Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Lo sport preferito dall'uomo

di Brunella De Cola
lo sport preferito dall'uomo - recensione film hawks

Uno sguardo è quanto basta, alle volte, a comprendere le cose, le persone, i sentimenti. Sono sufficienti pochi secondi sul primo piano di Rock Hudson in automobile nelle prime sequenze de Lo sport preferito dall’uomo (Man's Favorite Sport?) per avere la percezione dell’intero film di Howard Hawks. Uno sguardo perplesso, poi quasi terrorizzato, è quello di Roger quando si rende conto che una macchina gialla, guidata da una signorina, sembra inseguirlo per le tortuose strade di San Francisco, fino a braccarlo nel parcheggio di Abercrombie & Fitch, suo luogo di lavoro. Roger Willoughby è un solerte addetto alla vendita del reparto sportivo del negozio, il migliore impiegato nella sezione pesca. Ha persino scritto un manuale su come praticare pesca sportiva. Abigail Page (Paula Prentiss), la ragazza stalker della macchina gialla, invece, è nel comitato organizzativo della famosa gara di pesca sul lago Wakapoogee. Abby fa e disfa, parla in continuazione, è una combina guai professionista e caccia Roger in un bel pasticcio: con la sua amica “Easy” Mueller (Maria Perschy) fa in modo che il povero signor Willoughby si iscriva al torneo, contro la propria volontà. Lo zelante e affasciante commesso, infatti, si trova costretto dal suo capo a partecipare alla competizione, con la prospettiva di dover dimostrare agli altri partecipanti quanto è efficace l’attrezzatura del negozio stesso. C’è un solo problema: Roger è un bluff, non sa pescare. Sembra un uomo tutto di un pezzo, nella sua integrità, ma il suo manuale non è altro che una convincente antologia di racconti fatti da vari pescatori che ha conosciuto. Ma a tutto c’è una soluzione, perché Abby, che non ha mai scritto libri, sfoderando l’astuzia e la praticità che contraddistingue qualsiasi essere umano femminile pensante, sa pescare benissimo. Abby sa fare praticamente tutto, in realtà. Si offre (o costringe?) di insegnare a Roger lo sport della pesca in vista del torneo.

susanna cn

Ecco che Hawks, ancora una volta, contrappone e unisce con maestria l’uomo e la donna, nella loro diversità, restituendoci un’immagine affezionata del suo cinema: la donna è una calamità naturale, un carro armato che travolge l’uomo, totalmente privato della sua virilità, incapace di maneggiare i propri attrezzi. Ne Lo sport preferito dall’uomo inoltre il nostro Roger si trova a barcamenarsi non con una, ma con ben tre donne: non c’è scampo. Il suo aspetto fisico da macho crolla inesorabilmente, al pari del Cary Grant (completamente ridicolizzato in vesti femminili) di Susanna! o di Ero uno sposo di guerra. Emblematica è la scena in cui Roger è seduto a fissare mestamente un piccolo pesce morto che ha in mano mentre la pioggia bagna le camicette di Abby e Easy, svelando agli occhi dell’uomo, impotente, i contorni dei seni delle ragazze. Parimenti rappresentativa è la scena in cui Abby cerca di tagliare il duro gesso finto del braccio di Roger, come quasi a volerlo simbolicamente castrare, e il pover’uomo sviene, sfinito, sfiancato.

Hawks cita se stesso in tante esilaranti gag del film, soprattutto attraverso le relazioni tra corpi e oggetti: ceneriere che volano, tende che intrappolano, cerniere che si inceppano, canne da pesca che si flettono… l’uomo si trova a innescare energie repulsive verso gli stessi oggetti che lo attraggono. La sequenza dell’automobile, il balletto di Roger con Easy per nascondere il suo vestito rotto: tutte immagini che rimandano inevitabilmente al proprio cinema. Costante è l’elemento parodistico circense legato agli animali: non un ghepardo o una scimmia stavolta, ma addirittura un orso grizzly che finisce per guidare un motorino! Anche l’uso del colore coadiuva la narrazione della relazione uomo-donna: i rossi e i gialli, utilizzati in modalità alternata su Abby e Roger contribuiscono infatti a questo gioco di dominante/dominato.
«Prima che la incontrassi la mia vita era normalissima, pacifica, ero felice, non avevo guai… Ce l’ha come abitudine quella di rovinare la vita degli uomini?» apostrofa Willoughby alla nevrotica Miss Page, eppure alla fine finisce per innamorarsene, trovandola «sinistramente attraente». Hawks a questo punto ri-capovolge i ruoli, nel momento in cui Roger la smette di essere un impostore e confessa la sua incapacità nel pescare ad altri uomini, impavido va a riprendersi il proprio ruolo e finalmente si riappropria del proprio coraggio, anche nello scegliere quel disastro di Abby Page.

orso

I ritmi forsennati del film, anche se esilaranti, sembrano a tratti insostenibili. Nondimeno l’amore è insostenibile. È un sentimento così potente da surclassare qualsiasi razionalità, alle volte, e da trafiggerci nel profondo, senza scampo. Esso è reale quando si concretizza in una quotidianità, quando si fa colazione insieme, quando si resta accanto all’altro nei momenti di debolezza, le polmoniti e gli scleri. L’amore è quando si torna a casa e qualcuno ti fa trovare un piatto di pasta e lenticchie caldo, quando si balla insieme sulla più sciocca canzone, quando puoi consolare i tuoi supplizi dello spirito nel tenero abbraccio di chi ti accoglie. E sì, si fanno errori, si entra anche in conflitto, ci si ferisce e ci si chiede spesso quale senso abbia condividere la propria vita con una sola persona anche facendo grandi sforzi e discussioni… e soprattutto perché restare? Probabilmente c’è chi trova più appagante passare di mano in mano, di braccia in braccia, di corpo in corpo, di letto in letto, di casa in casa, alla ricerca costante di nuove sensazioni (d’altro canto, come apostrofa la canzone di apertura del film, “lo sport preferito dall’uomo sono le ragazze”). Eppure… anche non sapendo molto dell’amore, forse bisogna poter credere che quelle sciocche canzoni, i balli, gli abbracci, gli scleri e le discussioni abbiano un valore più profondo di qualsiasi altra euforia. Forse bisogna voler credere che l’amore è semplicemente questo: tenersi per mano e ridere insieme guardando un orso in motorino in un film di Howard Hawks. Ma amarsi richiede coraggio e l’amore non è uno sport per vigliacchi.

