Diabolik

di Giacomo Calzoni
Diabolik - recensione film manetti bros

La sirena di un allarme rompe il silenzio della notte di Clerville, dando il via all’inseguimento della celebre Jaguar nera di Diabolik da parte della pattuglie guidate dall’ispettore Ginko: la sequenza iniziale è anche l’unico momento veramente action di un film che, una volta introdotto il contesto, si rivela una rilettura filologicamente corretta delle due anime che contraddistinguono le avventure del Re del terrore, creato nel 1962 dalle sorelle Angela e Luciana Giussani. La prima, quella più nera, crudele e scorretta, tipica dei primi anni di pubblicazione del fumetto, quando Diabolik era ancora un assassino spietato, privo di compassione e protagonista di intrecci noir vicini alla tradizione francese, e quella successiva, incentrata prevalentemente sulle dinamiche – sempre più elaborate e al passo coi tempi – dei suoi famigerati furti. Tutta la prima parte del film è infatti l’adattamento sostanzialmente fedele di una delle storie più celebri, L’arresto di Diabolik (numero tre della prima serie, marzo 1963), e del suo omonimo rifacimento pubblicato nel 2012 nella collana parallela Il grande Diabolik: un breve arco narrativo che, raccontando l’incontro e l’innamoramento con Eva Kant, rappresenta di fatto uno dei pochissimi elementi di continuity del fumetto, come nella migliore tradizione popolare italiana (basti pensare anche ai personaggi storici della Bonelli, da Tex a Zagor, quasi sempre estranei a saghe in grado di stravolgerne lo status quo). E chissà se i due sequel, attualmente già in fase di lavorazione, affronteranno l’altro grande elemento ricorrente nella storia del personaggio, ovvero le sue origini legate all’isola di King…

Chi si aspettava dai Manetti, anche sceneggiatori insieme ai fumettisti Mario Gomboli (che compare nel ruolo del giudice) e Michelangelo La Neve, il difficile e improbabile punto di incontro tra la dimensione pop di un fenomeno di costume che dura ormai da sessant’anni e l’esigenza, più strettamente contemporanea, di venire incontro ai gusti di un pubblico abituato ormai a ben altro, probabilmente rimarrà deluso da un film fuori dal tempo e lontano dalle mode. Evitando con intelligenza qualsiasi riferimento all’esperimento compiuto da Mario Bava nel 1968, Diabolik ricrea minuziosamente l’universo delle sorelle Giussani attraverso dettagli riconoscibili soltanto ai lettori più attenti: quindi non solamente le città Clerville e Ghenf e i nomi delle vie e dei personaggi (compresi quelli di contorno), com’era più scontato, ma anche la postura dei protagonisti (quella di Diabolik che legge il giornale seduto in poltrona, o quella di Ginko durante il confronto finale) e la composizione stessa dell’inquadratura, mai così vicina al celebre layout a due vignette tipico del formato tascabile. Questa attenzione maniacale è però anche il limite maggiore - almeno in termini commerciali - di un film che di fatto sceglie di rivolgersi quasi esclusivamente ai conoscitori della materia, presentandosi come un’incognita nei confronti di tutti gli altri. Una scelta forse discutibile, ma pur sempre una scelta. Anzi, di più: una presa di posizione netta e cristallina.

Ecco allora che, nel pieno dell’era digitale, Diabolik si rivela un film anacronisticamente e orgogliosamente analogico, quasi testardo nel desiderare che lo spettatore si meravigli ancora di fronte alla magia di un artificio d’altri tempi: come l’apertura di una parete rocciosa che rivela un ingresso nascosto, oppure il celebre stratagemma delle maschere di lattice, trucchi vecchi come il mondo ma oggi ancora indispensabili più che mai. L’ambientazione negli anni Sessanta e lo stile volutamente retrò non devono trarre in inganno, perchè quella dei Manetti non è un’operazione nostalgica, e nemmeno postmoderna, tutte cose alle quali oggi siamo fin troppo assuefatti; non è la rappresentazione di un mondo che non esiste più ma, al contrario, di un mondo che non è mai stato e mai sarà. È il ritorno a una dimensione che è esistita (ed esiste ancora) solamente nel regno della fantasia, nell’immaginario condiviso, chiedendo allo spettatore di abbandonarsi dentro essa per il tempo di una durata, 133 minuti, che allora, forse, tanto eccessiva non è, nonostante il luogo comune imponga il contrario.

E in mezzo a tanti cinecomics sempre più drammaticamente seriosi e lontani da quella profondissima leggerezza della dimensione cartacea, il Diabolik dei Manetti Bros è un’operazione coraggiosa e in controtendenza, probabilmente imperfetta (chi la vuole, in fin dei conti, la perfezione?) ma totalmente consapevole nel suo rifiuto ostinato delle regole, dei tempi, del montaggio, dei dialoghi e della recitazione imposti dai canoni del blockbuster contemporaneo. Ecco perché sarà amato pochissimo. Ma chi se ne importa?

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Antonio Manetti Marco Manetti Luca Marinelli Miriam Leone Valerio Mastandrea Alessandro Roja Serena Rossi Piergiorgio Bellocchio Roberto Citran Claudia Gerini 133 minuti
Italia 2021
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È stata la mano di Dio

di Arianna Pagliara
è stata la mano di dio point blank

La famiglia, l’adolescenza, la quotidianità e il sogno, l’affetto e la delusione, la speranza, il dolore e l’amarezza, e soprattutto Napoli, dimensione emotiva più che geografica: l’ultimo film di Paolo Sorrentino rappresenta il tassello chiave di una filmografia già ampia e strutturata, perché qui il regista, affabulatore, esteta, a tratti visionario, per la prima volta rivolge direttamente l’obiettivo verso la propria intimità e il proprio vissuto. Lo fa, inevitabilmente, con estrema cautela, con pudore, quasi con circospezione. È una resa dei conti, un Amarcord, uno spazio per lasciarsi andare al ricordo che si fa rimpianto ma anche dichiarazione d’amore. Verso i genitori scomparsi in un’età in cui il futuro appare ancora così incerto e nebuloso, verso la città che è heimat, ventre materno oscuro e sotterraneo ma anche apertura sull’azzurro senza fine dell’onnipresente mare.

