A Chiara
Premiato a Cannes 74 col Label Europa Cinemas, l'ultimo film di Jonas Carpignano riparte dalla geografia dei due lungometraggi precedenti, quella di Gioa Tauro, adottando stavolta lo sguardo di un personaggio che non vuole soccombere al male endemico della sua terra.
La piana di Gioia Tauro sta parecchio a cuore a Jonas Carpignano, così tanto che dopo il corto che vi girò nel 2012 (A Chjana) il regista decise di trasferirsi lì per diversi anni. È diventata una geografia a lui nota, un luogo che ha setacciato in lungo e in largo in cerca di storie, non stordenti, esagerate, ma in grado di parlare la lingua di un’umanità dimenticata e, soprattutto, dimentica del mondo al di fuori di sé. Mediterranea (2015) e A Ciambra (2017) erano già intessuti di questa dote, perché adottavano il punto di vista esclusivo di un personaggio che di quella terra era il prodotto o il figlio acquisito (nel caso del primo). La storia non cambia per A Chiara, terzo lungometraggio di Carpignano, premiato nella Quinzaine des réalisateurs col Label Europa Cinemas per il miglior film europeo.
Chiara ha appena 15 anni ed è la seconda di tre sorelle che vivono nell’apparente stabilità di un contesto famigliare medio-borghese. “Apparente” perché quando impara a guardare con occhi meno assuefatti al sogno e all’inezia, Chiara comincia a riconoscere qualcosa che stride, che normale non lo è affatto. Guarda dei tipi loschi al diciottesimo di sua sorella mentre si scambiano strane occhiate con suo padre, e resta immobile con un senso di panico che le monta dentro quando vede questi allontanarsi rabbioso dalla festa. Tutto si compie in poche ore: il padre di Chiara si dà alla macchia perché la sua copertura da contrabbandiere della ‘ndrangheta è saltata. Chiara fa domande sulla sua assenza, si sforza di venire a capo del castello di bugie che le si para ora davanti, scontrandosi però con l’omertà di madre e sorella.
Ecco, di nuovo, le tracce di un male endemico a cui i personaggi di Carpignano sono edotti e consegnati, con una differenza però non da poco. Dove prima ci si barcamenava tra le sofferenze del corpo e degli sguardi ostili (Mediterranea) e si sceglieva la strada ereditaria della criminalità (A Ciambra), ora negli occhi di Chiara (una splendida Swamy Rotolo) c’è la risolutezza della ricerca della verità, che muove da uno sdegno pervicace, dall’incapacità di accettare l’immobilismo e il silenzio dei famigliari e la vera natura del padre che tanto aveva adorato. Chiara viene affidata alla custodia di un assistente sociale che deve accompagnarla a Urbino (cioè luogo di una geografia già troppo remota perché al di fuori di quella piana dimenticata, come dicevamo in apertura), presso una nuova famiglia pronta ad amarla come si deve, ma deve fuggire, deve ancora combattere, provare a restituire compattezza e serenità a quel suo nucleo di affetti, almeno finché può.
Per A Chiara, Carpignano parte di nuovo e sempre dal vero. Ha ascoltato le storie e compreso le ragioni che spingono le famiglie a restar dentro la logica della criminalità. “Gli altri la chiamano mafia, noi la chiamiamo sopravvivenza” dice il padre di Chiara, senza afflizione, solo con accettazione silente. Muovere dal vero non significa però restarvi assorbito. Di notte, Chiara sogna di scoprire un buco nel pavimento del soggiorno, una cavità verso gole illuminate d’azzurro nel sottosuolo. È il sogno a farle scoprire un ingresso segreto verso un seminterrato che suo padre ha sempre tenuto nascosto e da cui le indagini partono. Carpignano fa ora un passo in più nella finzione, sapendo che la realizzazione del sogno nel cinema può solo restituire visionarietà magica alla veggenza della sua protagonista.
Parliamo consapevolmente di “veggenza”, sedotti da un’intuizione che prende corpo e sembra trovare conferme lungo il film. Carpignano adotta la tensione di sguardo della sua protagonista solitaria (come già fatto nei due precedenti titoli) mediante un pedinamento quasi zavattiniano, di matrice neorealista, perché dal tocco di questo sguardo-macchina si compone una geografia di oggetti e corpi che hanno valore per sé stessi (lo diceva Deleuze proprio a proposito del Neorealismo), componenti deputate alla realizzazione organica di un mondo vero, vivo, pieno. E non a caso la protagonista è, di nuovo, una ragazzina (tanto De Sica quanto Truffaut sono per questo riferimenti fondamentali), in grado di aguzzare la vista, forzare la curiosità verso un’indagine personale che sa sì di finzione, ma realizza alla fine un modello perfetto, appunto, di “veggenza” deleuziana: le ragioni per cui muoversi a ricomporre il quadro della famiglia vengono pian piano meno, il senso dell’indagine si sgretola; è tempo che la veggenza di Chiara si esprima, accettando l’inazione e spostando il fuoco sulle immagini da guardare e basta, per poterle fotografare come ricordo e richiamarle nel suo memoriale quando ormai le saranno sfuggite.
Per questo Chiara trattiene a sé, al suo sguardo, la sorellina turbata, sveglia all’alba a fissarla irretita dall’incapacità di capire, prima di andarsene impotente e di trasfigurarla a sola affezione di un’immagine-ricordo. Nel rovescio di quel mondo, lontano da casa e con un ampio scarto temporale, Chiara può raggiungere la maggiore età senza doversi più preoccupare delle occhiate di loschi figuri, circondata da una famiglia rispettabile, dovendo però tenere custodita dentro uno specchio, dentro la sua inquadratura, l’affezione incancellabile del suo nido famigliare, la sua memoria viva, al più livida, sfocata.