Ieri/oggi - Speciale Howard Hawks: Il grande cielo

di Mattia Caruso
Il grande cielo - recensione film hawks

Kentucky, 1832. I cacciatori Jim Deakins (Kirk Douglas) e Boone Caudill (Dewey Martin) si incontrano per caso, divenendo ben presto inseparabili. Arrivati insieme a St. Louis, decidono di unirsi a una spedizione francese diretta a nord. Lo scopo: risalire il fiume Missouri per più di tremila chilometri per commerciare pellicce direttamente con la tribù dei Piedi Neri. Ma in quel territorio enorme e inesplorato più di un pericolo metterà alla prova i due uomini e la loro stessa amicizia.
È un Paese vasto quasi quanto il cielo, quello raccontato nel secondo western (se si esclude la regia non accreditata a fianco di Howard Huges ne Il mio corpo ti scalderà) di Howard Hawks. Una vastità, come dirà il Jim di Douglas, «che Dio ha fatto e poi si è dimenticato di popolare», grande quanto un cinema capace di riempirla con tutto lo spettro dei sentimenti umani. È un western anomalo, d'altronde, Il grande cielo. Un viaggio – tratto dall'omonimo romanzo di A. B. Guthrie Jr. – che parte da una civiltà che comincia ad andare stretta («Io non potrei mai vivere in quel formicaio», dice Boone alla vista di St. Louis) e si immerge nella natura incontaminata, per non fare più ritorno.

A quattro anni di distanza da Il fiume rosso, Hawks torna al western con un film profondamente differente da ciò che lo ha preceduto e da ciò che verrà dopo, ma altrettanto capace di entrare a pieno titolo nella storia del genere. Un film inaspettato, che fa dell'alternarsi di toni e situazioni uno dei suoi aspetti fondamentali, imprevedibile come il corso di quel fiume che Jim e Boone decideranno di risalire sfidando la corrente e arrivando dove nessun bianco era mai arrivato prima.
Certo, i temi classici cari al western hawksiano ci sono già tutti, dal mito della frontiera all'amicizia virile, passando per la donna contesa (la Occhio d'anitra della modella nativa Elizabeth Threatt, nel suo primo e unico ruolo cinematografico); così come è ben presente il consueto stile “invisibile” e rettilineo del regista, senza flashback o ellissi a minare la continuità degli eventi. Ma sono i modi in cui questi aspetti vengono messi in scena a fare la differenza, gettati come sono in una wilderness dove lo scontro tra simili perde di tragicità (è un lontano ricordo il rapporto conflittuale dai toni edipici de Il fiume rosso) a favore di un confronto elementare con una Natura (anche umana) ignota e selvaggia.

Il grande cielo - recensione film hawks

Alternando senza soluzione di continuità scene avventurose a momenti umoristici o riflessivi, Il grande cielo ribadisce così il suo status di unicum nella produzione western di Hawks. Un'unicità non a caso sottolineata anche dall'assenza di John Wayne, qui sostituito da un Kirk Douglas reinventatosi inedito eroe hawksiano, parte sconfitta ma nobile del triangolo amoroso che caratterizzerà la sottotrama del film.
Un western lirico, dunque, in cui tutto pare ancora di là da venire, capace, tra scene epiche e sprazzi panteistici, di spogliare i suoi personaggi di quelle sovrastrutture che solo in seguito ne condizioneranno scelte e stili di vita. Perché nel mondo ancora vergine de Il grande cielo non c'è spazio per rimpianti o malinconie, per smanie di possesso o per qualche elaborato senso di giustizia o del dovere. Al suo centro c'è solo l'uomo, con il suo coraggio, i suoi (anche bassissimi) istinti e il suo rapporto con una Natura che non sarà mai più così simile a quel grande cielo che la sovrasta.

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Howard Hakws Kirk Douglas Dewey Martin Elizabeth Threatt Arthur Hunnicutt 140 minuti
USA 1952
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Ieri/oggi - Speciale Howard Hawks: Il grande sonno

di Andrea Fontana
Il grande sonno - recensione film hawks

Talvolta è dolce perdersi nel grande sonno, sebbene questo “grande sonno” si riferisca alla morte e alle oscurità che vi si celano dietro. Tratto dall’omonima opera prima di Raymond Chandler, pubblicata nel 1939, Il grande sonno è uno dei grandi, innovativi lavori, eppure intimamente classici, di Howard Hawks. Nel raccontare la torbida vicenda in cui rimane invischiato il detective privato Philip Marlowe, Hawks compie un piccolo miracolo. Forse più di uno.

La filosofia di Hawks, si sa, era di sposare una politica stilistica che rendesse il suo ruolo “invisibile”, in modo che lo spettatore fosse completamente immerso nella storia. Nessuna distrazione derivata da vezzi tecnici, artistici, da un occhio invadente che ammicca allo stupore del fruitore, nessun virtuosismo sterile, niente che facesse presupporre la presenza della macchina cinema, del suo grande apparato al di qua della macchina da presa.
Eppure, Il grande sonno rivela la grandezza del suo regista. Lo fa attraverso un’attenzione al quadro dell’immagine, che raramente si costruisce per mezzo di primi piani o di panoramiche, quasi sempre con campi medi, i totali, con i corpi degli attori a mezzo busto, con piani americani o a corpo intero a dar forma a una visione statica che lavora assiduamente a un complesso dialogo con la parola. Un’immagine, quella de Il grande sonno, che azzarda talvolta costruzioni più ardite, come nella sequenza del pestaggio di Marlowe, con quella nebbia e quell’oscurità in un vicolo i cui muri tagliano verticalmente l’immagine stessa. Ed è il mondo de Il grande sonno a essere il primo, grande indizio sul potere dell’immagine. Ciò che appare, nel film, è solo il velo oltre al quale si nascondono altri mondi, altre menzogne, altri pericoli. E non è un caso che l’ambientazione del film sia Los Angeles, la cui messa in scena è frutto di ricostruzioni artificiose, set maestosi che danno forma alla realtà per come l’aveva concepita Hawks.

