Titane

di Julia Ducournau

Il sabba biopunk di Julia Ducournau partorisce il nuovo cinema istituzionale francese: ci sarà da divertirsi

Titane recensione film Ducournau

E' bello che dal mucchio selvaggio di auteurs presentati in parata sulla croisette di Cannes 2021, a uscirne in testa sia stata infine Julia Ducournau. Merito di Spike Lee presidente di giuria, forse - ma soprattutto di un intero sistema produttivo, quello francese, che nella sua edizione volutamente più gonfia e tronfia a memoria recente ha comunque trovato il coraggio di anteporre ai mostri sacri Carax, Dumont, Audiard (e una dozzina di altri almeno di pari importanza) un film come Titane. E' una grande mossa, con furbizia e lungimiranza da Premi Oscar più che da festival europeo (c'è differenza in fondo? vecchio dibattito). Quella francese è un'industria che non ripudia i suoi grandi (cui anzi distribuisce come Babbo Natale tutti i premi minori), ma che utilizza consapevolmente la propria piattaforma di maggior risonanza per dare a operatori e consumatori il messaggio di un avvenuto cambio di passo: oggi il cinema europeo che vogliamo fare, quello che vogliamo applaudire e sostenere, non è Tre Piani, ma Titane.

La Palma d'Oro 2021 è dunque il “classico” secondo film di giovane autore coraggioso – che ha impressionato al debutto (Raw, che per senso della misura in confronto a questo pare Dreyer), e sa di poter disporre, per la prima e forse ultima volta in carriera, di carta bianca totale. Ducournau si è presa cinque anni, e ha infine investito il credito accumulato grazie al successo del primo film nel più classico “progetto della vita” da ora-o-mai-più; e come tutti i progetti della vita, se pecca, è solo per troppo amore. Che il risultato abbia portato a casa addirittura la Palma, oltre che scommessa vinta per l'autrice, rappresenta anche uno statement fondamentale per Cannes stesso; da anni timidamente apertisi ai generi "bassi" (forse sulla scia di Venezia, in questo più avanti), Frémaux e compagni ripudiano oggi i vecchi padri-padroni di mille selezioni ufficiali in nome di un body horror surrealista di gravidanze bestiali, arrivato a partorire il cinema che, metaforicamente e non, ne prenderà il posto.

Preso atto che di fronte a proposte come Titane sono i gusti personali ad avere l'ultima parola, non è giusto fare una colpa a quanti abbiano stroncato il film, o si siano dichiarati invecchiati precocemente dalla visione. Pregi e difetti sono quelli di una giovane autrice con grandi idee, vorace passione cinefila e un giustificato disprezzo ideologico per ogni compromesso e passo indietro. Infastidisce il pasticcio di temi? Di stili? Turba la satira che si mischia al dramma, e poi al comico e all'horror, al melò e al softcore, senza venirne a capo e senza neanche provarci? Che il film manipoli se stesso prima ancora che lo spettatore, cambiando forma a tradimento ogni venti minuti, dissimulando un controllo formale cui forse ha già rinunciato in partenza - come se il suo violento strafare ne sia la chiave di lettura stessa? E' teatro della crudeltà o infantilismo becero? Prendere o lasciare. Se da anni uffici stampa assai fantasiosi raccontano di platee messe in fuga da quel morto di sonno di Von Trier, una volta tanto con Ducournau si può parlare con cognizione di “film shock” vero, d'altri tempi; tutte le reazioni, anche le più estreme, sono pienamente giustificate.

Titane è quindi il racconto di un clash tra generazioni, sessi, e cinematografie: da una parte, la ballerina  Agethe Rousselle, attratta fisicamente dalle automobili e afflitta da problemi anche peggiori (qui, il body horror) – dall'altra, l'enorme Vincent Lindon di tanto cinema istituzionale francese, comandante di una squadra di pompieri alle prese con l'improvviso ritorno a casa del figlio, scomparso da bambino anni prima (qui, il dramma borghese). Due linee impossibili da conciliare, integrate in un plot schizofrenico che sembra godere della sua stessa deformità. La sofferenza quasi fisica che Titane prova nell'amalgamare le proprie anime non danneggia il film - è il film: un film che porta l'idea di contaminazione ai suoi limiti (extra-specisti, incestuosi), trovando nell'annullamento consapevole i suoi lampi di straziante dolcezza. Per una volta, l'aggettivo cronenberghiano non è stato speso a caso; la mutazione biopunk riflette un'evoluzione trascendentale dell'essere, parto di una Nuova Carne o un nuovo cinema, che aggiorna l'ormai stantia “commistione di generi” alla commistione di ogni forma di audiovisivo.

Il vortice della trasformazione violenta che Titane racconta è un tema archetipico, tanto forte da tirare in sé ogni altra elaborazione tangente: identità francese, mascolinità, vecchiaia, transgenderismo, genitorialità, religione, Freud e Ballard, Donna Haraway e Caterina Caselli - tutti nel tritacarne della morte e della rinascita, e ovviamente dell'amore. Ducournau sembra quindi procedere per impressioni, lasciando allo spettatore l'arduo (e vano) compito di venire a capo dei suoi beffardi non sequitur. Il suo approccio non è razionale quanto libidinale, emotivo: il senso sta nella perdita dello stesso, nel vano tentativo dei protagonisti di reprimere, schiacciare, mutilare un cambiamento ormai irreversibile.
L'horror moderno, soprattutto anglosassone, ha spesso ragionato sull'immanenza di questa precarietà: pareva però che sublimare tali inquietudini nella ghost story minimale, esangue metafora di questo o quel malessere sociale, fosse l'unica maniera di farci i conti. Titane entra di spinta in questo scenario, apre le finestre, fa entrare aria e luce nel decennio finalmente pronto a partire. Scaccia i fantasmi, torna a parlare di corpi e di film, e accoppiandoli a forza genera mostri irricevibili e senza padri biologici. Se questa è la new flesh del cinema d'autore europeo, e Ducournau il nuovo teen idol per giovani volenterosi cinéphile in cerca di stelline da idolatrare, allora avanti tutta: gli anni duemilaventi sapranno farci divertire.

Autore: Saverio Felici
Pubblicato il 01/10/2021

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