Il collezionista di carte

di Pietro Lafiandra
Il collezionista di carte - recensione film schrader

Sarebbe superficiale ridurre Il collezionista di carte (traduzione, ahimè, capziosa a tal punto da attirare in sala un pubblico non certo avvezzo – e felicemente – al cinema di Paul Schrader) a una versione laica di First Reformed. Se è vero che la produzione più recente del regista si è ormai consolidata sul grande tema dell’espiazione della colpa, e che la forma del suo cinema è sempre più vicina a quel Bresson che continua, ripetutamente, ostinatamente, a citare (come questo possa essere considerato un “appiattimento” per certa critica, resta un mistero), lo Schrader di The Card Counter è questa volta marcatamente politico, e la riflessione che ricava a partire da un’immagine mancante non può essere liquidata facilmente, ma va piuttosto letta alla luce della sua educazione calvinista: Schrader infatti ha ricevuto tale formazione in gioventù, nel seminario della Chiesa Cristiana Riformata, dove la spettatorialità cinematografica è vietata; va da sé, quindi, che la produzione di immagini e la Colpa vadano a braccetto nella sua riflessione.

William Tell (un meraviglioso Oscar Isaac) ha finito di scontare otto anni di carcere, inflittigli per essere stato aguzzino ad Abu Ghraib, in Iraq, e decide di sopravvivere con le vincite essenziali (qualche centinaio di dollari) che riesce a ottenere contando le carte nei vari Casinò. I suoi piani vengono però sconvolti dall’incontro con Cirk (Tye Sheridan), un ragazzo che cerca vendetta contro il maggiore John Gordo, il carnefice capo e primo responsabile delle torture, risparmiato grazie al suo peso politico e al fatto che nelle foto che ipotecavano lo scandalo non apparisse; Cirk infatti accusa Gordo per il suicidio del padre, commilitone di Tell che, terminata la reclusione, ha ripetutamente violentato moglie e figlio prima di togliersi la vita.

The Card Counter è un film sulle immagini assenti, sul potere che l’immagine celata alla vista esercita sui personaggi (un figlio privato dell’immagine del padre, un uomo condannato perché in una fotografia non figurava il suo superiore) e sugli spettatori, torturati dal non visibile, da quelle violenze che, per tutta la durata del film, guadagnano forza proprio perché in fuori campo, lontane dagli occhi e quindi dal mare magnum delle immagini pornografiche che affollano il contemporaneo. Le fotografie che diedero vita allo scandalo di Abu Ghraib nel 2004 sembravano una rivelazione, la manifestazione di una realtà segretata agli occhi del paese e al mondo intero che segnò un grosso scollamento tra Bush e l’opinione pubblica, ma le immagini che certificano il dramma personale, quelle vissute in prima persona dagli aguzzini, quelle della tortura, nello specifico, devono rimanere lontane dallo schermo e quindi dal pubblico, troppo personali, troppo reali per essere riportate, stilizzate, o anche solo immaginate.

Come il Michael Moore di Fahreneit 9/11 che validava il dramma dell’11 settembre con uno schermo nero che lasciava spazio al solo audio del crollo delle torri, per Schrader l’immagine è un trauma, o forse Il trauma, e se in First Reformed il pastore interpretato da Ethan Hawke finiva con l’auto-torturarsi per le immagini che tempestavano la sua, e solo la sua, mente, questa (mancata?) espiazione di William Tell assomiglia più a un tentativo di esorcismo di un trauma sociale, che può trovare soluzione, se davvero la può trovare, solo nel confronto diretto, isolato e occultato con quelle stesse immagini che, prive di supporto materiale, faticano a sbiadire, impedendo al protagonista la possibilità di (re)integrarsi in una realtà utopica in cui queste non sono mai state prodotte.

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Paul Schrader Oscar Isaac Tye Sheridan Tiffany Haddish Willem Dafoe 112 minuti
USA, Svezia 2021
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Drive My Car

di Saverio Felici
Drive My Car - recensione film Hamaguchi

La visione incrociata di due film antitetici come Titane e Drive My Car rivela qualcosa in più del banale paraculismo della giuria di Cannes 2021. Il successo delle due pellicole sintetizza due opposte ma complementari visioni di un certo cinema contemporaneo – capaci di proporre qualcosa di nuovo e vitale in due sottogeneri forse marcescenti quali il body horror (per Ducournau), e il drammone di lutti (Ryūsuke Hamaguchi). Del primo, Titane è la resurrezione in nome della visionarietà deflagrata e barocca, trionfo del senso immaginifico del cinema; del secondo, Drive My Car rappresenta l'astrazione a parole, romanzo che si fa immagini in un lavoro che parte da un testo magistrale per trovare nelle scarne e solenni inquadrature un semplice supporto espressivo. E come non si può non provare istantanea simpatia per l'intransigenza quasi adolescenziale della poetica della francese, l'opera di Hamaguchi è invece a tutti gli effetti un film della maturità, il lavoro della consacrazione per un autore relativamente giovane che, dopo questo e l'Orso d'Argento a Berlino (per Il gioco del destino e della fantasia, girato lo stesso anno), è oggi ufficialmente una voce con cui fare i conti.

Quest'idea di romanzo cinematografico, portato in Drive My Car a vette di complessità intratestuale da vertigine, rappresenta una scoperta relativamente recente. In occidente abbiamo imparato ad associare un simile approccio alla produzione sudcoreana: e anche di fronte a Drive My Car, è in particolare molto facile trovarsi a ripensare a Lee Chang-dong - a testimonianza dell'impronta decisiva posta dell'autore di Burning sulle prospettive meno banali del dramma cinematografico moderno. E proprio con il capolavoro del 2018, l'opera giapponese sembra nutrire un rapporto di parentela diretta, quasi da corollario o naturale prosecuzione (anche in virtù della comune provenienza, la raccolta Uomini Senza Donne di Haruke Muramaki, involontario testo sacro di questi anni). Una corrispondenza che si ritrova non tanto nelle immagini, quanto in ciò che ne resta fuori - nell'ellissi del racconto, nel senso di nulla che sembra premere, al di là delle inquadrature, sulle vite degli enigmatici protagonisti: qui, un attore di teatro (Hidetoshi Nishijima), paralizzato da un lutto insostenibile (che arriva dopo quaranta minuti di prologo, a proposito di tempi letterari) e tornato in scena dopo due anni alla guida di una nuova rappresentazione dello Zio Vanja. Accompagnato dalla sua non meno sfuggente autista personale Misaki (Toko MIjura, perfetta), l'uomo si costringerà a indagare l'enigma della persona scomparsa, aprendosi per la prima volta a chi le fu vicino, scavando tra rimossi, sensi di colpa e segreti portati nella tomba.

