atlanta di Glover, ma soprattutto Sorry to Bother You di Boots Riley, tra i migliori film politici americani dell'ultimo decennio). La sua prova straziante, magistrale, è lo zenit di una carriera – ma si è visto nominato da Non Protagonista, in quello che è un po' l'epilogo della vicenda.

Anteponendo il proprio ruolo didattico a tutto il resto, Judas and The Black Messiah sfuma parzialmente la sua rabbia nell'elegia commossa. Fred Hampton conosceva bene le ragioni geopolitiche che non permettevano (e non permettono) l'esistenza di una rete organizzata di assistenza sociale e socialista su suolo Americano; ma il film non sembra esserne sicuro, non lo segue (o semplicemente, non sputa nel piatto in cui mangia premi e incassi), chiude un occhio sulle responsabilità strutturali riagganciandosi all'aneddotica individualista (i potenti sono ignoranti e razzisti - conclusione non diversa da quella cui approdava Sorkin, nel personaggio di Langella), cristallizzata nel caricaturale villain del bavoso Hoover/Sheen. Ed è un po' un peccato, perché questi attori e questa vicenda avrebbero meritato uno sguardo capace di andare oltre le foto dei personaggi reali sui titoli di coda a uso lacrime. Un lampo di lucidità e faccia tosta in più ne avrebbe fatto un capolavoro di cinema civile: ciò che resta è “soltanto” la più importante (anche perché unica) ricostruzione dell'esperienza Black Panther – e il biopic più bello dell'anno.

Categoria
Shaka King Lakeith Stanfield Daniel Kaluuya Jesse Plemmons Dominique Fishback Martin Sheen 126 minuti
USA 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Sex and Sensibility - La femme fatale come misura scomoda

di Pier Maria Bocchi
Basic Instict Sharone Stone

[Questo articolo apre uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto quest’introduzione, in cui vengono tracciate le linee guida del nostro lavoro per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

Il 10 marzo 2021 Sharon Stone compie 63 anni. Non mi pare sia un evento eccezionale, non è una cifra tonda, non scavalla in zone anagrafiche sensibili. Tuttavia i notiziari italiani (non saprei degli esteri) celebrano l’anniversario con servizi tematici, insistendo sulla sola immagine paradigmatica a loro disposizione, quella di Basic Instinct, e sull’autenticità terrena e umana di una sex-symbol evidentemente intramontabile. È curioso – vado a memoria – che si tratti di un appuntamento mediatico che si ripete ogni anno, a ogni candelina dell’attrice. Escluse le star locali, e fatta eccezione per Madonna, non ricordo altre icone dello show business cinematografico lusingate – e viziate – con tale regolarità informativa. Non Julia Roberts, ad esempio. Non Meryl Streep. Non Nicole Kidman. E dubito che gli esibiti impegni umanitari della signora contino a questo proposito qualcosa: datemi una Hollywood non scopertamente (e ipocritamente, direbbero in tanti) filantropica e cambiamo la Storia.

Credo che la ragione italiana di questa emblematica persistenza appartenga alla radicata coscienza maschilista e patriarcale di un paese dalla memoria cortissima e dedicato direi interamente al culto degli ex voto, sia sacri, sia profani, perché le due cose – è noto – non possono andare separate. Non importa che Sharon Stone interpreti altri ruoli: è Catherine Tramell, gambe accavallate, tacchi alti, no mutandine, sigaretta, piglio arrogante, davanti a un plotone di polizia che interroga e che fissa, sbircia, luma, a scrivere un modulo estetico e il proprio modulo. Non c’è altro, non può esserci altro. Da noi la dark lady del film di Paul Verhoeven è l’unica prospettiva scopica ammissibile e perciò da festeggiare – bisogna ammetterlo - con coerenza ideologica; un oggetto sessuale che è la geografia di una concupiscenza ancora oggi primitiva, la proporzione sistemica di uno sguardo egemonico fondato e modellato sul desiderio padronale, sul possesso e, nei casi “migliori”, sulla sottomissione. Con una precisazione interessante, però, ancorché assolutamente nefanda e perciò inconfessabile in una società fallocratica: che la sottomissione non è una fantasticheria a senso unico, cioè dell’uomo nei confronti della donna, è piuttosto una condizione auspicabilmente reciproca, in particolare quando entra in gioco una femmina (fatale) così algida, statuaria, decisa, attiva.

basic 1

Tornando al principio, è significativo dunque quanto i media facciano il gioco dell’egemonia sessuale mentre favoriscono, di anno in anno, e loro malgrado, l’eterna riproduzione di un’idea di donna a suo modo archetipica, oggi probabilmente obsoleta eppure così necessaria, così meravigliosa. Ancora adesso Catherine Tramell non è soltanto il simbolo di un’espressione cinematografica purtroppo perduta, bensì – con sempre maggior forza, di compleanno in compleanno - la rappresentazione di una verità epistemologica, che cioè l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato). Credere alla femme fatale di Basic Instinct significa credere che il cinema, al di là dei suoi “destinatari” e dell’ambiguità dei suoi cerimoniali, possa fare ancora la differenza. Perché le dark lady del noir e del neo-noir questo incarnano, una differenza di senso e una differenza visuale, la nota non allineata, la sbavatura nella quale inevitabilmente (e con estremo godimento) abbandonarsi. Provate a presupporre un mondo senza femmine spietate, doppiogiochiste, perverse, malsane, che usano e si usano, che sfruttano e si sfruttano quali emblemi del dominio delle idee, materia della bramosia, cosa bellissima di cui disporre: non è un bel mondo, non sono belle immagini, eppure non è un brutto sogno, è il nostro mondo, questo qui, che non ha più sesso da offrire sul banco, gambe accavallate e poi aperte, no mutandine, sigaretta, piglio arrogante, però ne ha invece tanto da teorizzare, tutelare, agevolare nelle sue intonazioni aggiornate.