Eccolo, il primo inganno. Marlowe si muove, indomito, con la sua corazza etica e con il suo scudo fatto di morale, in un mondo marcio, dove nulla è vero. Inevitabile che il pensiero ricada sul cinema stesso, sui meccanismi finzionali, sull’inganno dello spettatore. Un cortocircuito metanarrativo, probabilmente inconsapevole, ma profondamente affascinante nel suo raccontare una città, un momento storico che sono al tempo stesso un cinema, una tipologia di racconto.
Questo racconto è il noir, che qui Hawks si diverte a destrutturare, reinventare, riplasmare. Perché se è vero che Il grande sonno è il paradigma del genere noir, è altrettanto vero che sia un film che ripensa quegli stessi stilemi, oscillando fra humor e violenza, romanticismo e disincanto. È la scrittura, in fondo, a rendere ancor più speciale quella che è una delle opere più intriganti e affascinanti di Hawks, merito anche dell’apporto essenziale di William Faulkner.
E, infine, c’è il Marlowe interpretato da Humphrey Bogart. Personaggio disilluso, stanco di un mondo in decomposizione eppure paladino di una giustizia a tutti i costi, anche a rischio della sua vita. Cercatore dell’amore ma senza compromessi: il Marlowe di Bogart è memorabile proprio per il suo collocarsi in maniera così celatamente straziante nei confronti di un mondo che vorrebbe rendere migliore ma di cui non può che constatare la marcescenza.

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Howard Hakws Humphrey Bogart Lauren Bacall Martha Vickers 114 minuti
USA 1946
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Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Hatari!

di Saverio Felici
Hatari recensione film Hawks.

Nella scomposta genealogia del Cinema d'Azione e della sua evoluzione in genere autonomo, dotato di teoria e caratteristiche proprie ormai fissate (“cinema in cui la vertigine del movimento si sostituisce al dialogo nel veicolare la narrazione” può essere una definizione calzante), Hatari! di Howad Hawks avrebbe sicuramente un ampio capitolo dedicato.
Tra gli ultimi lavori di un autore ormai entrato in fase di libertà produttiva assoluta, nel film del 1962 le famose dialettiche hawksiane (noi-loro, dentro-fuori, civiltà-barbarie) si aprono a quell' “esterno totale” che è il campo di messa in scena proprio di questo cinema; quella di Hatari!, concepito come film di caccia grossa e poi scritto a ritroso sulla base delle riprese in esterna raccolte in Tanzania dalla troupe (caricata in massa sulle jeep senza controfigure o stuntmen), non è in fondo un'idea di cinema troppo diversa, per dire, dal Top Gun di Tony Scott, storicamente assemblato a partire dal footage delle evoluzioni aeree militari. Ed è interessante come il proto-action forse più imponente della sua stagione nasca dallo sguardo del più invisibile dei grandi di Hollywood, abituato a esprimere la propria autorialità più nella reiterazione dei temi che nello stile.

L'azione è forse il genere per definizione a mettere i personaggi e la recitazione in secondo piano, rispetto a un'idea prevaricatrice di regia e montaggio. E il grande sacrificato di Hatari! è proprio quella dimensione personale, spesso comica, altre volte aggressiva e rancorosa, propria degli eroi noir e western dell'autore. Se lo stesso western classico fu un'epopea di grandi uomini, ora il gruppo di eroi hawksiano rimpicciolisce, schiacciato di fronte a un Altro rappresentato dalla brutalità della caccia e dall'impetuosità animalesca.
È l'alterità incarnata (non certo l'africano, ma gli animali stessi) a strappare il ruolo da protagonista ad attori-umani mai così subordinati; oltre il semplice circo, Hatari! cede quasi interamente la linea narrativa al bestiale - non addestrato, ma liberato davanti alle cineprese – mettendo in crisi persino le distinzioni tra ricostruzione e documentarismo, virtualmente invalicabili nella Hollywood dello studio system (fino a che punto si può parlare di recitazione in un film incentrato sui comportamenti animali?). Addirittura, quando il finale impone di tirare le fila del discorso “umano” di fondo (l'adozione della fotografa di città da parte della squadra di cacciatori), è a un branco di elefanti che viene affidato il motore narrativo, con John Wayne in persona letteralmente costretto a “inseguire”, in un ribaltato rapporto di centralità.

La scelta di trasporre una nuova visione della vecchia epica sulle piane tanzaniane apre più di un discorso sulle implicazioni produttive di Hatari!.
Nel momento più critico della già violenta fase di decolonizzazione, l'Africa, in pericoloso bilico tra i due Blocchi, rappresentava a metà secolo una sorta di terra vergine, su cui l'Occidente aveva tutto l'interesse a ribadire una sovranità che ne trascendesse le spinte indipendentiste. Per degli imprenditori americani, il politicamente neonato continente non poteva non apparire come un ideale nuovo West, erede metaforico di quello ormai urbanizzato statunitense; e nel sogno turistico del safari e del grand tour africano, i vecchi reazionari del cinema USA (il film è tanto di Hawks quanto della star protagonista) sentivano forse palesarsi la nuova frontiera di quel processo continuo di conquista e sottomissione del selvaggio, quale fu proprio del western fordiano.

hatari

Il mondo fotografato da Hatari! sembra dunque appartenere (e di fatti appartiene) a un altra dimensione del reale rispetto, per dire, alla testimonianza che ne davano i contemporanei film etnografici di Jean Rouch, che in quegli stessi anni rivelavano all'Europa un nuovo universo in piena fase di autoaffermazione. Per l'America, l'Africa subsahariana è invece un grande parco giochi, mondo fantasy e terreno mitico in cui rimettere in scena, ritualmente, l'antica epica dei padri. Il ruolo degli indigeni non può essere diverso da quello degli indiani del Nord America: pura tappezzeria esotica, marginale anche rispetto al già esiguo spazio riservato ai co-protagonisti europei (spagnoli, francesi, pure italiani, con Elsa Martinelli impegnata nell'improbabile love story con nonno Wayne) – tutti comprimari di relativa importanza ai fini dell'affermazione di Destino manifesto anglo-germanico.

In una dimensione geopolitica così controversa, un sorprendente Hawks “bambino” riporta però ogni discorso su un piano di ironia ulteriore, che dissolve la violenza implicita dei suoi primi lavori con Wayne (da Il fiume rosso al precedente Rio Bravo). Il rapporto con la nuova frontiera elaborato nella sua storia di caccia non sembra più di sfida, quanto di pacificazione, come anche gli immancabili scontri culturali tra i compagni d'avventura, eterno retaggio dell'origine screwball comedy dell'autore. La smitizzazione farsesca dell'eroe fordiano arriva addirittura all'evirazione metaforica di un John Wayne all'apice della fragilità, impacciato, devirilizzato e virginale di fronte alla sfrontatezza sessuale delle co-protagoniste. Il proverbiale, distruttivo scontrarsi degli ego è qui ricondotto all'ambito del gioco tra bambini: come se la fantasia utopico-coloniale avesse ormai mondato le conflittualità dell'Occidente nel sole africano, e l'estasi dell'Azione totale travolto e asciugato i veleni della vita.

È qui che il protagonista western sembra finalmente ricongiungersi alla sua reale natura di giocattolo umano, soldatino di plastica animato, senza dimensioni, infine sacrificabile in quanto personaggio a favore di un puro corpo filmico: arrivati al forsennato finale si ha l'idea di un film che potrebbe proseguire ancora, alimentando se stesso, in un esercizio di movimento e frenesia liberato da ogni obbligo narrativo, senza neanche più bisogno dei suoi stessi eroi.