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Howard Hakws Rock Hudson Paula Prentiss Maria Perschy Edy Williams 120 minuti
1964 USA
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Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Acque del Sud

di Andreina Di Sanzo
acque del sud-recensione

Da un romanzo di Ernest Hemingway, adattato da William Faulkner; Howard Hawks dirige, con Humphrey Bogart, e Lauren Bacall per la prima volta sullo schermo: la chimica si accende. Presentare con questi nomi Acque del Sud (To Have and Have Not) fa pensare subito a un grande film, e sicuramente la verità non si discosta da questa definizione, ormai spesso abusata, ma che nella filmografia di un regista come Hawks non è mai sprecata. Il film precede Il grande sonno, labirintico noir che avrebbe consacrato la coppia Bogart/Bacall, e ne anticipa le occhiate maliziose di lei, la sfuggente seduzione che ha fatto innamorare il più famoso duro dal cuore tenero che la grande Hollywood ci ha regalato.

Nel 1940 l’Isola di Martinica è una colonia francese sotto il controllo dei funzionari di Vichy. Il cinico capitano Harry "Steve" Morgan (Humphrey Bogart) vive sull’isola accompagnando i turisti a pescare al largo, una vita tranquilla e disincantata, lontana dalle avventure marinaresche, ma che presto sarà stravolta da due incursioni inaspettate: aiutare i ribelli francesi braccati dagli incaricati di Vichy e resistere al fascino dell’americana Marie Browning (Lauren Bacall). 

Mélo, avventura, gangster movie e noir: siamo negli anni ‘40, l'età d’oro dei generi hollywoodiani, che in questo film si mescolano e si sovrappongono e la riconoscibilità del personaggio Bogart, tra i più grandi divi del decennio, torna con delle piccole rifiniture. Il detective si fa marinaio senza perdere il cinismo e la rudezza che lo hanno reso indimenticabile, ma qui il bad guy diventa più uno spirito nostalgico animato da una velata tristezza. Con molta probabilità il Bogart di questo film ha ispirato Hugo Pratt per il suo Corto Maltese, affascinante avventuriero dei mari disincantato e misterioso, proprio come il nostro capitano Morgan.

acque del sud rece hawks 1

Esotico e onirico, Acque del Sud è un film che in parte può essere accostato a Casablanca: il personaggio principale (in entrambi i casi interpretato da Bogart) si ritrova in un intrigo politico parallelamente accompagnato da un intrigo sentimentale. La morale deve però non lasciare troppo spazio all’irrazionalità dei sentimenti, d’altronde siamo ancora nella Hollywood degli uomini tutti d’un pezzo, che sacrificano la propria vita in nome di qualcosa di più alto. Ma qui si può evitare la rinuncia all’amore.

Forse non si tratta di uno dei capolavori del grande Hawks ma certamente la costruzione dei personaggi è tra le più brillanti: il carattere disilluso e nostalgico del marinaio ormai ritirato nell’isola caraibica, l’affascinante lolitismo di una grande diva alla sua prima importante apparizione, la malinconia bonaria dell’amico Eddie, in contrapposizione ai gangster “brutti e cattivi”, immersi tutti in un’atmosfera di onirico esotismo. Acque del sud per certi versi rimanda al più claustrofobico e asfissiante L’isola di corallo di John Huston, che rivede insieme Bogart e Bacall ma che si posiziona anche nel momento dell’avvicinarsi del declino della Grande Hollywood. Del resto, oltre l'intreccio prettamente politico, il film getta le basi di personaggi che non possono prescindere dai loro interpreti, attraverso un esotismo (seppur datato) che vede nel piccolo mondo isolano un rifugio dalle brutture e dalle immoralità del mondo continentale. Il romanzo di partenza verrà quindi portato sullo schermo più volte, da Curtiz nel 1950 con Golfo del Messico, e da Don Siegel nel '58 con Agguato nei Caraibi

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Howard Hakws Humphrey Bogart Lauren Bacall Hoagy Carmichael 100 minuti
USA 1944
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Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Gli uomini preferiscono le bionde

di Fabiana Proietti
Gli uomini preferiscono le bionde - recensione film

Il fatto che Gli uomini preferiscono le bionde (Gentlemen prefer blondes) sia considerato un film minore nella filmografia di Howard Hawks dovrebbe essere sufficiente per due considerazioni. La prima, ovviamente, è il peso di una carriera tanto prolifica quanto eterogenea nei generi affrontati, e sconcertante nei risultati raggiunti: da Susanna!, capolavoro screwball, a Scarface, Il grande sonno e Il fiume rosso, rispettivamente vette del gangster movie, del noir e del western, questo ingegnere finito un po’ per caso nel mondo del cinema cavalca l’industria hollywoodiana nei suoi anni d’Oro, per poi congedarsi nel momento dell’esplosione della nuova Hollywood. L’altra, è la modestia con cui lo stesso regista, riconosciuto in quanto autore soltanto dalla giovane critica francese, guardava al suo cinema: per Hawks, Gentlemen prefers blondes è giusto un divertissement, «il genere di film che ti fa dormire bene la notte, non ti dà nessuna preoccupazione; cinque o sei settimane sono sufficienti per girare i numeri musicali, i balletti e tutto il resto», come assicura proprio ai Cahiers du cinéma nella celebre intervista del ‘56.
Ma se, nel segno della trasparenza, ossia quello che per la politique des auteurs dei giovani turchi costituisce il tratto distintivo del cinema di Hawks, è innegabile che il film scivoli via leggero ed effervescente come una coppa di champagne, l’operazione è assai più complessa e stratificata di quanto la sua abbacinante cornice (e la percezione stessa dell’autore!) non dia a vedere.

Tratto dal romanzo omonimo di Anita Loos, pubblicato nel 1925 e già trasposto con successo sui palcoscenici di Broadway (che consegnano a Hawks i brani musicali attorno ai quali costruire la messa in scena), Gli uomini preferiscono le bionde vive del brillante contrappunto tra il suo stesso universo narrativo, figlio dei Roaring Twenties, e il sistema produttivo degli anni Cinquanta, ancora immerso nel Codice Hays e attratto dalle innovazioni tecnologiche bigger than life, per reggere il passo con la sempre più pressante minaccia del piccolo schermo.
L’immaginario di Anita Loos, che modella la sua Lorelei Lee da Little Rock, Indiana, sulle ballerine delle Ziegfeld Folies, capaci di rincretinire schiere di uomini d’affari e intellettuali, viene riletto da Hawks attraverso le decadi della storia del cinema americano: al prototipo della flapper e alla golddigger del romanzo si sovrappongono le svitate e trascinanti eroine della screwball comedy, le metatestuali performer del musical – finestra sul mondo dello spettacolo – e le conturbanti protagoniste dei western e dei noir anni ‘40, che già scalfivano con le loro inquietudini le certezze del cinema classico propriamente detto. I corpi di Marilyn Monroe e Jane Russell sono, in tal senso, niente affatto casuali e, lungi dall’epidermica contrapposizione suggerita dal titolo tra brune e bionde ossigenate, diventano armi al servizio di Hawks, attraverso cui ripercorrere l’evoluzione della donna nella società americana e i modelli e riflessi offerti dal cinema hollywoodiano.

