The Last Duel

di Alessio Baronci
The Last Duel - recensione film scott

The Last Duel offre la possibilità di riflettere sulla strana cartografia disegnata negli anni dal cinema di Ridley Scott. Quello del regista inglese è infatti un approccio ondivago, felicemente contraddittorio al medium, fedele, ad esempio, ai modelli classici del Kolossal proprio quando stava nascendo l’esorbitante blockbuster massimalista degli anni ’00, e pronto, in tempi recenti, a esplorare il potenziale multimediale delle saghe di Alien e Blade Runner. E allora, da un certo punto di vista, Scott non ha solo intuito l’elemento trasformativo del cinema ma soprattutto non ne ha avuto paura, esplorandone costantemente le sfumature, quasi a voler rimarcare quanto lo spirito di quella New Hollywood che l’ha formato sia legato soprattutto al desiderio di spingere il medium oltre i suoi stessi limiti, senza preoccuparsi delle conseguenze.

The Last Duel è prodotto emblematico in questo senso. Il film ha infatti in sé tanto il germe della tradizione, che lo lega all’immaginario del genere storico ormai trademark di Scott ma anche, semanticamente, ai Duellanti del suo esordio, quanto la spinta alla sovversione di una norma, implicita conferma di quanto il cinema, per il regista, sia sempre più fuori dal cinema, in parte nel teatro, nella letteratura e, soprattutto, nello spazio espanso della televisione.
Ma non si tratta di una rivelazione. Da almeno dieci anni Scott esplora i punti di contatto tra cinema e tv: suo è quell’esperimento di blockbuster d’autore serializzato che fa capo alla dilogia Prometheus/Alien: Covenant, curato non a caso insieme al Damon Lindelof di Lost e The Leftovers; suo è quel The Martian scritto da Drew Goddard, storico collaboratore di JJ Abrams e Joss Whedon. The Last Duel è forse il tassello finale di questo percorso, il più radicale e concettualmente ambizioso. Quello di Scott è in effetti un film puntellato da elementi presi dallo spazio della serialità. Si è già scritto di Nicole Holofcener, sceneggiatrice e regista televisiva che firma lo script insieme a Ben Affleck e Matt Damon, si è già applaudito alla splendida performance di Jodie Cormer, che viene dal piccolo cult seriale Killing Eve, si è già annotato quanto il feeling del film ricordi quello di un The Affair ripensato per una cornice medievale; ma ben più interessante, forse, è sottolineare quanto i 135 minuti della pellicola siano divisi quasi alla perfezione in tre atti da cinquanta minuti circa, la stessa durata di un episodio televisivo medio.

Ma più che uno spazio laboratoriale, in cui poter sperimentare con i linguaggi, l’impalpabile spazio seriale diventa per Ridley Scott una sorta di punto di fuga, un luogo sicuro in cui rifugiarsi per lavorare a una sorta di via mediana al racconto, a cavallo tra cinema e serialità. Si tratta, indubbiamente, di una scelta obbligata. Perché nell’irreversibile ritorno ab ovo del suo cinema che è The Last Duel, il regista inglese non può che riconoscere la messa in scacco di certe sue strutture cardine.

last duel recensione scott film

Attraverso lo sguardo di Affleck, Damon e Holofcener, il racconto del duello tra Jean de Carrogues e il libertino Jacques Le Gris, indetto per difendere l’onore di Marguerite, moglie di Jean stuprata da Le Gris, riattraversato, ri-raccontato dalla diegesi, che ricostruisce il fatto attraverso i punti di vista dei tre protagonisti, diventa una sorta di controstoria femminista del romanzo cortese, che riscrive in chiave inquieta e ambigua i suoi riferimenti principali. C’è lo sguardo stilnovista, c’è il libro che si carica di attrazione, di desiderio, ma tutto si gioca, non a caso, sul gesto “proibito” del bacio, costantemente riproposto dalla narrazione. Ne viene fuori un racconto costellato da exploit machisti e maschilisti, che si spinge fino a esiti tanto coraggiosi quanto radicali che fanno emergere, ad esempio, la dimensione da self made woman della donna.

Le argomentazioni sono indubbiamente a grana grossa ma hanno il pregio di inseguire alcune felici intuizioni che rimarcano il passo contemporaneo del racconto, tra riletture critiche della mascolinità e tendenza all’autofiction della narrazione, che porta i protagonisti mentire e costruire testimonianze di comodo per inseguire il mito di quei cavalieri cortesi che non potranno mai essere. E il genere manca, cede, di fronte a questa rappresentazione. L’immagine mente senza tregua e Scott si ritrova a lavorare a contatto con un panorama di rovine. Non si tira indietro, però e sceglie coraggiosamente di organizzare un progetto che lavora a partire proprio da questo trauma sintattico. The Last Duel inizia non a caso con un’iper-classica vestizione delle tre parti in gioco, Marguerite e i due cavalieri pronti a combattere, e procede con la carica dei due protagonisti. È l’ultimo detrito di un cinema che è stato, e che resta in piedi fino al momento in cui le armi si toccheranno, prima del titolo; dopo di ciò inizia la vera immersione nello spazio finzionale del racconto, dominato da macerie.

Lo sguardo di Scott attraverserà questo spazio residuale senza cedere di un passo, organizzando battaglie campali quasi sempre tenute fuori scena, interrotte in apocope e riprese in piani strettissimi, preferendo rinchiudersi negli ampi ambienti cortigiani, per concentrarsi sui corpi, sui dialoghi, sui gesti, su uno spazio teatralizzato e orchestrando una sorta di sghembo trattato sul desiderio, pronto a mostrare le ambiguità dell’attrazione.  Di questo passo il genere riparte da un nuovo reset (l’ennesimo, dopo quelli narrativi insiti nella reiterazione del racconto), che costringe l’epica nel rettangolo del torneo cavalleresco, riproposizione in scala e dunque parentesi misurabile, controllabile, della violenza del campo di battaglia.

Più che il prototipo del film storico in epoca #metoo (anche così è stato definito), The Last Duel è una dichiarazione profondamente vitalistica da parte di Ridley Scott, che in un momento di costanti affermazioni territoriali, di distinguo partigiani tra ciò che è cinema e ciò che cinema non è, sceglie di fare un passo indietro, di testare di persona il suo rapporto con l’immagine e di cercare una nuova via espressiva che, sotterraneamente, fa della comunicazione fluida tra media differenti la sua chiave principale. Tutto pur di rinnovarsi, tutto pur di non sparire insieme al proprio immaginario.

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Ridley Scott Matt Damon Jodie Comer Adam Driver Ben Affleck 152 minuti
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Midnight Mass

di Alessio Baronci
Midnight Mass - recensione serie tv flanagan netflix

Non c’è niente di sacro, per Mike Flanagan. Avremmo dovuto capirlo, in realtà, già dal suo Doctor Sleep, letteralmente puntellato da sequenze, citazioni, inquadrature provenienti dal classico di Kubrick e reinserite nel flusso di immagini quando non ricreate direttamente da zero, a rimarcare quanto il regista americano non abbia paura di guardare negli occhi la bestia.