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Howard Hakws John Wayne Hardy Kruger Red Buttons Gerard Blain Elsa Martinelli 157 minuti
USA 1962
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Songs My Brothers Taught Me

di Andrea Giangaspero
Songs my brothers - recensione film Zhao

La graduale riapertura delle sale di queste settimane sta imponendo una inevitabile trasversalità della fruizione, delle possibilità di visione, appunto tra il ritorno alla ritualità del grande schermo e la distribuzione su piattaforma, che mai come in quest’anno di grande difficoltà ha avuto un ruolo determinante. Una questione delicata, e sui cui varrebbe la pena spendersi in altra sede. Sicuramente quello che a noi qui interessa è l’opera di bene condotta da MUBI, che si cura proprio di restituire un senso a questa trasversalità con recuperi e distribuzioni esclusive in aperta continuità coi titoli passati in sala. Succede soprattutto per Nomadland (2020), Leone d’Oro a Venezia 77 e ora anche Premio Oscar al miglior film (ma con una caterva di altri premi in cantiere), a cui si affianca sulla piattaforma di Efe Çakarel il film d’esordio della sua regista, Chloè Zhao, Songs my brothers taught me (2015).
Dal titolo già evocativo in stile Minervini e perfettamente in linea con le cornici di presentazione (la Quinzaine e il Sundance), il film di Zhao si veste interamente di un’aura indie, adottando la camera a mano e una sottile granulosità di un titolo low budget, e un parlato sfilacciato nella forma di battute che sembrano rivolte al vento e ai tramonti delle immagini. Ecco, con tutti i suoi premi e tutto il suo rumore mediatico, Nomadland offre a MUBI l’opportunità per il recupero e la scoperta della sua autrice, l’individuazione dei tasselli comuni e di ciò che si è evoluto, o di ciò che si è perso.

Songs my brothers taught me è allora il luogo originario delle Badlands in campo lungo, con le silhouette solitarie in paesaggi desertificati, col cielo e la terra che tra di loro sfumano nell’opacità dei colori crepuscolari, inevitabilmente malickiani (la vicinanza è soprattutto con La rabbia giovane e I giorni del cielo). È poi il luogo originario di quello sguardo antropologico, seppure sempre abbozzato, che colloca i suoi protagonisti in geografie e storie peculiari, quelle dell’America Perduta di Bill Bryson: i luoghi di frontiera delle carovane e dei nomadi di Nomadland; il South Dakota dei rodei in The Rider, e delle riserve indiane Lakota, appunto, in Songs. Similmente agli altri due titoli, nell’esordio Zhao tiene insieme istanza documentaria (dicevamo antropologicamente orientata) e finzione, accompagnata da una propensione all’imbellettamento delle immagini. Questo atteggiamento ha prodotto i risultati migliori in The Rider, più onesto nel raccontare la vera esperienza di un cowboy costretto ad abbandonare i rodei in seguito a un grave incidente, e più calibrato nella dosatura di sospensioni auratiche che apparino poco sincere.

Nella riserva indiana di Pine Ridge, in Songs, un incendio in casa toglie la vita a un cowboy da rodeo, Carl, un uomo dall’aura quasi leggendaria che dal rapporto con nove donne diverse ha avuto venticinque figli. E sono tutti lì al suo funerale, quei venticinque ragazzi, tra cui Johnny, costretto a ponderare più attentamente l’idea di trasferirsi con la sua ragazza a Los Angeles e lasciare la sorellina Jashaun sola con una madre inaffidabile. Proprio la celebrazione notturna della dipartita dell’uomo davanti a un falò rappresenta uno dei momenti più riusciti del film di Zhao, e che torna più o meno uguale a sé stesso in The Rider e Nomadland (sempre nella forma del falò nel primo, e dell’incontro circolare tra i nomadi nel secondo), dove il parlato fumoso e la partitura sempre sfilacciata della narrazione si fissano qui, invece, nella ritualità di un movimento coeso, fluido, tra inquadratura, corpi e parole pronunciate. Il crepitio lieve della legna, la luce dorata e soffusa sui volti dei tanti fratelli e fratellastri che si confrontano sulla figura del padre e poi virano sul divieto della circolazione d’alcolici, eccetera; è la ritualità di un gesto che funziona perché più autentico, più consapevole, di una convivialità più sincera.

Tutto è assorbito in un’idea che è il fulcro dell'opera e della restante filmografia di Zhao: la pietra angolare dei natali, un luogo in cui far abitare l’Io, la terra a cui tornare e da cui prendere pure le distanze. Per Johnny, accompagnare la ragazza a Los Angeles, dove comincerà gli studi di giurisprudenza, significa svestirsi di un’identità precaria, sì, raffazzonata, tra il guadagno sporco delle consegne illegali di alcolici e l’agguato di una gang che lo riempie di botte e gli brucia il pick-up; ma in quelle vesti luride e sempre uguali (come la canotta che indossa lungo tutto il film, tesa sulla muscolatura delle spalle) non ci trova alcuna mortificazione, non si pronuncia in nessun movimento goffo. Johnny rinuncia alla partenza guardando alla sorellina Jashaun, che lo ama e che è innamorata di quella casa, sì dimessa, dimenticata, derelitta, asfissiata nel proibizionismo e in una giustizia solo locale, inquadrata sempre in paesaggi brulli e al crepuscolo, alla fine dei loro giorni; ma di quella fine inevitabile Johnny e Jashaun vogliono essere partecipi, trattenendo lo spirito selvaggio dei cavalli imbizzarriti della riserva, da non reprimere perché vitale, e un giorno spegnersi romanticamente, come una Macondo che perisce soffocata nella polvere.

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Chloé Zhao John Reddy Jashaun St. John 98 minuti
USA, 2015
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Ieri/oggi - Speciale Howard Hawks: La signora del venerdì

di Martina Mele
signora del venerdì

La signora del venerdì (His Girl Friday), trasposizione cinematografica firmata Howard Hawks della pièce teatrale Prima pagina [1] (di Ben Hecht e Charles McArthur, già adattata nel 1931 da Lewis Milestone) rappresenta una commedia chiave del cinema classico americano. Protagonisti sono Walter Burns (Cary Grant), direttore di un giornale di Chicago, e la sua ex-moglie Hildy Johnson (Rosalind Russell), ex-giornalista presso lo stesso quotidiano, alle prese con la loro complicata storia d’amore. Appresa la notizia dell’imminente matrimonio di Hildy con l’assicuratore Bruce Baldwin (Ralph Bellamy), Walter tenta di impedirle di sposarsi e prendere il treno delle 16 per Albany, dove i due neo-sposini andrebbero a vivere insieme alla madre di lui, affidandole il caso di Earl Williams che lei invano cerca di rifiutare.