Ma la dark lady non è semplicemente un costrutto, è carne viva; non è un principio o una formulazione dell’anima, è un corpo contundente, un volume, un ingombro. Quanto mi augurerei di essere travolto di nuovo da un impiccio così erotico, dai brividi caldi delle nemiche del conformismo, quelle che non ci stanno a essere piegate e addomesticate, che non invocano l’uguaglianza, che cercano e difendono la disomogeneità di genere con le unghie laccate, con il rossetto, con i fianchi, con il seno prosperoso e con la vulva. Vorrei quindi che la donna più stereotipata tornasse a perseguitarmi. Perché vorrei tornare a vederla, a osservarne le curve, a lasciarmi sedurre dal suo profumo. Sono stufo della sola teoria. Sarei l’uomo più felice della terra se una nuova Catherine Tramell mi scopasse a sangue, trafiggendomi o anche soltanto minacciandomi con un punteruolo per il ghiaccio. Pretendo di identificarmi ancora con Gary Oldman, che in Triplo gioco (1993, Peter Medak) teme in isolamento nel deserto il ritorno di Mona (Lena Olin), che quasi l’ha stritolato con le gambe; esigo di essere ancora Peter Berg comandato e stuprato da Linda Fiorentino in L’ultima seduzione (1994, John Dahl), o Matt Dillon nel threesome con Neve Campbell e Denise Richards in Sex Crimes – Giochi pericolosi (1998, John McNaughton). Vorrei insomma che la femme fatale fosse ancora una verità dimensionale, non un’astrazione. Da ammirare nuda, non con gli abiti eleganti della dottrina. Imploro il cinema di mostrarmi ancora un ombelico, un fondoschiena, di farmi percepire ancora un orgasmo, e non esclusivamente un cuore verde come il denaro come quello di Rosamund Pike di I Care a Lot (2020, J Blakeson). Non voglio una cartina al tornasole: voglio un film.

Etichette
Categoria
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

EROTIC THRILLS - Il danno

di Veronica Vituzzi
Il danno - Luois Malle recensione film

[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

Il danno, tratto dall’omonimo romanzo di Josephine Hart, poggia la sua struttura narrativa sulla simmetria inversa fra l’aspetto esteriore dei suoi personaggi e la potenza dei moti emotivi che li agitano interiormente. I protagonisti sono eleganti, freddamente composti, conversano con tono calmo e posato tra di loro, ma già al primo sguardo Stephen (Jeremy Irons) e Anna (Juliette Binoche), rispettivamente padre e fidanzata del medesimo uomo, si ritrovano avvinti in un’intensa relazione clandestina. Un’iniziale riflessione tradurrebbe Anna come la più classica femme fatale, che forte dei suoi raffinati abiti e di una disarmante disponibilità sessuale avvinghia il partner in una spirale maledetta di passioni; ma la complessità del penultimo film di Louis Malle esige un più ampio spettro di indagine sui parallelismi fra i due personaggi.

Stephen è un influente politico di successo, uomo razionale, perbene, rispettabile, con una moglie premurosa e due figli – di cui il maschio, è il fidanzato di Anna – eppure ciò che l’amante provoca in lui non è solo un sommovimento sessuale quanto l’intera distruzione delle sue illusioni inerenti la vita che ha condotto fino ad allora. La famiglia, il lavoro, la rispettabilità si rivelano tutti doveri compiuti in ottemperanza a una società che richiede obbedienza alle proprie regole in cambio di un’integrazione entro la collettività. Difatti una volta colto nell’atto di violare il patto con la propria classe di appartenenza Stephen perderà tutto e si emarginerà dal mondo.
La colpa dell’uomo è dunque quella di mettere i propri desideri al primo posto; per questo sarà punito. Il medesimo trauma è però già accaduto ad Anna a quindici anni, quando il fratello cui la legava un morboso legame fusionale si uccide dopo averla messa davanti a un’impossibile aut aut: o lui o gli altri uomini. Anna perde il fratello solo per aver osato baciare un ragazzo, violando così un antico patto incestuoso; subito dopo, come un atto dovuto a se stessa si dà al suo fidanzato dell’epoca, Peter. Il trauma della perdita è dunque anche una dolorosa affermazione del proprio desiderio.

«Chi ha subito un danno è pericoloso. Sa di poter sopravvivere» dice Anna a Stephen, raccontando la sua storia: una sopravvivenza a volte deforme e disfunzionale, altre grata e consapevole. Nel film si comprende progressivamente che Anna, ancora danneggiata, non può esimere dal resistere alla tentazione di rimettere in scena le stesse dinamiche della sua antica tragedia, con l’intenzione però di dargli un lieto fine. Nei paralleli rapporti fra Martyn, equilibrato, ingenuo, fisicamente identico al fratello, e con Stephen, può rivivere le duplici dinamiche di un felice legame fraterno e di una segreta passione sessuale, senza dover rinunciare a nessuna delle due esperienze. La risoluzione di questa costante conflittualità fra ciò che si è e ciò che si deve essere per gli altri consiste dunque nell’esprimere in assoluto segreto il più spudorato degli tradimenti a favore di un’esclusiva quanto taciuta fedeltà a se stessi. Soli con se stessi i due protagonisti si abbandonano a scene di amplessi che Malle costruisce come coreografie, danze simili a riti liberatori, cui gli amanti si arrendono infinitamente felici e dimentichi di tutto. La freddezza della messinscena accentua, in forma di una gabbia che trattiene ai margini un animale in lotta, l’esasperata agitazione degli animi contenuta a stento.

Come ogni personalità problematica Anna finisce però per rivivere esattamente fino in fondo il proprio dramma giovanile e perde di nuovo il fratello-fidanzato. Però è proprio questo tornare ai fantasmi del passato in età adulta, in una sorta di epifania freudiana, a liberarla definitivamente dai vecchi legami dolorosi, così da far dire a Stephen «non era diversa da tutte le altre». La normalità, superato il trauma, torna ad essere l’esperienza di un ritrovato equilibrio. A Stephen invece, che come un passaggio di testimone ha vissuto lui stesso l’evento di un danno, dopo essersi ritirato ad una vita immobile e solitaria non rimane che contemplare in una gigantografia sul muro un’immagine di desiderio impossibile e utopica che è la presenza al tempo stesso di figlio e amante nella propria vita. Adesso è lui il diverso, il danneggiato, l’eretico.