Gli stilemi tipici del Sorrentino che conosciamo e amiamo a ben guardare ci sono tutti. Il grottesco, nella descrizione di certi personaggi che compongono una vivacissima galleria di ritratti (a cominciare dalla baronessa, quasi caricaturale eppure così umana). L’immaginifico, la sospensione magica di certi momenti epifanici (l’uomo appeso sul set di Capuano), con echi felliniani più o meno marcati (la femminilità prorompente e statuaria della zia Patrizia). C’è, persino, Fellini stesso, inconfondibile voce fuori campo durante i provini a cui partecipa, speranzoso, il fratello del protagonista.
Eppure questo è forse in assoluto quello meno “sorrentiniano” tra i film dell’autore, perché nel complesso è indubbiamente il più scarno, il più nudo, il più autentico: la vita vera brucia ancora nelle mani del regista, ed è una realtà che non sopporta ornamento e stilizzazioni, che non può essere tradita. Dunque, si procede per sottrazione, specie nella seconda parte del film, quella che racconta il lutto e il tentativo di elaborazione.
In principio, quello che vediamo attorno al giovane Fabio (alter ego del regista), è universo di affetti solidi, dove il buonumore è autentico e i contrasti e le ferite, quando presenti, non vengono taciuti, ma anzi palesati anche platealmente nel tentativo, fallimentare o meno, di superarli. C’è sempre, verosimilmente, qualcosa che sfugge al controllo: lo spettro della deriva psicologica che rischia di farsi follia, l’imprevedibilità dell’eros che mette a rischio la stabilità sentimentale, qualche segreto che potenzialmente è una mina che attende di esplodere. Ma il giovanissimo Fabio si muove ancora in un universo ordinato, conoscibile, che risponde a un orizzonte di senso. Poi, il lutto improvviso e inaspettato lo precipita nel vuoto abissale, nell’assenza muta, in un limbo in cui tutto sembra essere privo di colore. È la mano di Dio che si è posata sulla sua testa: nel momento fatidico, il ragazzo, che sarebbe dovuto essere insieme ai genitori, si trova invece allo stadio per vedere Maradona. Perché, come dirà Sorrentino in una intervista, “Maradona è una figura che ha che fare con il divino, Maradona non è arrivato a Napoli, Maradona è apparso”.

Poi l’estate, le spiagge nere di Stromboli, i vicoli di Napoli, una serata al teatro. Fabio è tra il pubblico quando un uomo si alza in piedi e inizia a insultare l’attrice, un uomo che ha il coraggio di gridare “quello che tutti pensano ma che nessuno dice”. È Antonio Capuano: beffardo, scorbutico, scontroso, provocatore. Per Fabio, è fascinazione, stupore, sbigottimento, un nuovo amore: il cinema. Ed è anche e soprattutto un nuovo inizio. Anche se il maestro dirà che “solo gli stronzi vanno a Roma per fare cinema”, Fabio il treno lo prenderà lo stesso. È sul quel treno che lo vediamo per l’ultima volta lungo i titoli di coda, è lì che il film finisce e la storia di Sorrentino regista inizia.

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Paolo Sorrentino Filippo Scotti, Toni Servillo, Marlon Joubert, Teresa Saponangelo, Maria Schisa Luisa Ranieri 130 minuti
Italia, 2021
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House of Gucci e Diabolik. Worlds apart

di Emanuele Di Nicola
House of Gucci

A prima vista non hanno nulla in comune, House of Gucci di Ridley Scott e Diabolik di Marco e Antonio Manetti. Certo, riportano l'identica data di uscita italiana: 16 dicembre 2021. Ma non significa niente. A volte, però, alcuni film sono legati da uno stesso destino, segnati da una ragione condivisa che esce dallo schermo ed entra nel mondo intorno, nel campo della percezione, nell’impressione che resta nell’occhio. In questo caso l’insospettabile punto di contatto è la costruzione di un mondo a parte.

Ridley Scott, in House of Gucci, allestisce la nota parabola della casa di moda attraverso l’autofagia di una famiglia: un nucleo che si mangia da solo, si divora come in un contrappasso dantesco per scontare la ricchezza e il successo. E lo fa chiudendo la storia in una bolla: Adam Driver/Maurizio Gucci e Lady Gaga/Patrizia Reggiani recitano in una palla di vetro, salutano in italiano e parlano in inglese, si lanciano in una deriva camp che sfida il trash a viso aperto, che si fa installazione in movimento, arte del paesaggio umano. Per capire l’arredamento della casa di Scott bisogna uscire totalmente dal realismo, che il regista respinge: non c’è vero né verosimile in questo racconto, soltanto la ricostruzione plastificata della maison, falsa come una borsa Gucci contraffatta, ma forse proprio per questo più “sincera”, perché sottopone la casa alla riscrittura cinematografica e la rende casa di bambole. D’altronde Ridley Scott stava già raschiando sotto la superficie dell’immagine: lo faceva nel precedente The Last Duel, molto sottovalutato, proponendo un racconto in più versioni con minime e decisive variazioni. Non l’ennesimo criptoremake di Rashomon - come si è scritto con pigrizia critica - ma un gesto molto più contemporaneo, più odierno, un tentativo guardare cosa c’è dietro il velo di un racconto, cosa è una ri-costruzione, cosa vediamo davvero mentre guardiamo un’immagine. Che è la stessa questione di House of Gucci: un film che potrebbe essere fallimentare, se il suo impianto non fosse voluto e tenacemente ottenuto. Da maestro.

Diabolik dei fratelli Manetti

Al contrario del film di Scott, il Diabolik dei fratelli Manetti invece rifiuta il contemporaneo. «Clerville, anni Sessanta»: in barba all’imperativo di essere “in tempo”, di mostrare e dire qualcosa sulla nostra epoca, i fratelli eseguono il passo del gambero, vanno letteralmente all’indietro. La loro messinscena di Diabolik è un atto di retroguardia, nostalgico e passatista, che sceglie di chiudersi in un’altra bolla: quella di ieri. Ecco che Diabolik di Luca Marinelli, Eva Kant di Miriam Leone e l'ispettore Ginko di Valerio Mastandrea sono bidimensionali, come nel fumetto primitivo delle sorelle Giussani, di cui ricreano perfino la grafica in forma cinematografica, vedi il classico bacio fleminghiano tra i due criminali che da tavola diventa fotogramma. Il desiderio emerge dal buio della notte e si fa motivo chiave del film: tutti desiderano qualcosa ma solo Diabolik ed Eva lo portano a compimento, per questo dopo essersi sedotti seducono anche noi e ottengono lo statuto di (anti)eroi, proprio in quanto realizzatori del desiderio. Nel frattempo però il racconto è quasi catatonico, ingessato, burattinesco: in contrasto rispetto all’iper-velocità di oggi Diabolik si prende il suo tempo, frustra l’action e fa aspettare, non esce dalla gabbia della pagina per entrare nel respiro del cinema. E anche questo è voluto: il rifiuto del presente semina una dolcezza retró, un senso del passato che ci trascina gradualmente dentro la bolla. Lo sanno i Manetti: il genere è anche un sentimento.

La riflessione sull’immagine di Ridley Scott, sulle possibilità di ricrearla, il rifugio nel passato dei Manetti e la rincorsa all’indietro verso un tempo svanito. Cosa hanno dunque in comune? Semplice: sono due mondi a parte. Due operazioni estreme, anche spericolate, fuori tempo e luogo, due contropiedi consapevoli da parte dei loro registi. Due film che non verranno capiti, non a caso entrambi accusati di essere scult: due film che chiedono di uscire dall’oggi, dalle nostre aspettative, di dimenticarsi cosa vorremmo vedere e guardare solo cosa stiamo vedendo.

