House of Gucci

di Saverio Felici
House of Gucci recensione film Scott

Mai come nel caso di Ridley Scott un corpus cinematografico di tale successo commerciale ha saputo sacrificare ogni barlume di sentimento a una concezione ostinatamente teorica delle immagini spettacolari. Un paradosso ragionato, che in House of Gucci diventa centrale nella lettura di un prodotto altrimenti incomprensibile.
Negli anni dei Duellanti, Alien e Blade Runner, l'inglese fu uno dei primi autori per i quali si sprecò l'etichetta di "nuovo Kubrick": e nel comune sprezzo nei confronti di ogni apertura all'identificazione empatica, i due hanno effettivamente molto in comune. Come Kubrick osservava i propri personaggi alla stregua di un biologo chino su topi di laboratorio persi in labirinti e geometrie visuali, così gli eroi di Scott sono sempre gli automi, i mostri, al servizio di una ricorrente poetica del falso, dell'artificiale e dell'inumano. Un cinema senza nulla di popolare, e che pure riesce a esserlo – e che ora non può che guardare al melò con lo spirito beffardo dell'ingiuria.

Le imitazioni di tragedie reali come copie di plastica: House of Gucci insiste su questa idea di falsità, di finitezza dello spirito umano a favore di... cosa? Del post-umano? Del rettile? Dell'automa? Gli antieroi di casa Gucci sembrano ancora una volta androidi inconsapevoli, non persone quanto burattini ridicoli di un mondo laccato, che ostenta l'artificio come una quinta di teatro (o un set fotografico d'alta moda). Maschere calate sul nulla, fasulle a partire dai tanto vituperati accenti (peraltro non malaccio, nel caso di Lady Gaga): mai ci si dimentichi di guardare un film di impostori, di facciate. La sua dimensione è il camp: oggetti tarocchi, colori irreali, volti irreali coperti da occhiali da sole a specchio – che la stessa Patrizia tenta invano di strappare dal volto impassibile di De Sole/Huston, al culmine del gioco al massacro finanziario da lei scatenato: guardami negli occhi!, urla, ma dietro le lenti non c'è nessuno. Il pathos delle tante scene madri è farlocco, lo score sostituito da smitragliate di canzonette da juke box, l'Italia anni '80 dalla sua parodia vanziniana. Ecco, si palesa forse qui il gioco intellettuale di Scott: un film meta-vanziniano, elaborazione semitragica di quella weltanschauung cafonal-milanesoide dalla quale eredita personaggi, gag, ma non l'ironia necessaria a inquadrarla.

Ironia no, ma neanche pietà, o semplice disprezzo. Se House of Gucci non funziona sul piano dello spettacolo (e purtroppo è innegabile) è proprio a causa di questa sua incapacità di scuotere la propria premessa teorica, evolvere un impianto formale interessantissimo (come sempre in Scott) in film compiuto. Il melodramma vive delle proprie passioni: ma questo non è un melodramma, si dirà, ne è il simulacro kitsch da mercatino. Eppure il film non è neanche davvero satirico, lanciato semmai sul piano del sarcasmo acido nella mascherata da Divo sorrentiniano di Paolo Gucci-Jared Leto: la sua criticatissima interpretazione non è sbagliata in sé, anzi – è semplicemente fuori fuoco rispetto all'intensità invocata dai due splendidi protagonisti, e disattesa da un film che non vuole prenderli sul serio. Maurizio/Driver e Patrizia/Gaga, bontà loro, sembrano convinti di recitare un Padrino dell'haute couture: ma il film intorno a loro è piuttosto il Zoolander di un regista che non fa ridere.

Bella fregatura per la povera Germanotta: tre anni in attesa del progetto-Oscar della consacrazione per poi finire in mano a un sornione ottantenne britannico, misantropo e bastardo dentro, capace di sabotare (volontariamente?) il dramma sentimentale che pubblico e critici americani si aspettavano, e che avrebbe facilmente portato la diva al trionfo. Al contempo, House of Gucci è però troppo freddo per alzare i toni del grottesco, ed evocare quel senso di vanità assoluta soltanto teorizzato. L'eroina (?) Patrizia Reggiani resta dunque una protagonista involuta, tra lampi di dolcezza (l'inizio in chiave screwball comedy, con la cinica arrampicatrice che prova a sedurre il tonno Maurizio – ma c'è vera attrazione, già lì?) e un lato farsesco che non vuole esprimersi: un po' spietata femme fatale, un po' #girlboss vendicatrice di torti lavorativi maschili, nel mesto finale anche moglie pasionaria in lacrime. Di coccodrillo? C'è qualcosa di vero, o era tutto tarocco? Stavolta non l'ha capito neanche Scott: i suoi androidi hanno ingannato anche lui.