C’è però un terzo personaggio ne Il danno che il regista include in disparte nella storia, e non è, come si potrebbe immaginare, la moglie di Stephen, prima ignara e poi rabbiosa donna e madre che anche nel suo piccolo intrattiene un evidente legame possessivo col figlio; si parla qui piuttosto della figlia minore, acerba preadolescente che tutto osserva in silenzio, per prima intuendo che qualcosa non va nel padre. È l’unico personaggio di cui in fondo non conosciamo la sorte, e la sua presenza nel film, quasi pura comparsa muta eppure presente e consapevole, pone la domanda di cosa ne sia stato di lei, e se anche essa sia destinata, come Anna, a tramandare come un virus la ferita che il padre senza volere ha inflitto anche nei suoi confronti.

Etichette
Categoria
Louis Malle Jeremy Irons Juliette Binoche Miranda Richardson Rupert Graves Peter Stormare 112 minuti
Francia, Regno Unito 1992
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Apples

di Arianna Pagliara
Apples di Christos Nikou, recensione Point Blank

A metà tra la distopia vintage e malinconica dell’acclamato Her di Spike Jonze e il minimalismo straniante dello spietato Dogtooth di Yorgos Lanthimos potremmo, idealmente, collocare Apples, opera prima del greco Christos Nikou e film d’apertura della sezione Orizzonti alla Mostra del Cinema di Venezia 2020.
Quella con Lanthimos, autore radicale e spregiudicato, per Nikou non è semplicemente una assonanza esteriore o “geografica”, perché proprio per Dogtooth è stato assistente alla regia. È dal Lanthimos degli esordi infatti, squisitamente greco – più che da quello elegante ed esteticamente “levigato” dei film internazionali - che il regista sembra ereditare certi toni lividi e dimessi, l’asciuttezza quasi grottesca della recitazione terribilmente scarna, la capacità di calare il conturbante e lo sconcertante in una quotidianità che è assieme familiare e desolante. Ma con il suo maestro – se così è possibile definirlo – Nikou non sembra condividere la concezione nichilistica e senza possibilità di riscatto dei rapporti umani. Se in Lanthimos il sentimento è quasi sempre inautentico, oppure impossibilitato e inquinato - ora dalla violenza soverchiante imposta dall’esterno, ora da indicibili pulsioni tutte interne all’io – in questo film di Nikou, al contrario, l’amore è vivo e pulsante, e proprio per questo è sofferenza insostenibile, fino al punto da tentare la strada disperata, e per forza di cose fallimentare, dell’autonegazione.
A ben guardare, il fulcro del discorso – l’impossibilità dell’accettazione del dolore - è quasi un topos, un universale, un tema mille volte praticato. Ma Nikou, non senza un’ironia spaesante e lunare, ammanta la vicenda di umori distopici, inventando, quasi per trastullare lo spettatore, un futuro in cui una misteriosa pandemia causa amnesie improvvise e irreversibili a un numero impressionante di persone.

Il soggetto del film è stato scritto anni fa, in tempi non sospetti, e va letto nella sua chiara valenza metaforica. E tuttavia osservare oggi un mondo più che noto (perché la sua descrizione è del tutto esente dal fantascientifico e dal futuribile) adeguarsi e riorganizzarsi impassibile attorno all’ignoto provoca quasi una vertigine. L’ordinario ha ormai assorbito lo straordinario, il destabilizzante, l’inaspettato. Nulla di strano, allora, se un uomo alla guida lascia all’improvviso l’auto sulla strada e si accascia a terra, perché non sa più dove sta andando né quale sia il proprio nome.  Se non si hanno con sé i documenti, viene prontamente chiamata un’ambulanza e si viene portati in un apposito Centro che accoglie coloro che “hanno dimenticato”. Ricevono una divisa, un posto letto e un numero in luogo del nome che la memoria ha cancellato. Vagano in ciabatte per i corridoi lunghi e spogli di questo limbo grigiastro sperando che qualcuno, un parente, un amico, li venga a cercare. Ma se non succede?
Ad Aris, il protagonista, non accade. Entra allora in un apposito programma per crearsi una nuova identità. Gli verrà dato un appartamento - le stanze nude arredate con qualche mobile anni ’50 - e una polaroid (ma in che epoca siamo?). Dei vestiti che non sono della sua taglia. Una cesta di arance che sostituirà con delle mele, l’unica cosa che è certo di amare. Un album dei ricordi con le pagine ancora vuote: dovrà riempirlo lui, con le foto che testimonieranno le sue nuove esperienze. La voce asciutta dei medici, attraverso una serie di audiocassette, gli dirà cosa fare. Un giro in bici, un pomeriggio a pescare, una serata in discoteca, un funerale. In questo iter surreale, in questo scenario disperante e bizzarro che vuole ridurre l’esperienza a un elenco prestabilito e ponderabile di eventi - escludendone il portato di casualità e quindi di conseguenza annullandone l’autenticità – incontrerà una donna, che come lui (o meglio, più di lui) “ha dimenticato”.

L’identità è memoria, autoconsapevolezza, è la summa delle nostre reazioni agli eventi, delle nostre (in)capacità di vivere e comprendere i sentimenti nel caos informe e palpitante del vivere. Aris sogna l’azzeramento per contenere il dolore, ma anche il dolore ha un senso e un peso nel nostro orizzonte identitario, anche il dolore è indispensabile per (ri)conoscersi.
Il film di Nikou, con agilità e acume, offre delle coordinate sociali definite che si prestano a interpretazioni stratificate, ma lavora anche in profondità spostando il discorso su un territorio più intimo. Soprattutto, lo fa con un approccio stilistico assolutamente libero e disinvolto, e valorizzando la magnetica espressività minimalista del protagonista Aris Servetalis (già interprete di Kinetta e Alps di Lanthimos). 