Per Flanagan non esistono gerarchie o tradizioni, il suo è lo sguardo di un altro hacker dell’immaginario, come Jon Favreau o Michael Bay, che infiltra, disinnesca e riscrive interi sistemi narrativi per renderli non solo parte del suo percorso di ricerca ma anche strumenti di riflessione critica. E allora non dovrebbe stupire quanto Midnight Mass parta dalle premesse poste in campo da Doctor Sleep, da quella stessa frattura o, meglio, dalle sue direttrici, da Stephen King e dal desiderio di sovvertire un sistema di regole e aspettative precostituito. Midnight Mass è dunque invaso dal fantasma mediale di King, a tal punto che la sua storyline, che vede la piccola comunità di Crockett Island assistere a eventi misteriosi e veri e propri miracoli dopo che un nuovo, carismatico prete arriva sull’isola, pare nascere da suggestioni prese di peso dall’immaginario dell’autore di Portland, da Salem’s Lot a Revival. Ma si tratta, almeno in parte, di un’esca, del primo di una lunga serie di cambi di fronte che saranno alla base della serie stessa. Di King, Midnight Mass mantiene infatti ben presente la cura nella scrittura corale dei personaggi e la concezione dell’orrore come unheimlich ma, di base, è evidente quanto la serie voglia affrontare il genere da un’angolazione politica raramente percorsa dall’autore. Non dovrebbe sorprendere, infatti, quanto, attraverso la serie Netflix, l’iconoclastia di Flanagan si sia spostata su quella religione cattolica che è, giocoforza, uno dei sistemi di segni fondanti l’Occidente.

Più che un romanzo di King, la serie pare dunque un trattatello filosofico tra Jean Luc Nancy e Carpenter che si scaglia contro una struttura simbolica consolidata per mostrarne i limiti. Il progetto di Flanagan è granitico nell’organizzazione dei materiali, a tratti rigido, didascalico, ma ha il pregio di argomentare alla perfezione i suoi spunti di riflessione filtrandoli attraverso la griglia del genere. Al centro di Midnight Mass c’è dunque il ribaltamento satirico, Rabeliano, della religione cattolica, un contesto di cui Flanagan sistematizza ed estremizza tutte le ipocrisie e storture, organizzando uno spazio in cui la fede viene mercificata e l’omicidio giustificato attraverso le Scritture, arrivando a una deflagrazione completa dei rituali ancestrali e della forma mentis del cristianesimo. E così la vera vita eterna non passa più attraverso Dio ma attraverso i vampiri e l’assemblea dei fedeli diventa una “Covenant”, che è tanto la riunione di individui accomunati da un’idea quanto la tradizionale, mitologica unione di creature oscure.

Midnight Mass - recensione serie tv flanagan netflix interna

Ma il passo di Flanagan è vivace, esorbitante, alla costante ricerca di qualche spunto reale, concreto, attraverso cui potenziare i ragionamenti. Perché dopotutto c’è bisogno di un vitello grasso da sacrificare per compiere quell’azione purificatrice a cui punta il racconto. Sottotraccia Midnight Mass attraversa dunque anche, irrimediabilmente, gli estremismi della cultura contemporanea muovendosi su un percorso accidentato. Si parte da certi isterismi della fede, si passa per le comunità borderline di Waco e Jonestown, si costeggiano gli sghembi predicatori televisivi ed il tutto culmina in un finale tanto apocalittico quanto immaginifico che incrocia la riemersione di decine di immagini tratte dai testi sacri ai deliri di personaggi vittime delle stesse iperstizioni (per dirla alla Nick Land) dei seguaci di QAnon.

Alla fine il sistema di Midnight Mass va in mille pezzi ma la sensazione è che l’iconoclastia di Mike Flanagan sia stata più deflagrante delle attese e abbia finito per distruggere lo stesso contesto mediale su cui hanno trovato spazio le sue argomentazioni. Si tratta del frutto di un ulteriore ribaltamento di fronte, forse il più interessante, nascosto in piena vista. Perché, guardandola dalla nuova prospettiva mediale innescata dalle piattaforme VOD, la spinta critica della serie non può fare a meno di riverberarsi, a partire dalla sua forma e dal suo linguaggio, sulla dimensione della fruizione e, dunque, sulla spettatorialità in un’Apocalisse davvero integrale, che tira in ballo lo stesso sistema di segni che regge Midnight Mass ma anche questa nuova religione laica, fatta di sguardi, di occhi di cui si cerca costantemente l’attenzione, di algoritmi, di piattaforme.

Non è in effetti un caso che Midnight Mass si ponga agli antipodi rispetto ad altri prodotti coevi: quella firmata da Mike Flanagan è in primo luogo una serie paradossale, che costruisce il racconto sull’osceno, su tutto ciò che accade fuori dal quadro, che di solito non si vede, sulla fede, sull’aldilà, sulla morte, soprattutto, chiamata sempre in causa e sempre col suo nome, centro nevralgico di un meccanismo narrativo che pare volutamente ingolfato, rallentato, in cui i tempi si dilatano, costantemente preda di una sorta di crisi d’identità. Cos’è, davvero, Midnight Mass? È una serie televisiva? È un film a puntate, come suggerisce un montaggio che fa iniziare pedissequamente ogni puntata dalla fine della precedente? È piuttosto teatro racchiuso nello spazio delle piattaforme, tanta è la cura riposta nella dimensione performativa della messa, nella costruzione dei dialoghi, nei silenzi? O, addirittura, si tratta di un progetto di pura contemplazione visiva, fatto di ampie panoramiche, lunghi piani vuoti e certosina costruzione dell’immagine?

Mike Flanagan preferisce non rispondere; a lui, in fondo, è bastato trovare le falle e gli angoli bui di un sistema di segni con piglio illuminista, firmando forse la prima pietra miliare della sua carriera, un progetto coraggioso, forse decentrato, a tratti fuori fuoco ma che si contraddistingue per una certa dose di umanità. Midnight Mass vuole liberarci tanto dalle ambiguità della religione che, tangenzialmente, dalla tirannia dell’algoritmo ma soprattutto vuole farlo guardandoci negli occhi, con una straordinaria sincerità, un valore sempre più raro nell’intrattenimento contemporaneo.

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Mike Flanagan Kate Siegel Zach Gilford Hamish Linklater Kristin Lehman Annabeth Gish Samantha Sloyan Miniserie da 7 episodi
USA 2021
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A Chiara

di Andrea Giangaspero
a chiara - recensione film jonas carpignano

La piana di Gioia Tauro sta parecchio a cuore a Jonas Carpignano, così tanto che dopo il corto che vi girò nel 2012 (A Chjana) il regista decise di trasferirsi lì per diversi anni. È diventata una geografia a lui nota, un luogo che ha setacciato in lungo e in largo in cerca di storie, non stordenti, esagerate, ma in grado di parlare la lingua di un’umanità dimenticata e, soprattutto, dimentica del mondo al di fuori di sé. Mediterranea (2015) e A Ciambra (2017) erano già intessuti di questa dote, perché adottavano il punto di vista esclusivo di un personaggio che di quella terra era il prodotto o il figlio acquisito (nel caso del primo). La storia non cambia per A Chiara, terzo lungometraggio di Carpignano, premiato nella Quinzaine des réalisateurs col Label Europa Cinemas per il miglior film europeo.

Chiara ha appena 15 anni ed è la seconda di tre sorelle che vivono nell’apparente stabilità di un contesto famigliare medio-borghese. “Apparente” perché quando impara a guardare con occhi meno assuefatti al sogno e all’inezia, Chiara comincia a riconoscere qualcosa che stride, che normale non lo è affatto. Guarda dei tipi loschi al diciottesimo di sua sorella mentre si scambiano strane occhiate con suo padre, e resta immobile con un senso di panico che le monta dentro quando vede questi allontanarsi rabbioso dalla festa. Tutto si compie in poche ore: il padre di Chiara si dà alla macchia perché la sua copertura da contrabbandiere della ‘ndrangheta è saltata. Chiara fa domande sulla sua assenza, si sforza di venire a capo del castello di bugie che le si para ora davanti, scontrandosi però con l’omertà di madre e sorella.

