Ieri/oggi - Speciale Howard Hawks: Arcipelago in Fiamme

di Alessandro Gaudiano
arcipelago in fiamme - recensione film Hawks

Per chi conosce il cinema di Howard Hawks, Arcipelago in fiamme (Air Force) è una sorta di banco di prova, un oggetto di difficile lettura: un film di propaganda e di guerra, progettato e girato in tempi rapidi con il pesante coinvolgimento del governo e dell'aviazione statunitensi, concepito per uscire in sala a un anno esatto dall'attacco di Pearl Harbor. Il film non arriverà sul grande schermo prima del 1943, dopo numerosi ritardi, riscritture e conflitti tra Hawks e le altri parti in causa. In altri termini, Arcipelago in fiamme è un film atipico per il suo regista, esito di circostanze straordinarie e di vincoli espressivi particolarmente stretti, girato in buona parte all'interno del modello di un bombardiere B-17. Cosa rimane, qui, dell'Autore passato e futuro? Quali sono i suoi spazi, qual è la sua voce?

Hawks non è un autore di film di guerra e, pur con gli ovvi vincoli del caso, ne rispetta solo parzialmente regole e convenzioni. Una costante della sua carriera: si pensi solo a Un dollaro d'onore (Rio Bravo), western che non ha quasi nulla del western se escludiamo i costumi e le scenografie, e ad altre opere meravigliosamente fuori dagli schemi. Di certo, però, Arcipelago in Fiamme va oltre il suo autore: la propaganda e l'obiettivo politico del film sono ben visibili e, spesso, ingombranti.

La visione di un film di guerra (totale) in un tempo di pace (apparente) è perturbante: non riconosciamo la feroce ideologia della mobilitazione e l'odio razziale come parte di noi, eppure sappiamo che quel cinema ci appartiene e ne vediamo l'immaginario all'opera ogni giorno. Hawks mette in scena le crude emozioni della violenza e dell'odio, senza edulcorarle – né avrebbe potuto farlo, ripetiamo – ma mostrandole con tutta la prosaicità possibile per un film il cui obiettivo è scandire, a chiare lettere, Why we fight. L'urlo di soddisfazione per la morte di un giapponese dura solo il tempo di una raffica di proiettili, lasciando subito spazio al silenzio o al rumore bianco della battaglia. Altrove, è molto più ovvio quanto Arcipelago in fiamme sia l'esito di un difficile compromesso: la lunga battaglia del finale non è nelle corde di Hawks, così come altre concessioni alla retorica ufficiale che puntellano l'intera sceneggiatura. Purtroppo, c'è anche spazio per del razzismo esplicito e si fa menzione di un coinvolgimento dei nippoamericani nell'attacco a sorpresa di Pearl Harbor che è storicamente falso, e che ha probabilmente contribuito, in quegli anni, alla persecuzione dei cittadini statunitensi di origine giapponese. In molte occasioni, l'intelligenza e l'ambiguità della messa in scena sono brutalmente sommerse dalle musiche trionfali e debordanti che non lasciano scampo allo spettatore.

Nonostante tutto, questo resta chiaramente un film hawksiano. Hawksiana è, per esempio, la costante tensione centrifuga rispetto alle convenzioni hollywoodiane. Quando uno dei personaggi del film scopre la morte del figlio, questi reagisce in un modo quasi opposto rispetto al collasso emotivo che ci saremmo aspettati in un'opera più banale. Altri personaggi, pur aderendo a modelli famigliari, non mancano di sorprendere o di mostrare insperati guizzi di vitalità. I soldati che volano sul bombardiere B-17 Mary Ann sono una sporca decina di eroi e antieroi, non sempre affiatata, sempre in azione e interazione: si interrompono a vicenda, si lasciano andare ad amichevoli prese in giro, sono costantemente in ebollizione mentre osservano, parlano, sparano, salgono e scendono... primo piano e sfondo si scambiano in continuazione, e le scene si dispiegano come piccoli, sobri piani sequenza la cui eleganza esplode, improvvisamente, in inquadrature di bellezza e profondità vertiginose. Come quell'ultima inquadratura che racchiude, in una elegante cornice di luce, uno stormo di bombardieri che vola verso il sole nascente... per un attimo, sembra quasi di dimenticare che il loro obiettivo sia quello di ridurre Tokyo in cenere.

Arcipelago in Fiamme è dunque ambiguo, scisso, complesso. E complessa – nel senso etimologico del termine: intrecciata, composta di più fili e più prospettive – deve essere la sua visione oggi. Una visione ben piantata in un dove, un come e un perché e chiaramente consapevole che il cinema è anche un campo di battaglia tra sguardi e poteri in disarmonia prestabilita.

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Howard Hakws John Garfield Arthur Kennedy Charles Drake 124 minuti
USA, 1943
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Ieri/oggi - Speciale Howard Hawks: Susanna!

di Samuele Sestieri
Susanna recensione film hawks

Chissà Martin Scorsese, girando Fuori Orario, quante volte avrà pensato a Susanna! (Bringing Up Baby in originale). Chissà se nell’architettura notturna di quella geniale detour kafkiana il riferimento primo non fosse proprio la screwball comedy per eccellenza, quella squisitamente iperbolica rappresentata dal capolavoro di Howard Hawks. Che certo non è tutto in una notte ma procede intelaiando una serie di sventure sempre più assurde, irruente e disastrose. A pagarne i danni il personaggio di Cary Grant, noioso paleontologo tutto scienza e raziocinio in procinto di sposare una donna che pare la sua ombra. Attende trasognante una clavicola intercostale mentre ammira lo scheletro di un brontosauro che vale più del suo futuro matrimonio. L’ingresso di Katharine Hepburn è subito uno shock: conserva tutta la potenza e l’irruenza di uno tsunami. Lei è la forza della natura, creatura libera e irrazionale, selvaggia e magnetica, continuamente eccedente: dinamite femminile pronta a far saltare in aria un intero sistema di valori.

Di una modernità sconcertante, completamente in anticipo sui tempi (siamo nel 1938!), Susanna! supera rapporti di potere e ribaltamenti di genere per aderire alla forza irrazionale dell’assurdo. Cary Grant perde tutto: lavoro, matrimonio e ragione. Totalmente in balìa della Hepburn, viene fagocitato dalla sua carica irrefrenabile e primordiale: non può farci nulla, qualsiasi resistenza si rivela inutile. Prova a combattere invano ma poi dichiara la sua resa incondizionata, che poi è la sconfitta dell’ordine e del decoro di fronte alla forza selvaggia dell’iperbole. La commedia sola, Hawks lo sapeva benissimo, può scalfire, oltraggiare, perfino offendere il comune senso della misura. Questo film anarchico e sfacciato, che fugge da ogni schema e ordine prestabilito, ci invita all’esilarante (e iconoclasta!) distruzione di equilibri o zone di comfort. La celebre, spettacolare caduta finale del brontosauro sta lì a testimoniarlo. Perché questa non è la solita rom-com, i protagonisti non si baciano come nell’happy end da classico americano ma piuttosto cadono rovinosamente in una gag slapstick che ha ingoiato il mondo intero. Prede e cacciatori, tutte parti di un girotondo dell’assurdo dove i leopardi sono animali domestici e i cani guidano le caccie al tesoro.