Categoria
Christos Nikou Aris Servetalis Sofia Georgovasili Anna Kalaitzidou Argyris Bakirtzis 90 minuti
Grecia, Polonia, Slovenia, 2020
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Tutte a casa - memorie digitali da un mondo sospeso

di Carmen Albergo
Tutte a casa - recensione film D'Eredità

“Tutte a casa. Memorie digitali da un mondo sospeso” è il titolo del social movie realizzato dal collettivo “Tutte a casa” , per la regia di Nina Baratta, Cristina D'Eredità, Eleonora Marino. Il collettivo, composto da 16 donne professioniste dello spettacolo, nasce  durante il lockdown della primavera 2020, come opportunità allargata a tutte le donne, coinvolte per età ed estrazioni differenti, a riflettere in modo ponderato sui mutamenti del loro lavoro e delle loro relazioni ai tempi del Covid -19. Anche per questo il film è stato trasmesso in prima visione Tv per la ricorrenza dell’8 Marzo 2021, a gettare uno sguardo mirato su un anno esatto trascorso in stato di emergenza, ancora purtroppo attuale.  Questa opera di video - diario collettivo, nasce anche dall’intento dichiarato di voler valorizzare la dimensione social che connota la  cultura contemporanea e che trova nel web,  campo esperenziale ormai abituale.

 Tutte a casa” come organismo, opera e linguaggio, è il risultato esemplare, di una ben curata, etica e strategica gestione di community on line, politiche di azione dal basso (il crowdfunding con cui è stata portata a termine la fase di post produzione) nonché dei dispositivi cellulari come strumento descrittivo (ben 8000 i video pervenuti). Ma non è tutto, perché il suo reale valore aggiunto emerge se calato, con tutte le dovute differenze di genere e produzione, all’interno dell’universo audiovisivo globale, che incalzato drasticamente dalla quarantena forzata, ha trovato  nel reclutamento amatoriale contenuto di genere proprio. Nel panorama italiano si va in linea di massima dall’autorialità di Gabriele  Salvatores con “Fuori era primavera” (spaccato d’attualità, dove uno sguardo demiurgo, in una frenesia d’emozioni tra pubblico e privato, suggella l’iconografia massmediale del tempo: il Papa solo in piazza S. Pietro; i camion militari a Bergamo...) passando per il boom degli spot pubblicitari, realizzati con la collaborazione di clienti pro-sumer, in cui sull’onda del mantra “Andrà tutto bene” (stereotipi di) donne e uomini (a prescindere che si pubblicizzi cibo, telefonia, polizze assicurative) si mostrano per lo più mentre cucinano le une, suonano strumenti musicali gli altri (bambini al seguito senza diversificazione) sino ai video clip, girati come veri media events su instagram e al proliferare di web-diary dalle disparate finalità ludico-didattiche.

 Tutte a casa. Memorie digitali da un mondo sospeso” al contrario si prende la responsabilità di approfondire il proprio focus d’osservazione, cercando di delineare un attendibile contesto intorno alle singole testimonianze, nonchè di eludere quanto possibile il rischio dei clichè e dell’assuefazione al flusso di immagini già  (ab)usate nell’immaginario mediatico. Solo in forza di questa impostazione programmatica l’intenzionalità della narrazione, che è per ovvie ragioni sapiente costruzione di montaggio, può darsi come documento condiviso di  memoria collettiva viva, che nel farsi è interrogarsi continuo.

Il film ha l’evidente pregio di mantenere un tono equilibrato e distensivo e di portare allo stesso livello chi si racconta e chi ascolta, tenendo fede al confronto fecondo su cui poggia l’intero progetto, sin dalla locandina illustrata dall’artista visuale Chiara Fazi:  una  molteplicità di pianeti gravita nello spazio, da ognuno si affacciano donne a tracciare l’una con l’altra traiettorie di sguardi reciproci. Partendo dunque dalla propria “sfera” d’azione, la casa, unica praticabile e sacrificata alle esigenze della convivenza familiare protratta, alcune donne bramano ardentemente un rifugio esclusivo di silenzio, altre invece misurano incredule il confino della postazione di lavoro. Un esempio pragmatico della complementarietà di prospettiva è il caso di due donne mature, ritrovatesi d’improvviso a dover abbracciare il concetto di “on line”, che per una rappresenta l’inconsistenza dei mancati festeggiamenti di una laurea in video-conferenza, per l’altra è invece miracolo della tecnologia e privilegio, che le consente di partecipare al compleanno del nipotino.  E sullo sfondo della smaterializzazione del contatto fisico, ecco far capolino i nativi digitali, che hanno nei piccolissimi schermi l’imprinting degli affetti familiari.

Fil rouge costante di questa galleria di autoritratti strettamente femminili (in cui sovente attraverso confidenze, fugaci apparizioni, controcampi e  fuori campo, sono esposti anche padri e mariti) non può che essere la deflagrazione del sovraccarico materno, che è simbiosi totale con l’ecosistema familiare e professionale: faccende domestiche, smart working, cura e sorveglianza dei figli, ma anche per converso dei genitori disabili,  diventano inscindibile multitasking di sopravvivenza senza soluzione di continuità, con l’unica priorità di non perdere la testa. La madre/figlia (im)perfetta e ragionevole ammette che tutto il suo stremo non possono equiparare le risorse e il sostegno garantite da una sana comunità educativa. Tra le mura domestiche, faccia a faccia con se stesse, vanno quindi in frantumi convenzioni e convinzioni, come la precisione e la finalità della cura estetica, impalcatura secolare del canone femminile, che dall’ironia dei rimedi fai da te passa rapidamente ad una vera e propria rivoluzione del gesto, quale può essere un drastico taglio di capelli,  a simboleggiare il coraggio del taglio netto col passato e con gli schemi imposti.  Gesti simbolici, ma soprattutto liberazioni reali, quelle di donne che non hanno più retto  il macigno fisico e morale della violenza domestica, aggravata dalla coabitazione col proprio aguzzino e sono evase, proprio quando sembrava vietato.  