Nel silenzio e nelle parole, tra sogni, teatro e racconto di finzione, l'elaborazione giapponese di Muramaki è però ben diversa da quella inquietante e spettrale proposta da Lee in Burning. Differenze minimali, che alterano il senso del testo e ne amplificano ulteriormente la sottesa dimensione umanista; al formalismo vertiginoso spesso portato al parossismo tipico del cinema di Seul, Hamaguchi antepone nella sua rilettura del connazionale la lodevole tradizione giapponese del rigore, Ozu e Mizoguchi, l'emotività attraverso l'economia di gesti e di movimenti. In quella che progressivamente si disvela come una fluviale epopea del lutto, l'autore chiama però a raccolta anche la tradizione del cinema sperimentale americano, della Scuola di New York e della buonanima di Cassavetes: quest'ultimo in particolare, citato ripetutamente nelle interviste, è probabilmente alla base del viscerale rapporto di Hamaguchi con i suoi attori, chiamati a contribuire come autori aggiunti alla resa dei rispettivi alter-ego filmici.

Rispetto all'esordio Happy Hour (sei ore di recitazione con non professionisti, ovviamente figlia di Volti e Mariti dell'idolo newyorkese), Drive My Car rinuncia in toto all'improvvisazione, incorporando organicamente la propria matrice letteraria in un discorso prettamente filmico sull'assenza, gli altri, la perdita. È strutturato geometricamente in tre ore, distese e dense come tre ore di lettura, in cui le mille diramazioni del testo principale moltiplicano le chiavi di lettura della parabola, acquisendo nuove prospettive a ogni punto di vista proposto. Una complessità che non è complicazione, ma confronto serio e necessario con le difficoltà di un tema raramente dissezionato così nel profondo (avrà rosicato anche qui, il povero Moretti? Ben più che per Titane, il ko tecnico con Hamaguchi glene darebbe modo). È un film di morti, di persone assenti, e dei misteri che continuano a lasciarsi dietro. Ma è anche un film su chi rimane, sul conoscere se stessi attraverso gli altri, senza trovare risposte, ma solo nuove domande con cui imparare a convivere.

Nel lento e penoso risveglio del protagonista alle persone attorno a lui, assume il ruolo centrale un discorso ulteriormente metacinematografico legato al senso della recitazione, e dell'interpretazione. Drive My Car mette alla berlina la propria stessa essenza creativa come processo sconvolgente, da temere e fuggire - come il protagonista, che venera Checov e assieme ne ha il terrore, inseguito dal suo "bisogna vivere" come da una maledizione. Un dolore legato al processo di gnosi che lo scrivere e interpretare altre vite porta con sé, disturbante e illuminante oltre ogni implicazione terapeutica. E' qui il vero centro e cuore del film, che alla diade di spazi esplicitamente psicanalitici del letto matrimoniale e della Saab in movimento, aggiunge il terzo polo del palco teatrale: tre spazi espressivi di autoanalisi, di scoperta dell'altro e dunque di sé. Drive My Car affida al suo stesso medium il ruolo più importante: tradurre le lingue senza voci di chi non parla, svelare l'esistenza di misteri senza soluzione.

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Ryūsuke Hamaguchi Hidetoshi Nishijima Tōko Miura Masaki Okada Reika Kirishima 179
Giappone 2021
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Titane

di Saverio Felici
Titane recensione film Ducournau

E' bello che dal mucchio selvaggio di auteurs presentati in parata sulla croisette di Cannes 2021, a uscirne in testa sia stata infine Julia Ducournau. Merito di Spike Lee presidente di giuria, forse - ma soprattutto di un intero sistema produttivo, quello francese, che nella sua edizione volutamente più gonfia e tronfia a memoria recente ha comunque trovato il coraggio di anteporre ai mostri sacri Carax, Dumont, Audiard (e una dozzina di altri almeno di pari importanza) un film come Titane. E' una grande mossa, con furbizia e lungimiranza da Premi Oscar più che da festival europeo (c'è differenza in fondo? vecchio dibattito). Quella francese è un'industria che non ripudia i suoi grandi (cui anzi distribuisce come Babbo Natale tutti i premi minori), ma che utilizza consapevolmente la propria piattaforma di maggior risonanza per dare a operatori e consumatori il messaggio di un avvenuto cambio di passo: oggi il cinema europeo che vogliamo fare, quello che vogliamo applaudire e sostenere, non è Tre Piani, ma Titane.

La Palma d'Oro 2021 è dunque il “classico” secondo film di giovane autore coraggioso – che ha impressionato al debutto (Raw, che per senso della misura in confronto a questo pare Dreyer), e sa di poter disporre, per la prima e forse ultima volta in carriera, di carta bianca totale. Ducournau si è presa cinque anni, e ha infine investito il credito accumulato grazie al successo del primo film nel più classico “progetto della vita” da ora-o-mai-più; e come tutti i progetti della vita, se pecca, è solo per troppo amore. Che il risultato abbia portato a casa addirittura la Palma, oltre che scommessa vinta per l'autrice, rappresenta anche uno statement fondamentale per Cannes stesso; da anni timidamente apertisi ai generi "bassi" (forse sulla scia di Venezia, in questo più avanti), Frémaux e compagni ripudiano oggi i vecchi padri-padroni di mille selezioni ufficiali in nome di un body horror surrealista di gravidanze bestiali, arrivato a partorire il cinema che, metaforicamente e non, ne prenderà il posto.

Preso atto che di fronte a proposte come Titane sono i gusti personali ad avere l'ultima parola, non è giusto fare una colpa a quanti abbiano stroncato il film, o si siano dichiarati invecchiati precocemente dalla visione. Pregi e difetti sono quelli di una giovane autrice con grandi idee, vorace passione cinefila e un giustificato disprezzo ideologico per ogni compromesso e passo indietro. Infastidisce il pasticcio di temi? Di stili? Turba la satira che si mischia al dramma, e poi al comico e all'horror, al melò e al softcore, senza venirne a capo e senza neanche provarci? Che il film manipoli se stesso prima ancora che lo spettatore, cambiando forma a tradimento ogni venti minuti, dissimulando un controllo formale cui forse ha già rinunciato in partenza - come se il suo violento strafare ne sia la chiave di lettura stessa? E' teatro della crudeltà o infantilismo becero? Prendere o lasciare. Se da anni uffici stampa assai fantasiosi raccontano di platee messe in fuga da quel morto di sonno di Von Trier, una volta tanto con Ducournau si può parlare con cognizione di “film shock” vero, d'altri tempi; tutte le reazioni, anche le più estreme, sono pienamente giustificate.