Categoria
Ridley Scott Lady GaGa Adam Driver Al Pacino Jared Leto 158 minuti
USA 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Don't Look Up

di Riccardo Bellini
don't look up - recensione film mckay

«È terrificante e bellissima allo stesso tempo», dice l’astrofisico Randall Mindy (Leonardo DiCaprio) osservando, per la prima volta a occhio nudo, la cometa che sta per distruggere la Terra. Mesi prima, lui e la sua dottoranda (Jennifer Lawrence) avevano tentato di avvisare l’umanità della minaccia, ricevendo in cambio l’indifferenza dei media, il miope cinismo del governo americano e l’ostilità dei complottisti. Eppure, ora la cometa è lassù, terrificante ma anche bellissima nella sua verità oggettiva, incontrovertibile. Come in France di Bruno Dumont, anche in Don’t Look Up di Adam McKay la realtà irrompe in un mondo sempre più impreparato ad affrontarla, a riconoscerla nella foresta di segni da cui si trova sommerso e a prendersene carico. Se dunque lo stesso professor Mindy tentava all’inizio di esorcizzare la verità ripetendosi che «non è reale, non è reale», alla fine saluterà la cometa quasi con l’entusiasmo di chi finalmente (si fa per dire) si trova di fronte all’unico evento concreto che gli sia capitato da molto tempo, dopo aver trascorso gli ultimi sei mesi nel cicaleccio inconsistente del circo mediatico e umano; l’unica prova che possa ricordargli di appartenere ancora a un mondo reale, anche se per poco.   

McKay torna a parlarci della follia di tempi (i nostri) in cui lo slogan «una risata vi [leggi ci] seppellirà» ha subito un tragicomico ribaltamento di senso. Quale fine può infatti prospettarsi a un’umanità che non riesce più a prendere nulla sul serio, compresa la propria estinzione, se non quella di rimanere sepolta dalle proprie risatine, dai meme, dal brusio dei talk show? La gestione della pandemia da parte degli USA, gli ultimi atti dell’era Trump, la consapevolezza di come i potenti della Terra stiano trattando la crisi ambientale, l’impermeabilità delle teorie complottiste, sono “solo” i segnali più recenti di un’involuzione demenziale che il regista addita in un parodico disaster movie, senza il bisogno di una lente deformante troppo grande per fotografare una realtà di per sé farsesca. Sotto questa lente, McKay pone una società incapace di ogni progettualità futura e quindi di capire sé stessa, condannata all’estemporaneità inconsistente di una comunicazione in cui la forma fagocita il contenuto.

Come in Vice - Luomo nell'ombra, la satira di McKay è diretta, intransigente, lampante nei propositi, di certo non raffinata ma non per questo ottusa, smodata ma (forse proprio per questo) capace di raccontare il presente. La forma è ancora una volta quella del pamphlet che non va troppo per il sottile e che qui, nel progetto più ambizioso del regista, assume i toni esasperati di un rigurgito morale dai toni apocalittici, il cui momento più furente è l’invettiva del professor Mindy di fronte alle telecamere di The Daily Rip, eco di un’America sana (ma il discorso si adatta anche a una dimensione più ampia) estenuata da una situazione che si fa grottescamente globale. Un riflusso bilioso che McKay sottolinea con closeup al limite del possibile sul volto dello scienziato, infrazione linguistica a ricordarci come qualsiasi verità, manifesta o meno, oggi debba confrontarsi con il dominio appiattente di immagini incapaci di comunicare il reale, e come tutto rischi di ridursi a immagine e nulla più.  