Si può guardare Susanna! come alla regina delle commedie degli equivoci, come al capolavoro situazionista capace di raggiungere un tale livello di parossismo da anticipare in cento minuti tanto, tantissimo cinema che sarebbe venuto (c’è perfino una strepitosa sequenza di travestitismo che arriva vent’anni prima del capolavoro wilderiano). Da qualsiasi prospettiva una cosa è certa: ancora oggi, ottant’anni dopo, vedere Susanna! è un’autentica goduria. Il ritmo è sfrenato, il movimento impudico, i dialoghi rimbalzano a velocità insondabili, le gag raggiungono picchi di crudeltà insuperate. Fino alla nevrosi, a un passo dalla follia. Si muore dal ridere, letteralmente.

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Howard Hakws Katharine Hepburn Cary Grant May Robson Charles Ruggles 102 minuti
USA 1938
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Ieri/oggi - Speciale Howard Hawks: Avventurieri dell'aria

di Jacopo Bonanni
Avventurieri dell'aria

A me non importa della vita, la dobbiamo tutti a Dio. Il mio destino sia quel che sia, si muore una volta sola.” - Shakespeare, Enrico IV

Un anno dopo il lungometraggio di William Wellman, che con il suo “Ali” (1927) aveva inaugurato il genere più in voga ad Hollywood tra gli anni ‘30 e ‘40, Hawks gira il suo primo film d’aviazione: La via delle stelle, purtroppo andato perduto. Il film, una sorta di dramma dal taglio documentaristico, era incentrato sull’addestramento di due piloti e sulle nevrosi del volo, sfruttando la scia dell’enorme successo di pubblico e di critica ottenuto appunto dal lavoro di Wellman. Il rapporto viscerale che Hawks sviluppa con il mondo dell’aviazione è una questione strettamente personale, legata a doppio filo con la sua biografia: da un lato infatti, prima di dedicarsi al cinema, il giovane regista era entrato in aereonautica, maturando una passione per il volo che avrebbe condiviso negli anni a seguire con il socio/avversario Howard Hughes. Dall’altro, perché Hawks era stato testimone della tragica morte del fratello Kenneth, precipitato in aereo al largo della baia di Santa Monica, durante le riprese del suo secondo film Navi Bianche; un evento traumatico che lo avrebbe segnato profondamente, al punto da commemorarlo implicitamente nel primo film sonoro della sua carriera: La Squadriglia dell’Aurora del 1930.

L’aviazione, nelle opere di Hawks, diventa un distillato delle esperienze moderne: il dominio della macchina, il controllo della velocità, l’acquisizione di un punto di vista globale, che permette di sovrastare la terra, raffigurano le sfide che attendono l’uomo del XX secolo. Inoltre, anche al di là della guerra, la figura del pilota si presta ad incarnare perfettamente il nuovo eroe americano mentre il cielo rappresenta l’ultima frontiera, conquistabile solo attraverso l’uso della tecnologia: quella radiofonica, che trasforma i piloti in presenze senza corpo, anticipando la natura fantasmatica di certi eroi in via di sparizione, e quella cinematografica che invece “potenzia lo visione”, traducendo il volo in un’esperienza di sguardo e di controllo del mondo attraverso la tecnica. A differenza di altri autori come John Ford, Hawks parte proprio dalla cultura del presente per rileggere il Mito e la Storia, infatti tutti gli eroi delle sue pellicole, compreso l’uomo del West, vengono elaborati solo dopo aver inquadrato la figura del pilota, matrice di tutte le altre. Questo novello “cavaliere dell’aria” altro non è che l’evoluzione più significativa della mitologia del pioniere, la cui missione è quella di traghettare nel “nuovo mondo” valori antichi quali: coraggio, lealtà e dedizione alla causa. Tuttavia, questa stessa figura muta, di pari passo alla sensibilità cinematografica di Hawks, assumendo fisionomie e caratteristiche differenti all’interno dei vari “capitoli” che compongono il filone aviatorio tratteggiato dal regista. Si passa così dai piloti, intesi come valorosi eroi di guerra che aderiscono ad un preciso codice d’onore, come quelli visti in La Squadriglia e Rivalità Eroica; a quelli relegati alla condizione di reduci sconfitti del film Brume, costretti ad arrendersi all’improvvisa marginalità sociale dei tempi di pace; fino ad approdare all’intrepida comunità di aviatori aeropostali capitanata da Cary Grant in Avventurieri dell’aria del 1939.

Avventuriari dell'aria 1

Il film in questione è la cronaca delle gesta di un manipolo di spericolati aviatori agli ordini di Geoff Carter, un pilota cinico e disilluso, che insieme al suo team rischia quotidianamente la propria vita in un angolo remoto del Sud America pur di adempiere al proprio dovere. Si tratta d’una storia “d’altri tempi” raccontata però dall’inusuale punto di vista femminile di Bonny Lee (Jean Arthur), una showgirl vagabonda di ritorno da una tournée, che si ritrova ad essere testimone di una sfida all’ultimo sangue tra uomo e natura. Confrontati ai loro predecessori, i piloti di Avventurieri si presentano immediatamente come un gruppo eterogeneo di amici, una vera e propria equipe di talenti, il cui obiettivo principale è quello di integrarsi gli uni con gli altri per cooperare in una costante roulette russa con la sorte; come osserveremo anche nel successivo Arcipelago in Fiamme in cui il valore della collettività è ancora più evidente ed assoluto. D’altronde anche in cielo ormai si vola in coppia e l’ideale romantico del cavaliere solitario ed individualista lascia il posto ad un sano cameratismo e ad un sentimento di virile solidarietà per affrontare le avversità di uno scenario aspro ed ostile, dove l’unica possibilità di sopravvivenza risiede proprio nell’abilità di riuscire a “fare squadra”. In tal senso è emblematico il personaggio interpretato da Richard Barthenless nel film: un pilota emarginato, reo di aver abbandonato un compagno durante una missione - decretandone la morte - che dovrà lottare contro il disprezzo di tutti prima di guadagnare la fiducia dei suoi compagni. Un processo analogo a quello a cui è sottoposta anche Jean Arthur, una donna isolata in un ambiente di soli uomini, che invece dovrà imparare ad adattarsi per comprendere a pieno lo spirito di cui è impregnato l’ambiente che la circonda: imparando le canzoni dei nativi, mescolandosi a loro e tentando di adeguarsi allo stoicismo dei piloti al punto da fare breccia nel cuore dell’incallito scapolo Grant. Il personaggio di Geoff – rude e superbo - è quasi una caricatura di machismo ma come i migliori eroi hawksiani, la sua essenza non è in ciò che dice ma in ciò che fa e il gesto che lo contraddistingue è la continua richiesta di fiammiferi, un rituale quasi liturgico che esprime il suo bisogno di instaurare rapporti: con l’amico fraterno Kid (Thomas Mitchell) a riprova di mutuo supporto e con Bonnie, manifestando cosi il desiderio di includerla nel suo mondo.

Rispetto a quanto già mostrato in altre pellicole, questo quarto film di Hawks dedicato all’aviazione non si basa tanto sulla fascinazione e il realismo delle riprese aeree, a cui il regista preferisce sostituire riprese da terra di atterraggi e decolli - di solito acrobatici o letali - accompagnati da scene di volo allusive e fuori campo sul potere simbolico degli ambienti evocati. Il primo - lo spazio principale - è il locale gestito da l’Olandese: un microcosmo articolato che funge da albergo, aereoporto, nightclub, dotato di un fascino sostanzialmente “luministico”, dove i protagonisti si raccolgono per elaborare tutti insieme il significato della morte, attorno alla luce fioca delle lampade al cherosene: simbolo della civiltà. Il secondo invece è quello rappresentato dalla cittadina immaginaria di Barranca con il porto, la nebbia e gli indios festosi che formano una seconda comunità relegata al ruolo di spettatrice. Infine il terzo ed ultimo spazio è la catena montuosa della Ande: teatro di una vera e propria guerra tra i piloti e gli uccelli rapaci che la dominano, metafora - a loro volta - dell’eterno duello tra uomo e natura che solleva il problema della fragilità umana. Un tema centrale nell’opera di Hawks che in questo caso viene evocato in tutte le sequenze d’azione - tanto brevi quanto schiette - che possiedono la stessa concisione riservata alle scene drammatiche - create rapidamente e altrettanto rapidamente superate - senza mai inoltrarsi nei territori del tragico, tenuti a distanza come le morti dei piloti, sovrastate dai rombi degli aerei e metabolizzate dagli sguardi terrorizzati degli astanti.