Saper impugnare dunque il proprio sguardo “in camera” (tanto nello specifico audiovisivo, quanto in quello fisico di uno spazio recluso) in modo emancipato e partecipato, pare essere la conquista, qui veicolata come antidoto all’implosione del microcosmo individuale quando, parafrasando Susan Sontag, il dolore sconvolgente degli altri è dolore di tutti.

Categoria
Nina Baratta Cristina D'eredità Eleonora Marino 87 minuti
Italia, 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Die innere Sicherheit

di Leonardo Strano
Die innere Sicherheit - recensione film petzold

Interessanti questioni di titoli e traduzioni per avvicinarsi al testo. Il primo lungometraggio per il cinema di Christian Petzold si intitola in lingua originale tedesca Die innere Sicherheit. L’espressione in italiano è traducibile letteralmente in due modi: “la sicurezza interna” o “la sicurezza interiore”. Il sottile gioco di parole tedesco è più o meno ripreso nella perspicace traduzione francese - Controle d’identitè - e in quella inglese, più scoperta - The State I Am In. Cosa costringe queste interpretazioni, distanziate tra loro da lievi slittamenti di senso ma tutte evidentemente concentrate su uno sforzo di sintesi particolare, al gioco di parola, alla figura aperta a più significati, in definitiva all’ambivalenza referenziale? Le immagini del film stesso, per come sono pensate, costruite, per quello che raccontano e per come lo raccontano: la storia della figlia adolescente di due ex terroristi, costretti a nascondersi in attesa di una fuga verso il Portogallo, è la storia di una minaccia alla sicurezza interna di un paese o è la storia di una sicurezza interiore, psicologica, minacciata da una situazione compromettente? È la storia della fuga da un controllo di un’identità tra nascondigli obbligati e traduzioni continue (essendo la ragazza abile traduttrice), o la storia di un’identità fuori controllo perché in via di definizione? O ancora, la storia dell’incidenza psicologica dei cambiamenti politici e geografici di un corpo? L’immagine, risultato che sta a metà tra queste opzioni ed è il corpo di queste tensioni, sembra sostare nell’indefinitezza. 

Ma forse non è indefinitezza la parola giusta per questa rappresentazione che mortifica gli sviluppi della trama fino a contrarla in pretesto, cioè condizione di partenza proiettata in altri discorsi, corpo da muovere verso altre virtualità. Più che la figura dell’indefinito al regista interessa la figura del non ancora definito, di ciò che è in corso, di ciò che è in transito verso una definizione, verso un significato. Non gli interessa la storia di due criminali che sono costretti a fuggire perché sono due personaggi incastrati nel meccanismo del thriller e della suspense, dell’indefinito, ma la storia di questi due criminali come figure che non possiedono definizione, costrette a sostare in non luoghi, a vivere come fantasmi (e questo è non a caso il film che apre la Trilogia dei Fantasmi) intrappolati nel qui e ora di uno spazio che sta a metà tra l’irreversibilità del passato e l’irraggiungibilità del futuro. La figura del non luogo è forse quella che più definisce il film, la categoria della riflessione sul contemporaneo che più influenza il cinema del regista: il termine per Marc Augé non identifica, come potrebbe sembrare, spazi antropologici che non sono luoghi, ma luoghi in opposizione a quelli antropologici, luoghi senza identità, senza storia, senza relazione; i luoghi come aeroporti o porti marittimi, stazioni o centri commerciali, svincoli autostradali, alberghi, campi di accoglienza per profughi, sono gli spazi in cui Petzold proietta l’azione del dramma, parentesi in cui si può solo sostare, senza radicarsi, solo attraversare, senza davvero pensare, solo transitare. Il non luogo è un’astrazione (composta soprattutto da segni direzionali, ordini non valoriali ma al massimo semaforici) in cui i passeggeri sono interpreti en travesti che stanno sempre nel tra, come nell’oscillazione terminologica di un termine durante una traduzione. 

Il film non gestisce queste astrazioni, queste categorie riflessive che raccontano il contemporaneo da vicino, mettendole a tesi in maniera fredda e calcolata, ma le incarna in un discorso di sensibilità: il film (e il cinema di Petzold tutto, assieme al suo ex insegnante Harub Farocki) non è guidato da un principio astrattivo che rilegge le storie in virtù di una dimostrazione, bensì da un principio estrattivo, che essenzializza, coglie il punctum sofferto del contemporaneo, un frammento volante che per un momento riflette l’origine del boato che l’ha mandato in aria, e poi si concreta, ricomposto, in un volto, in una sensazione, in una situazione.
Ci sono molti segni testuali di questa ricomposizione o messa in situazione lungo tutto il film – su tutti la differenza tra la mappatura della rapina finale e la rapina vera e propria – ma il segno principale è il volto di Jeanne, la ragazza protagonista. È coerente che dei tre personaggi sia lei la protagonista del film, sia suo il punto di vista che porta dentro al discorso: che cos’è l’adolescenza se non desiderio di definizione e di senso di fronte a una crisi che mette in dubbio le certezze sulla propria identità? È intorno alla figura adolescenziale (interpretata da Julia Hummer) che ruota tutto il campo simbolico ed è proprio nella sintesi dei suoi tratti, nello studio dei suoi movimenti, nell’attenzione per le sue reazioni, che il discorso concettuale e astratto assume un corpo, un’urgenza. La crisi antropologica dei corpi in via di disintegrazione identitaria – corpi spettrali anche nelle tracce delle videocamere elettroniche che ne certificano lo sfarfallio – è vissuta come una condanna incomprensibile da un corpo che al contrario degli altri corpi - sempre più decisi a scomparire per sopravvivere, a diventare indefiniti indefinibili – vuole esistere, restare, vuole vivere e provare sentimenti. Il dramma di un corpo che inizia a essere sentito come problematico e non vuole essere cancellato si agita in un ordito psicologico che vede l’usuale confronto genitore-adolescente cedere il passo a un più interessante scontro in cui la posta è il desiderio di esistere e confermarsi, fino a ribaltamenti che mettono in discussione gli schieramenti e lasciano la vicenda sul bordo di un problema insoluto. Ed è proprio il finale rotto, concentrato su volto di ragazza che in un colpo di vento si fa donna presente nel proprio corpo vivente e non solo sopravvissuto di fronte alla tragedia, a essere immagine già matura, sintesi dei profondi brani teorici trascritti in una grafia apparentemente molto leggibile.