Il vero dramma di Don’t Look Up sta proprio qui, nella fotografia di un mondo che ha perso sensibilità drammatica, indifferente a tutto perché ormai privo di strumenti per prendere consapevolezza di sé e dunque di un progresso che non sia solo tecnologico. In sostanza, dopo La grande scommessa e Vice, ancora un film sulla scomparsa del concetto di futuro dai radar della politica e di chi condiziona l’opinione pubblica, - del resto, la filmografia del regista è costellata di adulti immaturi (si veda Fratellastri a 40 anni), - ma in una prospettiva che porta la riflessione alle sue estreme conseguenze. Così, se ne La grande scommessa il dito veniva puntato contro un sistema economico irresponsabile che può decretare la fortuna di alcuni e la rovina di molti, mentre in Vice McKay metteva in ridicolo una politica disinteressata agli esiti della propria avidità, in Don’t look Up non esistono nemmeno più figure diaboliche ma a loro modo abili come Dick Cheney, perché i fili del sistema sono ormai sorretti da un demenziale pool di incompetenti, talmente alienato dal mondo e sconclusionato da autodestinarsi all’estinzione.   

Categoria
Adam McKay Leonardo DiCaprio Jennifer Lawrence Meryl Streep Cate Blanchett Timothée Chalamet Joanna Hill Ron Pearlman Ariana Grande 138 minuti
USA 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

West Side Story

di Matteo Berardini
west side story - recensione film spielberg

Somewhere, a place for us

C’è un conflitto costante, in West Side Story, un confronto a più riprese tra passato e presente, tra quel che c’era prima e l’oggi, che una volta immersi nel film si esplica tutt’attorno a noi spettatori e ci interroga sul modo che abbiamo di guardare, pensare, immaginare il mondo. Su cosa sia per noi raccontarlo e vederlo raccontato, anzitutto su grande schermo.
Non è solo questione di Sharks e Jets, anche se sì, certo, la questione razziale e la spaccatura nel tessuto sociale tra bande rinchiuse in una gabbia che crolla, mura che sono macerie, è il centro della riscrittura di Tony Kushner, che del resto è sceneggiatore e drammaturgo di razza (basti citare Lincoln e Angels in America). Ma, appunto, non è solo questione di adattare quello che è forse il più grande musical di tutti i tempi a rappresentazione aggiornata dell’America frammentata cresciuta all’ombra dei mandati Obama, e impostasi poi in primissimo piano con Trump. Gli Stati Uniti di oggi sono un paese di schegge e fazioni che fatica a percepire il tutto che le unisce, la conflittualità sociale è altissima e la tensione ribolle, e di questo il West Side Story di Steven Spielberg è una rappresentazione fedele, un monito cinereo. Ma il cuore del film non è questione di script e adattamento narrativo, non solo, e non potrebbe esserlo perché se c’è oggi un regista in grado di sentire le immagini e comprenderle nel loro valore storicistico, nel potere che hanno di reagire al contemporaneo pur ripetendosi, ripresentandosi nella loro storia in versioni aggiornate, riscritte, risemantizzate (Ready Player One è uno dei film chiave riguardo il fare e pensare il cinema oggi), quello è Spielberg.

Il suo cinema oggi è tra i più intelligenti e consapevoli nell’interrogarsi sui rapporti – ondivaghi e in costante ridefinizione – che legano immaginario, memoria e contemporaneità. Per questo il suo West Side Story non è adattamento, remake, revisione aggiornata, ma testo aperto nel quale assistiamo al conflitto tensivo tra il cinema di ieri e di oggi. Un corpo a corpo tra immagini che furono e che sono, tra la storia del musical (genere che è tradizione per eccellenza) e le aperture continue all’iperrealismo, all’inspessirsi ruvido dei toni, degli umori, dello sguardo. West Side Story salta costantemente da una parte all’altra di quella linea che separa l’ingenuità e l’innocenza dello sguardo dalla consapevolezza moderna della crisi, creando un conflitto tra i due modi di intendere l’immagine (classica vs contemporanea) che altro non sono che due modi di intendere il cinema e il mondo, di saperlo guardare.
I sessant’anni intercorsi tra il capolavoro di Wise e Robbins e questo – che sì è un altro capolavoro, e tra i più grandi di Spielberg – non passano certo inosservati, ma il salto temporale non si esplica solo nelle rinnovate possibilità tecnologiche (questo WSS è la leggerezza e la vita incarnate e portate su schermo anche grazie a movimenti di macchina prima impossibili), diventa piuttosto un bagaglio di esperienze, una galleria di sguardi a cui fare riferimento. 
Dentro questo West Side Story c’è il musical (e il cinema classico tout court) a confronto con il disincanto oscuro del contemporaneo, ma a mediare tra i due ci sono sessant’anni di cinema che rendono il film un grande almanacco del tempo che cambia, dove i neon sfavillanti pienamente eighties possono dialogare con le atmosfere urbane grezze e semi-documentaristiche del thriller urbano anni Settanta, e la nostalgia spettrale dei ribelli senza causa incontra il pastiche nel musical postmoderno anni Novanta.