Ecco, di nuovo, le tracce di un male endemico a cui i personaggi di Carpignano sono edotti e consegnati, con una differenza però non da poco. Dove prima ci si barcamenava tra le sofferenze del corpo e degli sguardi ostili (Mediterranea) e si sceglieva la strada ereditaria della criminalità (A Ciambra), ora negli occhi di Chiara (una splendida Swamy Rotolo) c’è la risolutezza della ricerca della verità, che muove da uno sdegno pervicace, dall’incapacità di accettare l’immobilismo e il silenzio dei famigliari e la vera natura del padre che tanto aveva adorato. Chiara viene affidata alla custodia di un assistente sociale che deve accompagnarla a Urbino (cioè luogo di una geografia già troppo remota perché al di fuori di quella piana dimenticata, come dicevamo in apertura), presso una nuova famiglia pronta ad amarla come si deve, ma deve fuggire, deve ancora combattere, provare a restituire compattezza e serenità a quel suo nucleo di affetti, almeno finché può.  

Per A Chiara, Carpignano parte di nuovo e sempre dal vero. Ha ascoltato le storie e compreso le ragioni che spingono le famiglie a restar dentro la logica della criminalità. “Gli altri la chiamano mafia, noi la chiamiamo sopravvivenza” dice il padre di Chiara, senza afflizione, solo con accettazione silente. Muovere dal vero non significa però restarvi assorbito. Di notte, Chiara sogna di scoprire un buco nel pavimento del soggiorno, una cavità verso gole illuminate d’azzurro nel sottosuolo. È il sogno a farle scoprire un ingresso segreto verso un seminterrato che suo padre ha sempre tenuto nascosto e da cui le indagini partono. Carpignano fa ora un passo in più nella finzione, sapendo che la realizzazione del sogno nel cinema può solo restituire visionarietà magica alla veggenza della sua protagonista.

Parliamo consapevolmente di “veggenza”, sedotti da un’intuizione che prende corpo e sembra trovare conferme lungo il film. Carpignano adotta la tensione di sguardo della sua protagonista solitaria (come già fatto nei due precedenti titoli) mediante un pedinamento quasi zavattiniano, di matrice neorealista, perché dal tocco di questo sguardo-macchina si compone una geografia di oggetti e corpi che hanno valore per sé stessi (lo diceva Deleuze proprio a proposito del Neorealismo), componenti deputate alla realizzazione organica di un mondo vero, vivo, pieno. E non a caso la protagonista è, di nuovo, una ragazzina (tanto De Sica quanto Truffaut sono per questo riferimenti fondamentali), in grado di aguzzare la vista, forzare la curiosità verso un’indagine personale che sa sì di finzione, ma realizza alla fine un modello perfetto, appunto, di “veggenza” deleuziana: le ragioni per cui muoversi a ricomporre il quadro della famiglia vengono pian piano meno, il senso dell’indagine si sgretola; è tempo che la veggenza di Chiara si esprima, accettando l’inazione e spostando il fuoco sulle immagini da guardare e basta, per poterle fotografare come ricordo e richiamarle nel suo memoriale quando ormai le saranno sfuggite.

Per questo Chiara trattiene a sé, al suo sguardo, la sorellina turbata, sveglia all’alba a fissarla irretita dall’incapacità di capire, prima di andarsene impotente e di trasfigurarla a sola affezione di un’immagine-ricordo. Nel rovescio di quel mondo, lontano da casa e con un ampio scarto temporale, Chiara può raggiungere la maggiore età senza doversi più preoccupare delle occhiate di loschi figuri, circondata da una famiglia rispettabile, dovendo però tenere custodita dentro uno specchio, dentro la sua inquadratura, l’affezione incancellabile del suo nido famigliare, la sua memoria viva, al più livida, sfocata.

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Jonas Carpignano Swamy Rotolo 121 minuti
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Throw Down

di Alessandro Gaudiano
Throw Down - recensione film To

Sze-To è un ex campione di judo che ha perso ogni voglia di combattere e passa le sue giornate a bere e a gestire (male) un locale notturno di dubbia qualità. Anche Mona è stata sconfitta: non è mai riuscita a sfondare nel mondo dello spettacolo e la sua vita, complice un manager senza scrupoli, è arrivata ad un passo dal baratro. E poi c’è Tony, che ha semplicemente il desiderio di sfidare tutti I campioni di judo della città. Spesso vince, a volte viene sconfitto, ma si rialza sempre e non vede l’ora di combattere di nuovo.

Restaurato di recente dal Far East Film Festival in collaborazione con l’Immagine Ritrovata di Bologna, Throw Down è ancora oggi una delle vette più alte nell’opera dell’autore di Hong Kong, una visione di impeccabile solidità estetica e di emozionante vitalità. Se dovessimo descrivere Throw Down (2004) in una sola frase, diremmo che il film di Johnnie To è la storia di come ogni sconfitta non sia mai definitiva e contenga in sé, come nel simbolo del Dao, il seme del proprio opposto. E il film sembra quasi in opposizione rispetto alla maggior parte dei film per cui To è noto a livello internazionale, come il precedente P.T.U. (2003), nerissimo thriller dalla cui gravitas sembrava impossibile sfuggire. In realtà, i due lungometraggi dialogano tra loro a più livelli, in quanto tasselli di una generale enciclopedia di Hong Kong e del suo posto nel mondo.

Il linguaggio cinematografico di Throw Down, come la filmografia di To in generale, è sorprendentemente eclettico, trovandosi al crocevia di generi come la commedia, il noir, il film di arti marziali e il melodramma. I tre protagonisti, e tutti gli altri personaggi che costellano una storia di sconfitte liberanti e di rinascite inaspettate, vivono in un mondo duro e, per certi versi, decaduto: una Hong Kong a sua volta caduta a terra, sviluppata tra vicoli e ambienti chiusi. Eppure, c’è sempre spazio per rialzarsi, per uscire dai vicoli soffocanti, per un rematch con il mondo della vita: il judo si fa metafora delle sconfitte quotidiane, grandi e piccole. Le arti marziali, in generale, sono giocosamente messe in scena come allenamento per imparare a cadere nel modo corretto, per essere pronti a rialzarsi. C’è anche lo spazio per ridere, per costruire sequenze di grande virtuosismo tecnico come la grande resa dei conti, quasi del tutto verbale, tra I tre protagonisti e I fantasmi dei rispettivi passati. Un grande gioco che non nasconde, tuttavia, l’urgenza di raccontare qualcosa del mondo contemporaneo. Qualcosa di difficilmente verbalizzabile: una breccia, un desiderio generalizzato di trovare una nuova prospettiva.

La chiave del film sta in una frase ripetuta candidamente da uno dei personaggi, quel “Io faccio Sanshiro Sugata, tu fai Higaki” e nella risata cristallina che ne segue. Si tratta di una dedica sentita ad Akira Kurosawa, in particolare al suo primo film (Sanshiro Sugata, del 1943), e che racconta proprio la storia di un duello tra due judoka e della perdita di valori che questo sport – che lo spirito della sportività stesso – sembrava avere subito agli occhi del grande regista giapponese. Negli scontri, duri ma corretti, che Throw Down mette in scena con ironia e leggerezza To riesce a catturare tutta la vitalità di un certo modo di fare cinema, di vivere, di immaginare. Una prospettiva che la ex colonia britannica, città di frontiera e poroso luogo di scambio e sperimentazione anche feroce, sembrava ancora eletta a rappresentare nel 2004 e che ancora oggi, nonostante la profonda crisi del cinema hongkongese e il trasferimento effettivo di molte delle produzioni e degli autori alla Cina continentale, non ha del tutto abbandonato.

Throw Down è puro piacere di raccontare, un gioco tecnico ed estetico che si risolve in una lunga, struggente danza marziale. Una danza che coinvolge corpi, generi cinematografici e sguardi diversi in una sintesi di rara bellezza, nella cornice inconfondibile del Porto Profumato. Simulacro più vero del vero, città-schermo e luogo di fantasmi che, in tutti questi anni post-handover, ha continuato a celebrare la propria memoria, tradurla in molteplici visioni del presente e aprire squarci verso il futuro.