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Ne consegue un sottile ribaltamento di sguardi e prospettive: al supposto “male gaze” che rende oggetto sessuale le protagoniste, interpreti di numeri musicali che sono di fatto dei sensuali andirivieni in abiti succinti, si sostituisce, in un fondamentale controcampo, la visione delle due vedette sul pubblico in sala. «You know, I think you're the only girl in the world who can stand on a stage with a spotlight in her eye and still see a diamond inside a man's pocket» (Sai, credo tu sia l’unica ragazza al mondo che stando sul palcoscenico con i riflettori negli occhi riesce a vedere un diamante nella tasca di un uomo!). Lo sguardo a raggi X di Lorelei Lee, innestato su quello sensuale, da sotto in su, tipico di Marilyn, è lo scarto fondamentale di Gentlemen prefers blondes: è un’occhiata fatale, che riduce gli uomini a cartoons - come accade al volto di Piggy (Charles Coburn) incorniciato da un diamante animato non appena dichiara di possederne miniere - o li trasfigura in bambini, nel caso di Mr. Henry Spofford III (and valet).

E nel frattempo cosa accade al corpo femminile? Hawks ne assicura l’inafferrabilità, ripesca travestimenti ed equivoci screwball che lo deformano - Marilyn incastrata nell’oblò - o lo sostituiscono, con Jane Russell che nella sequenza nel tribunale parigino si produce in un’imitazione della bionda svampita per una platea di maschi miopi, incapaci di vedere oltre il trucco e parrucco. Ma se anche la bruna interprete di Il mio corpo ti scalderà appare più mascolina e volitiva, è la bamboleggiante Marilyn ad attrarre su di sé i segni della modernità: diversamente da quanto le accade nel coevo e più rassicurante Come sposare un milionario, dove porterà un riccone all’altare ma per amore, la sua Lorelei Lee rimane l’enigma del film, capace di alternare infantili errori grammaticali a lucidi ragionamenti sull’equo valore del denaro e della bellezza nei rapporti uomo-donna («Don't you know that a man being rich is like a girl being pretty? You might not marry a girl just because she's pretty, but, my goodness, Doesn't it help?»). Quello di Lorelei-Marilyn rimane un mistero indecifrabile e la sua icona, che qui nasce definitivamente nella performance di Diamonds are a girl’ best friend, manifesto per le future material girls, si fa tanto più sfuggente quanto più è esposta alle luci della ribalta e all’esplosione di Technicolor e Cinemascope.

Su questa nave da crociera Hawks traghetta il cinema americano classico verso l’Europa, come accadrà di fatto alla sua filmografia, riletta come moderna e riconosciuta in tutta la sua grandezza proprio nel Vecchio Continente.

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Howard Hakws Marilyn Monroe Jane Russell Charles Coburn Elliott Reid 91 minuti
USA 1953
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Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Ero uno sposo di guerra

di Leonardo Gregorio
ero uno sposo di guerra - recensione film

La produzione non fu agevole: riprese interrotte in più occasioni a causa di malanni che piombarono su cast e regista. Cary Grant poté così trovare anche il tempo di sposare Betsy Drake. «È una commediola che si propone soltanto di far ridere» sentenziarono all’epoca le “Segnalazioni” del Centro cattolico cinematografico. Pochi anni dopo, era il dicembre del ’53, sui Cahiers du cinéma  Éric Rohmer, in maniera molto semplice, scriveva: «Penso che non si possa amare profondamente nessun film se non si amano profondamente quelli di Howard Hawks».
1949: Ero uno sposo di guerra (titolo che non può però pienamente coincidere con la meravigliosa perfidia dell’originale I Was a Male War Bride, “Ero una sposa maschio di guerra”) è la quarta collaborazione, la penultima, tra Hawks e Grant, dopo Susanna! (1938), Avventurieri dell’aria (1939) e La signora del venerdì (1940); arriverà poi Il magnifico scherzo (1952) a chiudere la liaison professionale tra i due, forse anche a tirare le ultime, definitive somme della screwball, un’opera non particolarmente cara al regista, che sosteneva di aver ecceduto nel racconto, fino a neutralizzarne gli esiti.

C’è, alla base di Ero uno sposo di guerra, film scritto da Charles Lederer, Leonard Spigelgass e Hagar Wilde (ma zampino e occhi di Hawks non mancavano mai), un libro autobiografico del militare belga Henri Rochard dal titolo chilometrico e - secondo il regista - dal valore estetico praticamente nullo: I Was an Alien Spouse of Female Military Personnel Enroute to the United States Under Public Law 271 of the Congress. Hawks ne ricava un film che è l’ennesima, ritornante variazione (e forse anche per questo Rohmer amava tanto il suo cinema, mentre si annoiava di fronte ai film di John Ford) sul tema. La commedia post-bellica di Hawks, ambientata nella Germania occupata dagli alleati è ancora un’irresistibile, lieve, spuntata e sgangherata, precisissima guerra d’amore tra uomo e donna. Eppure, nelle mani del cineasta americano, il regista «misogino», narratore conoscitore dei generi, la commedia, la schermaglia dei sessi, è tanto puro gioco assoluto (di ruoli, quelli sul set, quelli nella vita) quanto meccanismo mai innocente, è quasi sempre un documentario estremista sotto mentite spoglie, un referto sociale implacabile di inarrivabile leggerezza. La trasparenza di Hawks è una delle più belle bugie che il cinema ci abbia mai raccontato, e sì che non esitava a confessare liberamente a Becker, Truffaut e Rivette che lo intervistavano sui Cahiers del febbraio  ‘56, quanto detestasse il montaggio.

hawks sposo guerra

Ero uno sposo di guerra è un’avventura, perché il cineasta statunitense  scorgeva poche separazioni tra il genere avventuroso e quello brillante; è una manipolazione straordinaria, perché, nella ripetizione goffa e quasi infantile di un bacio comicamente consumato dentro un mucchio di fieno, viene dissimulata la verità del corpo; è un cinema classico che legge il futuro, perché nel tempo che passa dalla busta che qui viene trasmessa da un ufficio all’altro - contenente gli innumerevoli moduli firmati dai protagonisti per potersi sposare - alla posta pneumatica che viaggia nei sotterranei parigini in Baci rubati (1968) di Truffaut, il cinema scrive e riscrive i suoi bellissimi cortocircuiti, i suoi illusionismi e le sue fantasticherie del reale.