È evidentemente un film fuori dal tempo, West Side Story, un gesto funebre che completa e rilancia il discorso di The Irishman sulla morte del cinema come medium architrave del novecento, facendo sue strategie e tempi narrativi lontani anni luce dalle modalità di racconto contemporanee. Ma quest’esilio volontario dall’oggi – che celebra la bellezza e grandiosità di un’era in cui il cielo sullo schermo era di carta e senza strappi, e non vi era nulla di più vero della finzione – non deve e non merita di passare “solo” come gesto cerimoniale.
Il futuro in West Side Story non muore sparato per strada da un ragazzo furioso che non capisce la sua stessa rabbia, non è una chimera ma un cuore pulsante che resta vivo dentro e attraverso le immagini, in filigrana lungo tutto il film, celebrando un incontro di vita e morte in cui i corpi che sempre invadono lo schermo sono tutto fuorché fantasmi: si toccano, si tengono mani, collo, viso, si sfidano e schiantano, spezzandosi e rompendosi, e c’è così tanta vita in loro e che scorre in questo film da accecare tra i mille colori e voli della macchina da presa, per la volontà di non fare di questo immaginario un museo di polvere e simulacri ma un ritratto vivo dove ancora scorre rosso il sangue. Come se tutto il film fosse un gesto, doloroso, che attesta il dominio di un’era diversa, disincanta e avida di illusione, ma anche un invito a lottare per conservare il proprio posto dentro un reale in cui sia ancora possibile cantare e ballare tra le macerie, perché si è fatto tesoro di quella stessa illusione come meccanismo fenomenale per comprendere ed esperire il mondo.

Categoria
Steven Spielberg Ansel Elgort Rachel Zegler Ariana DeBose David Alvarez Mike Faist Corey Stoll Brian d'Arcy James Rita Moreno 156 minuti
USA 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Noise

di Domenico Saracino
 Noise Assayas recensione film documentario

«Debord non scriveva forse La società dello spettacolo mentre realizzava film autobiografici atti a preservare dalle ingiurie del tempo la vita così come gli si offriva in certi momenti di grazia? E non ha realizzato questi film così che in essi si irradiasse il bagliore dei volti di chi lui stesso amava?». Era il maggio 2005 e Olivier Assayas dava alle stampe Une adolescence dans l'après-mai. Lettre à Alice Debord, un piccolo memoir che riporta dapprima il lettore a quello stesso mese del ’68 – quando l’autore, tredicenne, entrava nella sua fase puberale – per arrivare poi alla metà degli anni ’90 e, in particolare, all’uscita di L’Eau Froide, primo film autobiografico del regista francese, dedicato appunto agli anni della sua adolescenza post sessantottina. Un mese dopo aver pubblicato quelle parole, a giugno, con Noise Assayas avrebbe avuto l’opportunità di filmare quella vita che gli si offriva nei suoi momenti di grazia e quei volti amati, la Jeanne Balibar di Fin août, début septembre, i Metric ch’erano già apparsi l’anno prima in Clean, i Sonic Youth (o comunque i membri della band nelle loro varie configurazioni) della colonna sonora di Demonlover.