Questa nuova screwball comedy firmata da Hawks è un film stratificato in cui si intersecano numerosi elementi d’analisi. Innanzitutto, sebbene il film rientri nella classificazione di commedia, esso è contemporaneamente connotato da tinte fortemente tragiche, tipiche del noir e del gangster movie: si pensi a quando il condannato a morte Earl Williams evade e irrompe nell’ufficio stampa puntando la pistola contro Hildy (figura 1); o a Mollie Maloy (Helen Mack) che, esausta delle calunnie sul suo conto fatte circolare dalla stampa, tenta il suicidio lanciandosi dalla finestra (figura 2); da un punto di vista estetico, si pensi anche alle ombre della forca proiettate sul muro (figura 3). Questo spessore drammatico emerge, inoltre, nella denuncia nei confronti di una realtà corrotta come quella della classe dirigente di Chicago, rappresentata dal disonesto sindaco (Clarence Kolb) e dallo sceriffo Peter B. Hartwell (Gene Lockhart), che vogliono sfruttare l’impiccagione di Earl Williams per fini elettorali (figura 4).

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Un altro livello d’analisi, probabilmente il più importante, è il binomio maschio/femmina. Difatti, la screwball comedy è «caratterizzata da uno spirito anarchico, da una rivolta nei confronti delle regole sociali e dei ruoli sessuali» (Alonge-Carluccio 2006, p. 82) e di questo aspetto La signora del venerdì è fortemente esemplificativa, a partire dal rifiuto di un linguaggio amoroso ‘canonico’ caratterizzato da frasi satiriche e frecciatine pungenti come quel «Se mai ti rivedrò, ti martellerò il cranio per suonarlo come un gong cinese», che Hildy dice a Walter; o ancora,  «Tra me e te c’è qualcosa che non potrà cambiare mai… - Tu mi piaci, questo è vero. Vorrei che non fossi un lestofante».
Hildy s’identifica con il principale fulcro narrativo attorno a cui ruotano gli eventi: in particolare, nella parte centrale del film, costituita dalle scene più salienti e d’azione (figura 5), vediamo Hildy abbandonare quel futuro costellato di pannolini e ninna nanne che s’illudeva davvero di desiderare (figura 6) per rivendicare la sua natura di donna libera e lavoratrice: «Io non sono una borghese giocatrice di bridge, sono una giornalista». La mescolanza di femminile e maschile si riscontra anche nel nomignolo non proprio felice che la stessa Hildy si dà, ossia pal, con allusione al Venerdì tuttofare di Robinson Crusoe.

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Scrive la critica Molly Haskell: «C’è nel suo cinema un senso del personaggio che, pur se basato sulle tipiche aspettative sessuali, va oltre, fino ai rovesciamenti di ruolo i quali, insieme alla mescolanza di umori comici e tragici, sono fonte di comicità e di pericolo [2] nella prospettiva hawksiana di un mondo precariamente diviso tra principio maschile e principio femminile» (Haskell 1981). Da una parte, l’uomo che cerca di riconquistare la propria donna attraverso il senso di colpa – W: Questo non te lo perderò mai mia cara... H: Questo che? W: Il divorzio...è una cosa che ti fa perdere la fiducia in te stesso. Ti dà la sensazione di essere superfluo –, l’inganno – Walter manda Sweeney, un altro giornalista, in vacanza per due settimane e riferisce a Duffy (Frank Orth) che Hildy si occuperà del caso Earl Williams ma Hildy questo ancora non lo sa… – e, soprattutto, il lavoro; dall’altra, l’astuzia femminile – Hildy fa nascondere a Bruce il bonifico bancario nella fodera del cappello, facendogli credere che sia una vecchia superstizione giornalistica –  e  un’ ‘aggressività’ che «diventa sempre meno incompatibile con la femminilità» – Hildy si lancia addosso al testimone che scappa mettendolo KO.

In ultima battuta, come si è potuto intuire, His Girl Friday è un film dalla straordinaria attualità soprattutto per la formulazione di «nuove possibilità nei ruoli dei sessi»: «il film propone il seducente miraggio di una relazione sessuale basata sull’uguaglianza invece che sullo sfruttamento, con una donna che raggiunge la parità politico-sessuale grazie alla sua intelligenza, alla sua energia creativa e alla sua indipendenza economica».

[1] Come mettono ben in evidenza Alonge e Carluccio nel loro saggio Il cinema classico americano, His Girl Friday è un film metadiscorsivo, un film che contiene cioè degli evidenti rimandi ad altri film. E questo Hawks non lo nega né lo nasconde. Nel libro di Joseph McBride, Il cinema secondo Hawks, citato dai due studiosi, alla domanda «Ci sono delle scene nei suoi film che ha rivisto e di cui poi ha pensato: ‘Oh, questa è piatta, avrei dovuto farla in modo diverso’?», Hawks rispose: - «Certo. Ecco perché la rubo e la rifaccio».
[2] «La pericolosità del mondo di Hawks, il senso di uno squilibrio cosmico (e comico), deriva dalla natura problematica della differenziazione sessuale, una questione che non è mai completamente risolta», specifica Haskell.

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Howard Hakws Cary Grant Ralph Bellamy Rosalind Russell 92 minuti
USA 1940
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A dieci anni dal terremoto: The Tree of Life di Terrence Malick

di Andrea Fontana
The tree of life recensione film 20

La parabola artistica di Terrence Malick non ha eguali. Esordisce nel 1973 con La rabbia giovane, posizionandosi nel bel mezzo della New Hollywood ma scardinandone gli elementi fondativi. Prosegue con I giorni del cielo, 1978, dove già si intuisce quanto sia precisa e limpida la sua poetica autoriale, il suo desiderio estetizzante di un cinema che racconti la vita, con tutte le sue complessità, favorendo l’occhio, l’immagine, l’immagine come poesia. E poi? Poi Malick scompare. Letteralmente. Lavora per qualche anno a Q, progetto di un film che, nel tempo, diverrà mitico. Ma non se ne fa niente. E di Malick non si sa niente. Fino al 1998, quando ritorna con La sottile linea rossa, opera corale in cui recupera prepotentemente le sue ossessioni, con una consapevolezza dei mezzi ancor più sorprendente. Sembra che quei vent’anni di assenza non ci siano mai stati.
Vent’anni in un batter d’occhio.