È una commedia brillante quella di Hawks - ancora una volta, e probabilmente per lui questo canone era il vero volto dell’Occidente, questa era la sua maschera - ma di una lucentezza minore, perché dopo il secondo conflitto mondiale non poteva essere altrimenti, e le zone d’ombra, le opacità, le crisi, se pur impercettibili, mascherate, c’erano (qual è realmente la missione del capitano Rochard? E il tanto da lui ricercato produttore di lenti Herr Schidler, costretto a lavorare per il mercato nero, una volta trovato già non è più della narrazione, scompare… Ancora: la Statua della Libertà dietro l’oblò della nave che porta la coppia in America la si potrebbe perfino situare nella fantascienza politica e nella paranoia da nuovo conflitto del cinema che verrà). Il capitano francese Henri Rochard (Grant) e il tenente americano Catherine Gates (Ann Sheridan) si conoscono già, sono costretti a condividere un’altra missione, non si sopportano, poi scoprono d’amarsi, come forse hanno sempre fatto. Si sposano, ma la prima notte di nozze è rimandata… I dialoghi sono puro andamento del cinema; una musica, una grafia. Sheridan si diverte, riceve e rilancia i tempi, si aggancia all’azione e si sgancia perfettamente; Grant è un corpo comico eccezionale, avvinghiato maldestramente all’asta di un passaggio a livello che si alza; costretto a dirigere altrettanto malamente una barca che trasporta lui, il tenente Gates e il sidecar che è stato loro affidato; è un corpo costretto a volare giù da una finestra, a travestirsi da donna. L’attitudine è quasi slapstick. È lo sposo ma è anche la sposa di Ann Sheridan… solo così potrà sbarcare negli Stati Uniti: da qui in avanti il film diventa quasi un movimento ossessivo, quasi uno straniato auto-sabotaggio clandestino, uno svuotamento al millimetro del genere e delle sue forme, delle sue reiterazioni. E non è il personaggio di Grant a sdoppiarsi, è il cinema dell’invisibilità che lo fa.

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Howard Hakws Cary Grant Ann Sheridan 105 minuti
USA 1949
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Ieri/oggi - Speciale Howard Hawks: Il grande cielo

di Mattia Caruso
Il grande cielo - recensione film hawks

Kentucky, 1832. I cacciatori Jim Deakins (Kirk Douglas) e Boone Caudill (Dewey Martin) si incontrano per caso, divenendo ben presto inseparabili. Arrivati insieme a St. Louis, decidono di unirsi a una spedizione francese diretta a nord. Lo scopo: risalire il fiume Missouri per più di tremila chilometri per commerciare pellicce direttamente con la tribù dei Piedi Neri. Ma in quel territorio enorme e inesplorato più di un pericolo metterà alla prova i due uomini e la loro stessa amicizia.
È un Paese vasto quasi quanto il cielo, quello raccontato nel secondo western (se si esclude la regia non accreditata a fianco di Howard Huges ne Il mio corpo ti scalderà) di Howard Hawks. Una vastità, come dirà il Jim di Douglas, «che Dio ha fatto e poi si è dimenticato di popolare», grande quanto un cinema capace di riempirla con tutto lo spettro dei sentimenti umani. È un western anomalo, d'altronde, Il grande cielo. Un viaggio – tratto dall'omonimo romanzo di A. B. Guthrie Jr. – che parte da una civiltà che comincia ad andare stretta («Io non potrei mai vivere in quel formicaio», dice Boone alla vista di St. Louis) e si immerge nella natura incontaminata, per non fare più ritorno.

A quattro anni di distanza da Il fiume rosso, Hawks torna al western con un film profondamente differente da ciò che lo ha preceduto e da ciò che verrà dopo, ma altrettanto capace di entrare a pieno titolo nella storia del genere. Un film inaspettato, che fa dell'alternarsi di toni e situazioni uno dei suoi aspetti fondamentali, imprevedibile come il corso di quel fiume che Jim e Boone decideranno di risalire sfidando la corrente e arrivando dove nessun bianco era mai arrivato prima.
Certo, i temi classici cari al western hawksiano ci sono già tutti, dal mito della frontiera all'amicizia virile, passando per la donna contesa (la Occhio d'anitra della modella nativa Elizabeth Threatt, nel suo primo e unico ruolo cinematografico); così come è ben presente il consueto stile “invisibile” e rettilineo del regista, senza flashback o ellissi a minare la continuità degli eventi. Ma sono i modi in cui questi aspetti vengono messi in scena a fare la differenza, gettati come sono in una wilderness dove lo scontro tra simili perde di tragicità (è un lontano ricordo il rapporto conflittuale dai toni edipici de Il fiume rosso) a favore di un confronto elementare con una Natura (anche umana) ignota e selvaggia.

Il grande cielo - recensione film hawks

Alternando senza soluzione di continuità scene avventurose a momenti umoristici o riflessivi, Il grande cielo ribadisce così il suo status di unicum nella produzione western di Hawks. Un'unicità non a caso sottolineata anche dall'assenza di John Wayne, qui sostituito da un Kirk Douglas reinventatosi inedito eroe hawksiano, parte sconfitta ma nobile del triangolo amoroso che caratterizzerà la sottotrama del film.
Un western lirico, dunque, in cui tutto pare ancora di là da venire, capace, tra scene epiche e sprazzi panteistici, di spogliare i suoi personaggi di quelle sovrastrutture che solo in seguito ne condizioneranno scelte e stili di vita. Perché nel mondo ancora vergine de Il grande cielo non c'è spazio per rimpianti o malinconie, per smanie di possesso o per qualche elaborato senso di giustizia o del dovere. Al suo centro c'è solo l'uomo, con il suo coraggio, i suoi (anche bassissimi) istinti e il suo rapporto con una Natura che non sarà mai più così simile a quel grande cielo che la sovrasta.

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Howard Hakws Kirk Douglas Dewey Martin Elizabeth Threatt Arthur Hunnicutt 140 minuti
USA 1952
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Ieri/oggi - Speciale Howard Hawks: Il grande sonno

di Andrea Fontana
Il grande sonno - recensione film hawks

Talvolta è dolce perdersi nel grande sonno, sebbene questo “grande sonno” si riferisca alla morte e alle oscurità che vi si celano dietro. Tratto dall’omonima opera prima di Raymond Chandler, pubblicata nel 1939, Il grande sonno è uno dei grandi, innovativi lavori, eppure intimamente classici, di Howard Hawks. Nel raccontare la torbida vicenda in cui rimane invischiato il detective privato Philip Marlowe, Hawks compie un piccolo miracolo. Forse più di uno.