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Johnnie To Louis Koo Aaron Kwok Cherrie Ying Tony Leung Chiu-wai 95 minuti
Hong Kong 2004
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Il collezionista di carte

di Pietro Lafiandra
Il collezionista di carte - recensione film schrader

Sarebbe superficiale ridurre Il collezionista di carte (traduzione, ahimè, capziosa a tal punto da attirare in sala un pubblico non certo avvezzo – e felicemente – al cinema di Paul Schrader) a una versione laica di First Reformed. Se è vero che la produzione più recente del regista si è ormai consolidata sul grande tema dell’espiazione della colpa, e che la forma del suo cinema è sempre più vicina a quel Bresson che continua, ripetutamente, ostinatamente, a citare (come questo possa essere considerato un “appiattimento” per certa critica, resta un mistero), lo Schrader di The Card Counter è questa volta marcatamente politico, e la riflessione che ricava a partire da un’immagine mancante non può essere liquidata facilmente, ma va piuttosto letta alla luce della sua educazione calvinista: Schrader infatti ha ricevuto tale formazione in gioventù, nel seminario della Chiesa Cristiana Riformata, dove la spettatorialità cinematografica è vietata; va da sé, quindi, che la produzione di immagini e la Colpa vadano a braccetto nella sua riflessione.

William Tell (un meraviglioso Oscar Isaac) ha finito di scontare otto anni di carcere, inflittigli per essere stato aguzzino ad Abu Ghraib, in Iraq, e decide di sopravvivere con le vincite essenziali (qualche centinaio di dollari) che riesce a ottenere contando le carte nei vari Casinò. I suoi piani vengono però sconvolti dall’incontro con Cirk (Tye Sheridan), un ragazzo che cerca vendetta contro il maggiore John Gordo, il carnefice capo e primo responsabile delle torture, risparmiato grazie al suo peso politico e al fatto che nelle foto che ipotecavano lo scandalo non apparisse; Cirk infatti accusa Gordo per il suicidio del padre, commilitone di Tell che, terminata la reclusione, ha ripetutamente violentato moglie e figlio prima di togliersi la vita.

The Card Counter è un film sulle immagini assenti, sul potere che l’immagine celata alla vista esercita sui personaggi (un figlio privato dell’immagine del padre, un uomo condannato perché in una fotografia non figurava il suo superiore) e sugli spettatori, torturati dal non visibile, da quelle violenze che, per tutta la durata del film, guadagnano forza proprio perché in fuori campo, lontane dagli occhi e quindi dal mare magnum delle immagini pornografiche che affollano il contemporaneo. Le fotografie che diedero vita allo scandalo di Abu Ghraib nel 2004 sembravano una rivelazione, la manifestazione di una realtà segretata agli occhi del paese e al mondo intero che segnò un grosso scollamento tra Bush e l’opinione pubblica, ma le immagini che certificano il dramma personale, quelle vissute in prima persona dagli aguzzini, quelle della tortura, nello specifico, devono rimanere lontane dallo schermo e quindi dal pubblico, troppo personali, troppo reali per essere riportate, stilizzate, o anche solo immaginate.

Come il Michael Moore di Fahreneit 9/11 che validava il dramma dell’11 settembre con uno schermo nero che lasciava spazio al solo audio del crollo delle torri, per Schrader l’immagine è un trauma, o forse Il trauma, e se in First Reformed il pastore interpretato da Ethan Hawke finiva con l’auto-torturarsi per le immagini che tempestavano la sua, e solo la sua, mente, questa (mancata?) espiazione di William Tell assomiglia più a un tentativo di esorcismo di un trauma sociale, che può trovare soluzione, se davvero la può trovare, solo nel confronto diretto, isolato e occultato con quelle stesse immagini che, prive di supporto materiale, faticano a sbiadire, impedendo al protagonista la possibilità di (re)integrarsi in una realtà utopica in cui queste non sono mai state prodotte.

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Paul Schrader Oscar Isaac Tye Sheridan Tiffany Haddish Willem Dafoe 112 minuti
USA, Svezia 2021
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Drive My Car

di Saverio Felici
Drive My Car - recensione film Hamaguchi

La visione incrociata di due film antitetici come Titane e Drive My Car rivela qualcosa in più del banale paraculismo della giuria di Cannes 2021. Il successo delle due pellicole sintetizza due opposte ma complementari visioni di un certo cinema contemporaneo – capaci di proporre qualcosa di nuovo e vitale in due sottogeneri forse marcescenti quali il body horror (per Ducournau), e il drammone di lutti (Ryūsuke Hamaguchi). Del primo, Titane è la resurrezione in nome della visionarietà deflagrata e barocca, trionfo del senso immaginifico del cinema; del secondo, Drive My Car rappresenta l'astrazione a parole, romanzo che si fa immagini in un lavoro che parte da un testo magistrale per trovare nelle scarne e solenni inquadrature un semplice supporto espressivo. E come non si può non provare istantanea simpatia per l'intransigenza quasi adolescenziale della poetica della francese, l'opera di Hamaguchi è invece a tutti gli effetti un film della maturità, il lavoro della consacrazione per un autore relativamente giovane che, dopo questo e l'Orso d'Argento a Berlino (per Il gioco del destino e della fantasia, girato lo stesso anno), è oggi ufficialmente una voce con cui fare i conti.

Quest'idea di romanzo cinematografico, portato in Drive My Car a vette di complessità intratestuale da vertigine, rappresenta una scoperta relativamente recente. In occidente abbiamo imparato ad associare un simile approccio alla produzione sudcoreana: e anche di fronte a Drive My Car, è in particolare molto facile trovarsi a ripensare a Lee Chang-dong - a testimonianza dell'impronta decisiva posta dell'autore di Burning sulle prospettive meno banali del dramma cinematografico moderno. E proprio con il capolavoro del 2018, l'opera giapponese sembra nutrire un rapporto di parentela diretta, quasi da corollario o naturale prosecuzione (anche in virtù della comune provenienza, la raccolta Uomini Senza Donne di Haruke Muramaki, involontario testo sacro di questi anni). Una corrispondenza che si ritrova non tanto nelle immagini, quanto in ciò che ne resta fuori - nell'ellissi del racconto, nel senso di nulla che sembra premere, al di là delle inquadrature, sulle vite degli enigmatici protagonisti: qui, un attore di teatro (Hidetoshi Nishijima), paralizzato da un lutto insostenibile (che arriva dopo quaranta minuti di prologo, a proposito di tempi letterari) e tornato in scena dopo due anni alla guida di una nuova rappresentazione dello Zio Vanja. Accompagnato dalla sua non meno sfuggente autista personale Misaki (Toko MIjura, perfetta), l'uomo si costringerà a indagare l'enigma della persona scomparsa, aprendosi per la prima volta a chi le fu vicino, scavando tra rimossi, sensi di colpa e segreti portati nella tomba.

Nel silenzio e nelle parole, tra sogni, teatro e racconto di finzione, l'elaborazione giapponese di Muramaki è però ben diversa da quella inquietante e spettrale proposta da Lee in Burning. Differenze minimali, che alterano il senso del testo e ne amplificano ulteriormente la sottesa dimensione umanista; al formalismo vertiginoso spesso portato al parossismo tipico del cinema di Seul, Hamaguchi antepone nella sua rilettura del connazionale la lodevole tradizione giapponese del rigore, Ozu e Mizoguchi, l'emotività attraverso l'economia di gesti e di movimenti. In quella che progressivamente si disvela come una fluviale epopea del lutto, l'autore chiama però a raccolta anche la tradizione del cinema sperimentale americano, della Scuola di New York e della buonanima di Cassavetes: quest'ultimo in particolare, citato ripetutamente nelle interviste, è probabilmente alla base del viscerale rapporto di Hamaguchi con i suoi attori, chiamati a contribuire come autori aggiunti alla resa dei rispettivi alter-ego filmici.