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Il potere del cane

di Arianna Pagliara
Il potere del cane recensione Point Blank

Nell’ultimo film di Jane Campion – avvolgente, insinuante, languidamente feroce – del western tout-court restano alcune traiettorie peculiari: il confronto impari uomo-natura, dove la fragilità del primo è enfatizzata dall’immensità maestosa e incombente e dall’indifferenza della seconda; la necessità, che diviene coercizione, di imporsi con la forza e la brutalità, in quanto uomini, in un orizzonte quasi esclusivamente maschile che si autocondanna continuamente negandosi la possibilità di mettere in discussione i limiti che si è autoimposto; l’amicizia virile intesa come alleanza che esclude conseguentemente il femminile (perché potenzialmente destabilizzante, perché elemento di inconciliabile alterità)  relegandolo in uno spazio ben definito e controllabile.
Come in molto western contemporaneo però, tutto questo è rielaborato e riletto in un atto di smascheramento della mitografia della frontiera, portato avanti in maniera elegante ma inesorabile.
L’isolamento nella natura meravigliosa e sconfinata è premessa per una solitudine emotiva e psichica che è deriva, abbrutimento, follia nutrita di solipsismo e incomunicabilità. La dimensione del sentire imperante - all’incrocio di misoginia, omofobia e machismo – è indagata e sviscerata per mostrarne le falle profonde, le ferite aperte.

Tratto dal libro omonimo di Thomas Savage (1967), il film mette in scena la vicenda di due fratelli proprietari di un grande ranch nel Montana, negli anni ’20. Phil (Benedict Cumberbatch), è un uomo rude e crudele, provocatore e tirannico. È in virtù di questo suo atteggiamento – e non certo per la laurea in lettere che anzi si sforza di tenere nascosta – che ha ottenuto il rispetto di tutti. Il fratello George (Jesse Plemons), spirito gentile, controparte conciliatoria, desideroso di amare e condividere, decide quasi su due piedi di sposare una vedova (Kirsten Dunst) e la porta a vivere nel ranch insieme a suo figlio Peter (Kodi Smit-McPhee), giovane sensibile e appassionato studente di medicina.
L’insicurezza del ragazzo e la fragilità della donna sono per Phil un boccone troppo stuzzicante per resistere: diventeranno immediatamente il bersaglio prediletto per sfogare sadicamente rabbia e frustrazioni, fino a che, rovinosamente ma inevitabilmente, l’uomo non finirà per rivelare la sua segreta vulnerabilità a un nemico che non credeva tale.

La sceneggiatura, qui meccanismo solido e perfettamente oleato, è quella di una partita a scacchi dove ruoli apparentemente granitici si fanno man mano sottilmente ambigui, mostrando crepe pericolose e zone d’ombra per poi sgretolarsi attraverso inversioni e disvelamenti.
Tutto avviene fluidamente, lentamente, attraverso continui, disorientanti spostamenti che coinvolgono ora i personaggi e l’immagine che hanno di loro stessi e dell’altro, ora lo spettatore, dentro il film (chi è la vittima e chi il carnefice?) e prima del film (chi è, in ultimo, il protagonista della storia?)

Il potere del cane è un film densissimo: di contrapposizioni (debolezza e ferocia, innocenza e malvagità; ma anche maschile e femminile, maturità e giovinezza); di dimensioni del vivere e del pensare (quella urbana, addomesticata, linda e pura – George -  contro quella selvaggia, pericolosa e violenta – Phil); di riflessioni metacinematografiche (la destrutturazione dei miti fondativi americani e quindi del western come codice espressivo e prima ancora di valori).
È anche un film disseminato di simboli e soprattutto di azioni simboliche: l’uccisione, e poi il sezionamento, del coniglio; la castrazione brutale del bue. Azioni che non valgono soltanto in sé, in astratto, ma sono rivelatrici in relazione a coloro che le compiono.

È un film che risplende, nel vero senso della parola: risplende il paesaggio brullo e arido che si spalanca come una vertigine, palcoscenico infinito nel quale il ranch – così “hopperianamente” isolato e malinconico – è un oggetto estraneo, un enigma sospeso e tutto umano nel vuoto smisurato e lunare. Risplende la sensualità dei corpi, su cui la regista si sofferma solo a tratti per dire però a chiare lettere della negazione dolorosa che sottende ogni cosa: il desiderio represso e però inestinguibile, che si traduce, in senso lato, nell’impossibilità di esprimere se stessi al di fuori di un determinato canone che non ammette tolleranza né perdono.
Ma la fascinazione de Il potere del cane – titolo che viene da un versetto del libro dei Salmi, metafora dell’istintualità più bestiale e spietata – deriva tutta dall’ambiguità, che è la sua cifra espressiva e sua chiave di volta: è nell’ambiguità che il reale si svela e si fa inaspettato, è dall’ambiguità che nasce la seduzione. L’opacità, il dubbio, l’inintelligibilità appartengono ai personaggi nel loro reciproco relazionarsi, ma anche al loro modo – articolato, mutevole - di offrirsi allo sguardo spettatoriale.

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Jane Campion Benedict Cumberbatch, Kirsten Dunst, Jesse Plemons, Kodi Smit-McPhee 126 minuti
Nuova Zelanda, Australia, 2021
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Late August, Early September

di Leonardo Strano
Fin aout, début septembre - recensione film assayas

Mentre sta girando Late August, Early SeptemberOlivier Assayas pensa già a Les Destinées sentimentales. Non perché non creda al progetto in cui è impegnato: il ritratto di una generazione alle prese con i problemi sentimentali ed economici di una condizione instabile e senza certezze, nell’ultimo atto della giovinezza e già all’ingresso nel mondo della realtà adulta, gli è famigliare e vicino, in una parola naturale. No, sta pensando ai Destini (come anche nel caso di Irma Vep, che è, per stessa dichiarazione del regista, un film girato nel tempo libero proprio nell’attesa del futuro film), perché lì le sue immagini vogliono arrivare. Sintesi di tutto il suo cinema precedente, in realtà forse addirittura movente del suo fare cinema, l’adattamento dell’omonima opera di Jacques Chardonne è visto dal regista come la soluzione (ovviamente provvisoria) del suo cruccio tematico-formale: come rendere visibile in immagine, dopo la modernità post-godardiana, la complessa luminosità emanata da ciò che per un attimo esiste e tocca chi vive per sempre? Che fare quindi dopo Godard? Che fare dopo il cubismo? Che fare dopo Proust?  Assayas risponde a questa domanda iniettando la sua grafia, il suo diagramma formale di movimento, dentro a un codice normativo che lo faccia risplendere; quello della linea classica, l’unica disponibile dopo la fine della modernità, linea rinvenibile proprio nel genere romanzesco post Proust – di cui Chardonne è esponente. 

Late August, Early September non vuole essere questa sintesi tematico-formale, ma si pone le stesse domande e raggiunge le stesse risposte, perché è in un certo senso già Les Destinées, e infatti è girato come se lo fosse (con i suoi temi), solo attraverso la mediazione del blando autobiografismo proprio della prima fase (di cui il film è summa) e senza l’irrigidimento nella regola. Rispetto all’adattamento di Chardonne “il film di famiglia” è più libero, disinteressato agli obiettivi, impegnato non nella ricerca di un’immagine teorica ma solo nella propria gioia di fare ed essere – talmente libero (e girato nella povertà del Super16) da causare la paura in Assayas dell’abbandono di tale libertà; un film fatto “tra” che assorbe tutto ciò che lo precede e lo supera e sta in acrobatico equilibrio all’interno di una carriera, diventando teorico suo malgrado. Teoria al massimo grado proprio su quei destini sentimentali, su Proust, su come superare Proust, su come confrontarsi con il tempo della vita e con il suo incedere, sulla fine della giovinezza, sulla fine delle certezze, sulla morte, sul perdono, sulla memoria, sugli oggetti che la contengono. Teoria che inizia con delle pulsazioni luminose e non è mai veramente altro che una panoramica di queste intensità abbaglianti, concretate da corpi attoriali che gli danno forma tramite connotati, gesti, azioni. 