La filosofia di Hawks, si sa, era di sposare una politica stilistica che rendesse il suo ruolo “invisibile”, in modo che lo spettatore fosse completamente immerso nella storia. Nessuna distrazione derivata da vezzi tecnici, artistici, da un occhio invadente che ammicca allo stupore del fruitore, nessun virtuosismo sterile, niente che facesse presupporre la presenza della macchina cinema, del suo grande apparato al di qua della macchina da presa.
Eppure, Il grande sonno rivela la grandezza del suo regista. Lo fa attraverso un’attenzione al quadro dell’immagine, che raramente si costruisce per mezzo di primi piani o di panoramiche, quasi sempre con campi medi, i totali, con i corpi degli attori a mezzo busto, con piani americani o a corpo intero a dar forma a una visione statica che lavora assiduamente a un complesso dialogo con la parola. Un’immagine, quella de Il grande sonno, che azzarda talvolta costruzioni più ardite, come nella sequenza del pestaggio di Marlowe, con quella nebbia e quell’oscurità in un vicolo i cui muri tagliano verticalmente l’immagine stessa. Ed è il mondo de Il grande sonno a essere il primo, grande indizio sul potere dell’immagine. Ciò che appare, nel film, è solo il velo oltre al quale si nascondono altri mondi, altre menzogne, altri pericoli. E non è un caso che l’ambientazione del film sia Los Angeles, la cui messa in scena è frutto di ricostruzioni artificiose, set maestosi che danno forma alla realtà per come l’aveva concepita Hawks.

Eccolo, il primo inganno. Marlowe si muove, indomito, con la sua corazza etica e con il suo scudo fatto di morale, in un mondo marcio, dove nulla è vero. Inevitabile che il pensiero ricada sul cinema stesso, sui meccanismi finzionali, sull’inganno dello spettatore. Un cortocircuito metanarrativo, probabilmente inconsapevole, ma profondamente affascinante nel suo raccontare una città, un momento storico che sono al tempo stesso un cinema, una tipologia di racconto.
Questo racconto è il noir, che qui Hawks si diverte a destrutturare, reinventare, riplasmare. Perché se è vero che Il grande sonno è il paradigma del genere noir, è altrettanto vero che sia un film che ripensa quegli stessi stilemi, oscillando fra humor e violenza, romanticismo e disincanto. È la scrittura, in fondo, a rendere ancor più speciale quella che è una delle opere più intriganti e affascinanti di Hawks, merito anche dell’apporto essenziale di William Faulkner.
E, infine, c’è il Marlowe interpretato da Humphrey Bogart. Personaggio disilluso, stanco di un mondo in decomposizione eppure paladino di una giustizia a tutti i costi, anche a rischio della sua vita. Cercatore dell’amore ma senza compromessi: il Marlowe di Bogart è memorabile proprio per il suo collocarsi in maniera così celatamente straziante nei confronti di un mondo che vorrebbe rendere migliore ma di cui non può che constatare la marcescenza.

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Howard Hakws Humphrey Bogart Lauren Bacall Martha Vickers 114 minuti
USA 1946
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Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Hatari!

di Saverio Felici
Hatari recensione film Hawks.

Nella scomposta genealogia del Cinema d'Azione e della sua evoluzione in genere autonomo, dotato di teoria e caratteristiche proprie ormai fissate (“cinema in cui la vertigine del movimento si sostituisce al dialogo nel veicolare la narrazione” può essere una definizione calzante), Hatari! di Howad Hawks avrebbe sicuramente un ampio capitolo dedicato.
Tra gli ultimi lavori di un autore ormai entrato in fase di libertà produttiva assoluta, nel film del 1962 le famose dialettiche hawksiane (noi-loro, dentro-fuori, civiltà-barbarie) si aprono a quell' “esterno totale” che è il campo di messa in scena proprio di questo cinema; quella di Hatari!, concepito come film di caccia grossa e poi scritto a ritroso sulla base delle riprese in esterna raccolte in Tanzania dalla troupe (caricata in massa sulle jeep senza controfigure o stuntmen), non è in fondo un'idea di cinema troppo diversa, per dire, dal Top Gun di Tony Scott, storicamente assemblato a partire dal footage delle evoluzioni aeree militari. Ed è interessante come il proto-action forse più imponente della sua stagione nasca dallo sguardo del più invisibile dei grandi di Hollywood, abituato a esprimere la propria autorialità più nella reiterazione dei temi che nello stile.

L'azione è forse il genere per definizione a mettere i personaggi e la recitazione in secondo piano, rispetto a un'idea prevaricatrice di regia e montaggio. E il grande sacrificato di Hatari! è proprio quella dimensione personale, spesso comica, altre volte aggressiva e rancorosa, propria degli eroi noir e western dell'autore. Se lo stesso western classico fu un'epopea di grandi uomini, ora il gruppo di eroi hawksiano rimpicciolisce, schiacciato di fronte a un Altro rappresentato dalla brutalità della caccia e dall'impetuosità animalesca.
È l'alterità incarnata (non certo l'africano, ma gli animali stessi) a strappare il ruolo da protagonista ad attori-umani mai così subordinati; oltre il semplice circo, Hatari! cede quasi interamente la linea narrativa al bestiale - non addestrato, ma liberato davanti alle cineprese – mettendo in crisi persino le distinzioni tra ricostruzione e documentarismo, virtualmente invalicabili nella Hollywood dello studio system (fino a che punto si può parlare di recitazione in un film incentrato sui comportamenti animali?). Addirittura, quando il finale impone di tirare le fila del discorso “umano” di fondo (l'adozione della fotografa di città da parte della squadra di cacciatori), è a un branco di elefanti che viene affidato il motore narrativo, con John Wayne in persona letteralmente costretto a “inseguire”, in un ribaltato rapporto di centralità.

La scelta di trasporre una nuova visione della vecchia epica sulle piane tanzaniane apre più di un discorso sulle implicazioni produttive di Hatari!.
Nel momento più critico della già violenta fase di decolonizzazione, l'Africa, in pericoloso bilico tra i due Blocchi, rappresentava a metà secolo una sorta di terra vergine, su cui l'Occidente aveva tutto l'interesse a ribadire una sovranità che ne trascendesse le spinte indipendentiste. Per degli imprenditori americani, il politicamente neonato continente non poteva non apparire come un ideale nuovo West, erede metaforico di quello ormai urbanizzato statunitense; e nel sogno turistico del safari e del grand tour africano, i vecchi reazionari del cinema USA (il film è tanto di Hawks quanto della star protagonista) sentivano forse palesarsi la nuova frontiera di quel processo continuo di conquista e sottomissione del selvaggio, quale fu proprio del western fordiano.

hatari

Il mondo fotografato da Hatari! sembra dunque appartenere (e di fatti appartiene) a un altra dimensione del reale rispetto, per dire, alla testimonianza che ne davano i contemporanei film etnografici di Jean Rouch, che in quegli stessi anni rivelavano all'Europa un nuovo universo in piena fase di autoaffermazione. Per l'America, l'Africa subsahariana è invece un grande parco giochi, mondo fantasy e terreno mitico in cui rimettere in scena, ritualmente, l'antica epica dei padri. Il ruolo degli indigeni non può essere diverso da quello degli indiani del Nord America: pura tappezzeria esotica, marginale anche rispetto al già esiguo spazio riservato ai co-protagonisti europei (spagnoli, francesi, pure italiani, con Elsa Martinelli impegnata nell'improbabile love story con nonno Wayne) – tutti comprimari di relativa importanza ai fini dell'affermazione di Destino manifesto anglo-germanico.