Prodotto dalla Columbia di Harry Cohn, il primo presidente di uno studios ad aver dato piena libertà d’azione ad Hawks come regista, Avventurieri dell’Aria, oltre ad essere considerato dai critici la sintesi più efficace dello stile dell’autore – fisico e geometrico – è soprattutto il prototipo di ogni film d’avventura che girerà in seguito – da Acque del Sud a El Dorado – in cui un gruppo di (anti)eroi al tramonto, avvolti in un turbine di fierezza, rabbia, egoismo e solidarietà, affrontano - a viso aperto - l’inesorabilità di un destino a cui non possono e non vogliono sottrarsi.

 

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Howard Hakws Cary Grant Jean Arthur Rita Hayworth Thomas Mithcell Richard Barthenless 121 minuti
USA, 1939
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Rifkin's Festival

di Emanuele Di Nicola
Rifkin's Festival di Woody Allen

Così Woody Allen descrive la lavorazione di Rifkin's Festival nella sua autobiografia A proposito di niente: «Un regista vessato, pieno di preoccupazioni, oggetto di attacchi continui, che già di suo non è Bergman, è in grado di sfornare un film divertente? D’un tratto la sfida diventa esaltante. Come sarà Rifkin’s Festival, il mio nuovo film? E chi lo sa. Ma so che mi sono divertito a girarlo ed è stato bello sentire Wally che recitava i miei dialoghi. La lezione che si ricava da tutto ciò, credo, è che esistono uomini che prosperano quando sono sotto pressione. Ovviamente non rientro nella categoria e, se il film verrà bene, sarà un miracolo». Ed eccolo Rifkin's Festival, cinquantesimo titolo alleniano, che rischiava di non uscire e invece - ironia non dell’arte, ma della vita - è il titolo della riapertura delle sale, nella tragedia epocale del Covid. Titolo girato nella bufera, da un regista “vessato” e “pieno di preoccupazioni” oltre lo schermo, che proprio su di esso, lo schermo, le ha sempre riversate in commedia, in un lungo film di se stesso tanto terribile quanto esilarante.

Ed ecco anche Wally, ovvero l’attore protagonista Wallace Shawn, volto alleniano di un’altra epoca, che sembra uscito da un lacerto invecchiato di Radio Days: è lui Mort Rifkin e il festival è quello di San Sebastian. L’ex professore di cinema vi arriva con la moglie Sue (Gina Gershon), ufficio stampa di un regista impegnato, Philippe (Louis Garrel), luogo comune dell’intellettuale francese borioso e ridicolo, quindi irresistibile, che col suo film vuole addirittura suggerire “la pace in Medio Oriente”. Se la moglie di Rifkin viene sedotta ovviamente da Philippe, per lui la materia dei sogni è Elena Anaya, che qui abita la pelle di una dottoressa spagnola: visita Mort per i suoi disturbi e scopre di avere gli stessi gusti. Inutile dire che Allen trova l’ennesimo alter ego in Wallace Shawn, anche se non precisamente, non esattamente: Wallace ha 77 anni e Woody 85, ma il protagonista e il regista rivendicano l’appartenenza allo stesso cinema classico, quello di Bergman e Fellini, citati e riscritti per l'ennesima volta, con il moto centripeto di Rifkin nel recinto festivaliero che è la sua stazione termale. I riferimenti appartengono a un mondo talmente passato, sono così già visti che fanno quasi tenerezza, anzi senza quasi: il dinosauro Allen è in grado di parlare solo di sé con onestà, perché non c’è nulla di più onesto delle proprie ossessioni. È anche per questo che la storia tra Rifkin e la bella Jo non si può concretizzare: attiene al mondo delle idee, non ricade mai nel concreto, perché parliamoci chiaro, non basta un gusto affine per conquistare una donna con oltre trent’anni di meno, l’amore del “vecchietto” Rifkin/Allen dunque non è pensabile. Elena Anaya resta una chimera.

Rifkin's Festival di Woody Allen

«Non ho mai fatto capolavori», ripete Allen nelle ultime interviste. A prescindere dall’opportunità di concordare o meno - la prima è difficile -, il punto della questione diventa allora la modestia. Il drammaturgo Rafael Spregelburd l’ha inserita nella sua Eptalogia sui nuovi peccati capitali, nella pièce La modestia (appunto), indicandola come “peccato” che avvolge i quattro personaggi sulla scena in una scala che va dal dramma al paradosso. Uno di loro racconta di una straordinaria vincita al casinò, lasciata interamente al croupier: «L’ho fatto per modestia», dice. La modestia è il peccato di Woody Allen? No, piuttosto è la sua strada per il riconoscimento della piccolezza dell’uomo nel mondo e, soprattutto, davanti alla morte. Con la nera signora già danzava in Amore e guerra, materializzando la pittura medievale, consapevole da quarantenne che la Totentanz prima o poi tocca a tutti. Torna a giocare con lei in Rifkin's Festival, a scacchi naturalmente: e trova il coraggio di scherzare con la morte anche oggi nella senilità, mentre si avvicina l’incontro definitivo, con la figura di Christoph Waltz in parodia di Max von Sydow che impartisce ovvi consigli alimentari (per vivere molto bisogna mangiare le verdure).

Il colpo di scena più sorprendente di questo Rifkin's Festival sta infatti proprio nel destino di Rifkin, che si chiama Mort ma non muore: perde la moglie, non avrà l’amante, va verso l’imponderabile eppure non è alla rovina, anzi ha raccontato la sua storia e si è “liberato”, non ha altro da dire, può lanciare uno sguardo al futuro. D’altronde la vita è senza significato, ma non vuota: si può riempire con cinquanta film, per esempio, oppure con un tramonto a San Sebastian di Vittorio Storaro, frammenti di cinema grande in un film più piccolo. Come Woody Allen è un piccolo uomo anziano davanti al destino, che però non si arrende: la sua modestia è il riconoscimento di sé al tempo della sopravvalutazione, l'auto-limitazione nell'era del volo pindarico. Ma pur sempre dentro un festival, ovvero dentro le sue battute e visioni, quindi dentro il cinema. Rifkin’s Festival è un film “modesto” che sa di esserlo e reca una dote inestimabile: si presenta alla morte col sorriso. E alla fine la rimanda. Allen scrive in immagine i versi di Georges Brassens, che chiedeva di essere sepolto sulla spiaggia di Sète: «Mi insegue con zelo imbecille la Morte / Perché non mi ha mai perdonato / Di averle piantato dei fiori nei buchi del naso».