Rispetto all'esordio Happy Hour (sei ore di recitazione con non professionisti, ovviamente figlia di Volti e Mariti dell'idolo newyorkese), Drive My Car rinuncia in toto all'improvvisazione, incorporando organicamente la propria matrice letteraria in un discorso prettamente filmico sull'assenza, gli altri, la perdita. È strutturato geometricamente in tre ore, distese e dense come tre ore di lettura, in cui le mille diramazioni del testo principale moltiplicano le chiavi di lettura della parabola, acquisendo nuove prospettive a ogni punto di vista proposto. Una complessità che non è complicazione, ma confronto serio e necessario con le difficoltà di un tema raramente dissezionato così nel profondo (avrà rosicato anche qui, il povero Moretti? Ben più che per Titane, il ko tecnico con Hamaguchi glene darebbe modo). È un film di morti, di persone assenti, e dei misteri che continuano a lasciarsi dietro. Ma è anche un film su chi rimane, sul conoscere se stessi attraverso gli altri, senza trovare risposte, ma solo nuove domande con cui imparare a convivere.

Nel lento e penoso risveglio del protagonista alle persone attorno a lui, assume il ruolo centrale un discorso ulteriormente metacinematografico legato al senso della recitazione, e dell'interpretazione. Drive My Car mette alla berlina la propria stessa essenza creativa come processo sconvolgente, da temere e fuggire - come il protagonista, che venera Checov e assieme ne ha il terrore, inseguito dal suo "bisogna vivere" come da una maledizione. Un dolore legato al processo di gnosi che lo scrivere e interpretare altre vite porta con sé, disturbante e illuminante oltre ogni implicazione terapeutica. E' qui il vero centro e cuore del film, che alla diade di spazi esplicitamente psicanalitici del letto matrimoniale e della Saab in movimento, aggiunge il terzo polo del palco teatrale: tre spazi espressivi di autoanalisi, di scoperta dell'altro e dunque di sé. Drive My Car affida al suo stesso medium il ruolo più importante: tradurre le lingue senza voci di chi non parla, svelare l'esistenza di misteri senza soluzione.

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Ryūsuke Hamaguchi Hidetoshi Nishijima Tōko Miura Masaki Okada Reika Kirishima 179
Giappone 2021
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Titane

di Saverio Felici
Titane recensione film Ducournau

E' bello che dal mucchio selvaggio di auteurs presentati in parata sulla croisette di Cannes 2021, a uscirne in testa sia stata infine Julia Ducournau. Merito di Spike Lee presidente di giuria, forse - ma soprattutto di un intero sistema produttivo, quello francese, che nella sua edizione volutamente più gonfia e tronfia a memoria recente ha comunque trovato il coraggio di anteporre ai mostri sacri Carax, Dumont, Audiard (e una dozzina di altri almeno di pari importanza) un film come Titane. E' una grande mossa, con furbizia e lungimiranza da Premi Oscar più che da festival europeo (c'è differenza in fondo? vecchio dibattito). Quella francese è un'industria che non ripudia i suoi grandi (cui anzi distribuisce come Babbo Natale tutti i premi minori), ma che utilizza consapevolmente la propria piattaforma di maggior risonanza per dare a operatori e consumatori il messaggio di un avvenuto cambio di passo: oggi il cinema europeo che vogliamo fare, quello che vogliamo applaudire e sostenere, non è Tre Piani, ma Titane.

La Palma d'Oro 2021 è dunque il “classico” secondo film di giovane autore coraggioso – che ha impressionato al debutto (Raw, che per senso della misura in confronto a questo pare Dreyer), e sa di poter disporre, per la prima e forse ultima volta in carriera, di carta bianca totale. Ducournau si è presa cinque anni, e ha infine investito il credito accumulato grazie al successo del primo film nel più classico “progetto della vita” da ora-o-mai-più; e come tutti i progetti della vita, se pecca, è solo per troppo amore. Che il risultato abbia portato a casa addirittura la Palma, oltre che scommessa vinta per l'autrice, rappresenta anche uno statement fondamentale per Cannes stesso; da anni timidamente apertisi ai generi "bassi" (forse sulla scia di Venezia, in questo più avanti), Frémaux e compagni ripudiano oggi i vecchi padri-padroni di mille selezioni ufficiali in nome di un body horror surrealista di gravidanze bestiali, arrivato a partorire il cinema che, metaforicamente e non, ne prenderà il posto.

Preso atto che di fronte a proposte come Titane sono i gusti personali ad avere l'ultima parola, non è giusto fare una colpa a quanti abbiano stroncato il film, o si siano dichiarati invecchiati precocemente dalla visione. Pregi e difetti sono quelli di una giovane autrice con grandi idee, vorace passione cinefila e un giustificato disprezzo ideologico per ogni compromesso e passo indietro. Infastidisce il pasticcio di temi? Di stili? Turba la satira che si mischia al dramma, e poi al comico e all'horror, al melò e al softcore, senza venirne a capo e senza neanche provarci? Che il film manipoli se stesso prima ancora che lo spettatore, cambiando forma a tradimento ogni venti minuti, dissimulando un controllo formale cui forse ha già rinunciato in partenza - come se il suo violento strafare ne sia la chiave di lettura stessa? E' teatro della crudeltà o infantilismo becero? Prendere o lasciare. Se da anni uffici stampa assai fantasiosi raccontano di platee messe in fuga da quel morto di sonno di Von Trier, una volta tanto con Ducournau si può parlare con cognizione di “film shock” vero, d'altri tempi; tutte le reazioni, anche le più estreme, sono pienamente giustificate.

Titane è quindi il racconto di un clash tra generazioni, sessi, e cinematografie: da una parte, la ballerina  Agethe Rousselle, attratta fisicamente dalle automobili e afflitta da problemi anche peggiori (qui, il body horror) – dall'altra, l'enorme Vincent Lindon di tanto cinema istituzionale francese, comandante di una squadra di pompieri alle prese con l'improvviso ritorno a casa del figlio, scomparso da bambino anni prima (qui, il dramma borghese). Due linee impossibili da conciliare, integrate in un plot schizofrenico che sembra godere della sua stessa deformità. La sofferenza quasi fisica che Titane prova nell'amalgamare le proprie anime non danneggia il film - è il film: un film che porta l'idea di contaminazione ai suoi limiti (extra-specisti, incestuosi), trovando nell'annullamento consapevole i suoi lampi di straziante dolcezza. Per una volta, l'aggettivo cronenberghiano non è stato speso a caso; la mutazione biopunk riflette un'evoluzione trascendentale dell'essere, parto di una Nuova Carne o un nuovo cinema, che aggiorna l'ormai stantia “commistione di generi” alla commistione di ogni forma di audiovisivo.

Il vortice della trasformazione violenta che Titane racconta è un tema archetipico, tanto forte da tirare in sé ogni altra elaborazione tangente: identità francese, mascolinità, vecchiaia, transgenderismo, genitorialità, religione, Freud e Ballard, Donna Haraway e Caterina Caselli - tutti nel tritacarne della morte e della rinascita, e ovviamente dell'amore. Ducournau sembra quindi procedere per impressioni, lasciando allo spettatore l'arduo (e vano) compito di venire a capo dei suoi beffardi non sequitur. Il suo approccio non è razionale quanto libidinale, emotivo: il senso sta nella perdita dello stesso, nel vano tentativo dei protagonisti di reprimere, schiacciare, mutilare un cambiamento ormai irreversibile.
L'horror moderno, soprattutto anglosassone, ha spesso ragionato sull'immanenza di questa precarietà: pareva però che sublimare tali inquietudini nella ghost story minimale, esangue metafora di questo o quel malessere sociale, fosse l'unica maniera di farci i conti. Titane entra di spinta in questo scenario, apre le finestre, fa entrare aria e luce nel decennio finalmente pronto a partire. Scaccia i fantasmi, torna a parlare di corpi e di film, e accoppiandoli a forza genera mostri irricevibili e senza padri biologici. Se questa è la new flesh del cinema d'autore europeo, e Ducournau il nuovo teen idol per giovani volenterosi cinéphile in cerca di stelline da idolatrare, allora avanti tutta: gli anni duemilaventi sapranno farci divertire.