Titane è quindi il racconto di un clash tra generazioni, sessi, e cinematografie: da una parte, la ballerina  Agethe Rousselle, attratta fisicamente dalle automobili e afflitta da problemi anche peggiori (qui, il body horror) – dall'altra, l'enorme Vincent Lindon di tanto cinema istituzionale francese, comandante di una squadra di pompieri alle prese con l'improvviso ritorno a casa del figlio, scomparso da bambino anni prima (qui, il dramma borghese). Due linee impossibili da conciliare, integrate in un plot schizofrenico che sembra godere della sua stessa deformità. La sofferenza quasi fisica che Titane prova nell'amalgamare le proprie anime non danneggia il film - è il film: un film che porta l'idea di contaminazione ai suoi limiti (extra-specisti, incestuosi), trovando nell'annullamento consapevole i suoi lampi di straziante dolcezza. Per una volta, l'aggettivo cronenberghiano non è stato speso a caso; la mutazione biopunk riflette un'evoluzione trascendentale dell'essere, parto di una Nuova Carne o un nuovo cinema, che aggiorna l'ormai stantia “commistione di generi” alla commistione di ogni forma di audiovisivo.

Il vortice della trasformazione violenta che Titane racconta è un tema archetipico, tanto forte da tirare in sé ogni altra elaborazione tangente: identità francese, mascolinità, vecchiaia, transgenderismo, genitorialità, religione, Freud e Ballard, Donna Haraway e Caterina Caselli - tutti nel tritacarne della morte e della rinascita, e ovviamente dell'amore. Ducournau sembra quindi procedere per impressioni, lasciando allo spettatore l'arduo (e vano) compito di venire a capo dei suoi beffardi non sequitur. Il suo approccio non è razionale quanto libidinale, emotivo: il senso sta nella perdita dello stesso, nel vano tentativo dei protagonisti di reprimere, schiacciare, mutilare un cambiamento ormai irreversibile.
L'horror moderno, soprattutto anglosassone, ha spesso ragionato sull'immanenza di questa precarietà: pareva però che sublimare tali inquietudini nella ghost story minimale, esangue metafora di questo o quel malessere sociale, fosse l'unica maniera di farci i conti. Titane entra di spinta in questo scenario, apre le finestre, fa entrare aria e luce nel decennio finalmente pronto a partire. Scaccia i fantasmi, torna a parlare di corpi e di film, e accoppiandoli a forza genera mostri irricevibili e senza padri biologici. Se questa è la new flesh del cinema d'autore europeo, e Ducournau il nuovo teen idol per giovani volenterosi cinéphile in cerca di stelline da idolatrare, allora avanti tutta: gli anni duemilaventi sapranno farci divertire.

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Julia Ducournau Vincent Lindon Agathe Rousselle Garance Marillier Bertrand Bonello 108
Francia 2021
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Annette

di Andrea Giangaspero
Annette - Recensione film Leos Carax

Henry McHenry e Ann Defrasnoux si dividono i palcoscenici di Hollywood e si amano condividendo i rispettivi successi, cullando un divismo esagerato nella somma delle loro immagini pubbliche. Lui è uno stand-up comedian, fa soffocare dal ridere il suo pubblico con una comicità non del tutto ilare e più propriamente feroce (come avviene per la messinscena della sparatoria al Bataclan); l’altra è un soprano di fama mondiale, canta la tragedia con tono purissimo e profetico, vestita di sangue e accasciata col corpo su una scenografia da film espressionista. Il prodotto (letterale) della loro unione è una bambina, Annette, che genererà degli squilibri e porterà la tragedia dal teatro alla vita dei due amanti, assurgendo infine – da enfant troppo prodige per essere vero, dunque non umano, burattino – a sintesi dei loro successi.

Ma facciamo un passo indietro. Perché l’orientamento più comodo e naturale per interrogare l’approccio di Leos Carax ad Annette, premio per la miglior regia a Cannes 74, non può che muovere assecondando la domanda dell’autore in apertura del film. Siamo in uno studio di registrazione. “So may we start?” chiede il regista alla band degli Sparks, che trasforma queste parole in canzone e avvia il film con un’ouverture da classico musical. Tutto il team della produzione marcia fuori dallo studio di registrazione, raggiunto dal cast, con Adam Driver, Marion Cotillard e Simon Helberg, prima che il titolo sbarchi su sfondo nero e separi quelle immagini dall’immersione nella finzione vera e propria. Per critici ed esperti del settore, Holy Motors è stato il film che meglio si è pronunciato sull’immagine filmica nell’ultimo ventennio. Ora, a distanza di 8 anni dal capolavoro di Carax, con Annette il dialogo tra immagine e sguardo si fa schietto, conclamato, calato com’è entro una cornice che dichiara apertamente l’evidenza della finzione e acuisce la necessità della partecipazione dello sguardo spettatoriale. Se lo poniamo in rilievo è perché, facendosi il suo statuto autoevidente e raccontando al suo interno una storia d’amore e di spettacolo, sembra che Carax voglia perseguire l’essenza, la dote più pura che il cinema possa offrire. Quale? Quella che fa parlare le immagini di sé, della propria natura, e le rende sensibili, vive perché emotive, cariche d’amore.

E “we love each other so much è quello che cantano Henry e Ann. Lo fanno ad infinitum e ad nauseam, sottovoce nei boschi o gridandolo in moto. Poco importa che l’autenticità del sentimento ceda sotto i colpi dell’ego, perché anche l’amore per il proprio successo dà profondità alle immagini, come quando osserviamo nel dietro le quinte Henry ammirare teso e invidioso Ann, che muore performativamente sotto scroscianti applausi a teatro, e la guarda poi su un display mentre si inchina con un sorriso pieno, un gesto grato e godurioso, attraverso la ripresa sgranata di una videocamera di sorveglianza. È sempre una questione di vista e di messa in quadro, che si tratti appunto di un display (il successo della stessa Annette sarà attestato mediante questa forma, coi suoi voli su palco riprodotti tra smartphone e tablet) o di un proscenio, dove la pienezza egotica di Henry dice dell’amore per lo spettacolo e per il successo. La dimensione performativa partecipa allora a questa realizzazione, specie perché i piani del teatro e del cinema scivolano l’uno sull’altro mettendo in moto un processo di tridimensionalizzazione della rappresentazione, quindi dell’immagine. Ann accede ad una foresta che si apre sul fondo del proscenio asettico e grigio in cui sta cantando, per poi farvi ritorno dalla stessa soglia. Henry interroga il pubblico che conosce le battute e replica in coro, prima docile poi veemente. Senza questo supporto lo spettacolo risulterebbe monco: è il cinema a modificarne la natura acuendone le possibilità. E oltre i palcoscenici, nel backstage di Henry, per strada e a casa, il teatro interviene a cancellare l’impressione di realtà del cinema. Certo, questo perché Annette è un musical, il recitato si fa cantato. Ma tutto è spettacolo. Persino il Me Too, le cui battute da repertorio nei notiziari vengono appiattite su schermo e musicate (i giornalisti chiedono, ovviamente, “why now?”, le sei ragazze vittime di violenza diranno in coro “all with a similar story”).