L’occasione fu l’Art Rock Festival di Saint Brieuc, storico evento musicale della Bretagna e della Francia intera, che quell’anno diede ad Assayas la possibilità di curare una parte del programma. Ne nacquero un concerto memorabile, vera e propria ode alla bellezza della dissonanza, e un documentario musicale, Noise, appunto. Un “documento” della serata, certo, nei termini in cui compaiono tutti i musicisti convocati dal regista (oltre ai vari membri dei Sonic Youth con i loro progetti collaterali, a Balibar e ai Metric ci sono anche il liutista algerino Alla, il duo White Tahina, la cui voce è quella di Joana Preiss, che ha recitato in diversi film del regista, il musicista maliano Afel Bocoum, la figlia del premio Nobel Patrick Modiano, Marie Modiano, la coppia Pascal Rambert-Kate Moran); ma anche e soprattutto «una selezione dei miei pezzi preferiti, filmati – come dichiarò lo stesso cineasta al settimanale francese Les Inrockuptibles – nella maniera che preferisco». Un documentario, sì, dunque, ma dalla fortissima impronta autoriale. Che si apre e si chiude, non certo a caso, con un estratto del cortometraggio girato quell’anno da quel Jim O’Rourke, membro, almeno per qualche mese ancora, dei Sonic Youth, che avrebbe lasciato di lì a poco.

Una porta investita da lampi di luce e dal suono distorto di un bordone noise che di fatto definisce il mood di tutta l’opera, in cui sentiamo e vediamo il rumore del titolo e in cui alle immagini della performance musicale, già di per sé messa in quadro secondo il gusto soggettivo dell’autore («nella maniera che preferisco», si diceva), si aggiungono quelle prese al di fuori dell’esibizione, giustapposte dal montaggio o inscritte dalle sovraimpressioni volute da Assayas. Come il cielo nuvoloso solcato dal fantasma di un aereo o il fiume attraversato dalla barca che apre la sequenza in cui appaiono i MirrorDash (alias Kim Gordon e Thurston Moore). O ancora – sempre nel segmento che vede coinvolti i due coniugi, fondatori (assieme a Lee Ranaldo) dei Sonic Youth –, i viraggi cromatici che imbevono il traffico di auto, i fili della linea elettrica del tram, il paesaggio metropolitano, oppure l’apparizione di una pattinatrice su ghiaccio sovrimpressa a cerchi di luce e mezzi busti di Gordon e Moore.

Sta proprio qui la forza di Noise, in questa tensione immaginativa e sperimentale che lo spinge fuori dal recinto del mero documentarismo musicale, del puro reportage, e gli consente di ottenere una perfetta fusione tra segno e significato, tra certe sperimentazioni del linguaggio musicale (del rock, nello specifico) e certe applicazioni fortemente libere e creative del mezzo audiovisivo. Una deriva situazionista che ridà forza alla forma e al potere della componente avanguardistica dell’arte e che collega idealmente il cinema di Assayas, da sempre legato alla musica, alla ribellione giovanile e alla sperimentazione, al Debord con cui abbiamo aperto questo breve scritto. Del resto verso la fine del 1968, Malcom McLaren, promoter e band manager dei Sex Pistols, colui a cui viene convenzionalmente attribuita l’invenzione stessa del punk rock, si avvicinò al movimento artistico Situazionista e alla figura di Guy Debord, traendone grande ispirazione. ’68, punk (rock), situazionismo. Tutto torna.

Categoria
Olivier Assayas Jeanne Balibar Kim Gordon Thruston Moore 115 minuti
Francia 2005
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Diabolik