E poi? Altri sette anni e torna al cinema con The New World, rivisitazione della storia di Pocahontas. Ed è qui, nell’opera che ha destabilizzato molti, che Malick comincia a dichiarare apertamente ciò che avremmo dovuto capire già nel 1973, e cioè che la sua intenzione di autore, filosofo, regista e pensatore è quella di destrutturare la forma cinema, ripensare la narrazione, l’immagine, il rapporto fra lo spettatore e l’opera, fra l’occhio e lo schermo. Ed è così che, finalmente, riprende in mano Q, e realizza la sua opera più importante, assoluta e definitiva: The Tree of Life.

Il film è la storia di Jack O’Brien, un ragazzo del Texas che, nel corso degli anni Cinquanta, scopre la vita, la morte, l’amore. E lo fa vivendo il rapporto dicotomico con il padre severo (Brad Pitt) e la dolcezza della madre (Jessica Chastain). Da adulto si ritrova a pensare alla sua vita ed è pronto per fare il passo successivo verso una nuova consapevolezza. Nel mezzo, squarci di creazione del mondo.

Ho rivisto The Tree of Life, a distanza di dieci anni, dopo che ne rimasi folgorato la prima volta. Dopo che aveva vinto a Cannes, dopo essere diventato opera mitologica ancor prima della sua uscita. All’epoca andai al cinema più volte, conscio che quella visione era pura meraviglia, un terremoto nella monotonia di migliaia di visioni succedutesi negli anni, causa dell’annichilimento del mio stupore di spettatore. L’ho rivisto oggi, dopo dieci anni (durante i quali mi sono ritrovato a rivederlo, ristudiarlo, rianalizzarlo), nell’edizione proposta da Criterion Collection, che contiene un extended cut che differisce dalla versione cinematografica non solo per la presenza di sequenze aggiuntive, le quali portano la durata a un totale di 188 minuti, ben cinquanta in più, ma anche per la gamma cromatica della fotografia. E sono d’accordo con Samuele Sestieri quando afferma, su queste pagine virtuali, che quella versione è proprio un altro film. Ma al di là delle versioni a disposizioni, ciò che resta e vibra tutt’oggi in The Tree of Life è l’assoluta drasticità di un’opera che non scende a compromessi e sfida le leggi del cinema stesso.

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Con questo film, Malick si libera delle regole di produzione e si affida all’istante, al momento improvvisato, usando una traccia narrativa come vaga base. Un’idea, questa, non molto distante da quella teorizzata da Werner Herzog in Grizzly Man e, più in generale, in tutto il suo cinema degli ultimi vent’anni. Malick si affida all’immagine, la estremizza, trasformandola in un oggetto di pura estasi estetica. E poi la destruttura assieme alla narrazione lineare, che si sfalda, sostenuta solo da un montaggio che si dovrebbe definire emozionale, che muta e segue i ritmi del cuore. Da un punto di vista tecnico, questa libertà creativa è stata resa possibile dalla collaborazione artistica fra il regista e il direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, che qui è completamente libero di inventare un cinema visto in rare occasioni. Ma non è questa anarchia creativa a rendere The Tree of Life così maestoso e importante. Perché anche i film successivi proseguono questo percorso di caos narrativo e visivo, un caos controllato ma slabbrato, ma non ne conservano la potenza. Non ce l’ha Voyage of Time, che ne è una costola depauperata, non ce l’hanno nemmeno To the Wonder o il più riuscito Knights of Cups. The Tree of Life è un capolavoro innanzitutto perché mescola, con equilibrio, esigenze artistiche con quelle private. Perché nella storia di Jack, nella sua infanzia texana, nel suo passaggio all’età adulta, nel suo fare i conti con la morte in generale e con quella del fratello in particolare, c’è Terrence Malick. E il miracolo di The Tree of Life sta nell’aver saputo intersecare più elementi, ben distanti fra loro (il privato, il pubblico, il passato, il futuro, la filosofia e la teologia), generando una trama ben precisa, un tessuto che, visto da lontano, abbaglia per coinvolgimento emozionale. Questo suo spostarsi fra preistoria e passato e presente, delineando un fil rouge concettuale di straordinaria lucidità, fa sì che lo spettatore sia accompagnato in un viaggio immersivo, che si fa scoperta.

Dieci anni fa, dopo aver visto The Tree of Life al cinema, scrissi che il cinema pareva essere finito e che ogni visione, da quel momento in poi, sarebbe stata una sconfitta a quell’esperienza. Mi sbagliavo, naturalmente. Perché il cinema non morirà mai, anche se è già morto. E perché The Tree of Life raccontava esattamente questo, l’eco imprescindibile di un’emozione. Quell’emozione che chiamiamo vita.

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Terrence Malick
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Ieri/oggi - Speciale Howard Hawks: Arcipelago in Fiamme

di Alessandro Gaudiano
arcipelago in fiamme - recensione film Hawks

Per chi conosce il cinema di Howard Hawks, Arcipelago in fiamme (Air Force) è una sorta di banco di prova, un oggetto di difficile lettura: un film di propaganda e di guerra, progettato e girato in tempi rapidi con il pesante coinvolgimento del governo e dell'aviazione statunitensi, concepito per uscire in sala a un anno esatto dall'attacco di Pearl Harbor. Il film non arriverà sul grande schermo prima del 1943, dopo numerosi ritardi, riscritture e conflitti tra Hawks e le altri parti in causa. In altri termini, Arcipelago in fiamme è un film atipico per il suo regista, esito di circostanze straordinarie e di vincoli espressivi particolarmente stretti, girato in buona parte all'interno del modello di un bombardiere B-17. Cosa rimane, qui, dell'Autore passato e futuro? Quali sono i suoi spazi, qual è la sua voce?

Hawks non è un autore di film di guerra e, pur con gli ovvi vincoli del caso, ne rispetta solo parzialmente regole e convenzioni. Una costante della sua carriera: si pensi solo a Un dollaro d'onore (Rio Bravo), western che non ha quasi nulla del western se escludiamo i costumi e le scenografie, e ad altre opere meravigliosamente fuori dagli schemi. Di certo, però, Arcipelago in Fiamme va oltre il suo autore: la propaganda e l'obiettivo politico del film sono ben visibili e, spesso, ingombranti.

La visione di un film di guerra (totale) in un tempo di pace (apparente) è perturbante: non riconosciamo la feroce ideologia della mobilitazione e l'odio razziale come parte di noi, eppure sappiamo che quel cinema ci appartiene e ne vediamo l'immaginario all'opera ogni giorno. Hawks mette in scena le crude emozioni della violenza e dell'odio, senza edulcorarle – né avrebbe potuto farlo, ripetiamo – ma mostrandole con tutta la prosaicità possibile per un film il cui obiettivo è scandire, a chiare lettere, Why we fight. L'urlo di soddisfazione per la morte di un giapponese dura solo il tempo di una raffica di proiettili, lasciando subito spazio al silenzio o al rumore bianco della battaglia. Altrove, è molto più ovvio quanto Arcipelago in fiamme sia l'esito di un difficile compromesso: la lunga battaglia del finale non è nelle corde di Hawks, così come altre concessioni alla retorica ufficiale che puntellano l'intera sceneggiatura. Purtroppo, c'è anche spazio per del razzismo esplicito e si fa menzione di un coinvolgimento dei nippoamericani nell'attacco a sorpresa di Pearl Harbor che è storicamente falso, e che ha probabilmente contribuito, in quegli anni, alla persecuzione dei cittadini statunitensi di origine giapponese. In molte occasioni, l'intelligenza e l'ambiguità della messa in scena sono brutalmente sommerse dalle musiche trionfali e debordanti che non lasciano scampo allo spettatore.