Questa luce dei corpi, catturata nel movimento incessante della camera, ruota intorno alla minaccia della sua scomparsa, alla possibilità di un affievolirsi: se fosse possibile normalizzare la progressione ellittica del film, fatta di accensioni e spegnimenti arbitrari come impressionati in modo casuale, in una trama si potrebbe dire che la trama racconta della malattia di Adrien (interpretato da  François Cluzet), scrittore da poco quarantenne, e della reazione dei suoi amici e collaboratori (il mondo è quello dell’editoria) a questo suo malessere un po’ nascosto, un po’ ignorato. Il punto non è però la rappresentazione della malattia e della reazione degli affetti, per quanto dotata di disarmante lucidità – quella lucidità che permette al particolare di sforare nell’universale -, bensì la rappresentazione dell’impermanenza delle cose che la malattia (che è in realtà certezza più o meno confessata della fine) innesca nel corpo del vivente e dei viventi. E, non secondariamente, la rappresentazione della disperata necessità di sostanziare questa transitorietà improvvisamente rivelata, il desiderio di sconfiggerla contraddicendola tramite il raggiungimento di qualcosa di concreto, qualcosa di meramente materiale in grado di durare. Ecco se c’è un avverbio che potrebbe corrispondere alle immagini con cui Assayas cerca di trasmettere lo stato emotivo dei personaggi che fa vivere sullo schermo questo avverbio sembra essere meramente: perché il termine mero, nel suo doppio significato, corrente – solo, schietto, quasi banale – e arcaico – singolarmente lucente -, rende bene lo stato di immagini che si fanno carico della lotta contro lo svanire delle cose e soprattutto del valore che le cose assumono in sé proprio in virtù del loro svanire, mediante la frequentazione del loro banale esserci, della loro superficie. 

late august - film assayas 2

Assayas non si ferma che sulle superfici delle cose, le coglie per un attimo, vola sopra di esse, indugia e poi, come se guardarle fosse troppo, distoglie lo sguardo. La mera superficie colta però si fa sempre attimo singolarmente lucente che vale in se stesso, patrimonio che si può per pochi istanti catturare, ricordare. Adrien racconta bene di questa forma di appropriazione delle cose quando racconta di un disegno che ha comprato per il solo gusto di poterlo fare, con i soldi guadagnati dal suo primo libro. Intorno a questo stesso disegno ruota il film: è firmato da Joseph Beuys, rappresenta un cervo e vale una fortuna. Questo stesso disegno diventa l’eredità lasciata da Adrien per Véra, la ragazzina di lui innamorata (interpretata da una giovane Mia Hansen-Løve), che proprio nel finale del film riceve il disegno come ricordo della relazione passata. Adrien diventa, dopo la sua scomparsa, il disegno, nella misura in cui è ricordato attraverso di esso, cioè l’oggetto con cui per un attimo è stato in grado di compiere qualcosa di concreto nel mondo; un gesto di autentica, disperata presenza teso a contraddire la sua necessaria dispersione nel nulla. Il destino sentimentale di chi resta sembra essere ricordare l’assenza, rilevarne la traccia attraverso le mere cose che parlano la lingua dei morti, resistere perché persisti ancora un po’ la vibrazione di ciò che ha attraversato lo spazio vitale - e quando Assayas conduce la macchina negli spazi provocando sbalzi senza drammaturgia non è forse il suo un modo di riprodurre la vibrazione vitale di ciò che può al massimo transitare e transita senza grandi ragioni?

Beuys non è una scelta casuale a questo proposito: in un momento in cui l’orizzonte culturale della Germania del dopoguerra era segnato da una volontà di un internazionalismo non intenzionato a riflettere sul passato recente e a dichiarare la propria incapacità di elaborare il lutto per le vittime del fascismo, la sua operazione artistica si caratterizzò in senso contrario come un’estetica della memoria. Questa estetica della memoria in Beuys si coordinava con la ferma negazione di ogni cristallizzazione (tutto è coinvolto nella polarità freddo/caldo, caos/forma, e bisogna cercare il calore), tentativo di uscire dall’arte cercando di seguire la metamorfosi, la dinamicità della natura. Anche Assayas propone un’estetica della memoria (che diventerà nel suo cinema forza contraria alle anestetizzazioni del capitale) coinvolta nella tensione tra dissoluzione e aggregazione: i suoi personaggi cercano di aggrapparsi alla materia, le immagini cercano di strappare qualcosa dal mondo, sia i primi che le seconde rispondono al destino sentimentale di chi è costretto a tutti i costi a ricordare per non farsi vincere dalla perdita, per non lasciare l’ultima parola all’assenza e allo scorrere temporale che tutto disgrega, che tutto rimuove. La forma si impregna di questa consapevolezza, di questa lotta in tensione e si fa cattura indebita, contrabbando di luminosità che rimane sospesa sopra le necessità illustrative senza diventare mai astrazione fuori contesto. Non è ancora linea classica, ma è una linea che si apre e apre le cose, radicandosi in esse, anche quando queste sembrano non avere più niente da dire. È linea che interroga e ascolta i silenzi, perché sa che in essi c’è un mormorio che dal fondo del tempo perduto dice «vita, vita, vita»

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Olivier Assayas Mathieu Amalric Virginie Ledoyen François Cluzet Mia Hansen-Løve 107 minuti
Francia, 1998
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Cry Macho - Ritorno a casa

di Matteo Marescalco
Cry Macho - recensione film Eastwood

«Non so come curare la vecchiaia» afferma Clint Eastwood in Cry Macho, il suo ultimo film presentato in anteprima italiana al Torino Film Festival. È un ex macho in viaggio lungo il confine tra gli Stati Uniti quello che incontriamo in questo mesto e caldo addio agli spettatori. Campione di rodeo che ha dovuto abbandonare la carriera per un infortunio alla schiena e con un trauma familiare alle spalle, Michael Milo ha anche un passato da alcoolista. Un suo vecchio conoscente lo incarica di attraversare il confine messicano per andare a recuperare suo figlio adolescente (Rafo) e riportarlo a casa sfuggendo alle grinfie della pericolosa ex moglie. Mike, così, si avventura in questo road movie sentimentale che attraversa il tempo del cinema di Clint Eastwood.

Il sole sta tramontando, i cavalli galoppano in libertà e furoreggiano in parallelo al mezzo guidato da Mike Milo, restituito attraverso una serie di dettagli. Infine, a scendere dal veicolo è proprio Clint Eastwood, inquadrato dal basso verso l’alto, come fosse un monumento-estensione e sintesi dell’ambientazione western. Ancora una volta nel suo cinema, bastano un dettaglio e un semplice corpo a dettare le coordinate emotive e immaginarie di riferimento. In Cry Macho - Ritorno a Casa, il volto del suo protagonista si staglia sull’orizzonte come una scultura lignea modellata dalle difficoltà della vita, dalla durezza della wilderness e dalle colpe trascorse impossibili da espiare.