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Woody Allen Wallace Shawn Gina Gershon Louis Garrel Elena Anaya 92 minuti
Spagna
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Minari

di Veronica Vituzzi
Minari - recensione film

All’inizio di Minari Jacob Yi spiega al figlio il senso del proprio lavoro: si occupa del riconoscimento rapido del sesso dei pulcini allo scopo di dividere le femmine dai maschi in quanto questi ultimi, non producendo uova, sono considerati “inutili”. In virtù di questo ovvio dato di fatto sono pertanto destinati ad una morte rapida e impietosa, con tanto di ciminiera eruttante il fumo dei loro corpi carbonizzati. Dobbiamo cercare di essere utili conclude il padre, ignaro di aver appena elaborato una metafora molto efficace della politica economica neoliberista adottata dal presidente USA Reagan negli anni Ottanta. Il sogno americano, che prometteva la realizzazione dell’individuo tramite l’impegno profuso dallo stesso singolo cittadino, veniva calato entro un contesto sociale contradditorio: pur centrato sul diritto umano alla felicità era permeato da una sotterranea devozione al profitto senza scrupoli a discapito dei membri della società meno produttivi ed efficienti, benché aventi egualmente diritto sulla carta a un’esistenza dignitosa.

Su questa rete di contraddizioni in dialogo fra loro si fonda il film di Lee Isaac Chung, sviluppando l’idea di patria in una serie di immagini e similitudini che si respingono e si attraggono. Una famiglia coreana emigrata negli Stati Uniti si trasferisce dalla California all’Arkansas nel tentativo di inseguire un miraggio di indipendenza economica. Jacob vuole mettersi in proprio piantando e vendendo ai suoi conterranei esuli i prodotti tipici del loro paese d’origine. La moglie Monica si oppone, rimpiange la città e teme per la salute del suo figlio minore affetto da problemi cardiaci e trapiantato in un paese molto distante dalle strutture ospedaliere necessarie in caso di emergenza. Dopo l’ennesimo litigio si decide di ricorrere alla madre di Monica per avere un aiuto in più in casa, malgrado questa sia inizialmente rifiutata dai nipoti in quanto, come afferma il piccolo David, “puzza di Corea”. La patria originaria negata in favore del paese d’adozione dove si mangiano cereali e pasta, e le nonne fanno i biscotti; non come Soonja che fuma, guarda i combattimenti in tv e gioca a carte.
Questa nozione di patria è traducibile in un senso d’appartenenza e di familiarità che può emergere e attecchire anche in un terreno straniero e si materializza nell’immagine dei campi di ortaggi coreani coltivati da Jacob sul suolo americano, nonché dalla pianta del minari curata dalla nonna. La terra come una madre nutre e rafforza attraverso il cibo che produce, e da questo l’uomo trae anche la propria identità. In presenza di una situazione di duplice appartenenza a due paesi diversi avviene una sorta di contrattazione interiore che prevede l’accettazione o il rifiuto di determinate qualità di una cultura rispetto all’altra. Inizialmente David respinge Soonja e il cibo che ha portato in casa, per dispetto le fa anzi bere la propria urina, negandole ogni possibilità di relazione. A partire da questa prima fase l’evoluzione del rapporto fra nonna e nipote si articola come uno scambio di energie ove la vecchia in seguito ad un infarto vede il proprio cuore indebolirsi rendendole arduo ogni movimento mentre quello del bambino migliora concedendogli finalmente la facoltà di correre. 

Un corpo che trasferisce la propria forza a un altro corpo, la terra straniera che offre quel cibo familiare che è anche una chance per il successo personale: è un movimento narrativo che per tutto il film avvicina e allontana le due coppie protagoniste (Monica & Jacob, David & Soonja) nell’equilibrio precario di un legame perennemente ridiscusso. Come le piante coltivate da David, cresciute fra mille ostacoli, così l’identità della famiglia Yi si forma a tentoni, assorbendo suggestioni mischiate di sapori e linguaggi differenti.

Opera talmente gentile da non poter non risultare apprezzabile, Minari pone troppa fiducia nella propria poeticità fatta di piccoli eventi garbati rimanendo intrappolato in una visione che commuove senza rischiare. Non sono in discussione le qualità peculiari del film di Lee Isaac Chung, dalla recitazione (Yoon Yeo-jeong ha vinto un Oscar come miglior attrice non protagonista per il ruolo di Soonja) allo sviluppo della storia, ma la sensazione di trovarsi di fronte a un racconto cesellato secondo un consapevole modello delle figure narrative di successo (la nonna eccentrica, il nipote malato di cuore) impedisce un totale abbandono alle emozioni che suggerisce. Ciò nonostante Minari non manca il colpo e si afferma come film che attrae nel suo svolgersi, anche se al termine le immagini che lascia nel ricordo rivelano radici meno potenti di ciò che facevano presumere.

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Lee Isaac Chung Steven Yeun Ye-ri Han Yuh Jung Youn Alan S. Kim Noel Cho 115 minuti
USA 2020
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Il favoloso mondo di Amèlie Poulain

di Carmen Albergo
Il favoloso mondo di Amelie Poulain - recensione film Jeunet

 “...Favola moderna, costruito su elementi non certo nuovi ... ma raccontato con una leggerezza e una grazia contagiose, un film che ha saputo intercettare i bisogni (più che le aspettative) del pubblico...”, così chiosato dal Dizionario Mereghetti,  Il favoloso mondo di Amèlie Poulain  di J.P. Jeunet,  torna sul grande schermo vent'anni dopo la prima francese, il 25 Aprile 2001 (in Italia, Gennaio 2002) subito consacrato cult per l’enorme successo di pubblico e botteghino. E se i bisogni dello spettatore cinematografico erano plausibilmente quelli che ancora oggi sono e saranno, ovvero la catarsi, che nella mitopoiesi si sprigiona dalla parabola archetipica del viaggio interiore dell’eroe/eroina, proprio attraverso la capacità tutta umana di intessere nella realtà la fantasia creatrice, senza dubbio molto più concrete e lungimiranti tornano le parole espresse da Fabio Ferzetti sul Il Messaggero del 25 Gennaio 2002: “..   Jeunet questa Parigi la riprende dal vero, come ai tempi della Nouvelle Vague, ma poi corregge tutto al computer, ripulendo i muri dai graffiti e le strade dalle auto in divieto di sosta. Qualcuno lo troverà sacrilego. Ma è il soggetto stesso di 'Amelie'. L'amore ai tempi del computer. L'amore che non si trova ma si inventa, si assembla, si costruisce. Infondo, basta solo un po' di taglia e incolla".

Parole quanto mai profetiche se pensiamo ad oggi, all’amore ai tempi della compulsività dei social, delle fake e deepfake, del revenge porn. Non si osa immaginare le scorciatoie virtuali, le astrazioni e gli escamotage architettati dalla mente ipertrofica di Amèlie Poulain con uno smartphone alla mano e dietro Facebook, Instagram e Tik Tok.Il passo sarebbe stato davvero breve, considerato che già lo schermo televisivo costituiva per Amèlie lo specchio delle brame e delle rivalse, che costellano la trama (colpevolizzata dal vicino di aver causato un incidente stradale, Amèlie-bambina viene assalita da un senso di colpa cosmico, mentre guarda in TV una serie di catastrofi mondiali, della cui falsità si vendicherà contro il vicino stesso; smascherata dall’anziano Dufayel di aver trascorso l’infanzia in totale solitudine, Amèlie-adulta vaneggia un reportage televisivo sulla sua vita da martire consacrata al prossimo, iniziando dal padre; accusata ancora di essere una codarda, Amèlie riflette sotto forma di cinegiornale sovietico sulla ingerenza intollerabile di questo vecchio-mentore che, non a caso attraverso una videoregistrazione clandestina, la incalzerà a scontrarsi con la vita reale).  