Nonostante tutto, questo resta chiaramente un film hawksiano. Hawksiana è, per esempio, la costante tensione centrifuga rispetto alle convenzioni hollywoodiane. Quando uno dei personaggi del film scopre la morte del figlio, questi reagisce in un modo quasi opposto rispetto al collasso emotivo che ci saremmo aspettati in un'opera più banale. Altri personaggi, pur aderendo a modelli famigliari, non mancano di sorprendere o di mostrare insperati guizzi di vitalità. I soldati che volano sul bombardiere B-17 Mary Ann sono una sporca decina di eroi e antieroi, non sempre affiatata, sempre in azione e interazione: si interrompono a vicenda, si lasciano andare ad amichevoli prese in giro, sono costantemente in ebollizione mentre osservano, parlano, sparano, salgono e scendono... primo piano e sfondo si scambiano in continuazione, e le scene si dispiegano come piccoli, sobri piani sequenza la cui eleganza esplode, improvvisamente, in inquadrature di bellezza e profondità vertiginose. Come quell'ultima inquadratura che racchiude, in una elegante cornice di luce, uno stormo di bombardieri che vola verso il sole nascente... per un attimo, sembra quasi di dimenticare che il loro obiettivo sia quello di ridurre Tokyo in cenere.

Arcipelago in Fiamme è dunque ambiguo, scisso, complesso. E complessa – nel senso etimologico del termine: intrecciata, composta di più fili e più prospettive – deve essere la sua visione oggi. Una visione ben piantata in un dove, un come e un perché e chiaramente consapevole che il cinema è anche un campo di battaglia tra sguardi e poteri in disarmonia prestabilita.

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Howard Hakws John Garfield Arthur Kennedy Charles Drake 124 minuti
USA, 1943
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Ieri/oggi - Speciale Howard Hawks: Susanna!

di Samuele Sestieri
Susanna recensione film hawks

Chissà Martin Scorsese, girando Fuori Orario, quante volte avrà pensato a Susanna! (Bringing Up Baby in originale). Chissà se nell’architettura notturna di quella geniale detour kafkiana il riferimento primo non fosse proprio la screwball comedy per eccellenza, quella squisitamente iperbolica rappresentata dal capolavoro di Howard Hawks. Che certo non è tutto in una notte ma procede intelaiando una serie di sventure sempre più assurde, irruente e disastrose. A pagarne i danni il personaggio di Cary Grant, noioso paleontologo tutto scienza e raziocinio in procinto di sposare una donna che pare la sua ombra. Attende trasognante una clavicola intercostale mentre ammira lo scheletro di un brontosauro che vale più del suo futuro matrimonio. L’ingresso di Katharine Hepburn è subito uno shock: conserva tutta la potenza e l’irruenza di uno tsunami. Lei è la forza della natura, creatura libera e irrazionale, selvaggia e magnetica, continuamente eccedente: dinamite femminile pronta a far saltare in aria un intero sistema di valori.

Di una modernità sconcertante, completamente in anticipo sui tempi (siamo nel 1938!), Susanna! supera rapporti di potere e ribaltamenti di genere per aderire alla forza irrazionale dell’assurdo. Cary Grant perde tutto: lavoro, matrimonio e ragione. Totalmente in balìa della Hepburn, viene fagocitato dalla sua carica irrefrenabile e primordiale: non può farci nulla, qualsiasi resistenza si rivela inutile. Prova a combattere invano ma poi dichiara la sua resa incondizionata, che poi è la sconfitta dell’ordine e del decoro di fronte alla forza selvaggia dell’iperbole. La commedia sola, Hawks lo sapeva benissimo, può scalfire, oltraggiare, perfino offendere il comune senso della misura. Questo film anarchico e sfacciato, che fugge da ogni schema e ordine prestabilito, ci invita all’esilarante (e iconoclasta!) distruzione di equilibri o zone di comfort. La celebre, spettacolare caduta finale del brontosauro sta lì a testimoniarlo. Perché questa non è la solita rom-com, i protagonisti non si baciano come nell’happy end da classico americano ma piuttosto cadono rovinosamente in una gag slapstick che ha ingoiato il mondo intero. Prede e cacciatori, tutte parti di un girotondo dell’assurdo dove i leopardi sono animali domestici e i cani guidano le caccie al tesoro.

Si può guardare Susanna! come alla regina delle commedie degli equivoci, come al capolavoro situazionista capace di raggiungere un tale livello di parossismo da anticipare in cento minuti tanto, tantissimo cinema che sarebbe venuto (c’è perfino una strepitosa sequenza di travestitismo che arriva vent’anni prima del capolavoro wilderiano). Da qualsiasi prospettiva una cosa è certa: ancora oggi, ottant’anni dopo, vedere Susanna! è un’autentica goduria. Il ritmo è sfrenato, il movimento impudico, i dialoghi rimbalzano a velocità insondabili, le gag raggiungono picchi di crudeltà insuperate. Fino alla nevrosi, a un passo dalla follia. Si muore dal ridere, letteralmente.

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Howard Hakws Katharine Hepburn Cary Grant May Robson Charles Ruggles 102 minuti
USA 1938
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Ieri/oggi - Speciale Howard Hawks: Avventurieri dell'aria

di Jacopo Bonanni
Avventurieri dell'aria

A me non importa della vita, la dobbiamo tutti a Dio. Il mio destino sia quel che sia, si muore una volta sola.” - Shakespeare, Enrico IV

Un anno dopo il lungometraggio di William Wellman, che con il suo “Ali” (1927) aveva inaugurato il genere più in voga ad Hollywood tra gli anni ‘30 e ‘40, Hawks gira il suo primo film d’aviazione: La via delle stelle, purtroppo andato perduto. Il film, una sorta di dramma dal taglio documentaristico, era incentrato sull’addestramento di due piloti e sulle nevrosi del volo, sfruttando la scia dell’enorme successo di pubblico e di critica ottenuto appunto dal lavoro di Wellman. Il rapporto viscerale che Hawks sviluppa con il mondo dell’aviazione è una questione strettamente personale, legata a doppio filo con la sua biografia: da un lato infatti, prima di dedicarsi al cinema, il giovane regista era entrato in aereonautica, maturando una passione per il volo che avrebbe condiviso negli anni a seguire con il socio/avversario Howard Hughes. Dall’altro, perché Hawks era stato testimone della tragica morte del fratello Kenneth, precipitato in aereo al largo della baia di Santa Monica, durante le riprese del suo secondo film Navi Bianche; un evento traumatico che lo avrebbe segnato profondamente, al punto da commemorarlo implicitamente nel primo film sonoro della sua carriera: La Squadriglia dell’Aurora del 1930.