Anche l’ampio citazionismo sta lì a mostrare la traccia della storia, teatrale e cinematografica, affinché questa possa essere ancora materia viva e funzionare nel presente. Carax ricrea e rimette in scena: Ann annega scendendo lentamente nel fondale del mare come in The night of the hunter (1955); Henry sfrutta la figlia rendendola una diva come Svengali in Trilby (romanzo di George du Maurier del 1894); l’immagine fantasmatica del gorilla attinge a più riferimenti (è, per di più, l’immagine per eccellenza dello shock, dell’innovazione al cinema, come scriveva Mark Cousins); ovviamente la lettura di Pinocchio nella veste da burattino della piccola Annette; e tutta la teatralità melodrammatica di King Vidor, per primo ringraziato dal regista stesso nei titoli di coda.

In voice over all’inizio del film, Carax aveva chiesto di trattenere il respiro per tutta la durata della visione. Proprio in questi giorni sta passando in sala The card counter, in cui la voce del protagonista, Oscar Isaac, accompagna la colonna sonora con un respiro affannoso, sofferente. Schrader e Carax sono evidentemente due maestri lontanissimi, incomparabili (e grazie tante), ma è curioso tentare di leggere, nelle contrizioni dell’uno e nella teatralità sensuosa dell’altro, un uguale riconoscimento del respiro delle immagini. La trattenuta del soffio o la liberazione polmonare dicono qualcosa di un cinema che è sì oggetto per loro numinoso, ma soprattutto da percepire come organo vivo.

Nella sua risoluzione tragica, Adam Driver guarda in macchina e impone di non essere più guardato. “Stop watching me”, titoli di coda e corteo del cast per ringraziare lo spettatore. Le immagini possono smettere di respirare e noi finalmente possiamo svuotare i polmoni da quella trattenuta.

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Leos Carax Adam Driver Marion Cotillard 140 minuti
Francia 2021
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Tre piani

di Emanuele Di Nicola
Tre piani di Nanni Moretti

Bisogna fare una premessa prima di avvicinarsi a Tre piani di Nanni Moretti: per tentare di capire l’opera, stavolta più che mai, è necessario guardare ciò che sta sullo schermo, non dentro le nostre aspettative, vedere il regista di questo film e non colui che conoscevamo in passato, affrontare quello che c’è e non quello che vorremmo ci fosse. Insomma, per assurdo, dimenticare Moretti, mettere da parte l’aggettivo “morettiano” per come tradizionalmente lo intendiamo. Perché Tre piani è radicalmente diverso da tutto ciò che il cineasta ha girato finora, eppure si inserisce con coerenza assoluta nel percorso da lui intrapreso in questi anni. E forse apre una nuova fase.

Tre piani, ormai è noto, si ispira liberamente all’omonimo libro di Eshkol Nevo, ma esegue un gesto di riscrittura radicale: sposta la storia dal palazzo di Tel Aviv a un condominio nel quartiere Prati a Roma, espungendo così la componente israeliano-palestinese che è sottofondo costante del romanzo. Basti pensare alla colpevolizzazione del vicino di casa, operata dal personaggio di Scamarcio, per rendersi conto del suo significato se intrecciato alla questione palestinese. Attenzione: in realtà Nanni Moretti c’entra qualcosa con la questione, ovvero con la sua rielaborazione cinematografica, cucita oggi da un grande regista “morettiano”, Elia Suleiman. Vedere per esempio Il tempo che ci rimane: nel personaggio di se stesso, nella sua imperturbabilità, negli scarti paradossali per le strade di Nazareth c’è una rilettura peculiare del cinema morettiano, applicato alla contesa storica tra vicini-nemici. Questo per dire che un legame sotterraneo di Moretti con la questione palestinese esiste, nella poetica del fuori luogo e del fuori posto, nel cercare uno spazio dove non è concesso, nell’assenza di senso che produce smarrimento. Ma non qui. Qui il problema viene messo da parte, Moretti asciuga Eshkol Nevo: abbiamo “solo” tre piani in un condominio e una serie di eventi che li segnano.

Tre piani di Nanni Moretti

Un ragazzo ubriaco fa un incidente stradale e uccide una donna: è il figlio del giudice Vittorio (Nanni Moretti) e di Dora (Margherita Buy), moglie che si adegua alla vita del marito, il quale condanna il giovane senza appello; Lucio (Riccardo Scamarcio) lascia la figlia piccola al vicino di casa, l’anziano Renato (Paolo Graziosi) su cui si allunga però il sospetto di un abuso sessuale; quindi Monica (Alba Rohrwacher), madre sola con un marito lontano, affronta una maternità problematica e inizia a vedere un grande corvo nero, che appare solo a lei. Nei fili di queste vicende il regista convoca alcuni temi e li impasta tra loro: la cultura del sospetto, il giudizio morale che confina col moralismo, la complessità di essere madri, le donne che restano sole, la vecchiaia e la morte. Ma anche la vita. Volendo possiamo trovare assonanze col suo ultimo cinema, come detto la coerenza è assoluta, e sta proprio in quello sprofondo che Moretti ha il coraggio di guardare in faccia: il corvo che vede Monica, non è forse lo stesso metaforico male che affligge il pontefice di Habemus Papam? O il dolore sordo che emerge nell’apprestarsi a perdere un genitore in Mia madre? Le storie si intrecciano, a volte appena e altre con violenza, avanzano per ellissi (“cinque anni dopo”), scrutano nell’abisso e infine trovano la catarsi.

Seppure in teoria le coordinate siano precise, Moretti neutralizza totalmente la storia: il lavoro di annullamento negli accenti degli attori, la loro recitazione a tratti catatonica realizza un atto di astrazione che li porta lontano da Roma, ma anche dal qui e ora. Possiamo essere ovunque. Le battute vengono declamate come in certi film di Manoel de Oliveira. Il microcosmo a tre piani diventa allora un universo a sé, che qui non contiene il modello freudiano (Es, Ego e Super-Io) di cui restano vaghe tracce, ma si apre proprio alla totalità. Ecco la smisurata ambizione del Moretti di Tre piani: parlare del mondo, del legno storto dell’umanità. E perfino provare a curarlo.
In tal senso interviene l’analisi di Roberto Lasagna nel suo libro Nanni Moretti. Il cinema come cura (Mimesis, 2021): si tratta di «un regista estraneo dal cavalcare le mode e il cui cinema è sin da subito auto-riflessivo, ponendosi, a testa alta, come una cura per la mente». Seguendo la linea interpretativa Moretti oggi frequenta la cura in un doppio senso: la cura di sé e il prendersi cura. Se il suo discorso da oltre quarant’anni si propone come gesto catartico nei confronti di se stesso, forse Tre piani è un film proprio sull’impossibilità di prendersi cura dell’altro. Gli abitanti del condominio, inchiodati ai loro errori, consumano convenevoli ma non riescono mai a parlarsi, a tendersi davvero la mano a vicenda. “È guasto”, dice la bambina riferendosi alla demenza senile dell’anziano, ma forse anche alla totalità del palazzo e del cosmo.