In una dimensione geopolitica così controversa, un sorprendente Hawks “bambino” riporta però ogni discorso su un piano di ironia ulteriore, che dissolve la violenza implicita dei suoi primi lavori con Wayne (da Il fiume rosso al precedente Rio Bravo). Il rapporto con la nuova frontiera elaborato nella sua storia di caccia non sembra più di sfida, quanto di pacificazione, come anche gli immancabili scontri culturali tra i compagni d'avventura, eterno retaggio dell'origine screwball comedy dell'autore. La smitizzazione farsesca dell'eroe fordiano arriva addirittura all'evirazione metaforica di un John Wayne all'apice della fragilità, impacciato, devirilizzato e virginale di fronte alla sfrontatezza sessuale delle co-protagoniste. Il proverbiale, distruttivo scontrarsi degli ego è qui ricondotto all'ambito del gioco tra bambini: come se la fantasia utopico-coloniale avesse ormai mondato le conflittualità dell'Occidente nel sole africano, e l'estasi dell'Azione totale travolto e asciugato i veleni della vita.

È qui che il protagonista western sembra finalmente ricongiungersi alla sua reale natura di giocattolo umano, soldatino di plastica animato, senza dimensioni, infine sacrificabile in quanto personaggio a favore di un puro corpo filmico: arrivati al forsennato finale si ha l'idea di un film che potrebbe proseguire ancora, alimentando se stesso, in un esercizio di movimento e frenesia liberato da ogni obbligo narrativo, senza neanche più bisogno dei suoi stessi eroi.

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Howard Hakws John Wayne Hardy Kruger Red Buttons Gerard Blain Elsa Martinelli 157 minuti
USA 1962
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Songs My Brothers Taught Me

di Andrea Giangaspero
Songs my brothers - recensione film Zhao

La graduale riapertura delle sale di queste settimane sta imponendo una inevitabile trasversalità della fruizione, delle possibilità di visione, appunto tra il ritorno alla ritualità del grande schermo e la distribuzione su piattaforma, che mai come in quest’anno di grande difficoltà ha avuto un ruolo determinante. Una questione delicata, e sui cui varrebbe la pena spendersi in altra sede. Sicuramente quello che a noi qui interessa è l’opera di bene condotta da MUBI, che si cura proprio di restituire un senso a questa trasversalità con recuperi e distribuzioni esclusive in aperta continuità coi titoli passati in sala. Succede soprattutto per Nomadland (2020), Leone d’Oro a Venezia 77 e ora anche Premio Oscar al miglior film (ma con una caterva di altri premi in cantiere), a cui si affianca sulla piattaforma di Efe Çakarel il film d’esordio della sua regista, Chloè Zhao, Songs my brothers taught me (2015).
Dal titolo già evocativo in stile Minervini e perfettamente in linea con le cornici di presentazione (la Quinzaine e il Sundance), il film di Zhao si veste interamente di un’aura indie, adottando la camera a mano e una sottile granulosità di un titolo low budget, e un parlato sfilacciato nella forma di battute che sembrano rivolte al vento e ai tramonti delle immagini. Ecco, con tutti i suoi premi e tutto il suo rumore mediatico, Nomadland offre a MUBI l’opportunità per il recupero e la scoperta della sua autrice, l’individuazione dei tasselli comuni e di ciò che si è evoluto, o di ciò che si è perso.

Songs my brothers taught me è allora il luogo originario delle Badlands in campo lungo, con le silhouette solitarie in paesaggi desertificati, col cielo e la terra che tra di loro sfumano nell’opacità dei colori crepuscolari, inevitabilmente malickiani (la vicinanza è soprattutto con La rabbia giovane e I giorni del cielo). È poi il luogo originario di quello sguardo antropologico, seppure sempre abbozzato, che colloca i suoi protagonisti in geografie e storie peculiari, quelle dell’America Perduta di Bill Bryson: i luoghi di frontiera delle carovane e dei nomadi di Nomadland; il South Dakota dei rodei in The Rider, e delle riserve indiane Lakota, appunto, in Songs. Similmente agli altri due titoli, nell’esordio Zhao tiene insieme istanza documentaria (dicevamo antropologicamente orientata) e finzione, accompagnata da una propensione all’imbellettamento delle immagini. Questo atteggiamento ha prodotto i risultati migliori in The Rider, più onesto nel raccontare la vera esperienza di un cowboy costretto ad abbandonare i rodei in seguito a un grave incidente, e più calibrato nella dosatura di sospensioni auratiche che apparino poco sincere.

Nella riserva indiana di Pine Ridge, in Songs, un incendio in casa toglie la vita a un cowboy da rodeo, Carl, un uomo dall’aura quasi leggendaria che dal rapporto con nove donne diverse ha avuto venticinque figli. E sono tutti lì al suo funerale, quei venticinque ragazzi, tra cui Johnny, costretto a ponderare più attentamente l’idea di trasferirsi con la sua ragazza a Los Angeles e lasciare la sorellina Jashaun sola con una madre inaffidabile. Proprio la celebrazione notturna della dipartita dell’uomo davanti a un falò rappresenta uno dei momenti più riusciti del film di Zhao, e che torna più o meno uguale a sé stesso in The Rider e Nomadland (sempre nella forma del falò nel primo, e dell’incontro circolare tra i nomadi nel secondo), dove il parlato fumoso e la partitura sempre sfilacciata della narrazione si fissano qui, invece, nella ritualità di un movimento coeso, fluido, tra inquadratura, corpi e parole pronunciate. Il crepitio lieve della legna, la luce dorata e soffusa sui volti dei tanti fratelli e fratellastri che si confrontano sulla figura del padre e poi virano sul divieto della circolazione d’alcolici, eccetera; è la ritualità di un gesto che funziona perché più autentico, più consapevole, di una convivialità più sincera.