L’aviazione, nelle opere di Hawks, diventa un distillato delle esperienze moderne: il dominio della macchina, il controllo della velocità, l’acquisizione di un punto di vista globale, che permette di sovrastare la terra, raffigurano le sfide che attendono l’uomo del XX secolo. Inoltre, anche al di là della guerra, la figura del pilota si presta ad incarnare perfettamente il nuovo eroe americano mentre il cielo rappresenta l’ultima frontiera, conquistabile solo attraverso l’uso della tecnologia: quella radiofonica, che trasforma i piloti in presenze senza corpo, anticipando la natura fantasmatica di certi eroi in via di sparizione, e quella cinematografica che invece “potenzia lo visione”, traducendo il volo in un’esperienza di sguardo e di controllo del mondo attraverso la tecnica. A differenza di altri autori come John Ford, Hawks parte proprio dalla cultura del presente per rileggere il Mito e la Storia, infatti tutti gli eroi delle sue pellicole, compreso l’uomo del West, vengono elaborati solo dopo aver inquadrato la figura del pilota, matrice di tutte le altre. Questo novello “cavaliere dell’aria” altro non è che l’evoluzione più significativa della mitologia del pioniere, la cui missione è quella di traghettare nel “nuovo mondo” valori antichi quali: coraggio, lealtà e dedizione alla causa. Tuttavia, questa stessa figura muta, di pari passo alla sensibilità cinematografica di Hawks, assumendo fisionomie e caratteristiche differenti all’interno dei vari “capitoli” che compongono il filone aviatorio tratteggiato dal regista. Si passa così dai piloti, intesi come valorosi eroi di guerra che aderiscono ad un preciso codice d’onore, come quelli visti in La Squadriglia e Rivalità Eroica; a quelli relegati alla condizione di reduci sconfitti del film Brume, costretti ad arrendersi all’improvvisa marginalità sociale dei tempi di pace; fino ad approdare all’intrepida comunità di aviatori aeropostali capitanata da Cary Grant in Avventurieri dell’aria del 1939.

Avventuriari dell'aria 1

Il film in questione è la cronaca delle gesta di un manipolo di spericolati aviatori agli ordini di Geoff Carter, un pilota cinico e disilluso, che insieme al suo team rischia quotidianamente la propria vita in un angolo remoto del Sud America pur di adempiere al proprio dovere. Si tratta d’una storia “d’altri tempi” raccontata però dall’inusuale punto di vista femminile di Bonny Lee (Jean Arthur), una showgirl vagabonda di ritorno da una tournée, che si ritrova ad essere testimone di una sfida all’ultimo sangue tra uomo e natura. Confrontati ai loro predecessori, i piloti di Avventurieri si presentano immediatamente come un gruppo eterogeneo di amici, una vera e propria equipe di talenti, il cui obiettivo principale è quello di integrarsi gli uni con gli altri per cooperare in una costante roulette russa con la sorte; come osserveremo anche nel successivo Arcipelago in Fiamme in cui il valore della collettività è ancora più evidente ed assoluto. D’altronde anche in cielo ormai si vola in coppia e l’ideale romantico del cavaliere solitario ed individualista lascia il posto ad un sano cameratismo e ad un sentimento di virile solidarietà per affrontare le avversità di uno scenario aspro ed ostile, dove l’unica possibilità di sopravvivenza risiede proprio nell’abilità di riuscire a “fare squadra”. In tal senso è emblematico il personaggio interpretato da Richard Barthenless nel film: un pilota emarginato, reo di aver abbandonato un compagno durante una missione - decretandone la morte - che dovrà lottare contro il disprezzo di tutti prima di guadagnare la fiducia dei suoi compagni. Un processo analogo a quello a cui è sottoposta anche Jean Arthur, una donna isolata in un ambiente di soli uomini, che invece dovrà imparare ad adattarsi per comprendere a pieno lo spirito di cui è impregnato l’ambiente che la circonda: imparando le canzoni dei nativi, mescolandosi a loro e tentando di adeguarsi allo stoicismo dei piloti al punto da fare breccia nel cuore dell’incallito scapolo Grant. Il personaggio di Geoff – rude e superbo - è quasi una caricatura di machismo ma come i migliori eroi hawksiani, la sua essenza non è in ciò che dice ma in ciò che fa e il gesto che lo contraddistingue è la continua richiesta di fiammiferi, un rituale quasi liturgico che esprime il suo bisogno di instaurare rapporti: con l’amico fraterno Kid (Thomas Mitchell) a riprova di mutuo supporto e con Bonnie, manifestando cosi il desiderio di includerla nel suo mondo.

Rispetto a quanto già mostrato in altre pellicole, questo quarto film di Hawks dedicato all’aviazione non si basa tanto sulla fascinazione e il realismo delle riprese aeree, a cui il regista preferisce sostituire riprese da terra di atterraggi e decolli - di solito acrobatici o letali - accompagnati da scene di volo allusive e fuori campo sul potere simbolico degli ambienti evocati. Il primo - lo spazio principale - è il locale gestito da l’Olandese: un microcosmo articolato che funge da albergo, aereoporto, nightclub, dotato di un fascino sostanzialmente “luministico”, dove i protagonisti si raccolgono per elaborare tutti insieme il significato della morte, attorno alla luce fioca delle lampade al cherosene: simbolo della civiltà. Il secondo invece è quello rappresentato dalla cittadina immaginaria di Barranca con il porto, la nebbia e gli indios festosi che formano una seconda comunità relegata al ruolo di spettatrice. Infine il terzo ed ultimo spazio è la catena montuosa della Ande: teatro di una vera e propria guerra tra i piloti e gli uccelli rapaci che la dominano, metafora - a loro volta - dell’eterno duello tra uomo e natura che solleva il problema della fragilità umana. Un tema centrale nell’opera di Hawks che in questo caso viene evocato in tutte le sequenze d’azione - tanto brevi quanto schiette - che possiedono la stessa concisione riservata alle scene drammatiche - create rapidamente e altrettanto rapidamente superate - senza mai inoltrarsi nei territori del tragico, tenuti a distanza come le morti dei piloti, sovrastate dai rombi degli aerei e metabolizzate dagli sguardi terrorizzati degli astanti.