di Giacomo Calzoni
Diabolik - recensione film manetti bros

La sirena di un allarme rompe il silenzio della notte di Clerville, dando il via all’inseguimento della celebre Jaguar nera di Diabolik da parte della pattuglie guidate dall’ispettore Ginko: la sequenza iniziale è anche l’unico momento veramente action di un film che, una volta introdotto il contesto, si rivela una rilettura filologicamente corretta delle due anime che contraddistinguono le avventure del Re del terrore, creato nel 1962 dalle sorelle Angela e Luciana Giussani. La prima, quella più nera, crudele e scorretta, tipica dei primi anni di pubblicazione del fumetto, quando Diabolik era ancora un assassino spietato, privo di compassione e protagonista di intrecci noir vicini alla tradizione francese, e quella successiva, incentrata prevalentemente sulle dinamiche – sempre più elaborate e al passo coi tempi – dei suoi famigerati furti. Tutta la prima parte del film è infatti l’adattamento sostanzialmente fedele di una delle storie più celebri, L’arresto di Diabolik (numero tre della prima serie, marzo 1963), e del suo omonimo rifacimento pubblicato nel 2012 nella collana parallela Il grande Diabolik: un breve arco narrativo che, raccontando l’incontro e l’innamoramento con Eva Kant, rappresenta di fatto uno dei pochissimi elementi di continuity del fumetto, come nella migliore tradizione popolare italiana (basti pensare anche ai personaggi storici della Bonelli, da Tex a Zagor, quasi sempre estranei a saghe in grado di stravolgerne lo status quo). E chissà se i due sequel, attualmente già in fase di lavorazione, affronteranno l’altro grande elemento ricorrente nella storia del personaggio, ovvero le sue origini legate all’isola di King…

Chi si aspettava dai Manetti, anche sceneggiatori insieme ai fumettisti Mario Gomboli (che compare nel ruolo del giudice) e Michelangelo La Neve, il difficile e improbabile punto di incontro tra la dimensione pop di un fenomeno di costume che dura ormai da sessant’anni e l’esigenza, più strettamente contemporanea, di venire incontro ai gusti di un pubblico abituato ormai a ben altro, probabilmente rimarrà deluso da un film fuori dal tempo e lontano dalle mode. Evitando con intelligenza qualsiasi riferimento all’esperimento compiuto da Mario Bava nel 1968, Diabolik ricrea minuziosamente l’universo delle sorelle Giussani attraverso dettagli riconoscibili soltanto ai lettori più attenti: quindi non solamente le città Clerville e Ghenf e i nomi delle vie e dei personaggi (compresi quelli di contorno), com’era più scontato, ma anche la postura dei protagonisti (quella di Diabolik che legge il giornale seduto in poltrona, o quella di Ginko durante il confronto finale) e la composizione stessa dell’inquadratura, mai così vicina al celebre layout a due vignette tipico del formato tascabile. Questa attenzione maniacale è però anche il limite maggiore - almeno in termini commerciali - di un film che di fatto sceglie di rivolgersi quasi esclusivamente ai conoscitori della materia, presentandosi come un’incognita nei confronti di tutti gli altri. Una scelta forse discutibile, ma pur sempre una scelta. Anzi, di più: una presa di posizione netta e cristallina.

Ecco allora che, nel pieno dell’era digitale, Diabolik si rivela un film anacronisticamente e orgogliosamente analogico, quasi testardo nel desiderare che lo spettatore si meravigli ancora di fronte alla magia di un artificio d’altri tempi: come l’apertura di una parete rocciosa che rivela un ingresso nascosto, oppure il celebre stratagemma delle maschere di lattice, trucchi vecchi come il mondo ma oggi ancora indispensabili più che mai. L’ambientazione negli anni Sessanta e lo stile volutamente retrò non devono trarre in inganno, perchè quella dei Manetti non è un’operazione nostalgica, e nemmeno postmoderna, tutte cose alle quali oggi siamo fin troppo assuefatti; non è la rappresentazione di un mondo che non esiste più ma, al contrario, di un mondo che non è mai stato e mai sarà. È il ritorno a una dimensione che è esistita (ed esiste ancora) solamente nel regno della fantasia, nell’immaginario condiviso, chiedendo allo spettatore di abbandonarsi dentro essa per il tempo di una durata, 133 minuti, che allora, forse, tanto eccessiva non è, nonostante il luogo comune imponga il contrario.

E in mezzo a tanti cinecomics sempre più drammaticamente seriosi e lontani da quella profondissima leggerezza della dimensione cartacea, il Diabolik dei Manetti Bros è un’operazione coraggiosa e in controtendenza, probabilmente imperfetta (chi la vuole, in fin dei conti, la perfezione?) ma totalmente consapevole nel suo rifiuto ostinato delle regole, dei tempi, del montaggio, dei dialoghi e della recitazione imposti dai canoni del blockbuster contemporaneo. Ecco perché sarà amato pochissimo. Ma chi se ne importa?