Tre piani di Nanni Moretti

Perché facciamo i nostri sbagli? Quanto siamo disposti ad ammetterlo e tentare di correggerli? C’è una rima tra la figura di Scamarcio e quella di Moretti, due “erranti” che si lasciano dietro il peso delle scelte, l’uno nel trattamento ingiusto del vicino di casa, l’altro nell’allontanamento del figlio che per lui resterà non riconciliato. Persone che parlano senza comprendersi perché troppo egoriferite, che parlano solo per ottenere la conferma delle proprie convinzioni, che pensano solo a se stesse: può un film fuori dal tempo essere più contemporaneo?
Moretti si affaccia in un pozzo nero fatto però di improvvise illuminazioni, di repentini squarci di luce: come nella sequenza della segreteria telefonica, che riporta il giudice severo alla voce del figlio bambino, e per un attimo concede un sorriso, subito prima della dissolvenza definitiva che conduce alla morte. Un momento carico di significato, straziante, il migliore del film.

Mancanza di senso, dolore e incapacità di comunicare: Tre piani cammina la sua ordalia sulle braci del presente, ma alla fine concede una nota di speranza. Arriva dai nuovi nati, dalle prossime generazioni, come fa notare Alberto Crespi (Cineforum NS n.3, settembre 2021): qualcosa di simile accadeva in Gloria Mundi di Guédiguian, film che si apriva proprio con una nascita a rendere tangibile il dubbio su cosa sarà dei nostri figli. Ai neonati Nanni Moretti affida l’ipotesi della felicità e la possibilità di uno spiraglio (rivediamoci Aprile), qui incarnata da Margherita Buy che finalmente ritrova figlio e nipote, permettendo a un film così chiuso e cupo di aprirsi. “Domani”, era l’ultima parola di Giulia Lazzarini, la madre di Mia madredomani è l’ultima parola metaforicamente anche in Tre piani.
Un film imperfetto, difettoso, che può facilmente essere smontato (il tiro al piccione a Cannes lo dimostra): si può criticare nelle singole parti, in quelle più didascaliche o meno riuscite. Ma anche un film avvolto in un grave dolore alla ricerca di una luce che - potere del cinema - Moretti insegue per sé e vuole offrire allo spettatore. Cura e prendersi cura. Non sarà cool Nanni Moretti, non sarà un nuovo regista dell’oggi e non avrà girato Titane, il film post-cronenberghiano e cripto-femminista che ha vinto la Palma d’oro, al contrario è un “vecchio” regista europeo: ma il suo sguardo a tratti vibra ancora, il suo cinema negli anni si fa sempre più disperato, struggente e infine liberatorio.

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Nanni Moretti Nanni Moretti Margherita Buy Riccardo Scamarcio Alba Rohrwacher Denise Tantucci Adriano Giannini Stefano Dionisi 119 minuti
Italia
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Dune

di Matteo Berardini
dune recensione film worm

Fear is the mind-killer

Come sarà l’immagine del futuro?
Che processi pratici e simbolici sarà in grado di innescare?
Cosa e come ci racconterà dello spazio e del tempo?
Che tipo di spettatori saremo?

Di Denis Villeneuve si discute spesso in termini autoriali, elogiando/limitando le modalità e la riuscita del suo cinema sempre più bipolare, giano bifronte, interno com’è alle logiche industriali del blockbuster eppur affamato di sguardo, convinto di poter (e dover) sfuggire alle forze seriali della Hollywood contemporanea coltivando necessità di pensiero più raffinate e personali, senza per questo rinunciare al rapporto decisivo con lo spettatore di massa. E di questa identità autoriale si possono indagare i nuclei tematici e ricorsivi: il legame genitoriale (gesti e sguardi d’affetto, cenni d’approvazione o rimprovero, questo Dune è costellato di attimi dedicati al legame tra Paul e suo padre il Duca); la necessità di saper vedere nel confine tra bene e male (i visori notturni di Sicario e la violenza labirintica di Prisoners, le manovre politiche delle Bene Gesserit e l’etica famigliare degli Atreides); il peso dell’azione individuale di fronte al caos titanico di una realtà irriducibile alla ragione e all’ordine (dal pesce parlante di Maelström alla genealogia dei legami di Incendies, per arrivare infine all’occhio divino di Shai-Hulud, i giganteschi vermi delle sabbie che diventano iridi spalancate sulle miserie e ambizioni e paure dell’uomo).

Tuttavia c’è qualcos’altro che, in maniera netta e bruciante, definisce il cinema di Villeneuve e la sua, chiamiamola così, poetica autoriale – che poi sarebbe l’intenzione di mantenere un rapporto denso tra le immagini e il reale attraverso le forme del cinema che si è scelto di indagare – e questo qualcosa è la volontà e capacità di impiegare l’high concept movie come strumento per interrogarsi sulla natura dell’immagine contemporanea, sul suo valore storico e significante, sulle possibilità che essa ha, ancora oggi, di plasmare i contorni dell’esperienza umana. Questo cinema è il gesto industriale che oggi, più di ogni altro, si oppone alla rivendita preconfezionata del passato come sterile fotocopia di forme, e che al regime di finzione nostalgica imperante nel franchise – che sempre più inquadra, datifica e serializza in sequenze vendibili al dettaglio il nostro immaginario – oppone l’umano sopra la macchina, lo sguardo sopra l’algoritmo (come Deckard, che uccide il clone-replica di Rachel perché l’originale aveva gli occhi di un altro colore).

desert

Per arrivare a Dune facciamo quindi un passo indietro, dal 10190 After Guild – anno in cui la casata degli Atreides salpa alla volta del pianeta Arrakis – al 2049 After Death del secondo Blade Runner. Dal deserto denso di spezia del pianeta dei Fremen a quello colmo di rovine fisiche e mediali della lunga sequenza a Las Vegas.
Di 2049 infatti si tende a dimenticare che l’impianto narrativo nasce dalle macerie culturali di una società che ha abbracciato la datificazione digitale, e che di quel paradigma ha poi subìto un reset a opera di un blackout globale: l’indagine dell’androide K procede tra registri corrotti, ricordi innestati e file contraffatti dentro un orizzonte teorico che indaga sugli effetti della rivoluzione sintetica dell’immaginario, disperso come fall-out radioattivo in una foresta di supporti elettronici e immagini binarie. Il deserto di 2049 è tutto ciò che resta della cultura visuale del Novecento, rovine che sopravvivono nelle forme del feticcio e del frammento, cullate da una città fantasma corrosa dal tempo e dalle radiazioni.
E Arrakis? Viaggiando come navigatori di Gilda, sazi di spezia attraverso lo spazio e il tempo, cosa troviamo al nostro arrivo, cosa si rivela il pianeta di Dune? Anzitutto un orizzonte velato, dove il cielo è sempre oscurato da folate di sabbia mentre il sole rimane celato dietro uno schermo, una protezione, un miraggio. Arrakis è un altro deserto che cova immagini, ma queste non appartengono al passato bensì al futuro, sono figlie di nuovi e più profondi modi di guardare al mondo. Le immagini di Arrakis sono le scaglie di spezia frammiste alle sabbie del deserto, e vanno cercate, scovate, affidandosi a forze essenziali attive dentro di noi e attraverso tutto ciò che ci circonda. Solo così saremo in grado di vedere oltre.