Come in Un mondo perfetto, Million Dollar Baby e Gran Torino, a fare da sfondo in quest’ultimo film del regista di San Francisco è il rapporto tra mentore e allievo, un ragazzo che crede nel mito del machismo, demolito da Clint Eastwood attraverso la sua anima anarchica e liberale. Intiepidito dai raggi del sole fotografato da Ben Davis, il corpo spigoloso di quest’ultranovantenne cela un cuore tenero e sensibile e il desiderio di un anfratto paradisiaco da abbracciare e in cui godersi la lentezza della vita.

Cry Macho porta in scena l’ennesimo padre sconfitto del cinema di Eastwood, un fallito che regge un doloroso fardello sulle spalle ma che ha imparato a guardare alle cose con rinnovato stupore. Il carattere elementare della messa in scena ben si sposa con la demitizzazione del personaggio del macho, che si sottrae con decisione dal piedistallo su cui l’immaginario collettivo lo ha posizionato per abbracciare la montagna di fragilità che questa seduta di autocoscienza porta a galla. Tra inseguimenti in auto, lotte tra galli e potenziali sparatorie, il film scarta più volte da sé stesso e riesce a dare vita a numerose parentesi in grado di dialogare anche con I ponti di Madison County. Il vecchio macho diventa un terapeuta e impara a curare l’anima di chi ha individuato l’essenziale nei sentimenti.

Così, Mike si congeda dall’adolescente che restituisce al padre e dà il suo addio a noi spettatori, testimoni della struggente genesi di una nuova vita al di qua del confine - o, forse, semplicemente di un sogno in cui poter danzare liberi da qualsiasi costrizione terrena. Il ritorno a casa del titolo italiano è il dono della propria crepuscolare icona all’eternità.

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Clint Eastwood Clint Eastwood Eduardo Minett Natalia Traven Dwight Yoakam 104 minuti
USA 2021
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Ghostbusters: Legacy

di Alessio Baronci
ghostbusters-legacy-recensione film

“È un film di padri e di figli, di ritorni a casa”, si è scritto di Ghostbusters: Legacy. Ma di quali padri, di quali spazi a cui tornare, si parla? Che grana ha quel sentimento nostalgico che, di fatto, stimola ogni eventuale deviazione, ogni eventuale dietrofront, da un percorso diretto al futuro?
I primi a tornare nell’orbita del sistema Ghostbusters sono proprio i Reitman, meglio è Jason Reitman, figlio di quell’Ivan che, negli anni ’80, ha tenuto a battesimo il franchise. In un rispecchiamento dentro e fuori la dimensione del racconto, quello di Jason è un movimento simile a quello, tutto narrativo, che coinvolge Callie Spengler, figlia di Egon che, dopo la morte dell’acchiappafantasmi (come anche del suo interprete, Harold Ramis, in un nuovo parallelo tra vita vera e racconto), va a vivere nella diroccata casa dello scienziato, che da anni si era allontanato da New York, dagli amici, dalla famiglia, per portare a termine un’ultima caccia di vitale importanza. A ereditare le indagini saranno i figli adolescenti della donna, costretti a concludere la missione del nonno per salvare il mondo.

E tuttavia si potrebbe discutere a lungo di questo strano ritorno, delle sue implicazioni e conseguenze, a partire dal fatto che l’operazione pare essere il tentativo di restaurare un sistema che, almeno secondo l’opinione comune, dopo le divagazioni di Paul Feig aveva dimenticato lo sguardo di suo padre – ancora, per dirla con King. Il punto è che Jason Reitman pare non tenere conto degli spazi in cui si muoveva il film originale, del suo passo, delle tensioni che lo animavano. Forse Reitman capisce di essere legato al franchise più per affinità sentimentale che linguistica, ma soprattutto perché suo padre è stato uno straordinario artigiano del cinema anni ’80, privo, tuttavia, di un immaginario visivo replicabile e, soprattutto, riconoscibile.

E così Jason Reitman fa una scelta apparentemente impensabile: ammette di essere privo di un padre filmico a cui tornare e dunque vaga, senza meta, fino a ritrovarsi solo a contatto con gli echi di un cinema mai così spielberghiano. È forse la mossa centrale di Ghostbusters: Legacy. Non soltanto l’immaginario di Spielberg è la matrice ideale per le atmosfere inseguite da Jason Reitman (un altro cinema che parla di padri e della loro assenza) ma offre al regista la cornice concettuale perfetta su cui organizzare la sua restaurazione. Nei suoi momenti migliori, infatti, Legacy ragiona adottando un’affascinante “poetica degli oggetti”: in un trionfo di ripuliture, aggiustamenti, riattivazioni, riaccensioni, reset dell’attrezzatura di nonno Egon, gli oggetti iconici del franchise, veri e propri cluster nostalgici, più che rimanere simulacri inerti, vengono rivivificati e reimmessi nel flusso attraverso il loro utilizzo sulla scena. È lo stesso approccio di Ready Player One, il cui spazio viene lentamente popolato da effigia di immaginari diversi ma in libera comunicazione, dalla moto di Akira al Gundam, passando per il Gigante di Ferro di Brad Bird, tutti in costante movimento, non più semplici citazioni quanto strumenti attivi nell’azione.

Ma la straordinaria, vertiginosa, corsa della Ecto-1 all’inseguimento del primo fantasma incontrato dai ragazzi è al contempo l’apice ed il pericoloso punto di non ritorno del film. Perché dove Spielberg organizza un complesso discorso, che incrocia la nostalgia alla storia personale di ogni spettatore all’insegna di una sorta di postmodernità digitale, in cui ogni prelievo è in realtà un ipertesto verso altre galassie sentimentali e mediali, Jason Reitman si ferma un attimo prima di assecondare una propria voce attraverso cui rileggere la saga di suo padre in modo inedito e, soprattutto, personale. Reitman non ha il coraggio di guardare i suoi spettatori, il suo fandom, negli occhi, per dirgli che il tempo è passato ma che, soprattutto, il linguaggio è cambiato, perché, in fondo, farlo vorrebbe dire spostarsi nei pericolosi territori già battuti da Paul Feig. E allora quello di Legacy è un falso movimento in cui un intero sistema, una volta restaurato, viene forse perturbato da certi input, dal cast più giovane, dall’aggiunta della scheggia impazzita Paul Rudd, ma mai ribaltato, mai ripensato davvero. Meglio, piuttosto, chiudersi in un omaggio a ciò che è stato, al primo, glorioso film della saga e al cinema “per ragazzi” di quegli anni, un tributo forse affettuoso, centrato, ma anche pericolosamente ambiguo, perché maschera mancanza di coraggio e di idee ma anche perché, a tratti, appare irrimediabilmente freddo, ricreato da zero e controllato in ogni dettaglio.