Categoria
Antonio Manetti Marco Manetti Luca Marinelli Miriam Leone Valerio Mastandrea Alessandro Roja Serena Rossi Piergiorgio Bellocchio Roberto Citran Claudia Gerini 133 minuti
Italia 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

È stata la mano di Dio

di Arianna Pagliara
è stata la mano di dio point blank

La famiglia, l’adolescenza, la quotidianità e il sogno, l’affetto e la delusione, la speranza, il dolore e l’amarezza, e soprattutto Napoli, dimensione emotiva più che geografica: l’ultimo film di Paolo Sorrentino rappresenta il tassello chiave di una filmografia già ampia e strutturata, perché qui il regista, affabulatore, esteta, a tratti visionario, per la prima volta rivolge direttamente l’obiettivo verso la propria intimità e il proprio vissuto. Lo fa, inevitabilmente, con estrema cautela, con pudore, quasi con circospezione. È una resa dei conti, un Amarcord, uno spazio per lasciarsi andare al ricordo che si fa rimpianto ma anche dichiarazione d’amore. Verso i genitori scomparsi in un’età in cui il futuro appare ancora così incerto e nebuloso, verso la città che è heimat, ventre materno oscuro e sotterraneo ma anche apertura sull’azzurro senza fine dell’onnipresente mare.

Gli stilemi tipici del Sorrentino che conosciamo e amiamo a ben guardare ci sono tutti. Il grottesco, nella descrizione di certi personaggi che compongono una vivacissima galleria di ritratti (a cominciare dalla baronessa, quasi caricaturale eppure così umana). L’immaginifico, la sospensione magica di certi momenti epifanici (l’uomo appeso sul set di Capuano), con echi felliniani più o meno marcati (la femminilità prorompente e statuaria della zia Patrizia). C’è, persino, Fellini stesso, inconfondibile voce fuori campo durante i provini a cui partecipa, speranzoso, il fratello del protagonista.
Eppure questo è forse in assoluto quello meno “sorrentiniano” tra i film dell’autore, perché nel complesso è indubbiamente il più scarno, il più nudo, il più autentico: la vita vera brucia ancora nelle mani del regista, ed è una realtà che non sopporta ornamento e stilizzazioni, che non può essere tradita. Dunque, si procede per sottrazione, specie nella seconda parte del film, quella che racconta il lutto e il tentativo di elaborazione.
In principio, quello che vediamo attorno al giovane Fabio (alter ego del regista), è universo di affetti solidi, dove il buonumore è autentico e i contrasti e le ferite, quando presenti, non vengono taciuti, ma anzi palesati anche platealmente nel tentativo, fallimentare o meno, di superarli. C’è sempre, verosimilmente, qualcosa che sfugge al controllo: lo spettro della deriva psicologica che rischia di farsi follia, l’imprevedibilità dell’eros che mette a rischio la stabilità sentimentale, qualche segreto che potenzialmente è una mina che attende di esplodere. Ma il giovanissimo Fabio si muove ancora in un universo ordinato, conoscibile, che risponde a un orizzonte di senso. Poi, il lutto improvviso e inaspettato lo precipita nel vuoto abissale, nell’assenza muta, in un limbo in cui tutto sembra essere privo di colore. È la mano di Dio che si è posata sulla sua testa: nel momento fatidico, il ragazzo, che sarebbe dovuto essere insieme ai genitori, si trova invece allo stadio per vedere Maradona. Perché, come dirà Sorrentino in una intervista, “Maradona è una figura che ha che fare con il divino, Maradona non è arrivato a Napoli, Maradona è apparso”.

Poi l’estate, le spiagge nere di Stromboli, i vicoli di Napoli, una serata al teatro. Fabio è tra il pubblico quando un uomo si alza in piedi e inizia a insultare l’attrice, un uomo che ha il coraggio di gridare “quello che tutti pensano ma che nessuno dice”. È Antonio Capuano: beffardo, scorbutico, scontroso, provocatore. Per Fabio, è fascinazione, stupore, sbigottimento, un nuovo amore: il cinema. Ed è anche e soprattutto un nuovo inizio. Anche se il maestro dirà che “solo gli stronzi vanno a Roma per fare cinema”, Fabio il treno lo prenderà lo stesso. È sul quel treno che lo vediamo per l’ultima volta lungo i titoli di coda, è lì che il film finisce e la storia di Sorrentino regista inizia.