fear

Arrakis, con i suoi Fremen che incarnano mezzo secolo di lotte decolonizzanti, e la spezia, che altro non è se non metafora di ogni risorsa combustibile che rende possibile il progresso alimentando al contempo distruzione ambientale e sfruttamento sociale, sono creazioni di controcultura che nascono in veste letteraria (il romanzo, del ’65, è una bibbia del movimento sessantottino e tra i capisaldi della sci-fi ecologista e anticapitalista) e arrivano a noi in forme attuali, politiche, urgenti; nelle immagini tratte da Villeneuve sono evidenti gli echi dell’eterna questione mediorientale e dell’Afghanistan, del controllo territoriale spacciato per esportazione democratica, e di un nuovo sviluppo economico che si impone, ogni giorno di più finché non sarà troppo tardi, come unica agenda di salvezza. È questo il pieno potere di un adattamento che sposa e rispetta la fantascienza di popoli e culture edificata da Frank Herbert per mostrare le criticità che, identiche, arrivano all’oggi. All’interno di un’operazione che nega i fondamenti del blockbuster seriale (si pensi alle continue visioni di Paul, grazie alle quali la sequenza degli eventi viene spoilerata da un binario temporale anticipato e parallelo) perché è alla tradizione storica del kolossal che guarda, a quel cinema-mondo in grado di ricreare da sé e dentro di sé il proprio immaginario attingendo a tradizioni fumettistiche e visuali, oltre ai meccanismi più essenziali del grande spettacolo: il gigantismo della rappresentazione, di rara potenza nella visione in IMAX e pienamente funzionale a trasfigurare visivamente il rapporto schiacciante tra l’umano e il mondo; la gestione manichea dei costumi, identificativi delle casate ma soprattutto dei ruoli ancestrali di bene e male all’interno del viaggio mitico prescritto per Paul (con il Barone Harkonnen figura liminare costruita come Kurtz, citato letteralmente); la cura etnografica per i dettagli riguardanti chiese, famiglie, casate, offerti allo sguardo da una rete che nel suo insieme, un tassello alla volta, porta in vita una realtà altra; la fiducia, ritrovata, nello spettatore, che fuori dal confort narcotico dei franchise Disney ritrova davanti a sé immagini che raccontano attraverso la suggestione, l’accenno, in un passo a due che incentiva l’intelligenza del pubblico e il suo  ruolo attivo. Dal punto di vista narrativo, di gestione cioè di quella materia gargantuesca e iper-dettagliata qual è il world building di Herbert, Dune è davvero un piccolo miracolo di sintesi, un esercizio abilissimo in equilibrio tra efficacia e gusto, rispetto e personalità, dove il cinema ritrova i tempi e la cura dello spettacolo pensato.

Ma, come dicevamo in apertura, il cinema di Villeneuve è qualcosa di più di un incontro tra autore e capitale, è un territorio mobile che segue traiettorie che anzitutto guardano al cinema stesso e al suo ruolo nel mondo. In questo senso Dune è il modo che ha Villeneuve per chiederci di immaginare altre forme di spettacolo, e la spezia, magnifica sostanza ponte, ne è la chiave, il principio che contrae lo spazio-tempo e semina tracce di futuro. Purché ci si affidi a essa credendo, sconfiggendo la morte della mente messa in moto dalla paura. E se la spezia è l’essenza del cinema, Arrakis è dove ci rechiamo per interrogare lo stato dell’immagine e del grande schermo oggi, il sistema di sogni e visioni dove il nostro immaginario gioca la sua partita contro le forze della datificazione e frammentazione dell’esperienza filmica on demand, ribadendo il ruolo comunitario della sala e dell’immagine come entità storica e rete memoriale espansa. Villeneuve si (e ci) chiede cosa possa fare per noi oggi la sostanza del cinema, e Arrakis è la risposta. Vedere oltre.

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Denis Villeneuve Timothée Chalamet Rebecca Ferguson Oscar Isaac Zendaya Josh Brolin Jason Momoa Stellan Skarsgård Charlotte Rampling Dave Bautista Javier Bardem 155 minuti
Canada, Ungheria, USA
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Deficit di Memoria. Le immagini subliminali di Venezia 78

di Sergio Sozzo
Atlantide - venezia Ancarani

Crede di soffrire di amnesia, l’Elio Germano di America Latina di Fabio e Damiano D’Innocenzo, in concorso qualche settimana fa alla Mostra del Cinema di Venezia. Vuoti di memoria che non sa spiegarsi, per quanto cerchi gli appunti sulle pagine dei giorni passati dell’agendina, o faccia qualche ricerca su Google. Nulla riesce ad accendere una luce sulla cantina della sua memoria letteralmente inabissata, sott’acqua. Ecco, se è vero che lo spazio e la forma del cinema del futuro saranno sempre di più quelle del museo, resta allora da chiedersi quale memoria abiterà le stanze di questa cineteca espansa. Anche perché la fruizione museale non necessariamente si ferma agli scantinati (per continuare il parallelismo con il film dei D’Innocenzo) dell’arte, dove riposano i capolavori certificati e archiviati – ma indica costantemente nuove suggestioni, mutazioni “in corso d’opera” (o almeno lo fanno alcuni musei ‘illuminati’ ed irrequieti). Le recenti edizioni veneziane sotto la direzione di Alberto Barbera hanno cercato così di riequilibrare il forte sbilanciamento nei confronti del target riconfigurato secondo la “cinefilia del web” (apertura alle piattaforme, alla serialità e alla guerra dell’awards season) con la ricerca sui linguaggi del futuro (la sezione VR).

Il film più “difficile” del concorso di quest’anno, Reflection di Valentyn Vasyanovych, ci ha ricordato improvvisamente (o oramai inopinatamente?) che ai festival di Cinema si viene a contatto con visioni complesse, spigolose, non riconcilianti, non per forza affini alle logiche aggregative dell’evento (per quanto il main event Dune sia, come tutto Villeneuve, il tentativo impossibile di tenere insieme sensibilità arthouse e muscoli da franchise, autorialità e gift shop – che la megaproduzione griffata-nobilitata sia alla fin fine la vera forma del blockbuster di domani?).
Reflection svela da subito un’anima frontale da panel propria da esposizione contemporanea, una sensibilità da videoinstallazione che può scorrere in loop sul grande muro di un padiglione: se già il precedente Atlantis, ad Orizzonti due edizioni fa, tendeva verso un’immobilità in cui il compito di generare aperture era lasciato alle linee che si muovevano interne al quadro, stavolta Vasyanovych porta alle estreme conseguenze la riflessione sulle profondità possibili di un’immagine bidimensionale ma ultrastratificata, i cui diversi livelli (e modelli) sono davanti a noi e al contempo alle spalle dei personaggi che (ci) guardano. È un film decisivo anche al di là della tematica sull’orrore del recente conflitto russo-ucraino, memorie possibili appunto oggi unicamente come flash subliminali, istantanee immobili che rimangono impresse nell’inconscio d’Europa – ma innanzitutto perché ci pone delle domande sullo stato del mezzo cinematografico: il lavoro interno al quadro, lo scavo sulla superficie dell’immagine, è l’unico confine rimasto (o recuperato/ripensato oggi, in un’epoca di produzione disperata e dispersione assoluta dei pics e delle autorappresentazioni) al cinema “di ricerca”