In questo Maggio 2021 di stentate riaperture dei luoghi di spettacolo, ancora sottoposte a ferree misure di prevenzione Covid-19, questo ritorno all’irriducibile magia della sala, pur nella società dei piccoli schermi e streaming per necessità virtù, attraverso una icona della “ favola” sur-reale, per quanto calata in riferimenti geo-temporali precisi, si investe di un immenso valore simbolico, una sorta di  “e quindi uscimmo a riveder le stelle”... a sognare in grande. Per questo non è semplice eludere la tentazione di farne una celebrazione incondizionata, trattandosi di un’opera-personaggia che ha segnato indiscutibilmente l’immaginario collettivo (che la si ami o la si odi, non è possibile liberarsene né ignorarla). Tanto più inutile perché, se su un testo filmico è sempre possibile col senno di poi operare un’analisi lucida o una operazione di riattualizzazione, non è certo possibile spiegare il persistere dell’alchimia tra l‘opera ed ogni suo fruitore-amante nell’estrema soggettività e irrazionalità di un simile meccanismo emozionale e selettivo. L’innamoramento non si spiega.

Ad Amèlie Poulain, nel corso degli anni sono state dedicate tesi di laurea tanto di studi cinematografici, quanto di psicologia. Amèlie Poulain è per stessa ammissione di Jeunet, l’antropomorfizzazione  di tutto il suo immaginario creativo, così come secondo alcune interpretazioni del film, tutti i comprimari di Amèlie non sarebbero altro che le personificazioni delle sue ombre interiori da affrontare e riconciliare (la perdita della madre, l’infantilismo, la presunta a-sessualità ecc...) per potersi finalmente dare Una nel gioco di Alter Ego che è l’amore di coppia. Possiamo dire lo stesso di altre "personagge" cinematografiche, altrettanto epocali per la storia del cinema e icone generazionali contraddittorie, ma intramontabili ( tipo Rossella O’Hara, Holly Golightly) da cui Amèlie senz’altro discende, quanto alla presunzione d’essere demiurga del caso e con cui condivide la montagna di fandonie, sotto cui giace un'apparente incolmabile vuoto relazionale, nonché il conclusivo pianto liberatorio? Ma questi sono altri anniversari.

Lungo preambolo obbligato a parte, dunque, ecco l’occasione di recuperare e puntualizzare alcune delle coordinate fondamentali che dopo vent'anni ancora sorreggono la validità narrativa e linguistica del film più noto di Jean-Pierre Jeunet. Nel Marzo 2002, sul n. 412 della rivista Cineforum, Matteo Bittanti argomentava in modo a dir poco esaustivo come quest'ultimo universo extra-diegetico messo appunto da Jeunet, rappresentasse in modo esemplare lo stato del processo di “rimediazione dei media”, che a quel tempo andava inaugurando il cosidetto “digitale magico”, facendo ponte con un altro kolossal immaginifico, Moulin rouge di Baz Luhrmann dello stesso 2001. Con buona probabilità, proprio esposizioni d’approfondimento di tale portata hanno contribuito a  tracciare anche il solco pedagogico in cui Il favoloso mondo di Amèlie è stato inserito sin dalle scuole superiori di secondo grado. A solo titolo d’esempio e restando in Italia, si pensi al lavoro didattico del Liceo Artistico Toschi di Parma tradotto nel 2012 in un prodotto editoriale (libro + due DVD) Le nuove mappe del cinema. l favoloso mondo di Amélie e i media vecchi e nuovi, dove la scansione episodica della trama accompagna gli studenti nella contaminazione multidisciplinare dei mezzi d’espressione figurativa, audiovisiva e virtuale. Volendo dislocare il discorso e arrivare sino ad oggi, non si può evitare di citare uno dei più noti manuali di studio in uso tra  ristampe e sito web, "Corso di linguaggio  e audiovisivo multimediale” (M. Corsi – Hoepli Editore) che tra gli esercizi di verifica di abilità e competenze del capitolo sul montaggio, propone la seguente traccia: “...descrivi quel che ti piace e quel che non ti piace, con lo stile in cui Il favoloso mondo di Amèlie descrive i genitori. Dunque tono ironico, montaggio vivace. Ad ogni affermazione dovrebbe corrispondere una inquadratura. Registra la voce fuori campo con un testo in terza persona”. Chiusa la digressione pedagogica, ciò che più risalta alla mente è che oggi nel 2021, non occorre affatto essere uno studente di indirizzo cinematografico, per rincrociare, ancora, anche casualmente questo esercizio stilistico coniato da Jeunet, ma basta beccare in TV l’ultima campagna pubblicitaria del Mulino Bianco, firmata da Gabriele Mainetti, che in una sorta di scatola cinese di citazioni cinefile, sulle note della celebre My favourite things,  ricalca la formula della galleria di persone comuni, di cui si elenca in terza persona il "piace/non piace" (annoverando, senza filtro, i piccoli piaceri di dare una forma alle nuvole, di affondare la mano in un sacco di legumi e via dicendo, pescando dal mondo-Poulain...).  

Il favoloso mondo di Amèlie Poulain e le sue celebri note, dunque, il successo planetario di Yann Tiersen.  Anche l’omonima colonna musicale del film (stra-abusata soprattutto come accompagnamento di servizi televisivi dai disparati contenuti di genere info-tainment) è entrata solo di recente nell’icastica rielaborazione degli spot. Lo spot Citroen C3 Aircross, infatti, recupera la composizione Valse d’Amèlie e pur mettendo in scena il contrasto tra la vita quotidiana e la forza dei sogni, ribalta il plot narrativo originale del legame anaffettivo tra padre e figlia, regalando immediatamente allo spettatore il sollievo di quell’abbraccio tanto agognato e temuto dall’ Amèlie-bambina. Va detto dunque, che se l’impatto nell’immaginario collettivo può affievolirsi nel dato generazionale (qualcuno della cosiddetta Generazione Z ha mai fatto l’ispezione delle mattonelle scomposte di una vecchia casa in affitto, nell’ipotesi di rinvenirvi il tesoro nascosto di una infanzia dimenticata?)  si deve ancora dar atto che l’eredità estetica e stilistica del film vada ben oltre l’essere un caposaldo di citazionismo meta-cinematografico e post moderno, e perpetui il merito di aver coniato e trasmesso topoi narrativi ancora tutti da giocare nella produzione audiovisiva contemporanea.

 

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Jean Pierre Junet Audrey Tautou Mathieu Kassovitz Jamel Debbouze Dominique Pinon 122 minuti
Francia, Germania, 2001
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Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Ventesimo secolo

di Alessio Baronci
Ventesimo secolo - recensione film Hakws

Rileggere oggi un film come Ventesimo secolo può essere l’occasione per porre il seminale film del 1934 di Howard Hawks in una prospettiva tale da amplificare la sua portata simbolica, tematica e linguistica. Non ci si può infatti limitare a vedere in esso solo il prototipo di quella che sarà la screwball comedy, né si può considerare il, pur centratissimo, discorso parodico sul teatro popolare che compie la pellicola come il suo unico nucleo tematico. Da un certo punto di vista, Ventesimo secolo, è anche un film dal passo ambiziosamente teorico, che studia il dialogo tra cinema e teatro a partire da un’inconsapevole teoria dei media che interroga i maggiori statuti comunicativi del suo tempo. È evidente quanto il trauma della crisi del 1929 avesse messo in scacco il modo in cui l’arte aveva processato fino a quel momento la realtà circostante. La crescente, drammatica, complessità della società non poteva più essere contenuta sul palco di uno spettacolo di Broadway, e il cinema, medium giovane caratterizzato da straordinarie potenzialità comunicative, sembrava lo strumento più adatto per leggere il reale in tutte le sue sfumature. Ventesimo secolo, in filigrana alla storia dell’impresario Oscar Jaffe e dei suoi tentativi di ingaggiare l’ex moglie, affermata star del cinema, per tornare al successo, sviluppa dunque un lucido confronto di due sistemi spettacolari colti in divenire.