Prodotto dalla Columbia di Harry Cohn, il primo presidente di uno studios ad aver dato piena libertà d’azione ad Hawks come regista, Avventurieri dell’Aria, oltre ad essere considerato dai critici la sintesi più efficace dello stile dell’autore – fisico e geometrico – è soprattutto il prototipo di ogni film d’avventura che girerà in seguito – da Acque del Sud a El Dorado – in cui un gruppo di (anti)eroi al tramonto, avvolti in un turbine di fierezza, rabbia, egoismo e solidarietà, affrontano - a viso aperto - l’inesorabilità di un destino a cui non possono e non vogliono sottrarsi.

 

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Howard Hakws Cary Grant Jean Arthur Rita Hayworth Thomas Mithcell Richard Barthenless 121 minuti
USA, 1939
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Rifkin's Festival

di Emanuele Di Nicola
Rifkin's Festival di Woody Allen

Così Woody Allen descrive la lavorazione di Rifkin's Festival nella sua autobiografia A proposito di niente: «Un regista vessato, pieno di preoccupazioni, oggetto di attacchi continui, che già di suo non è Bergman, è in grado di sfornare un film divertente? D’un tratto la sfida diventa esaltante. Come sarà Rifkin’s Festival, il mio nuovo film? E chi lo sa. Ma so che mi sono divertito a girarlo ed è stato bello sentire Wally che recitava i miei dialoghi. La lezione che si ricava da tutto ciò, credo, è che esistono uomini che prosperano quando sono sotto pressione. Ovviamente non rientro nella categoria e, se il film verrà bene, sarà un miracolo». Ed eccolo Rifkin's Festival, cinquantesimo titolo alleniano, che rischiava di non uscire e invece - ironia non dell’arte, ma della vita - è il titolo della riapertura delle sale, nella tragedia epocale del Covid. Titolo girato nella bufera, da un regista “vessato” e “pieno di preoccupazioni” oltre lo schermo, che proprio su di esso, lo schermo, le ha sempre riversate in commedia, in un lungo film di se stesso tanto terribile quanto esilarante.

Ed ecco anche Wally, ovvero l’attore protagonista Wallace Shawn, volto alleniano di un’altra epoca, che sembra uscito da un lacerto invecchiato di Radio Days: è lui Mort Rifkin e il festival è quello di San Sebastian. L’ex professore di cinema vi arriva con la moglie Sue (Gina Gershon), ufficio stampa di un regista impegnato, Philippe (Louis Garrel), luogo comune dell’intellettuale francese borioso e ridicolo, quindi irresistibile, che col suo film vuole addirittura suggerire “la pace in Medio Oriente”. Se la moglie di Rifkin viene sedotta ovviamente da Philippe, per lui la materia dei sogni è Elena Anaya, che qui abita la pelle di una dottoressa spagnola: visita Mort per i suoi disturbi e scopre di avere gli stessi gusti. Inutile dire che Allen trova l’ennesimo alter ego in Wallace Shawn, anche se non precisamente, non esattamente: Wallace ha 77 anni e Woody 85, ma il protagonista e il regista rivendicano l’appartenenza allo stesso cinema classico, quello di Bergman e Fellini, citati e riscritti per l'ennesima volta, con il moto centripeto di Rifkin nel recinto festivaliero che è la sua stazione termale. I riferimenti appartengono a un mondo talmente passato, sono così già visti che fanno quasi tenerezza, anzi senza quasi: il dinosauro Allen è in grado di parlare solo di sé con onestà, perché non c’è nulla di più onesto delle proprie ossessioni. È anche per questo che la storia tra Rifkin e la bella Jo non si può concretizzare: attiene al mondo delle idee, non ricade mai nel concreto, perché parliamoci chiaro, non basta un gusto affine per conquistare una donna con oltre trent’anni di meno, l’amore del “vecchietto” Rifkin/Allen dunque non è pensabile. Elena Anaya resta una chimera.

Rifkin's Festival di Woody Allen

«Non ho mai fatto capolavori», ripete Allen nelle ultime interviste. A prescindere dall’opportunità di concordare o meno - la prima è difficile -, il punto della questione diventa allora la modestia. Il drammaturgo Rafael Spregelburd l’ha inserita nella sua Eptalogia sui nuovi peccati capitali, nella pièce La modestia (appunto), indicandola come “peccato” che avvolge i quattro personaggi sulla scena in una scala che va dal dramma al paradosso. Uno di loro racconta di una straordinaria vincita al casinò, lasciata interamente al croupier: «L’ho fatto per modestia», dice. La modestia è il peccato di Woody Allen? No, piuttosto è la sua strada per il riconoscimento della piccolezza dell’uomo nel mondo e, soprattutto, davanti alla morte. Con la nera signora già danzava in Amore e guerra, materializzando la pittura medievale, consapevole da quarantenne che la Totentanz prima o poi tocca a tutti. Torna a giocare con lei in Rifkin's Festival, a scacchi naturalmente: e trova il coraggio di scherzare con la morte anche oggi nella senilità, mentre si avvicina l’incontro definitivo, con la figura di Christoph Waltz in parodia di Max von Sydow che impartisce ovvi consigli alimentari (per vivere molto bisogna mangiare le verdure).

Il colpo di scena più sorprendente di questo Rifkin's Festival sta infatti proprio nel destino di Rifkin, che si chiama Mort ma non muore: perde la moglie, non avrà l’amante, va verso l’imponderabile eppure non è alla rovina, anzi ha raccontato la sua storia e si è “liberato”, non ha altro da dire, può lanciare uno sguardo al futuro. D’altronde la vita è senza significato, ma non vuota: si può riempire con cinquanta film, per esempio, oppure con un tramonto a San Sebastian di Vittorio Storaro, frammenti di cinema grande in un film più piccolo. Come Woody Allen è un piccolo uomo anziano davanti al destino, che però non si arrende: la sua modestia è il riconoscimento di sé al tempo della sopravvalutazione, l'auto-limitazione nell'era del volo pindarico. Ma pur sempre dentro un festival, ovvero dentro le sue battute e visioni, quindi dentro il cinema. Rifkin’s Festival è un film “modesto” che sa di esserlo e reca una dote inestimabile: si presenta alla morte col sorriso. E alla fine la rimanda. Allen scrive in immagine i versi di Georges Brassens, che chiedeva di essere sepolto sulla spiaggia di Sète: «Mi insegue con zelo imbecille la Morte / Perché non mi ha mai perdonato / Di averle piantato dei fiori nei buchi del naso».

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Woody Allen Wallace Shawn Gina Gershon Louis Garrel Elena Anaya 92 minuti
Spagna
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