D’altronde si dice “fermare un’immagine nella memoria”, per esplorarne le coordinate verticali e orizzontali, sino a modificarne le tracce: oggi abbiamo la possibilità di farlo anche direttamente, con le semplici app e l’AR letteralmente a portata di mano delle fotocamere dei nostri smartphone. Capovolgere il senso dello schermo: Yuri Ancarani, che tra gallerie e musei passa la parte principale della propria produzione artistica, si inventa dei portali infradimensionali che attraversano una Venezia anch’essa di reflections nell’incredibile finale “astratto” del suo Atlantide, visto ad Orizzonti 2021. La coda lisergica alla vicenda raccontata dal film, realizzata semplicemente verticalizzando di 90° una sequenza di attraversamento dei canali a filo d’acqua, mentre albeggia sulla laguna e i led rossi e verdi della sfilata di scafi del funerale di un “pilota di barchini” reinventano luci e ombre della città, si trasforma in quella che è verosimilmente la sequenza maggiormente rivelatrice dell’intero festival. In un’opera che è comunque un’ulteriore esperienza “frontale”, a scorrimento (come tutto il Garrone “museale” che poi sistematicamente finisce in esposizione, i mostri del Racconto, le scenografie di Pinocchio…), questa deriva in chiusura riesce nel miracolo di tenere insieme vertigine da visual art, anima espansa da installazione, e filtraggio da stories sui nostri social (quest’ultimo, un linguaggio sempre meno “accessorio”, come ci racconta un film che con Atlantide spartisce più della sola colonna sonora, com’è il sorprendentemente tenero Lovely Boy di Francesco Lettieri, anche lui non a caso proveniente dallo storytelling “extra-cinematografico”, videoclip, visual album ecc).

Quella del footage resta dunque l’unica memoria certificata ancora possibile, come intuiscono due delle visioni più straordinarie della Settimana della Critica, Eles trasportan a morte di Helena Girón e Samuel M. Delgado, e Detours di Ekaterina Selenkina. Nell’irrinunciabile e liberatoria opera extra-large del Concorso, “il filippino di quattro ore” On the Job – The Missing Eight di Erik Matti, l’unica ad avere libertà di movimento è la mdp che gira incessantemente intorno a stanze straripanti di uomini e oggetti, false coreografie di corpi inconsapevoli: un lungo montaggio che segue i diversi monitor di una sorveglianza a circuito chiuso ci ricorda (alla stregua del continuo innalzare e sfondare quinte, platee, loggioni e ribalte con cui Martone imbastisce tutta la giravolta mozzafiato di Qui rido io) appunto come negli interstizi tra i frames abiti ancora la possibilità di una traiettoria più ampia, al di là e al di sopra delle cornici apparenti degli schermi.

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Giulia

di Fabiana Proietti
Giulia di Ciro De Caro - recensione film

Terzo lungometraggio di Ciro De Caro, dopo l’exploit di Spaghetti Story e il bel Acqua di marzo, ingiustamente penalizzato da una circolazione striminzita, Giulia conferma il percorso di crescita del suo autore e il coraggio di dar vita a un ritratto femminile anomalo e affascinante, lontano dagli schemi narrativi del cinema italiano.

De Caro abbandona qui i modelli che pure aveva contaminato con personalità nelle opere precedenti, spaziando dalla commedia all’italiana classica a quella dei primi anni duemila, fatta di santimaradonismi che hanno sciacquato i panni nel Tevere. Così come si discosta dal racconto di formazione e dal ritratto generazionale di trentenni in crisi, riletti nella dolce malinconia del ritorno in provincia. Anzi, ciò che colpisce in Giulia è proprio il suo porsi frontalmente come un anti-romanzo di formazione, che non cerca e non vuole trovare rassicuranti quadrature del cerchio, risolvere conflitti o offrire soluzioni.  Scritto – ma forse sarebbe più corretto dire vissuto – dal regista assieme alla protagonista Rosa Palasciano, il film si mette in viaggio in una Roma lattiginosa e lenta, una città in cui gli echi della pandemia sono restituiti da gesti rituali svuotati di senso – le mascherine, i gel – ma soprattutto da quell’umanità lasciata ai margini che popola le immagini. Anziani privati del loro centro sociale, disoccupati e critici cinematografici (i disadattati per antonomasia, si sa…): Giulia si muove tra loro come in un racconto di fantasmi, con apparizioni improvvise e altrettanto repentini abbandoni, in cerca di altro o forse di niente.

In un panorama culturale e cinematografico sempre più polarizzato, fatto di bolle e racconti a tesi che costringono il pensiero e la visione, De Caro fa un passo indietro e si pone, rispetto alle sue stesse storie e ai personaggi, come puro testimone. Ritrova sì la sua famiglia cinematografica, nei volti abituali di Valerio Di Benedetto e Cristian Di Sante, ma lascia intravedere nella loro comicità romana un’inquietudine nuova: con la sua fisicità nervosa e sfuggente Giulia diventa allora un vero e proprio detonatore, che irrompe negli universi narrativi dei film precedenti ribaltandoli di segno, facendo virare repentinamente la commedia in un dramma sospeso.

Costituito di incontri fuggevoli, destinati a non avere seguito, di attese mai epifaniche, in cui la strana coppia Giulia-Ciavoni restituisce visivamente lo straniamento fisico ed emotivo di chi è costantemente fuori norma, il film racconta soprattutto il rapporto isterico di quest’epoca con il tempo: quello che ci viene imposto di risparmiare e che diventa poi, inutilmente, tutto tempo scrollato; quello delle imposizioni sociali – tempo di fare un figlio, di fare carriera, di mettere la testa a posto.
Giulia è un racconto di fantasmi, dicevamo. Fantasmi che si oppongono a questo impiego del proprio tempo: anziani le cui giornate scorrono identiche, vittime di un lutto che non sanno più rientrare nel tempo-sociale, cinefili che vivono nel tempo cinematografico, opposto a quello, utilitaristico, delle serie tv.

Con lo spirito anticonformista del Rohmer del Raggio verde – e lo stesso coraggio di mettere in scena un’eroina respingente – Giulia è davvero un piccolo grido di libertà.
Funiculì funiculà.