Così le immagini di Hawks catturano le crepe nel disegno generale del teatro di Broadway, prefigurandone la necessità di un restauro semantico, e si confrontano con il cinema negli attimi in cui esso acquisisce una consapevolezza del proprio potenziale; un clash talmente urgente, questo, che finisce per esondare nel piano del profilmico: non è in effetti casuale che il ruolo di Jaffe sia affidato al divo decaduto del teatro John Barrymore e che Lily Garland sia interpretata da Carol Lombard, forse l’attrice del futuro per il modo in cui assocerà il suo nome proprio alle screwball comedy.
Ma la dimensione del confronto è soprattutto linguistica. Da questo punto di vista, non è difficile ritrovare nella velocità, nell’aggressività giocosa della screwball, elementi sintattici vicini alla violenza visiva e al sensazionalismo del cinema delle origini, che la regia ricostruisce e riordina per riflettere sulla stessa sintassi cinematografica. Perché con Ventesimo secolo Hawks porta avanti la sua ricerca sullo specifico cinematografico, un insieme di tratti che decretano l’unicità e la superiorità del cinema rispetto al teatro e che in particolare, per il regista, fanno probabilmente capo al dinamismo che caratterizza i segni su cui si struttura il film e al loro movimento continuo, concreto e simbolico, sulla scena.

Lo scontro tra linguaggi viene posto al centro di una movimentazione già nelle prime sequenze del film. La pellicola inizia infatti in un’atmosfera da melò, confermando la cornice teatrale della rappresentazione ma al contempo minandone le fondamenta attraverso la velocità dei dialoghi, una struttura sovversiva rispetto alla chiarezza di lettura e comprensione del teatro tradizionale. Lentamente, il sistema si apre su sempre più evidenti voragini di non senso, indicazioni evidenti della necessità di un ripensamento delle sue coordinate essenziali; lo stesso personaggio di John Barrymore, se da un lato rafforza la natura istrionica dell’attore, cede più volte alla parodia, e non è casuale che proprio a Oscar Jaffe sia demandata la simbolica distruzione del teatro che chiude il primo atto.

hawks ventesimo secolo rece

In questo senso il treno preso da Jaffe per sfuggire ai suoi creditori (chiamato appunto Ventesimo secolo) è una perfetta eterotopia foucultiana, uno spazio in continuo movimento, attraverso cui Hawks può studiare e spingere all’eccesso il dinamismo dello specifico cinematografico. Il racconto assume dunque un passo carnevalesco, costruendosi attorno a uno stato d’eccezione in cui le convenzioni sceniche si ribaltano, portando tutti gli elementi in gioco a esorbitare dal quadro.
Sul treno il nucleo narrativo si sviluppa fino ad attraversare, come una scheggia impazzita, tutte le sfumature del teatro popolare, dal melò alla farsa, organizzando una narrazione che è al contempo trionfo del travestitismo e occasione perfetta per portare gli attori a esondare dai loro ruoli, a modificare la loro voce, a lanciarsi in coraggiosi scarti tonali in un continuo overacting. Al contempo, l’azione a bordo moltiplica esponenzialmente le quinte teatrali, e il linguaggio filmico opta, tra primissimi piani e scavalcamenti di campo, per soluzioni possibili forse solo grazie agli strumenti legati alla dimensione cinematografica.

Lo stesso “a parte” si frammenta e si trasforma in un continuo gioco di riferimenti con lo spettatore, grazie a personaggi che citano altri film, altre opere, coscienti di trovarsi in un flusso di segni in costante movimento. Del teatro popolare, sul Ventesimo secolo, rimangono solo i detriti, come quel «I’m going into action» pronunciato da Oscar prima di irrompere nello scompartimento della sua ex, o l’iper-tradizionalista Passion Play che il protagonista è convinto possa essere l’opera che lo rilancerà nell’empireo dello show business.

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Con il tempo i personaggi si ritrovano in un mondo cambiato, un contesto che li porta ad ammettere a loro stessi che non sono altro che litographs, che il teatro non ha insegnato loro in alcun modo a leggere la realtà. Colpisce, a questo proposito, quanto il film si concluda con la proposta di un progetto teorico, una sorta di teatro cinetico, sintesi perfetta tra due linguaggi agli antipodi che si coagulano nel tentativo di aggiornare un intero sistema di segni. Non a caso, il racconto della Passion Play che Lily fa a Oscar è amplificato dalle immagini mentali create e raccontate dalla donna, in una performance paradossalmente tutta fuori-scena e proprio per questo profondamente antiscenica se letta dal punto di vista teatrale.

Nelle ultime sequenze, come in una Ringkomposition, tutto sembra tornare apparentemente come prima e, nel mondo reale, Hawks migrerà verso altri generi, verso altro cinema, prima di tornare alla screwball, eppure Ventesimo secolo è rimasto come una sorta di pietra miliare non solo di un intero genere ma anche di uno dei primi dialoghi concreti tra autorialità e approccio concettuale al medium, un progetto attraverso cui Hawks ha provato a utilizzare il suo stile per interrogare per la prima volta il cinema su limiti e potenzialità della rappresentazione.

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Howard Hakws John Barrymore Carole Lombard Roscoe Karns Walter Connolly 91 minuti
USA 1934
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EROTIC THRILLS - Sex Crimes, giochi pericolosi

di Matteo Berardini
sex crimes - recensione film

[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

Secondo Renato Venturelli il noir è stato «fin dall’inizio un cavallo di Troia del modernismo nel cuore dello spettacolo hollywoodiano»; un genere dalla natura ibrida quindi, dentro e fuori le logiche dello studio system, refrattario a una storicizzazione oggettiva. La natura sfuggente di questo immaginario si riflette in un lungo dibattito critico riguardo i temi, i tempi, le modalità canoniche di stile e narrazione, e tra le tante letture resta celebre quella di Paul Schrader. Nel 1972 infatti il regista e sceneggiatore americano pubblica sul magazine Film Comment le sue Notes on film Noir, uno studio breve, estremamente denso e documentato, in cui si sottolineano i legami psichici e culturali del noir con l’esperienza della seconda guerra mondiale, la rivoluzione freudiana e l’espressionismo tedesco, e si pongono a chiusa del fenomeno due film, Un bacio e una pistola e L’infernale Quinlan, che sul finire degli anni Cinquanta deflagrano il genere e le sue coordinate. Per certi versi lo stesso accade con Sex Crimes – Giochi pericolosi di John McNaughton, che nel 1998 chiude estremizzandolo un certo modo di intendere il neo-noir, quel revival della femme fatale che accompagna dagli inizi di Brivido caldo l’affermazione eighties del genere e che raggiunge il punto di saturazione con questo film, dopo il quale resteranno soltanto schegge di un immaginario politicamente eversivo, sessualmente scomodo, dentro un orizzonte neo-puritano di «immagini prevalentemente de-eroticizzate, in debito d’ossigeno e improntate ormai a un educato perfezionismo tecnologico» (Bocchi 2019, p. 28).