Nel volto di Jeanne c’è già la prova di tutti i prossimi volti spaccati nell’ambivalenza referenziale dei discorsi di Petzold, i volti in crisi e in cerca di definizione, i volti in transito nella morte, i volti sofferenti ma vivi, perché stanno in piedi nel rumore confuso del mondo che sbiadisce.

Categoria
Christian Petzold Julia Hummer Barbara Hauer Richy Muller 98 min
Germaina, 2000
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

WandaVision

di Alessio Baronci
Wandavision - recensione serie tv marvel disney

Capire il posto che occupa Wandavision nell’architettura narrativa del Marvel Cinematic Universe è il primo passo per approcciarsi alla sua natura profonda. La storia di Wanda Maximoff, alle prese con il trauma della morte del compagno Visione, è un filler della trama orizzontale dell’MCU e tuttavia è interessante osservare il modo in cui la natura riempitiva della serie entri in contatto con il contesto di accoglienza. È indubbio, infatti, che dopo Endgame la narrazione avesse bisogno di una pausa ma è simbolico che tale iato abbia finito per combaciare con la pandemia. Dopo un anno di stop forzato, il Marvel Cinematic Universe è in effetti un sistema simbolico alla deriva, costretto a ripartire, a scartamento ridotto, ospitato dalla dimensione televisiva. Wandavision non è dunque solo il racconto della terapia del lutto di Wanda ma pare anche il momento in cui la Marvel si ferma per guardarsi dentro, probabilmente per capire da dove ripartire e provando a liberarsi di certe convenzioni, con un approccio non dissimile a quella sviluppato dalla seconda stagione di The Mandalorian. Prima però è necessario fare un passo indietro, per ricostruire un sistema che dopo Endgame è saturo di stimoli.

La cupola di Westview diventa dunque lo spazio laboratoriale in cui l’MCU riannoda i fili del suo linguaggio, delineando attraverso la storia di Wanda un percorso parallelo che vede la forma (cine)televisiva ricostruirsi dalle fondamenta dell’analogico al digitale. Al contempo, tra le pieghe della narrazione, la diegesi restaura anche una pragmatica dello sguardo. Il flusso di Wandavision è infatti puntellato di mise en abyme che ricreano sulla scena l’atto del guardare e il setup spettatoriale della fruizione televisiva, ma soprattutto la serie si struttura su un’immagine dinamica, che muta tra i formati delle sue evoluzioni storiche e stimola nel pubblico un confronto critico con essa, agli antipodi rispetto al linguaggio convenzionale, anestetizzante, del blockbuster.
A tratti, il restauro sintattico operato da Wandavision acquista un passo felicemente sovversivo, che ribalta alcune strutture fondanti dello stesso MCU: la serie rinuncia alla tradizionale dinamicità delle sequenze action, trova il coraggio di mettere al centro della narrazione le componenti fisiche, tangibili, della sessualità e della morte, elementi finora edulcorati dalla Marvel, organizza una storyline che parodizza tanto il sistema creativo e produttivo che la regge quanto le pratiche del fandom. Tuttavia, più si entra in contatto con il sistema che struttura la serie e più ci si rende conto che, tra rispetto delle convenzioni e loro ribaltamento, la diegesi spariglia le carte solo in apparenza. La trama si normalizza, le svolte si fanno sempre più prevedibili e il linguaggio visivo, che fino ad un momento prima si era addirittura affrancato dalla luminosa estetica Whedoniana a favore di uno stile realistico, rifiuta la cornice televisiva e abbraccia il formato panoramico e la sintassi massimalista del blockbuster.

Si tratta di un turning point che svela la profonda ambiguità su cui si muove Wandavision. Nel finale il linguaggio televisivo si uniforma a quello cinematografico e la serie entra (o addirittura torna) a far parte di un corpus di prodotti che si muovono su coordinate comuni tanto narrative quanto visuali ma non si tratta solo di questo. Più che una rivoluzione dei linguaggi, la sensazione è che dietro Wandavision si nasconda infatti il desiderio di legittimazione culturale della Marvel. Alla Casa Delle Idee non interessa tanto ripensare sé stessa ma allargare il proprio target, per coinvolgere un pubblico sempre più ampio, composto anche da coloro che finora hanno considerato l’MCU un contenitore di storie superficiale quando non infantile. La Marvel vuole dimostrare di poter sviluppare un prodotto adulto, “alto”, consapevole, che si eleva dalla serialità media guardando al cinema, che struttura una narrazione attenta all’interiorità dei personaggi e alla dimensione emotiva del racconto, concentrata su ciò che, almeno in apparenza, era mancato all’MCU fino a questo momento. Al di là della straordinaria cura realizzativa, la serie non riesce dunque a liberarsi di quelle convenzioni che inizialmente sembrava voler sovvertire e pare figlia di un’azienda mai così insicura della propria natura. La Marvel è talmente impegnata a ripulire e innalzare la sua immagine da dimenticarsi di quel mix tra pop e approccio “alto” che fino ad Endgame ha costituito la cifra principale della sua identità, e pare ignorare anche l’intelligente dialogo intrattenuto finora con la dimensione televisiva, di cui ha colto sempre la specificità linguistica senza mai mediarla attraverso il cinema.
Da questo punto di vista, non stupisce che la serie più sperimentale dell’MCU si ambienti in un mondo finzionale, separato dallo spazio canonico, una dimensione isolata, che accoglie un ripensamento linguistico forse di convenienza, che rischia di sparire così come si è palesato, come il sortilegio di Wanda su Westview.