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Julia Ducournau Vincent Lindon Agathe Rousselle Garance Marillier Bertrand Bonello 108
Francia 2021
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Annette

di Andrea Giangaspero
Annette - Recensione film Leos Carax

Henry McHenry e Ann Defrasnoux si dividono i palcoscenici di Hollywood e si amano condividendo i rispettivi successi, cullando un divismo esagerato nella somma delle loro immagini pubbliche. Lui è uno stand-up comedian, fa soffocare dal ridere il suo pubblico con una comicità non del tutto ilare e più propriamente feroce (come avviene per la messinscena della sparatoria al Bataclan); l’altra è un soprano di fama mondiale, canta la tragedia con tono purissimo e profetico, vestita di sangue e accasciata col corpo su una scenografia da film espressionista. Il prodotto (letterale) della loro unione è una bambina, Annette, che genererà degli squilibri e porterà la tragedia dal teatro alla vita dei due amanti, assurgendo infine – da enfant troppo prodige per essere vero, dunque non umano, burattino – a sintesi dei loro successi.

Ma facciamo un passo indietro. Perché l’orientamento più comodo e naturale per interrogare l’approccio di Leos Carax ad Annette, premio per la miglior regia a Cannes 74, non può che muovere assecondando la domanda dell’autore in apertura del film. Siamo in uno studio di registrazione. “So may we start?” chiede il regista alla band degli Sparks, che trasforma queste parole in canzone e avvia il film con un’ouverture da classico musical. Tutto il team della produzione marcia fuori dallo studio di registrazione, raggiunto dal cast, con Adam Driver, Marion Cotillard e Simon Helberg, prima che il titolo sbarchi su sfondo nero e separi quelle immagini dall’immersione nella finzione vera e propria. Per critici ed esperti del settore, Holy Motors è stato il film che meglio si è pronunciato sull’immagine filmica nell’ultimo ventennio. Ora, a distanza di 8 anni dal capolavoro di Carax, con Annette il dialogo tra immagine e sguardo si fa schietto, conclamato, calato com’è entro una cornice che dichiara apertamente l’evidenza della finzione e acuisce la necessità della partecipazione dello sguardo spettatoriale. Se lo poniamo in rilievo è perché, facendosi il suo statuto autoevidente e raccontando al suo interno una storia d’amore e di spettacolo, sembra che Carax voglia perseguire l’essenza, la dote più pura che il cinema possa offrire. Quale? Quella che fa parlare le immagini di sé, della propria natura, e le rende sensibili, vive perché emotive, cariche d’amore.

E “we love each other so much è quello che cantano Henry e Ann. Lo fanno ad infinitum e ad nauseam, sottovoce nei boschi o gridandolo in moto. Poco importa che l’autenticità del sentimento ceda sotto i colpi dell’ego, perché anche l’amore per il proprio successo dà profondità alle immagini, come quando osserviamo nel dietro le quinte Henry ammirare teso e invidioso Ann, che muore performativamente sotto scroscianti applausi a teatro, e la guarda poi su un display mentre si inchina con un sorriso pieno, un gesto grato e godurioso, attraverso la ripresa sgranata di una videocamera di sorveglianza. È sempre una questione di vista e di messa in quadro, che si tratti appunto di un display (il successo della stessa Annette sarà attestato mediante questa forma, coi suoi voli su palco riprodotti tra smartphone e tablet) o di un proscenio, dove la pienezza egotica di Henry dice dell’amore per lo spettacolo e per il successo. La dimensione performativa partecipa allora a questa realizzazione, specie perché i piani del teatro e del cinema scivolano l’uno sull’altro mettendo in moto un processo di tridimensionalizzazione della rappresentazione, quindi dell’immagine. Ann accede ad una foresta che si apre sul fondo del proscenio asettico e grigio in cui sta cantando, per poi farvi ritorno dalla stessa soglia. Henry interroga il pubblico che conosce le battute e replica in coro, prima docile poi veemente. Senza questo supporto lo spettacolo risulterebbe monco: è il cinema a modificarne la natura acuendone le possibilità. E oltre i palcoscenici, nel backstage di Henry, per strada e a casa, il teatro interviene a cancellare l’impressione di realtà del cinema. Certo, questo perché Annette è un musical, il recitato si fa cantato. Ma tutto è spettacolo. Persino il Me Too, le cui battute da repertorio nei notiziari vengono appiattite su schermo e musicate (i giornalisti chiedono, ovviamente, “why now?”, le sei ragazze vittime di violenza diranno in coro “all with a similar story”).

Anche l’ampio citazionismo sta lì a mostrare la traccia della storia, teatrale e cinematografica, affinché questa possa essere ancora materia viva e funzionare nel presente. Carax ricrea e rimette in scena: Ann annega scendendo lentamente nel fondale del mare come in The night of the hunter (1955); Henry sfrutta la figlia rendendola una diva come Svengali in Trilby (romanzo di George du Maurier del 1894); l’immagine fantasmatica del gorilla attinge a più riferimenti (è, per di più, l’immagine per eccellenza dello shock, dell’innovazione al cinema, come scriveva Mark Cousins); ovviamente la lettura di Pinocchio nella veste da burattino della piccola Annette; e tutta la teatralità melodrammatica di King Vidor, per primo ringraziato dal regista stesso nei titoli di coda.

In voice over all’inizio del film, Carax aveva chiesto di trattenere il respiro per tutta la durata della visione. Proprio in questi giorni sta passando in sala The card counter, in cui la voce del protagonista, Oscar Isaac, accompagna la colonna sonora con un respiro affannoso, sofferente. Schrader e Carax sono evidentemente due maestri lontanissimi, incomparabili (e grazie tante), ma è curioso tentare di leggere, nelle contrizioni dell’uno e nella teatralità sensuosa dell’altro, un uguale riconoscimento del respiro delle immagini. La trattenuta del soffio o la liberazione polmonare dicono qualcosa di un cinema che è sì oggetto per loro numinoso, ma soprattutto da percepire come organo vivo.

Nella sua risoluzione tragica, Adam Driver guarda in macchina e impone di non essere più guardato. “Stop watching me”, titoli di coda e corteo del cast per ringraziare lo spettatore. Le immagini possono smettere di respirare e noi finalmente possiamo svuotare i polmoni da quella trattenuta.

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Leos Carax Adam Driver Marion Cotillard 140 minuti
Francia 2021
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Tre piani

di Emanuele Di Nicola
Tre piani di Nanni Moretti

Bisogna fare una premessa prima di avvicinarsi a Tre piani di Nanni Moretti: per tentare di capire l’opera, stavolta più che mai, è necessario guardare ciò che sta sullo schermo, non dentro le nostre aspettative, vedere il regista di questo film e non colui che conoscevamo in passato, affrontare quello che c’è e non quello che vorremmo ci fosse. Insomma, per assurdo, dimenticare Moretti, mettere da parte l’aggettivo “morettiano” per come tradizionalmente lo intendiamo. Perché Tre piani è radicalmente diverso da tutto ciò che il cineasta ha girato finora, eppure si inserisce con coerenza assoluta nel percorso da lui intrapreso in questi anni. E forse apre una nuova fase.