Ecco dunque che il centro del film, la cittadina di Summerville, è una sorta di Luna Park nostalgico, un luogo fuori dal tempo, un’eterotopia in cui si maneggiano ancora le VHS, gli Starbucks non hanno ancora sostituito i diner e tutto pare forgiato a partire da un’estetica che corre tra Zemeckis, Donner e Hughes; ecco, soprattutto, che nell’ultimo atto, il film tenta l’impossibile e si riconnette al primo capitolo in una mossa che è al contempo apice del fanservice e rievocazione effimera di un passato che non si vuole abbandonare. E allora non solo il sistema esplode in mille pezzi ma l’intero insieme di coordinate che lo regge finisce riconfigurato in modo inatteso. Forse, in prospettiva, il Ghostbusters di Paul Feig, il figlio diseredato, pur rallentato da una regia maldestra, ragiona molto meglio sulla dimensione del franchise di quest’ultimo capitolo: perché almeno ne riattraversa gli estremi, ne ripensa le dinamiche, esplora nuove situazioni. Al contempo, il film di Jason Reitman, nel tentativo di costruire un’impossibile ucronia nostalgica che si opponga al presente, non fa altro che evocare alcune ambigue vestigia di una contemporaneità ormai irrimediabilmente mediata, filtrata, dagli spettri digitali; il deep fake, l’algoritmo, addirittura gli anonimi spazi digitali del metaverso.

E allora, forse, la vera scena madre del film non è quella citata da tutti, quella finale, ma la sequenza apparentemente minore in cui il personaggio di Paul Rudd e la giovane McKenna Grace sono su Youtube a vedere il primo spot televisivo dei Ghostbusters digitali. Ancora archivi, ancora spazi digitali, ancora un passato che si può osservare ma non si può più raggiungere davvero.

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Jason Reitman Paul Rudd Mckenna Grace Finn Wolfhard Carrie Coon 125 minuti
USA 2021
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The French Dispatch

di Leonardo Strano
The French Dispatch - recensione film anderson

Chissà come stanno i personaggi di Wes Anderson. Costretti ad acrobazie e torsioni speciali a ogni spettacolo, magari non vedono l’ora di sgranchirsi le membra fuori dalla rigidità della struttura argomentativa in cui vivono. Più che una storia sembrano infatti spesso abitare un’argomentazione pensata dal loro creatore non tanto per farli vivere, quanto per legittimare le proprie visioni: The French Dispatch somiglia soprattutto a questo, un discorso di radicale legittimazione di uno stile attraverso la pratica di confessione dei propri feticci. O meglio, una confessione dei metodi di elaborazione delle angosce personali, delle strategie della loro sopportazione, attraverso la sola forma e non più il racconto. Se infatti non si può ignorare che l’aspetto di accentuazione della forma (e una direttamente proporzionale negazione delle convenzioni narrative) come strumento di elaborazione di un trauma sia stata sempre firma del regista, è anche vero che mai prima di questo film l’asimmetria tra forma e contenuto aveva danneggiato la vitalità e la libertà dei suoi personaggi: se nei precedenti lavori del regista essi incarnavano difficoltà esistenziali potenzialmente universali – su tutti l’inadeguatezza nei confronti del mondo e la paura della morte –,in The French Dispatch si riducono a figure in relazione a uno sfondo, variabili formali che agiscono per pose relative a un limitato spazio e a un limitato tempo senza aprirsi al mondo.

Questa condizione di immobilità coatta potrebbe sembrare controintuitiva nella visione del film: le storie della redazione del The French Dispatch, inserto culturale che dà il nome al film e di cui il film segue le episodiche avventure, sono piene di movimento e accadimenti, di figure coinvolte in giochi grafici di spostamento e azione, ribaltamenti e inseguimenti. Nella prima storia è raccontato un viaggio panoramico urbano dislocato in spazio e tempo attraverso le incursioni di una bicicletta, nella seconda ci si concentra sulla biografia di un pittore itinerante incarcerato per violenze omicide, nella terza tutto è movimentato dalla lotta strategica dei moti studenteschi, nell’ultima quarta il ricordo di un reportage gastronomico si incastra in una storia poliziesca di rapimento e riscatto. Alla fine dell’esperienza di frenetico movimento, tuttavia, tutta questa condensazione cinetica produce paradossalmente la più rigida immobilità costrittiva: l’impossibilità di circoscrivere la città si sostanzia in un’istantanea giornalistica delle sue parti meno abbienti, l’inspiegabile e angosciato espressionismo astratto del pittore si trova incorniciato in una struttura istituzionale storicizzata e mercantilizzata, la rivoluzione si fa giovane corpo morto, manifesto editato da altri, e la ricerca di piacere gustativo scopre l’ultimo tabu dopo tutte le possibile sfumature dell’avventura. La morte. 

Non è difficile identificare in questo stato di immobilità lo spettro del trauma della morte: tutto il cinema di Anderson è costruito parallelamente sull’assunto tematico di riconoscimento della persistenza del dolore e della perdita attraverso la sua negazione vitalistica, e sull’assunto formale di accettazione dell’impossibilità di liberarsi dall’immobile attraverso la produzione di irrefrenabile movimento. Per Anderson questa interminabile e paradossale mobilitazione contro il trauma inamovibile si configura come cinema (un cinema radicalmente ucronico non a caso), proprio nella misura in cui il cinema allo stesso modo è imperterrito tentativo di fare sembrare ciò che è fermo come in movimento – non è un caso che Anderson dedichi momenti apicali del suo cinema a immagini animate in cui questa dialettica di staticità contraffatta è per definizione fortissima. The French Dispatch opera una svolta di radicalizzazione rispetto a questi assunti preliminari non soltanto perché in esso la morte ha più che mai minutaggio (è proprio la morte a essere il motore della storia, visto che è il decesso dell’editore della rivista a scatenare la dirompente episodicità sbrigliata senza armonia interna che costituisce il film), o perché la concitazione è talmente espressione dell’immobilità che finisce per coincidere con essa (si pensi alla scena della rissa nel carcere, in cui il momento di più intenso movimento è reso immobilizzando interpreti e oggetti) ma soprattutto perché, come si accennava, dalla sua equazione è rimosso l’unico aspetto in grado di controbilanciare la pendenza necrofila dell’impianto andersoniano: il personaggio.

Il personaggio è l’ultimo aspetto vitale che può contrariare la rigidità argomentativa della struttura formale, l’unico che può spezzare il circuito attraverso cui questa stessa rigidità si tiene in piedi – secondo cui la forma cerca di elaborare il trauma ma riconoscendo il trauma produce un feticcio che costringe a una risposta di forma, e così via. A differenza di film come Rushmore e I Tenenbaum, in The French Dispatch non c’è più uno scarto di imprevedibilità portato dalla figura umana, non c’è un’idea di libertà in azione che lotta contro il mondo vivendo all’interno di esso, pur nella generazione di una visione straniata dalla realtà per salvezza personale. Per quanto la scelta negativa – quella di eliminare il personaggio al di là della sua funzione di variabile scenica – sia in sostanziale continuità con l’elaborazione del trauma, sembra essere molto meno riuscita della scelta positiva secondo cui è proprio tramite il contraltare della libertà del personaggio che si intensifica il senso della perdita e del dolore. Appiattendo il carattere psicologico a carattere tipografico, trasformando il personaggio in figura, Anderson calca sulla pagina sul punto negativo di rimozione (come soluzione per dire dell’effettivo destino doloroso) fino a strapparla per troppa insistenza. Una prova squisitamente formale di questo scacco autoinflitto, provocato dall'uso spropositato del negativo, è l’uso del colore: adoperandolo per accendere le sue immagini in bianco e nero nei momenti di evocazione epifanica della vita (come di fronte ai quadri del pittore o all’assaggio dei piatti dello chef del quarto episodio) il regista dichiara la difficoltà a trovare già nel colore, non contrapposto al bianco e nero, un segno di vita. 