Categoria
Jac Schaeffer Mat Shakman Elizabeth Olsen Paul Bettany Kathryn Hahn Evan Peters Kat Dennings Miniserie da nove episodi
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

EROTIC THRILLS - Whore

di Saverio Felici
Whore recensione film Ken Russell

[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

Whore è il film della pacificazione di un grande vecchio, un folle gaudente che per l'ultima volta, a quasi settant'anni, si fa (semi)serio nel ripensare la violenza del proprio cinema. Nel piccolo testamento che Ken Russell dedica al tema della perdizione sessuale (dopo la musica, quello più importante), è la realtà che torna, dopo decenni, a infettare il delirio: la sfarzosa, teatrale follia che da sempre ha definito l'esperienza umana nell'arte del regista svanisce, svapora nelle luci al neon. Ormai sul punto di finire messo da parte dall'industria britannica (il pur microscopico film sarà girato in America), nel 1991 Russell riscopre il realismo, l'inchiesta, e dunque la verità – ciò che da sempre pareva bandito dalla sua poetica. Un processo distensivo già avviato in seguito al flop di China Blue, con la conseguente riscoperta della narrativa britannica classica (Lawrence in La vita è un arcobaleno, Wilde in Salomè, Stoker in La tana del serpente bianco) – e compiuto ufficialmente nell'adattamento di Bondage, monologo teatrale redatto dal tassista notturno David Hines assieme alle prostitute londinesi da lui intervistate nel corso degli anni. Il film avrebbe segnato il punto di arrivo in una carriera incasellabile, tra la BBC, l'Opera e il documentario, nella quale il cinema non rappresentò che un dispendioso vezzo; ossessione serenamente messa da parte con l'ennesimo insuccesso, in favore di una vecchiaia di mediometraggi e autoproduzione.

In rapporto al suo tempo Whore era effettivamente un film condannato. Dal soggetto alla visione alla modalità del racconto, tutto risulta anacronistico allo zeitgiest del periodo – rappresentato dalla fiorente ondata di softcore mainstream sorta a metà anni '80 in scia ad Adrian Lyne e Lawrence Kasdan. Il nuovo noir erotico hollywoodiano è in effetti rivelatorio di un'avvenuta inversione di tendenza: due decenni dopo l'era dei diritti civili, la visione egemonica della sessualità appare ribaltata. Influenzata dalle frange reaganiane e reazionarie del movimento femminista americano (rispecchiate dalle posizioni proibizioniste di Andrea Dworkin e Catharine MacKinnon, come dal discusso movimento Women Against Pornography), la weltanschauung USA degli eighties è improntata alla condanna unilaterale delle attività sessuali “devianti” - BDSM, esibizionismo e prostituzione in primis.
Rispetto all'era d'esordio di Russell, alla fine degli anni ottanta l'erotismo cinematografico è mortifero, castrante, veicolo di psicosi omicide, impulso sordido in grado di distruggere le vite ai personaggi colpevoli di “andare oltre”. Coniugatasi con l'inedita ossessione dei media per la figura del serial killer, la nuova narrativa ricorda una sorta di versione yuppie delle vecchie paranoie borghesi di fine Sessanta, ai tempi sardonicamente monetizzate dal Giallo italiano. Il mondo filmico con cui si confronta l'ultimo film di Ken Russell è un inferno metropolitano popolato dai Patrick Bateman e le Alex Forrest del mondo: una visione che il film prova a ribaltare, reintroducendo nel discorso la voce soppressa delle comparse, e dunque delle vittime.

whore russell

Il primo flashback con cui Liz (Theresa Russell) apre la scombinata biografia della sua breve vita è il più brutale e programmatico del film: in fuga dallo sfruttatore Benjamin Mouton, la donna rievoca una delle sue prime notti in strada, degenerata nello stupro di gruppo a opera di una banda di psicopatici frat boys. È il punto di partenza di un monologo interiore picaresco e tragicomico, lungo il quale la voce della protagonista prova rozzamente a tracciare le coordinate sociali e psicologiche della sua professione nell'era del libero mercato. Un discorso volutamente schizofrenico, frutto di un'inchiesta collettiva in cui centinaia di voci ed esperienze prendono parola; come ragionando con se stesse, la protagonista e la cinepresa vagano da una scena all'altra, da un set all'altro, da un film all'altro, in cerca di una sfuggente chiave di lettura universale al fenomeno. Le interpretazioni dogmatiche si accavallano e si contraddicono a vicenda: le conclusioni sono liberali o radicali assieme. Non c'è un punto di vista (Russell riderebbe a definirsi regista impegnato), se non nell'inquadrare la radice dello sfruttamento nel mancato riconoscimento sociale, e nel ruolo che la demonizzazione mediatica della professione ha nel lasciarne il dominio in mano alle creature più mostruose del già pregno campionario di mostri russeliano.