Tre piani, ormai è noto, si ispira liberamente all’omonimo libro di Eshkol Nevo, ma esegue un gesto di riscrittura radicale: sposta la storia dal palazzo di Tel Aviv a un condominio nel quartiere Prati a Roma, espungendo così la componente israeliano-palestinese che è sottofondo costante del romanzo. Basti pensare alla colpevolizzazione del vicino di casa, operata dal personaggio di Scamarcio, per rendersi conto del suo significato se intrecciato alla questione palestinese. Attenzione: in realtà Nanni Moretti c’entra qualcosa con la questione, ovvero con la sua rielaborazione cinematografica, cucita oggi da un grande regista “morettiano”, Elia Suleiman. Vedere per esempio Il tempo che ci rimane: nel personaggio di se stesso, nella sua imperturbabilità, negli scarti paradossali per le strade di Nazareth c’è una rilettura peculiare del cinema morettiano, applicato alla contesa storica tra vicini-nemici. Questo per dire che un legame sotterraneo di Moretti con la questione palestinese esiste, nella poetica del fuori luogo e del fuori posto, nel cercare uno spazio dove non è concesso, nell’assenza di senso che produce smarrimento. Ma non qui. Qui il problema viene messo da parte, Moretti asciuga Eshkol Nevo: abbiamo “solo” tre piani in un condominio e una serie di eventi che li segnano.

Tre piani di Nanni Moretti

Un ragazzo ubriaco fa un incidente stradale e uccide una donna: è il figlio del giudice Vittorio (Nanni Moretti) e di Dora (Margherita Buy), moglie che si adegua alla vita del marito, il quale condanna il giovane senza appello; Lucio (Riccardo Scamarcio) lascia la figlia piccola al vicino di casa, l’anziano Renato (Paolo Graziosi) su cui si allunga però il sospetto di un abuso sessuale; quindi Monica (Alba Rohrwacher), madre sola con un marito lontano, affronta una maternità problematica e inizia a vedere un grande corvo nero, che appare solo a lei. Nei fili di queste vicende il regista convoca alcuni temi e li impasta tra loro: la cultura del sospetto, il giudizio morale che confina col moralismo, la complessità di essere madri, le donne che restano sole, la vecchiaia e la morte. Ma anche la vita. Volendo possiamo trovare assonanze col suo ultimo cinema, come detto la coerenza è assoluta, e sta proprio in quello sprofondo che Moretti ha il coraggio di guardare in faccia: il corvo che vede Monica, non è forse lo stesso metaforico male che affligge il pontefice di Habemus Papam? O il dolore sordo che emerge nell’apprestarsi a perdere un genitore in Mia madre? Le storie si intrecciano, a volte appena e altre con violenza, avanzano per ellissi (“cinque anni dopo”), scrutano nell’abisso e infine trovano la catarsi.

Seppure in teoria le coordinate siano precise, Moretti neutralizza totalmente la storia: il lavoro di annullamento negli accenti degli attori, la loro recitazione a tratti catatonica realizza un atto di astrazione che li porta lontano da Roma, ma anche dal qui e ora. Possiamo essere ovunque. Le battute vengono declamate come in certi film di Manoel de Oliveira. Il microcosmo a tre piani diventa allora un universo a sé, che qui non contiene il modello freudiano (Es, Ego e Super-Io) di cui restano vaghe tracce, ma si apre proprio alla totalità. Ecco la smisurata ambizione del Moretti di Tre piani: parlare del mondo, del legno storto dell’umanità. E perfino provare a curarlo.
In tal senso interviene l’analisi di Roberto Lasagna nel suo libro Nanni Moretti. Il cinema come cura (Mimesis, 2021): si tratta di «un regista estraneo dal cavalcare le mode e il cui cinema è sin da subito auto-riflessivo, ponendosi, a testa alta, come una cura per la mente». Seguendo la linea interpretativa Moretti oggi frequenta la cura in un doppio senso: la cura di sé e il prendersi cura. Se il suo discorso da oltre quarant’anni si propone come gesto catartico nei confronti di se stesso, forse Tre piani è un film proprio sull’impossibilità di prendersi cura dell’altro. Gli abitanti del condominio, inchiodati ai loro errori, consumano convenevoli ma non riescono mai a parlarsi, a tendersi davvero la mano a vicenda. “È guasto”, dice la bambina riferendosi alla demenza senile dell’anziano, ma forse anche alla totalità del palazzo e del cosmo.

Tre piani di Nanni Moretti

Perché facciamo i nostri sbagli? Quanto siamo disposti ad ammetterlo e tentare di correggerli? C’è una rima tra la figura di Scamarcio e quella di Moretti, due “erranti” che si lasciano dietro il peso delle scelte, l’uno nel trattamento ingiusto del vicino di casa, l’altro nell’allontanamento del figlio che per lui resterà non riconciliato. Persone che parlano senza comprendersi perché troppo egoriferite, che parlano solo per ottenere la conferma delle proprie convinzioni, che pensano solo a se stesse: può un film fuori dal tempo essere più contemporaneo?
Moretti si affaccia in un pozzo nero fatto però di improvvise illuminazioni, di repentini squarci di luce: come nella sequenza della segreteria telefonica, che riporta il giudice severo alla voce del figlio bambino, e per un attimo concede un sorriso, subito prima della dissolvenza definitiva che conduce alla morte. Un momento carico di significato, straziante, il migliore del film.

Mancanza di senso, dolore e incapacità di comunicare: Tre piani cammina la sua ordalia sulle braci del presente, ma alla fine concede una nota di speranza. Arriva dai nuovi nati, dalle prossime generazioni, come fa notare Alberto Crespi (Cineforum NS n.3, settembre 2021): qualcosa di simile accadeva in Gloria Mundi di Guédiguian, film che si apriva proprio con una nascita a rendere tangibile il dubbio su cosa sarà dei nostri figli. Ai neonati Nanni Moretti affida l’ipotesi della felicità e la possibilità di uno spiraglio (rivediamoci Aprile), qui incarnata da Margherita Buy che finalmente ritrova figlio e nipote, permettendo a un film così chiuso e cupo di aprirsi. “Domani”, era l’ultima parola di Giulia Lazzarini, la madre di Mia madredomani è l’ultima parola metaforicamente anche in Tre piani.
Un film imperfetto, difettoso, che può facilmente essere smontato (il tiro al piccione a Cannes lo dimostra): si può criticare nelle singole parti, in quelle più didascaliche o meno riuscite. Ma anche un film avvolto in un grave dolore alla ricerca di una luce che - potere del cinema - Moretti insegue per sé e vuole offrire allo spettatore. Cura e prendersi cura. Non sarà cool Nanni Moretti, non sarà un nuovo regista dell’oggi e non avrà girato Titane, il film post-cronenberghiano e cripto-femminista che ha vinto la Palma d’oro, al contrario è un “vecchio” regista europeo: ma il suo sguardo a tratti vibra ancora, il suo cinema negli anni si fa sempre più disperato, struggente e infine liberatorio.

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Nanni Moretti Nanni Moretti Margherita Buy Riccardo Scamarcio Alba Rohrwacher Denise Tantucci Adriano Giannini Stefano Dionisi 119 minuti
Italia
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Dune

di Matteo Berardini
dune recensione film worm

Fear is the mind-killer

Come sarà l’immagine del futuro?
Che processi pratici e simbolici sarà in grado di innescare?
Cosa e come ci racconterà dello spazio e del tempo?
Che tipo di spettatori saremo?