Sorge il sospetto che questa rimozione sia arrivata a un livello di così esponenziale radicalità da perdere il mondo. La teoria visiva di Anderson ha il merito di ricordare quanto la morte sia occultata nella società del sollievo retromaniaco e quanto il dolore sia espunto dalla società culturale che vorrebbe esprimerlo, ma paga un prezzo alto perché si rompe come meccanismo di lotta, di contrasto, di attrito vitale. L’immagine non dice più del mondo, non dice più del cinema, dice solo del suo autore e neanche nella modalità di una confessione di impasse in cui trovare un disperato riflesso di autenticità altra. La confessione è autolegittimazione di un postulato, argomentazione circolare che non si frattura per dubbio: proprio come lascia intendere il finale del film, in cui i giornalisti di The French Dispatch si siedono di fronte al corpo immobile del loro editore e, dopo essersi chiesti “che fare ora?”, un po’ abbandonati e spaesati dalla morte della mente che li agiva, li muoveva, li controllava, sembrano solo essere in grado di ricominciare a scrivere e così dissolvere il rumore del lutto nel più rumoroso battere della macchina da scrivere. L’inquadratura finale, quella finestra/cornice che li immobilizza nel loro automatismo, dice del passaggio nel cinema di Anderson da un’istanza di liberazione a un’istanza di prigionia: se prima il regista si costringeva a una forma rigida per dire dell’esistenza di un possibile scarto attraverso il racconto delle sue storie, ora sembra avvenire l’inverso, per cui è l’imprigionamento dei personaggi a liberare il regista dalle sue angosce, alla maniera del rapporto tra il pittore Moses Rosenthaler e la sua musa Simone. Un po' come nota, proprio a proposito, la storica dell’arte J. K. L. Berensen interpretata da Tilda Swinton, quando commenta che, in certi soggetti, la visione della cattività altrui può scatenare un più profondo godimento per la propria libertà. 

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Wes Anderson Benicio del Toro Frances McDormand, Jeffrey Wright Tilda Swinton Léa Seydoux Owen Wilson 108 minuti
USA 2021
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Strappare lungo i bordi

di Veronica Vituzzi
Strappare lungo i bordi - recensione netflix zerocalcare

A dieci anni dall’uscita del suo primo libro, La profezia dell’armadillo (prima autoprodotto da Makkox, poi edito da Bao Publishing), l’arrivo online di Strappare lungo i bordi, serie scritta e diretta da Zerocalcare per Netflix, appare come la definitiva affermazione di un artista oramai fondamentale nella scena culturale italiana. In fondo nessuno ne dubitava – a parte lo stesso autore – dato che è evidente il postulato per cui qualunque cosa esca dalle mani di Michele Rech non può che diventare un successo. La sua popolarità deriva da un mix di fattori diversi: l’estrema ironia unita a uno sguardo penetrante su se stesso e gli altri, i continui rimandi ad un immaginario culturale e un vissuto esistenziale condivisi col lettore, e una credibilità di fondo dovuta al legame mai sconfessato con le lotte e gli ideali politici e sociali dei centri sociali dove Rech è cresciuto. Ogni volta che la fetta di pubblico di Calcare si allarga in conseguenza del suo crescente successo – dal blog di fumetti al libro candidato al Premio Strega fino dagli episodi di Rebibbia Quarantine trasmessi in tv su Propaganda Live – incombe su di lui strisciante la minaccia che pesa su ogni artista underground divenuto famoso: l’accusa di essersi svenduto, di aver perso contatto con i propri valori. Eppure il fumettista romano regge la botta, si mantiene saldo, non perde un colpo. 

Strappare lungo i bordi è la summa del lavoro creativo di Zerocalcare, in un certo senso un punto di arrivo e forse anche di svolta. Innanzitutto perché l’autore, finora testardo creatore esclusivo delle proprie opere, è stato doverosamente costretto ad affidarsi a un complesso team di animatori per una produzione che ha richiesto centinaia di persone. In secondo luogo, il passaggio da una storia su carta a un racconto d’animazione ha generato una stratificazione di livelli visivi e narrativi che rende la serie sia profondamente piacevole quanto complessa. Non ci si stupisce che sia rapidamente divenuta la serie Netflix più vista in Italia: è assai probabile che chiunque la veda sia spinto a rivederla almeno una seconda volta anche solo in virtù dell’esigenza di cogliere tutti gli infiniti easter eggs, riferimenti, dettagli nascosti che possono sfuggire a una prima visione. Ma per quanto al momento la rete sia già ingombra, per non dire satura, di screenshot, meme, citazioni delle sequenze più belle e delle battute più divertenti (con la relativa assurda polemica sull’uso del dialetto romano nella serie) sarebbe piuttosto riduttivo ascrivere il successo di Strappare lungo i bordi alla sua godibilità. Di fatto il suo valore si fonda soprattutto sulla capacità di definire un momento storico con un’audacia proporzionata alla sua disperazione, perché una volta assimilata l’ironia e l’acutezza delle riflessioni di Zerocalcare ci si trova di fronte, a un livello più profondo, a un racconto assai più cupo, rassegnato e malinconico di quel che ci si aspetterebbe.

D’altra parte fin dalla Profezia Zerocalcare ha mostrato questo duplice lato fatto di divertimento e pessimismo, e non è un caso che Strappare lungo i bordi ricordi suo malgrado proprio la prima opera dell’autore romano. Il punto di partenza rimane difatti la perdita di una persona amata, raccontata pur fra mille buffe digressioni sul vivere quotidiano e la personalità del fumettista. Nella serie si tratta di Alice, amica del giovane Calcare, mentre nel fumetto si chiamava Camille, ma qui non conta definire la veridicità della sua identità e storia reale; ciò che preme è riconoscere l’importanza di questo personaggio all’interno di un racconto di vita corale che arriva a comprendere un'intera generazione.
La generazione di Zero, Alice, Secco e Sarah non è immediatamente definibile a livello anagrafico. Sono perlopiù le persone nate fra gli anni Ottanta e Novanta, ma un pubblico più maturo potrebbe comunque riconoscersi nelle loro speranze e delusioni. Ciò che li accomuna è il fatto di essere stati i diretti interessati di una sorta di promessa collettiva non mantenuta: gli ultimi a credere, durante la loro giovinezza, di poter ambire da adulti a uno stile di vita che la crisi economica e lavorativa degli ultimi quindici anni ha poi negato. Questa fiducia di poter aspirare a una stabilità esistenziale, appunto quello strappare lungo i bordi che avrebbe dato vita alla persona che si voleva essere da giovani, è stata spazzata via in poco tempo. Al suo posto ha trovato spazio un complessivo vivere alla giornata fatto di scelte improvvisate, o non scelte in toto, che è forse il codice ideale per interpretare realmente ciò che rimane sedimentato sul fondo dell’opera di Zerocalcare una volta digerite le battute saporite e le gag geniali. In poche parole, il fallimento di una generazione, che può confidare oramai solo sul calore degli affetti e delle cose belle per chi è abbastanza fortunato da averne; e il definitivo collasso per chi invece non trova suo malgrado margini di appiglio.