A reggere il gioco c’è McNaughton, che è regista particolare e mezzo sprecato del cinema americano; un dissidente che esplode presto con uno dei film più angoscianti e malsani degli anni Ottanta, Henry pioggia di sangue, e che da lì prosegue tra piccolo e grande schermo, commedia e poliziesco, azzeccando davvero solo Crocevia dell’inferno. Fino a che non gli arriva tra le mani lo script di Stephen Peters, un neo-noir forzatissimo, improbabile e al confine col trash (lo ammette lo stesso Kevin Bacon, protagonista e produttore), che McNaughton abbraccia consapevolmente entrando nel terreno di Verhoeven e De Palma, dove il reale si appiattisce sui riflessi sagomati dell’immagine e dietro ogni inquadratura ce n’è sempre un’altra segreta, nella quale una verità più profonda scompagina gli equilibri di potere e ribalta le aspettative spettatoriali. Basta stare al gioco, catturati nella rete bollente di un erotismo fuori dal comune per il filone mainstream, che inanella sequenze threesome e duetti saffici tra studentesse fatali e professori dal fascino suadente (senza risparmiarsi un nudo ambiguo e full frontal di Bacon stesso). Del resto il cast raccoglie volti e corpi iconici della Hollywood anni Novanta, tra Matt Dillon, Denise Richards e Neve Campbell, la Sidney Prescott di Scream, che pur tutelando la sua immagine con un contratto che esclude ogni nudo incarna l’ultima vera femme fatale del decennio, finta vittima predestinata e invece regista dell’intrigo e carnefice a sua volta, spinta da un desiderio di vendetta personale e rivalsa classista.

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Fedele alla riscrittura neo-noir degli spazi, geografici e ambientali, Sex Crimes è un film che rifugge l’oscurità metropolitana per aprirsi alle paludi en plein air delle Everglades floridiane, dove famiglie white trash attorniate da alligatori orbitano dalla distanza attorno agli yatch e alle magioni sudiste della borghesissima Blue Bay. A completare il quadro troviamo il sax e la voce languida dei Morphine, per un perfetto softcore teen ad ambientazione liceale, ma tutti questi elementi, portati all’eccesso, esibiti e urlati fino al limite della parodia, innescano nello spettatore un meccanismo libidico che il film manipola e rovescia in inganno. Dove lo sguardo maschile, che apparentemente controlla e dirige il gioco, è la vera vittima, e il corpo femminile, che si concede a personaggi e spettatori titillando fantasie assai poco segrete, ribalta gli equilibri di potere per usare quello stesso desiderio contro di noi. Perché per la femme fatale farsi oggetto scopico dello sguardo altrui significa in realtà detenere il controllo segreto della situazione. Il tutto dal dentro di un gioco al rialzo che sfrutta ogni consapevolezza precedente e aspettativa spettatoriale per spingere al massimo quei corpi e quegli schemi narrativi, saturando ogni possibilità ulteriore di proseguire su quella strada che non sia sforare apertamente nell’ironia decostruttiva.

Sex Crimes è il film sul crinale, quello che porta a compimento una stagione erotica di femme fatale e seduzioni pericolose fermandosi un millimetro prima del salto dello squalo, affinché tutto regga, magnificamente, e il film diventi una grande casa degli specchi che gioca con le nostre aspettative impiegando un immaginario rarefatto, puramente virtuale, posticcio, eppur capace ancora di dire qualcosa di vero sul mondo e sul desiderio. Siamo dentro l’ultima vampata dell’incendio prima che termini l’ossigeno e si spengano le fiamme, il film che fa dell’eccesso la sua chiave di volta e del rilancio costante la sua cifra stilistica. Dopo, il deserto. Dei corpi sudati, dei suoni umidi, delle voci ovattate.

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John McNaughton Matt Dillon Neve Campbell Kevin Bacon Denise Richards Bill Murray 108 minuti
USA 1998
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EROTIC THRILLS - Jade

di Giacomo Calzoni
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[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

Già nel suo formidabile 52 gioca o muori (1986) John Frankenheimer indicava una via, una risposta all’inesorabile discesa delle trame neo-noir dentro i territori del torbido: lo faceva dando vita a uno stile mai così elegante e ricercato, fatto di carrellate, dolly e steadycam, per rimarcare l’abisso (visivo, quindi etico) tra le immagini, tra il film e i videotape pornografici (quando non addirittura snuff) che costituivano l’arma del ricatto nei confronti del protagonista Roy Scheider. Neanche dieci anni più tardi Friedkin sembra ripartire proprio da lì sin dalla sequenza dei titoli di testa, con la macchina da presa che indaga sinuosamente le stanze e i corridoi, i feticci e le fotografie, mentre le urla strazianti della vittima ci raccontano un fuori campo di torture sadiche e uccisioni truculente, fino a quando in cima alle scale non compare lei: la maschera (sulle note di The Mystic’s Dream di Loreena McKennitt, dall’album The Mask and Mirror, appunto), vera protagonista del film, più degli sbirri, dell’indagine e della sensuale Linda Fiorentino, quest’ultima già eletta a femme fatale dell’immaginario neo-noir del decennio grazie al precedente L’ultima seduzione. Le apparenze ingannano…

La maschera e il doppio. Tutto Jade è attraversato da una costante tensione nervosa tra la verità e la menzogna, realtà e finzione, il campo e il fuori campo, l’immagine videoregistrata e quella filmata. La violenza raggiunge vette di sadismo ai limiti del sostenibile, ma di essa vediamo soltanto le conseguenze che sfociano nel gore (i resti del cadavere del miliardario ucciso all’inizio, la testa spappolata del testimone oculare), mai il gesto in sé. Così pure del sesso estremo, il vero motore narrativo del plot, rimangono soltanto alcuni frame estrapolati dai filmati delle videocamere nascoste, mentre l’unica sequenza sul punto di sfociare nell’hard finisce di fatto per soffocare qualsiasi facile istinto voyeuristico.

Come per Frankenheimer, anche per Friedkin il cinema è la risposta. Lo strumento privilegiato per scalfire la superficie delle cose, come l'inquadratura a plongée sulla lacrima che riga il viso di Linda Fiorentino durante il triste (e breve) amplesso con il marito Chazz Palmintieri. È la reazione del regista all’anonimato televisivo degli anni Novanta, dal quale non a caso preleva di peso il protagonista David Caruso (fino a quel momento star della serie NYPD – New York Police Department) per rincorrere e aggirare le aspettative dello spettatore, costantemente chiamato a interrogarsi su cosa stia guardando: soltanto l’autore di Vivere e morire a Los Angeles e Il braccio violento della legge può infatti permettersi un cortocircuito visivo finissimo dirigendo l’ennesimo, straordinario car chase all’altezza del suo nome; con la differenza, però, che stavolta l’inseguimento finisce strozzato e depotenziato nella calca impenetrabile del quartiere cinese. Perché nulla è come sembra.

E in un film dove tutti mentono e hanno una vita segreta, e in cui persino la dark lady alla fine tanto tale non è, si finisce quasi per disinteressarsi agli sviluppi di una trama gialla che sfocia in una soluzione doppia, in barba a qualsiasi principio di verosimiglianza. Quello che interessa a Friedkin (e a noi), come si suol dire, è ben altro. È anche la vivisezione di un mondo alto-borghese, certo, quello agiato e dichiaratamente repubblicano, almeno a giudicare dalle frequentazioni dei personaggi e dalle fotografie che essi espongono in casa (il che è ancora più sorprendente, considerato il regista), lo stesso che fa dell’apparenza perbenista il proprio credo salvo poi abbandonarsi alle nefandezze più inconfessabili. In fin dei conti si parla sempre di sesso, soldi e politica: facile ritrovare in tutto questo molte delle ossessioni che da sempre animano le sceneggiature di Joe Eszterhas, nonostante le numerose modifiche apportate da Friedkin gli abbiano fatto disconoscere il risultato finale (al punto da chiedere di rimuovere il proprio nome dai titoli, inutilmente); ma il cuore di Jade è palesemente e soprattutto nello scarto tra la scrittura e l’immagine, tra quello che viene raccontato e ciò che viene effettivamente messo in scena, nel contrasto tra i desideri morbosi dei personaggi e la fredda nudità senza veli di un cadavere steso sul tavolo dell’obitorio, come sarà poi anche in Eyes Wide Shut (con tutte le differenze del caso, naturalmente). Nell'ideogramma cinese ("giada") inciso su una piccola scatola contenente peli pubici che sta a indicare, appunto, un corpo e una persona; in quella maschera che all’inizio ci guarda priva di espressione, e in noi che guardiamo attraverso essa.