Tutto è assorbito in un’idea che è il fulcro dell'opera e della restante filmografia di Zhao: la pietra angolare dei natali, un luogo in cui far abitare l’Io, la terra a cui tornare e da cui prendere pure le distanze. Per Johnny, accompagnare la ragazza a Los Angeles, dove comincerà gli studi di giurisprudenza, significa svestirsi di un’identità precaria, sì, raffazzonata, tra il guadagno sporco delle consegne illegali di alcolici e l’agguato di una gang che lo riempie di botte e gli brucia il pick-up; ma in quelle vesti luride e sempre uguali (come la canotta che indossa lungo tutto il film, tesa sulla muscolatura delle spalle) non ci trova alcuna mortificazione, non si pronuncia in nessun movimento goffo. Johnny rinuncia alla partenza guardando alla sorellina Jashaun, che lo ama e che è innamorata di quella casa, sì dimessa, dimenticata, derelitta, asfissiata nel proibizionismo e in una giustizia solo locale, inquadrata sempre in paesaggi brulli e al crepuscolo, alla fine dei loro giorni; ma di quella fine inevitabile Johnny e Jashaun vogliono essere partecipi, trattenendo lo spirito selvaggio dei cavalli imbizzarriti della riserva, da non reprimere perché vitale, e un giorno spegnersi romanticamente, come una Macondo che perisce soffocata nella polvere.

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Chloé Zhao John Reddy Jashaun St. John 98 minuti
USA, 2015
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Ieri/oggi - Speciale Howard Hawks: La signora del venerdì

di Martina Mele
signora del venerdì

La signora del venerdì (His Girl Friday), trasposizione cinematografica firmata Howard Hawks della pièce teatrale Prima pagina [1] (di Ben Hecht e Charles McArthur, già adattata nel 1931 da Lewis Milestone) rappresenta una commedia chiave del cinema classico americano. Protagonisti sono Walter Burns (Cary Grant), direttore di un giornale di Chicago, e la sua ex-moglie Hildy Johnson (Rosalind Russell), ex-giornalista presso lo stesso quotidiano, alle prese con la loro complicata storia d’amore. Appresa la notizia dell’imminente matrimonio di Hildy con l’assicuratore Bruce Baldwin (Ralph Bellamy), Walter tenta di impedirle di sposarsi e prendere il treno delle 16 per Albany, dove i due neo-sposini andrebbero a vivere insieme alla madre di lui, affidandole il caso di Earl Williams che lei invano cerca di rifiutare.

Questa nuova screwball comedy firmata da Hawks è un film stratificato in cui si intersecano numerosi elementi d’analisi. Innanzitutto, sebbene il film rientri nella classificazione di commedia, esso è contemporaneamente connotato da tinte fortemente tragiche, tipiche del noir e del gangster movie: si pensi a quando il condannato a morte Earl Williams evade e irrompe nell’ufficio stampa puntando la pistola contro Hildy (figura 1); o a Mollie Maloy (Helen Mack) che, esausta delle calunnie sul suo conto fatte circolare dalla stampa, tenta il suicidio lanciandosi dalla finestra (figura 2); da un punto di vista estetico, si pensi anche alle ombre della forca proiettate sul muro (figura 3). Questo spessore drammatico emerge, inoltre, nella denuncia nei confronti di una realtà corrotta come quella della classe dirigente di Chicago, rappresentata dal disonesto sindaco (Clarence Kolb) e dallo sceriffo Peter B. Hartwell (Gene Lockhart), che vogliono sfruttare l’impiccagione di Earl Williams per fini elettorali (figura 4).

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Un altro livello d’analisi, probabilmente il più importante, è il binomio maschio/femmina. Difatti, la screwball comedy è «caratterizzata da uno spirito anarchico, da una rivolta nei confronti delle regole sociali e dei ruoli sessuali» (Alonge-Carluccio 2006, p. 82) e di questo aspetto La signora del venerdì è fortemente esemplificativa, a partire dal rifiuto di un linguaggio amoroso ‘canonico’ caratterizzato da frasi satiriche e frecciatine pungenti come quel «Se mai ti rivedrò, ti martellerò il cranio per suonarlo come un gong cinese», che Hildy dice a Walter; o ancora,  «Tra me e te c’è qualcosa che non potrà cambiare mai… - Tu mi piaci, questo è vero. Vorrei che non fossi un lestofante».
Hildy s’identifica con il principale fulcro narrativo attorno a cui ruotano gli eventi: in particolare, nella parte centrale del film, costituita dalle scene più salienti e d’azione (figura 5), vediamo Hildy abbandonare quel futuro costellato di pannolini e ninna nanne che s’illudeva davvero di desiderare (figura 6) per rivendicare la sua natura di donna libera e lavoratrice: «Io non sono una borghese giocatrice di bridge, sono una giornalista». La mescolanza di femminile e maschile si riscontra anche nel nomignolo non proprio felice che la stessa Hildy si dà, ossia pal, con allusione al Venerdì tuttofare di Robinson Crusoe.

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Scrive la critica Molly Haskell: «C’è nel suo cinema un senso del personaggio che, pur se basato sulle tipiche aspettative sessuali, va oltre, fino ai rovesciamenti di ruolo i quali, insieme alla mescolanza di umori comici e tragici, sono fonte di comicità e di pericolo [2] nella prospettiva hawksiana di un mondo precariamente diviso tra principio maschile e principio femminile» (Haskell 1981). Da una parte, l’uomo che cerca di riconquistare la propria donna attraverso il senso di colpa – W: Questo non te lo perderò mai mia cara... H: Questo che? W: Il divorzio...è una cosa che ti fa perdere la fiducia in te stesso. Ti dà la sensazione di essere superfluo –, l’inganno – Walter manda Sweeney, un altro giornalista, in vacanza per due settimane e riferisce a Duffy (Frank Orth) che Hildy si occuperà del caso Earl Williams ma Hildy questo ancora non lo sa… – e, soprattutto, il lavoro; dall’altra, l’astuzia femminile – Hildy fa nascondere a Bruce il bonifico bancario nella fodera del cappello, facendogli credere che sia una vecchia superstizione giornalistica –  e  un’ ‘aggressività’ che «diventa sempre meno incompatibile con la femminilità» – Hildy si lancia addosso al testimone che scappa mettendolo KO.

In ultima battuta, come si è potuto intuire, His Girl Friday è un film dalla straordinaria attualità soprattutto per la formulazione di «nuove possibilità nei ruoli dei sessi»: «il film propone il seducente miraggio di una relazione sessuale basata sull’uguaglianza invece che sullo sfruttamento, con una donna che raggiunge la parità politico-sessuale grazie alla sua intelligenza, alla sua energia creativa e alla sua indipendenza economica».