Ci sarà chi protesterà per questa visione così negativa e pessimista, ricordando ben altre lotte generazionali, e lamentando la debolezza e mancanza di iniziativa di questi giovani non più giovani che si piangono addosso ottenebrandosi la mente a fuori di droga, merendine, internet e serie tv consumate in modo bulimico; d’altra parte lo stesso Rech non ha mai spesso di appoggiare ogni lotta attiva dal basso per apportare un minimo di benessere alla collettività. Ciò non toglie che il suo lavoro descrive senza giudicare come stanno le cose oggi, senza drammatizzare né deresponsabilizzarsi. È proprio andata così, questa è la verità, e chiunque riesca a raccontarlo con onesta, dolorosa lucidità, merita quel primo piano nella scena culturale italiana che ormai appartiene di buon diritto al fumettista romano.

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Zerocalcare Zerocalcare Valerio Mastandrea Miniserie da 6 episodi
Italia 2021
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La persona peggiore del mondo

di Andrea Giangaspero
La persona peggiore del mondo - Recensione film Joachim Trier

Serviva tornare a Oslo, per stessa ammissione di Joachim Trier e probabilmente anche per quella implicita degli spettatori che hanno battuto i sentieri della sua filmografia (per un totale di 5 titoli in 15 anni). Non che la sua “prova all’internazionalizzazione” con Louder than bombs (in Italia giunto col triste titolo di Segreti di famiglia, ora disponibile su Mubi) non sia stata buona, tutt’altro; solo che il discorso su una geografia nota, aderente alle proprie perplessità ed emotività, luogo e oggetto delle proprie liturgie, eccetera, consegna spesso alle immagini una vista più partecipata, autentica. Sicuramente questo è anche il caso di Trier, che con La persona peggiore del mondo, in concorso a Cannes 74 e ora in sala, torna e forse chiude un trittico sulla ricerca angosciosa di senso da parte di una precisa categoria di destinatari, quella dei trentenni norvegesi.

Tanto nell’esordio, Reprise (2006, ora su Netflix), quanto in Oslo, August 31st (2011), Trier aveva concentrato questa tensione, un vero e proprio disturbo a vivere che piegava verso la morte nella figura mai conciliata del suo protagonista, un sempre splendido Anders Danielsen Lie. Le consonanze con l’ultimo titolo non sono poche e di certo non casuali, ma per tornare a centrare quella stessa meta della ricerca di un senso a vivere, Trier segue una traiettoria ora leggermente diversa: sceglie una forma simil letteraria, una struttura divisa in dodici capitoli (ancor più allungata da un prologo e un epilogo), che parte da un approccio da commedia, ironico, e scivola poi dentro una disillusione ottundente, apparentemente senza sbocco.
In La persona peggiore del mondo, Trier assume il punto di vista di Julie (interpretata da Renate Reinsve, premiata a Cannes col premio per la miglior attrice), una giovane donna che raggiunge i trent’anni senza aver compreso quale sia la propria strada: abbandona la medicina per la psicologia, la psicologia per la fotografia; e così fa pure con le relazioni, che piroettano attorno a lei in sequenze iniziali brevilinee e fresche, dal riso facile. Ma è pure evidente che questo non basti, perché per quanto questa freschezza suoni nuova dalle parti di Trier – con una Oslo meno raffreddata, anzi più calda nelle tonalità, spesso persino festosa e ubriaca –, alle spalle ombreggia costantemente una densità di motivi seriosi, di presagi oscuri che da sempre vivono nelle immagini di Trier, e che sgretolano la bella soluzione del coming-of-age per i trentenni di oggi.

Julie ricorda per tante ragioni i giovani non ancora adulti, la posizione precaria di chi si affaccia alla maturità secondo una traiettoria sbilenca, già stanca. Mancano garanzie là dove è necessario che ve ne siano: nello scegliere chi avere accanto quando la dimensione della famiglia tradizionale preme alle porte; e nel comprendere “cosa fare da grandi” (a priori e a posteriori, Julie non sa neppure se sia una persona “pratica” o “teorica”, per sua stessa ammissione). E quando la via maestra della maturità pare finalmente pararsi davanti a lei nella figura e nell’amore per Aksel (eccolo, Anders Danielsen Lie), Julie fugge ancora, disarciona un ruolo che crede le si debba cucire necessariamente addosso, e torna ad arguire con forza di libertà sessuale, di metoo, masturbazione e desiderio a reinventarsi (seppure snocciolati con certa facilità che sa un po’ di pasticcio).

rec

A un certo punto, Trier rimette in moto la fantasia di Julie con un espediente magico, che funziona ed è bello, semplicemente, perché appartiene al dominio del cinema: premendo l’interruttore della luce (richiama, alla lontana, l’espediente usato da Dolan in Matthias & Maxime), Julie congela Aksel e tutta Oslo, congela la sua quotidianità responsabile e gli impedimenti, fugge per strada e si reca a baciare un altro giovane che esprime una novità, e che come ogni novità le fa credere di essersi innamorata daccapo. Così si diventa la persona peggiore del mondo. Julie lo sa, noi pure, perché con questa sensazione di malignità conviviamo quando sappiamo di procurare un gran dolore a chi ci sta accanto per amore, e persistiamo nonostante la nostra convinzione a “vivere liberamente” ci appaia lentamente sempre più un capriccio ingiustificato.

Ma dicevamo della figura di Anders Danielsen Lie, l’amato e respinto Aksel. Nonostante il protagonismo di Julie, Trier torna sempre al corpo e allo sguardo del suo attore, suo culto e suo morbo. Le conseguenze delle azioni di Julie si riversano su di lui con un peso che eccede di molto la sofferenza della separazione. Aksel è il primo dei personaggi di Trier interpretati da Danielsen Lie ad anelare con forza la vita, amando Julie, vivendo con lei nel suo vecchio appartamento, facendo sesso sul tappeto e disegnando fumetti sessisti che gli donano la fama. Eppure Trier lo avvicina, per la terza volta (dopo Reprise e Oslo, August 31st), a un abisso. Nel suo sguardo si concentrano sempre i presagi più oscuri, che moltiplicano le colpe (meglio, il senso di colpa) di Julie, i momenti di stasi, i ritorni della Oslo silente e geometrica, e ridestano l’impossibilità delle immagini del regista norvegese a guardare altrove.

È senza dubbio nobile che Trier ricerchi continuamente un senso e la pulsione a vivere, ma La persona peggiore del mondo finisce per soffrire di questa responsabilità, tutta densificata nel secondo blocco, e forse non basta più neanche affidarsi alla vista di un’alba luminosa (come accadeva in Oslo, August 31st), una facile sequenza che per tradizione tenta di guardare la vita negli occhi, per sopperire alla stanchezza e alle paturnie eccessive della morte.

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Joachim Trier Anders Danielsen Lie Renate Reinsve 121 minuti
Francia e Norvegia 2021
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