La prossima volta che facciamo l’amore presentami a Jade...

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William Friedkin David Caruso Linda Fiorentino Chazz Palmintieri Richard Crenna Michael Biehn Angie Everhart 100 minuti
USA 1995
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The Falcon And The Winter Soldier

di Alessio Baronci
the-falcon-and-the-winter-soldier- recensione serie marvel disney

Seconda serie supereroistica offerta da Disney+, The Falcon and The Winter Soldier conferma quanto Disney e Marvel Studios concepiscano la serialità come laboratorio di riflessione sui segni essenziali del franchise post Endgame, ma è soprattutto il maggior indice di quanto l’MCU abbia un rapporto del tutto particolare con il concetto di pop, che influenza il suo dialogo con l’attualità e il suo target.

La serie di Malcolm Spellman è, in questo senso, un progetto imprescindibile dal tempo presente che intende raccontare, a tal punto che, in origine, sarebbe dovuta uscire al posto di Wandavision, nell’America di George Floyd e della fine della presidenza Trump. A contatto con una realtà priva di guida, il progetto di Spellman non può che porre al suo centro un eroe senza poteri e osservare il racconto ad altezza uomo, concentrandosi sullo spazio fuori scena del cinecomic e sulle impreviste, catastrofiche conseguenze dell’atto salvifico degli Avengers, similmente a quanto avvenuto con Civil War. Riletto dal punto di vista di The Falcon And The Winter Soldier, dunque, lo schiocco di Thanos, oltre a rompere un intero immaginario, ne ha svelati la grana concreta e i lati oscuri, puntando l’attenzione su tutti coloro che sono rimasti indietro e che hanno faticato a trovare posto nella realtà ricostruita dopo Endgame.

E dunque, nella realtà che non sa di essere (ancora) a pezzi della serie, tra fanatici in grado di ricreare il siero del supersoldato, Avengers costretti a fare i conti con l’eredità di Captain America e soldati incaricati dal governo di imbracciarne lo scudo, l’eroe prima di essere considerato una minaccia è soprattutto un privilegiato, qualcuno che non comprende, forse, i danni che ha causato nel tentativo di salvare il mondo e che possiede qualcosa che altri credono di meritare di più. La serie organizza dunque una narrazione lucidamente politicizzata, che attraversa gran parte dei lati oscuri dell’America recente, raccontandone il populismo dilagante, le insicurezze, l’estremismo ideologico, il razzismo latente, spingendosi fino a riflettere criticamente sul terrorismo e a rileggere il supereroe da una prospettiva suprematista.
L
’arco di trasformazione che porta il giovane Sam Falcon Wilson a diventare l’unico erede di Steve Rogers nasconde in piena vista un evidente desiderio di ricostruzione, che parte dalla dimensione socioculturale americana ma che finisce per coinvolgere anche l’immaginario di riferimento. La Marvel infatti pone al centro della serie un racconto che ha smarrito le sue coordinate essenziali finendo per perdersi in un flusso invaso da schegge che rientrano in gioco in maniera distorta, anche solo citando altri film del franchise. Da qui, lentamente, la serie ricostruisce un’architettura simbolica che possa guidare i singoli input a partire dalla struttura tipica degli action americani anni ’80 e ’90, i cui elementi essenziali vengono via via riprocessati nel corso del racconto.

Si tratta, a ben vedere, di una scelta non casuale. In quel modo di intendere il cinema action c’è infatti il germe di un machismo che è stato (anche, ma non solo) alla base della narrativa della presidenza Trump, un’escrescenza traumatica che chiede di essere processata e rilanciata. Alla diegesi non rimane dunque che attraversare (cambiandoli di segno) certi elementi di quell’immaginario nel tentativo di ritrovare una via per ripartire. Ora è Falcon, icona black progressista, umile, giusta, ma soprattutto rappresentante di una mascolinità non aggressiva né prevaricante, esattamente agli antipodi del modello estremista rappresentato da John Walker, a essere al centro del racconto; è lui il protagonista dell’iconico training montage, residuo evidente di quel cinema, che sancisce la sua piena maturazione e che di fatto apre ad uno scontro finale dal sapore McTiernano.

cap

The Falcon And The Winter Soldier riannoda con lungimiranza la sua struttura simbolica ritrovandola nel costante dialogo tra passato e presente di un intero genere anche grazie all’esperienza maturata da Spellman nella writer’s room di John Wick (grande riformatore di quel tipo di action, tra l’altro) ma probabilmente non si rende conto che l’opera ricostruttiva si spinge troppo oltre e a tratti eccede in soluzioni narrative incoerenti. Pensiamo, ad esempio, all’arco di John Walker, che nell’ultimo atto rinsavisce improvvisamente e si allea con gli eroi contro i Flag Smashers in un finale che, nel riprendere forse il topos del villain convertito alla base di franchise muscolari come Fast And Furious, risulta troppo frettoloso. Proprio il superficiale epilogo di Falcon And The Winter Soldier è il perfetto sintomo di quanto il pop sia una dimensione ancora di difficile approccio, malgrado le apparenze, per la Marvel cinematografica. Straordinaria creatrice di mondi cinematografici, la Casa delle Idee non riesce tuttavia ancora a utilizzare le storie ambientate in quei mondi come vettori di riflessioni davvero d’impatto nel contesto socioculturale e da questo punto di vista l’ambiziosa e affascinante lettura politica dell’America contemporanea insita nella serie non fa certamente eccezione. È un po’ come se si temesse che la forma blockbuster non possa essere anche, a suo modo, militante, perché nel farlo si correrebbe il rischio di alienare gran parte del pubblico. Per questo, nel momento in cui si sposta a ragionare sul suo tessuto tematico, la serie sceglie una serie di argomentazioni a grana grossa, che annacquano ottimi spunti in una forma artefatta, preferendo rifugiarsi in metafore urlate o in monologhi a tratti didascalici, piuttosto che nel tessuto vivo del racconto, forse troppo insicura nel demandare l’intero spettro della riflessione ai corpi e ai gesti di John Walker e Isaiah Bradley, di per sé entità politiche raccontate con ammirevole cura.

The Falcon And The Winter Soldier è dunque una serie paradossale, straordinariamente coerente sul piano tematico ma al contempo strabordante, fuori fuoco e di gran lunga meno incisiva nella sua dimensione ideologica di quanto avrebbe potuto essere. La serie di Spellman ha il coraggio di ripensare da zero un intero immaginario, ma è anche la prova di quanto la Marvel possa parlare al presente forse solo mitigando le sue riflessioni a partire da una simbolica struttura-filtro. Ritorna dunque il paradosso del pur ottimo Black Panther, un blockbuster diventato simbolo della comunità afroamericana ma incapace, forse, di indirizzare a dovere i suoi numerosissimi spunti militanti in un discorso coeso proprio perché troppo chiusi nelle sue riflessioni teoriche sull’afrofuturismo.

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Kari Skogland Malcolm Spellman Anthony Mackie Sebastian Stan Wyatt Russell Daniel Brühl Emily VanCamp Miniserie da 6 episodi
USA 2021
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