Il rivolgersi di Whore a questo rimosso è anche un ritorno a un cinema che, nei nascenti anni '90, andava ormai facendosi relitto del passato, recuperabile giusto in chiave postmodernista; quello del realismo sociale, precisamente nella declinazione tutta britannica del kitchen sink realism. Proprio quella leggendaria e spesso obliata corrente della cinematografia inglese, legatissima all'anima social-laburista del vecchio free cinema, che per anni aveva visto in Russell stesso una sorta di demone, decadente artistoide aristocratico in scia al formalismo felliniano più deleterio – sprezzo peraltro ricambiato dallo stesso regista, fieramente di sistema, professionista BBC su drammi in costume e biografie di compositori.
L'iperrealismo militante britannico incrocia il softcore nel momento di maggior riflusso per i valori di entrambi; il risultato della commistione è il bellissimo film di un vecchio hippie in disarmo, meravigliosamente fuori contesto, parodia feroce del proprio dibattito istituzionalizzato che si rifiuta di prendere veramente sul serio la sua stessa anima indignata. È un cinema-verità da cui la verità è esclusa, manipolata e riprodotta, come sempre, nella forma della follia; un documento sociale che di documentaristico non ha niente - se non una confusa testimonianza, riportata come lo farebbero i suoi stessi protagonisti. È contenuto, minimale, per quanto lo possa essere Russell: ma è soprattutto, per una volta, assolutorio nei confronti dei suoi grotteschi personaggi, che strabordano dal grigio della docufiction invadendola di colori aggressivi, e parlando, come al solito, la lingua dello sporco, del vomito, della carne squarciata dal delirio universale.

Etichette
Categoria
Ken Russell Theresa Russell Benjamin Mouton Antonio Fargas Jack Nance 85 minuti
USA 1991
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Saint Maude

di Nicolò Comencini
Saint Maude - recensione film

Una cupa stanza d’ospedale. A pochi metri dal corpo esanime di una paziente, una giovane infermiera siede a terra in un angolo con le mani insanguinate, in evidente stato di shock. Alzando lo sguardo, la ragazza scorge una blatta sul soffitto e il suo volto si illumina, come a significare una sorta di rivelazione. Con questa scena epifanica che preannuncia una metamorfosi si apre Saint Maud, primo lungometraggio della giovane Rose Glass, presentato al Toronto International Film Festival nel 2019, ma rimasto a lungo inaccessibile al pubblico per cause ormai ben note.

Horror psicologico che testimonia una rara sensibilità e finezza nel gestire la narrazione cinematografica, Saint Maud si presenta come un oscuro racconto agiografico, una parabola contemporanea distorta, dalla quale emergono immagini angosciose e perturbanti. Adottando per la maggior parte della pellicola il punto di vista della protagonista, Glass sembra volerci condurre sulla soglia tra mistico e patologico, riservandosi il diritto di spostare l’ago della bussola unicamente nella sorprendente manciata di fotogrammi finali, dove viene rivelata la cruda verità che si cela dietro al martirio di Maud (Morfydd Clark).
Il trauma dell’incipit funge da spartiacque nella vita della giovane infermiera, che sveste l’identità di Kate — ragazza ordinaria che vive in una non meglio specificata cittadina balneare britannica e lavora presso l’immaginario St Afra’s Hospital — per indossare, convertendosi al cattolicesimo, i panni di Maud, riservata e solitaria badante alla disperata ricerca di un senso da attribuire alla propria esistenza. L’incontro con la paziente Amanda Köhl (Jennifer Ehle), ex-ballerina di successo costretta alla clausura da un linfoma in fase terminale, funge da catalizzatore per la metamorfosi dell’eroina. Le solitudini delle due donne entrano in risonanza creando un gioco di riverberi e riflessi (dinamica che richiama per certi versi le protagoniste di Persona di Bergman).

saintmaude recensione

Laddove Maud vede in Amanda un’anima smarrita da ricondurre sulla retta via, Amanda è intrigata dalla morigeratezza e dalla sobrietà dell’infermiera. Si contrappongono così da una parte l’ex-ballerina, che, pur essendo intrappolata in un corpo morente, non è disposta a rinunciare al gioco della seduzione e alla propria libido, che soddisfa ricorrendo ai servizi di una sex worker; dall’altra quello di Maud, che sottopone invece il proprio corpo, giovane e in salute a un costante e crescente supplizio della carne. Per Maud, desiderio erotico ed estasi spirituale si sovrappongono: le repentine manifestazioni del divino sono esperienze sensoriali che pervadono il corpo della ragazza, rievocando una celebre scultura del Bernini. Quando Amanda finge di percepire a sua volta la presenza celeste, l’inattesa intimità che viene a crearsi tra le due donne viene fraintesa dall’infermiera, che la sposta sul piano spirituale e vi legge un invito a infrangere i limiti deontologici per salvare l’anima della donna, mettendo così in moto i meccanismi della macchina infernale che condurrà al tragico finale.

Glass sfrutta il tema della radicalizzazione religiosa della protagonista per trattare una problematica ben più universale. Per sua stessa ammissione, il nucleo del film risiede infatti nell’alienazione, nell’estremizzazione di una mente che si trova, in seguito a un evento traumatico, improvvisamente incapace di interagire con il mondo che la circonda. Il percorso di Maud è disseminato di continui tentativi di sottrarsi alla propria solitudine, di ritrovare spazio all’interno di una società indifferente che respinge ogni suo slancio d’integrazione in maniera sempre più violenta, con contraccolpi che vanno dall’indifferenza al pubblico scherno, dal biasimo fino allo stupro. Preda di episodi psicotici sempre più deliranti e devastanti, Maud raggiunge così il punto di non ritorno, sprofondando in un turbine (immagine ricorrente all’interno della pellicola) di misticismo illusorio che sfocia nella violenza dell’epilogo e nell’ordalia autoinflitta.

Saint Maud è un moderno racconto kafkiano al femminile che vuole esplorare le zone d’ombra in cui può smarrirsi una mente fragile e suggestionabile, soprattutto se messa di fronte a un corpo sociale insensibile alle ferite e all’isolamento individuali, a un mondo in cui, per una perturbante assenza di logiche empatiche, il processo di alienazione diventa irreversibile e ogni tentativo di reintegrarsi è destinato a fallire. Con il suo esordio alla regia, Glass sfrutta l’horror per parlare della società contemporanea e delle sue dinamiche talvolta spietate, mostrandoci come il sonno dell’empatia possa generare mostri.

Categoria
Rose Glass Morfydd Clark Jennifer Ehle 83 minuti
UK 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Iscriviti a