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Ciro De Caro Rosa Palasciano Valerio Di Benedetto Fabrizio Ciavoni Cristian Di Sante 109 minuti
Italia 2021
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Pig

di Mattia Caruso
pig-nicolas-cage-recensione

Rob (Nicolas Cage) vive in una capanna nei boschi fuori Portland con la sola compagnia del suo fedele maiale da tartufi. Ogni settimana riceve le visite del giovane imprenditore Amir (Alex Wolff), che quei tartufi compra e piazza sul mercato. Una notte, però, qualcuno spezza questo idillio bucolico rapendo la povera bestia e costringendo Rob a far ritorno in città dopo quindici anni di assenza.

Ormai dovremmo conoscerlo abbastanza bene, Nicolas Cage, da sapere che ogni film capace di contenerne l'ingombrante presenza sarà sempre, nel bene o nel male, qualcosa di inaspettato. Non fa eccezione nemmeno questo Pig che, complice una campagna promozionale a dir poco fuorviante, ci attira con la promessa dell'ennesimo Mandy (se non di un John Wick più folle e sui generis) e ci sorprende con qualcosa di completamente diverso. Non c'è revenge movie violento o lisergico che tenga, infatti, nell'opera prima di Michael Sarnoski. Un film sorprendentemente misurato e riflessivo, capace di giocare consapevolmente con la maschera dell'attore e con tutto ciò che si porta dietro. Un bagaglio ingombrante che il regista toglie dalle spalle del suo interprete, riducendo all'essenziale la caratterizzazione di un personaggio schivo e di poche parole. Nel ritorno alla civiltà di Rob, barba e capelli lunghi, sangue rappreso e perenne look da homeless, c'è infatti qualcosa in più del thriller adrenalinico che ci si aspetterebbe. Una cupezza e insieme un rigore formale che rendono solida la vicenda anche quando precipita nell'assurdo, in un lento accumulo di luoghi e situazioni imprevedibili. Perché se è vero che in Pig sono lontani i mondi criminali della trilogia con Keanu Reeves o le discese allucinate negli inferi di Mandy, è pur sempre un universo sotterraneo quello che Sarnoski costruisce, con mano ferma, attorno al suo protagonista. È così che, nella ricerca disperata del suo maiale, Rob finisce per inoltrarsi nel sottomondo della ristorazione (!) di Portland. Un mondo, tra Fight Club e ristoranti stellati, che pare conoscere benissimo e dentro cui si orienta con misteriosa sicurezza. 

È da qui che parte un viaggio straniante ma serissimo, giocato pericolosamente sull'orlo della farsa ma abbastanza saldo da non caderci mai dentro. Un'avventura anticlimatica dove la vendetta lascia presto il posto all'empatia e alla comprensione reciproca. Fino a svelare le dinamiche nascoste dietro al senso di perdita e all'elaborazione del lutto.
Hanno tutti un passato da nascondere o da cui fuggire, infatti, i personaggi di Pig. Non solo il tormentato Rob, antieroe emerso dal passato e possessore di un nome capace di aprire tutte le porte, ma anche i suoi comprimari. Dal complice suo malgrado Amir, al vecchio imprenditore interpretato da Adam Arkin, tutti alle prese con la perdita e le conseguenze deleterie che questa ha avuto nelle loro vite. 

Niente di originale, certo. Ma racchiudendo il tutto nella sua cornice assurda ed essenziale, Pig si dimostra un prodotto estremamente rigoroso. Riuscendo persino nell'impresa di frenare l'estro recitativo di Cage, pur evocandolo in continuazione. È questa presenza/assenza, che allude a certo cinema senza mai abbracciarlo del tutto, il vero punto di forza del film. Un'operazione a suo modo unica che non impedisce, comunque, all’attore di farla propria, di gettarvi tutto attorno il suo senso allucinato del grottesco.
Nonostante l'abilità del regista nell'amalgamare toni e registri differenti, anche Pig ci lascia così con la convinzione che non sarebbe mai potuto esistere senza la portata iconica del suo interprete principale. 

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Michael Sarnoski Nicolas Cage 92 minuti
UK, 2021
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Reflection

di Samuel Antichi
valentyn vasyanovych Reflection - recensione film

A due anni da Atlantis – vincitore del Premio Orizzonti per il Miglior Film a Venezia76 – Valentyn Vasyanovych volge, ancora una volta, lo sguardo al Donbass in cui da sette anni imperversa una guerra. Presentato nel Concorso principale, Reflection, invece di immaginare, come nell’opera precedente, un futuro prossimo (2025) distopico, in cui gli scontri armati hanno lasciato solo macerie e reduci traumatizzati, incapaci di tornare alla vita civile, si concentra sul presente, la contrapposizione tra la natura inumana del conflitto, la violenza, il terrore e la vita medio borghese che continua a pochi chilometri dal teatro di guerra.

Serhiy, un chirurgo ucraino che lavora in un ospedale militare, viene catturato dalle milizie russe, che decidono di tenerlo in vita per le sue competenze in campo medico. L'uomo è costretto a osservare impotente le torture compiute e a controllare lo stato di salute dei prigionieri. Tra questi c’è anche Andrii, nuovo compagno dell’ex moglie a cui anche sua figlia è molto affezionata. Corrompendo un soldato russo, Serhiy riesce a dare sepoltura al corpo dell’amico, evitando che questo venga smaltito nel forno crematorio come gli altri. Ritornando a Kiev per uno scambio di prigionieri, l’uomo cercherà di recuperare la salma di Andrii così come di accompagnare e condividere con la figlia e l’ex moglie l’elaborazione del lutto. «Il corpo è una prigione», dice Serhiy, facendo riferimento al samsara della filosofia buddhista. Una volta concluso il ciclo vitale, l’anima abbandona qualunque attaccamento terreno. Non è possibile riportare indietro un’anima che ha abbandonato il corpo.

Reflection procede per tableaux vivant, lunghi piani sequenza, spesso con inquadratura fissa, al cui interno ritroviamo molte volte una superficie riflettente, un vetro di una sala operatoria, di un campo da paintball, il parabrezza di una macchina, la finestra di un appartamento. Barriere, divisori che apparentemente separano gli ambienti fornendo una protezione. La guerra è una realtà distante, i personaggi, così come gli spettatori, sembrano protetti da un vetro infrangibile, uno spazio altro che neanche la macchina da presa può attraversare. Tuttavia, queste superfici possono anche generare un riflesso e distorcere la percezione. Il segno sul vetro della finestra provocato dallo schianto di un piccione, seppur difficile da cancellare dopo vari tentativi, potrebbe essere completamente portato via dalla pioggia battente. L’immagine cinematografica imprime e getta luce su quella traccia, su quella realtà che si vuole molte volte cancellare, confinare, dallo scorrere del tempo.

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Valentyn Vasyanovych Roman Lutskyi Andriy Rymaruk Dmitriy Sova Vasiliy Kukharskiy 125 minuti
Ucraina, 2021
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