Di Denis Villeneuve si discute spesso in termini autoriali, elogiando/limitando le modalità e la riuscita del suo cinema sempre più bipolare, giano bifronte, interno com’è alle logiche industriali del blockbuster eppur affamato di sguardo, convinto di poter (e dover) sfuggire alle forze seriali della Hollywood contemporanea coltivando necessità di pensiero più raffinate e personali, senza per questo rinunciare al rapporto decisivo con lo spettatore di massa. E di questa identità autoriale si possono indagare i nuclei tematici e ricorsivi: il legame genitoriale (gesti e sguardi d’affetto, cenni d’approvazione o rimprovero, questo Dune è costellato di attimi dedicati al legame tra Paul e suo padre il Duca); la necessità di saper vedere nel confine tra bene e male (i visori notturni di Sicario e la violenza labirintica di Prisoners, le manovre politiche delle Bene Gesserit e l’etica famigliare degli Atreides); il peso dell’azione individuale di fronte al caos titanico di una realtà irriducibile alla ragione e all’ordine (dal pesce parlante di Maelström alla genealogia dei legami di Incendies, per arrivare infine all’occhio divino di Shai-Hulud, i giganteschi vermi delle sabbie che diventano iridi spalancate sulle miserie e ambizioni e paure dell’uomo).

Tuttavia c’è qualcos’altro che, in maniera netta e bruciante, definisce il cinema di Villeneuve e la sua, chiamiamola così, poetica autoriale – che poi sarebbe l’intenzione di mantenere un rapporto denso tra le immagini e il reale attraverso le forme del cinema che si è scelto di indagare – e questo qualcosa è la volontà e capacità di impiegare l’high concept movie come strumento per interrogarsi sulla natura dell’immagine contemporanea, sul suo valore storico e significante, sulle possibilità che essa ha, ancora oggi, di plasmare i contorni dell’esperienza umana. Questo cinema è il gesto industriale che oggi, più di ogni altro, si oppone alla rivendita preconfezionata del passato come sterile fotocopia di forme, e che al regime di finzione nostalgica imperante nel franchise – che sempre più inquadra, datifica e serializza in sequenze vendibili al dettaglio il nostro immaginario – oppone l’umano sopra la macchina, lo sguardo sopra l’algoritmo (come Deckard, che uccide il clone-replica di Rachel perché l’originale aveva gli occhi di un altro colore).

desert

Per arrivare a Dune facciamo quindi un passo indietro, dal 10190 After Guild – anno in cui la casata degli Atreides salpa alla volta del pianeta Arrakis – al 2049 After Death del secondo Blade Runner. Dal deserto denso di spezia del pianeta dei Fremen a quello colmo di rovine fisiche e mediali della lunga sequenza a Las Vegas.
Di 2049 infatti si tende a dimenticare che l’impianto narrativo nasce dalle macerie culturali di una società che ha abbracciato la datificazione digitale, e che di quel paradigma ha poi subìto un reset a opera di un blackout globale: l’indagine dell’androide K procede tra registri corrotti, ricordi innestati e file contraffatti dentro un orizzonte teorico che indaga sugli effetti della rivoluzione sintetica dell’immaginario, disperso come fall-out radioattivo in una foresta di supporti elettronici e immagini binarie. Il deserto di 2049 è tutto ciò che resta della cultura visuale del Novecento, rovine che sopravvivono nelle forme del feticcio e del frammento, cullate da una città fantasma corrosa dal tempo e dalle radiazioni.
E Arrakis? Viaggiando come navigatori di Gilda, sazi di spezia attraverso lo spazio e il tempo, cosa troviamo al nostro arrivo, cosa si rivela il pianeta di Dune? Anzitutto un orizzonte velato, dove il cielo è sempre oscurato da folate di sabbia mentre il sole rimane celato dietro uno schermo, una protezione, un miraggio. Arrakis è un altro deserto che cova immagini, ma queste non appartengono al passato bensì al futuro, sono figlie di nuovi e più profondi modi di guardare al mondo. Le immagini di Arrakis sono le scaglie di spezia frammiste alle sabbie del deserto, e vanno cercate, scovate, affidandosi a forze essenziali attive dentro di noi e attraverso tutto ciò che ci circonda. Solo così saremo in grado di vedere oltre.

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Arrakis, con i suoi Fremen che incarnano mezzo secolo di lotte decolonizzanti, e la spezia, che altro non è se non metafora di ogni risorsa combustibile che rende possibile il progresso alimentando al contempo distruzione ambientale e sfruttamento sociale, sono creazioni di controcultura che nascono in veste letteraria (il romanzo, del ’65, è una bibbia del movimento sessantottino e tra i capisaldi della sci-fi ecologista e anticapitalista) e arrivano a noi in forme attuali, politiche, urgenti; nelle immagini tratte da Villeneuve sono evidenti gli echi dell’eterna questione mediorientale e dell’Afghanistan, del controllo territoriale spacciato per esportazione democratica, e di un nuovo sviluppo economico che si impone, ogni giorno di più finché non sarà troppo tardi, come unica agenda di salvezza. È questo il pieno potere di un adattamento che sposa e rispetta la fantascienza di popoli e culture edificata da Frank Herbert per mostrare le criticità che, identiche, arrivano all’oggi. All’interno di un’operazione che nega i fondamenti del blockbuster seriale (si pensi alle continue visioni di Paul, grazie alle quali la sequenza degli eventi viene spoilerata da un binario temporale anticipato e parallelo) perché è alla tradizione storica del kolossal che guarda, a quel cinema-mondo in grado di ricreare da sé e dentro di sé il proprio immaginario attingendo a tradizioni fumettistiche e visuali, oltre ai meccanismi più essenziali del grande spettacolo: il gigantismo della rappresentazione, di rara potenza nella visione in IMAX e pienamente funzionale a trasfigurare visivamente il rapporto schiacciante tra l’umano e il mondo; la gestione manichea dei costumi, identificativi delle casate ma soprattutto dei ruoli ancestrali di bene e male all’interno del viaggio mitico prescritto per Paul (con il Barone Harkonnen figura liminare costruita come Kurtz, citato letteralmente); la cura etnografica per i dettagli riguardanti chiese, famiglie, casate, offerti allo sguardo da una rete che nel suo insieme, un tassello alla volta, porta in vita una realtà altra; la fiducia, ritrovata, nello spettatore, che fuori dal confort narcotico dei franchise Disney ritrova davanti a sé immagini che raccontano attraverso la suggestione, l’accenno, in un passo a due che incentiva l’intelligenza del pubblico e il suo  ruolo attivo. Dal punto di vista narrativo, di gestione cioè di quella materia gargantuesca e iper-dettagliata qual è il world building di Herbert, Dune è davvero un piccolo miracolo di sintesi, un esercizio abilissimo in equilibrio tra efficacia e gusto, rispetto e personalità, dove il cinema ritrova i tempi e la cura dello spettacolo pensato.

Ma, come dicevamo in apertura, il cinema di Villeneuve è qualcosa di più di un incontro tra autore e capitale, è un territorio mobile che segue traiettorie che anzitutto guardano al cinema stesso e al suo ruolo nel mondo. In questo senso Dune è il modo che ha Villeneuve per chiederci di immaginare altre forme di spettacolo, e la spezia, magnifica sostanza ponte, ne è la chiave, il principio che contrae lo spazio-tempo e semina tracce di futuro. Purché ci si affidi a essa credendo, sconfiggendo la morte della mente messa in moto dalla paura. E se la spezia è l’essenza del cinema, Arrakis è dove ci rechiamo per interrogare lo stato dell’immagine e del grande schermo oggi, il sistema di sogni e visioni dove il nostro immaginario gioca la sua partita contro le forze della datificazione e frammentazione dell’esperienza filmica on demand, ribadendo il ruolo comunitario della sala e dell’immagine come entità storica e rete memoriale espansa. Villeneuve si (e ci) chiede cosa possa fare per noi oggi la sostanza del cinema, e Arrakis è la risposta. Vedere oltre.

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Denis Villeneuve Timothée Chalamet Rebecca Ferguson Oscar Isaac Zendaya Josh Brolin Jason Momoa Stellan Skarsgård Charlotte Rampling Dave Bautista Javier Bardem 155 minuti
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