[1] Come mettono ben in evidenza Alonge e Carluccio nel loro saggio Il cinema classico americano, His Girl Friday è un film metadiscorsivo, un film che contiene cioè degli evidenti rimandi ad altri film. E questo Hawks non lo nega né lo nasconde. Nel libro di Joseph McBride, Il cinema secondo Hawks, citato dai due studiosi, alla domanda «Ci sono delle scene nei suoi film che ha rivisto e di cui poi ha pensato: ‘Oh, questa è piatta, avrei dovuto farla in modo diverso’?», Hawks rispose: - «Certo. Ecco perché la rubo e la rifaccio».
[2] «La pericolosità del mondo di Hawks, il senso di uno squilibrio cosmico (e comico), deriva dalla natura problematica della differenziazione sessuale, una questione che non è mai completamente risolta», specifica Haskell.

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Howard Hakws Cary Grant Ralph Bellamy Rosalind Russell 92 minuti
USA 1940
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A dieci anni dal terremoto: The Tree of Life di Terrence Malick

di Andrea Fontana
The tree of life recensione film 20

La parabola artistica di Terrence Malick non ha eguali. Esordisce nel 1973 con La rabbia giovane, posizionandosi nel bel mezzo della New Hollywood ma scardinandone gli elementi fondativi. Prosegue con I giorni del cielo, 1978, dove già si intuisce quanto sia precisa e limpida la sua poetica autoriale, il suo desiderio estetizzante di un cinema che racconti la vita, con tutte le sue complessità, favorendo l’occhio, l’immagine, l’immagine come poesia. E poi? Poi Malick scompare. Letteralmente. Lavora per qualche anno a Q, progetto di un film che, nel tempo, diverrà mitico. Ma non se ne fa niente. E di Malick non si sa niente. Fino al 1998, quando ritorna con La sottile linea rossa, opera corale in cui recupera prepotentemente le sue ossessioni, con una consapevolezza dei mezzi ancor più sorprendente. Sembra che quei vent’anni di assenza non ci siano mai stati.
Vent’anni in un batter d’occhio.

E poi? Altri sette anni e torna al cinema con The New World, rivisitazione della storia di Pocahontas. Ed è qui, nell’opera che ha destabilizzato molti, che Malick comincia a dichiarare apertamente ciò che avremmo dovuto capire già nel 1973, e cioè che la sua intenzione di autore, filosofo, regista e pensatore è quella di destrutturare la forma cinema, ripensare la narrazione, l’immagine, il rapporto fra lo spettatore e l’opera, fra l’occhio e lo schermo. Ed è così che, finalmente, riprende in mano Q, e realizza la sua opera più importante, assoluta e definitiva: The Tree of Life.

Il film è la storia di Jack O’Brien, un ragazzo del Texas che, nel corso degli anni Cinquanta, scopre la vita, la morte, l’amore. E lo fa vivendo il rapporto dicotomico con il padre severo (Brad Pitt) e la dolcezza della madre (Jessica Chastain). Da adulto si ritrova a pensare alla sua vita ed è pronto per fare il passo successivo verso una nuova consapevolezza. Nel mezzo, squarci di creazione del mondo.

Ho rivisto The Tree of Life, a distanza di dieci anni, dopo che ne rimasi folgorato la prima volta. Dopo che aveva vinto a Cannes, dopo essere diventato opera mitologica ancor prima della sua uscita. All’epoca andai al cinema più volte, conscio che quella visione era pura meraviglia, un terremoto nella monotonia di migliaia di visioni succedutesi negli anni, causa dell’annichilimento del mio stupore di spettatore. L’ho rivisto oggi, dopo dieci anni (durante i quali mi sono ritrovato a rivederlo, ristudiarlo, rianalizzarlo), nell’edizione proposta da Criterion Collection, che contiene un extended cut che differisce dalla versione cinematografica non solo per la presenza di sequenze aggiuntive, le quali portano la durata a un totale di 188 minuti, ben cinquanta in più, ma anche per la gamma cromatica della fotografia. E sono d’accordo con Samuele Sestieri quando afferma, su queste pagine virtuali, che quella versione è proprio un altro film. Ma al di là delle versioni a disposizioni, ciò che resta e vibra tutt’oggi in The Tree of Life è l’assoluta drasticità di un’opera che non scende a compromessi e sfida le leggi del cinema stesso.

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Con questo film, Malick si libera delle regole di produzione e si affida all’istante, al momento improvvisato, usando una traccia narrativa come vaga base. Un’idea, questa, non molto distante da quella teorizzata da Werner Herzog in Grizzly Man e, più in generale, in tutto il suo cinema degli ultimi vent’anni. Malick si affida all’immagine, la estremizza, trasformandola in un oggetto di pura estasi estetica. E poi la destruttura assieme alla narrazione lineare, che si sfalda, sostenuta solo da un montaggio che si dovrebbe definire emozionale, che muta e segue i ritmi del cuore. Da un punto di vista tecnico, questa libertà creativa è stata resa possibile dalla collaborazione artistica fra il regista e il direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, che qui è completamente libero di inventare un cinema visto in rare occasioni. Ma non è questa anarchia creativa a rendere The Tree of Life così maestoso e importante. Perché anche i film successivi proseguono questo percorso di caos narrativo e visivo, un caos controllato ma slabbrato, ma non ne conservano la potenza. Non ce l’ha Voyage of Time, che ne è una costola depauperata, non ce l’hanno nemmeno To the Wonder o il più riuscito Knights of Cups. The Tree of Life è un capolavoro innanzitutto perché mescola, con equilibrio, esigenze artistiche con quelle private. Perché nella storia di Jack, nella sua infanzia texana, nel suo passaggio all’età adulta, nel suo fare i conti con la morte in generale e con quella del fratello in particolare, c’è Terrence Malick. E il miracolo di The Tree of Life sta nell’aver saputo intersecare più elementi, ben distanti fra loro (il privato, il pubblico, il passato, il futuro, la filosofia e la teologia), generando una trama ben precisa, un tessuto che, visto da lontano, abbaglia per coinvolgimento emozionale. Questo suo spostarsi fra preistoria e passato e presente, delineando un fil rouge concettuale di straordinaria lucidità, fa sì che lo spettatore sia accompagnato in un viaggio immersivo, che si fa scoperta.

Dieci anni fa, dopo aver visto The Tree of Life al cinema, scrissi che il cinema pareva essere finito e che ogni visione, da quel momento in poi, sarebbe stata una sconfitta a quell’esperienza. Mi sbagliavo, naturalmente. Perché il cinema non morirà mai, anche se è già morto. E perché The Tree of Life raccontava esattamente questo, l’eco imprescindibile di un’emozione. Quell’emozione che chiamiamo vita.

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Terrence Malick
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