A dieci anni dal terremoto: The Tree of Life di Terrence Malick

di Terrence Malick

Sono passati dieci anni da quando The Tree of Life di Terrence Malick è stato distribuito in Italia. Cosa è rimasto di questo film? È stato davvero un crocevia, come in tanti credevano allora, o solo un abbaglio?

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La parabola artistica di Terrence Malick non ha eguali. Esordisce nel 1973 con La rabbia giovane, posizionandosi nel bel mezzo della New Hollywood ma scardinandone gli elementi fondativi. Prosegue con I giorni del cielo, 1978, dove già si intuisce quanto sia precisa e limpida la sua poetica autoriale, il suo desiderio estetizzante di un cinema che racconti la vita, con tutte le sue complessità, favorendo l’occhio, l’immagine, l’immagine come poesia. E poi? Poi Malick scompare. Letteralmente. Lavora per qualche anno a Q, progetto di un film che, nel tempo, diverrà mitico. Ma non se ne fa niente. E di Malick non si sa niente. Fino al 1998, quando ritorna con La sottile linea rossa, opera corale in cui recupera prepotentemente le sue ossessioni, con una consapevolezza dei mezzi ancor più sorprendente. Sembra che quei vent’anni di assenza non ci siano mai stati.
Vent’anni in un batter d’occhio.

E poi? Altri sette anni e torna al cinema con The New World, rivisitazione della storia di Pocahontas. Ed è qui, nell’opera che ha destabilizzato molti, che Malick comincia a dichiarare apertamente ciò che avremmo dovuto capire già nel 1973, e cioè che la sua intenzione di autore, filosofo, regista e pensatore è quella di destrutturare la forma cinema, ripensare la narrazione, l’immagine, il rapporto fra lo spettatore e l’opera, fra l’occhio e lo schermo. Ed è così che, finalmente, riprende in mano Q, e realizza la sua opera più importante, assoluta e definitiva: The Tree of Life.

Il film è la storia di Jack O’Brien, un ragazzo del Texas che, nel corso degli anni Cinquanta, scopre la vita, la morte, l’amore. E lo fa vivendo il rapporto dicotomico con il padre severo (Brad Pitt) e la dolcezza della madre (Jessica Chastain). Da adulto si ritrova a pensare alla sua vita ed è pronto per fare il passo successivo verso una nuova consapevolezza. Nel mezzo, squarci di creazione del mondo.

Ho rivisto The Tree of Life, a distanza di dieci anni, dopo che ne rimasi folgorato la prima volta. Dopo che aveva vinto a Cannes, dopo essere diventato opera mitologica ancor prima della sua uscita. All’epoca andai al cinema più volte, conscio che quella visione era pura meraviglia, un terremoto nella monotonia di migliaia di visioni succedutesi negli anni, causa dell’annichilimento del mio stupore di spettatore. L’ho rivisto oggi, dopo dieci anni (durante i quali mi sono ritrovato a rivederlo, ristudiarlo, rianalizzarlo), nell’edizione proposta da Criterion Collection, che contiene un extended cut che differisce dalla versione cinematografica non solo per la presenza di sequenze aggiuntive, le quali portano la durata a un totale di 188 minuti, ben cinquanta in più, ma anche per la gamma cromatica della fotografia. E sono d’accordo con Samuele Sestieri quando afferma, su queste pagine virtuali, che quella versione è proprio un altro film. Ma al di là delle versioni a disposizioni, ciò che resta e vibra tutt’oggi in The Tree of Life è l’assoluta drasticità di un’opera che non scende a compromessi e sfida le leggi del cinema stesso.

criterion

Con questo film, Malick si libera delle regole di produzione e si affida all’istante, al momento improvvisato, usando una traccia narrativa come vaga base. Un’idea, questa, non molto distante da quella teorizzata da Werner Herzog in Grizzly Man e, più in generale, in tutto il suo cinema degli ultimi vent’anni. Malick si affida all’immagine, la estremizza, trasformandola in un oggetto di pura estasi estetica. E poi la destruttura assieme alla narrazione lineare, che si sfalda, sostenuta solo da un montaggio che si dovrebbe definire emozionale, che muta e segue i ritmi del cuore. Da un punto di vista tecnico, questa libertà creativa è stata resa possibile dalla collaborazione artistica fra il regista e il direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, che qui è completamente libero di inventare un cinema visto in rare occasioni. Ma non è questa anarchia creativa a rendere The Tree of Life così maestoso e importante. Perché anche i film successivi proseguono questo percorso di caos narrativo e visivo, un caos controllato ma slabbrato, ma non ne conservano la potenza. Non ce l’ha Voyage of Time, che ne è una costola depauperata, non ce l’hanno nemmeno To the Wonder o il più riuscito Knights of Cups. The Tree of Life è un capolavoro innanzitutto perché mescola, con equilibrio, esigenze artistiche con quelle private. Perché nella storia di Jack, nella sua infanzia texana, nel suo passaggio all’età adulta, nel suo fare i conti con la morte in generale e con quella del fratello in particolare, c’è Terrence Malick. E il miracolo di The Tree of Life sta nell’aver saputo intersecare più elementi, ben distanti fra loro (il privato, il pubblico, il passato, il futuro, la filosofia e la teologia), generando una trama ben precisa, un tessuto che, visto da lontano, abbaglia per coinvolgimento emozionale. Questo suo spostarsi fra preistoria e passato e presente, delineando un fil rouge concettuale di straordinaria lucidità, fa sì che lo spettatore sia accompagnato in un viaggio immersivo, che si fa scoperta.

Dieci anni fa, dopo aver visto The Tree of Life al cinema, scrissi che il cinema pareva essere finito e che ogni visione, da quel momento in poi, sarebbe stata una sconfitta a quell’esperienza. Mi sbagliavo, naturalmente. Perché il cinema non morirà mai, anche se è già morto. E perché The Tree of Life raccontava esattamente questo, l’eco imprescindibile di un’emozione. Quell’emozione che chiamiamo vita.

Autore: Andrea Fontana
Pubblicato il 18/05/2021

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