Categoria
Paolo Sorrentino Filippo Scotti, Toni Servillo, Marlon Joubert, Teresa Saponangelo, Maria Schisa Luisa Ranieri 130 minuti
Italia, 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

House of Gucci e Diabolik. Worlds apart

di Emanuele Di Nicola
House of Gucci

A prima vista non hanno nulla in comune, House of Gucci di Ridley Scott e Diabolik di Marco e Antonio Manetti. Certo, riportano l'identica data di uscita italiana: 16 dicembre 2021. Ma non significa niente. A volte, però, alcuni film sono legati da uno stesso destino, segnati da una ragione condivisa che esce dallo schermo ed entra nel mondo intorno, nel campo della percezione, nell’impressione che resta nell’occhio. In questo caso l’insospettabile punto di contatto è la costruzione di un mondo a parte.

Ridley Scott, in House of Gucci, allestisce la nota parabola della casa di moda attraverso l’autofagia di una famiglia: un nucleo che si mangia da solo, si divora come in un contrappasso dantesco per scontare la ricchezza e il successo. E lo fa chiudendo la storia in una bolla: Adam Driver/Maurizio Gucci e Lady Gaga/Patrizia Reggiani recitano in una palla di vetro, salutano in italiano e parlano in inglese, si lanciano in una deriva camp che sfida il trash a viso aperto, che si fa installazione in movimento, arte del paesaggio umano. Per capire l’arredamento della casa di Scott bisogna uscire totalmente dal realismo, che il regista respinge: non c’è vero né verosimile in questo racconto, soltanto la ricostruzione plastificata della maison, falsa come una borsa Gucci contraffatta, ma forse proprio per questo più “sincera”, perché sottopone la casa alla riscrittura cinematografica e la rende casa di bambole. D’altronde Ridley Scott stava già raschiando sotto la superficie dell’immagine: lo faceva nel precedente The Last Duel, molto sottovalutato, proponendo un racconto in più versioni con minime e decisive variazioni. Non l’ennesimo criptoremake di Rashomon - come si è scritto con pigrizia critica - ma un gesto molto più contemporaneo, più odierno, un tentativo guardare cosa c’è dietro il velo di un racconto, cosa è una ri-costruzione, cosa vediamo davvero mentre guardiamo un’immagine. Che è la stessa questione di House of Gucci: un film che potrebbe essere fallimentare, se il suo impianto non fosse voluto e tenacemente ottenuto. Da maestro.

Diabolik dei fratelli Manetti

Al contrario del film di Scott, il Diabolik dei fratelli Manetti invece rifiuta il contemporaneo. «Clerville, anni Sessanta»: in barba all’imperativo di essere “in tempo”, di mostrare e dire qualcosa sulla nostra epoca, i fratelli eseguono il passo del gambero, vanno letteralmente all’indietro. La loro messinscena di Diabolik è un atto di retroguardia, nostalgico e passatista, che sceglie di chiudersi in un’altra bolla: quella di ieri. Ecco che Diabolik di Luca Marinelli, Eva Kant di Miriam Leone e l'ispettore Ginko di Valerio Mastandrea sono bidimensionali, come nel fumetto primitivo delle sorelle Giussani, di cui ricreano perfino la grafica in forma cinematografica, vedi il classico bacio fleminghiano tra i due criminali che da tavola diventa fotogramma. Il desiderio emerge dal buio della notte e si fa motivo chiave del film: tutti desiderano qualcosa ma solo Diabolik ed Eva lo portano a compimento, per questo dopo essersi sedotti seducono anche noi e ottengono lo statuto di (anti)eroi, proprio in quanto realizzatori del desiderio. Nel frattempo però il racconto è quasi catatonico, ingessato, burattinesco: in contrasto rispetto all’iper-velocità di oggi Diabolik si prende il suo tempo, frustra l’action e fa aspettare, non esce dalla gabbia della pagina per entrare nel respiro del cinema. E anche questo è voluto: il rifiuto del presente semina una dolcezza retró, un senso del passato che ci trascina gradualmente dentro la bolla. Lo sanno i Manetti: il genere è anche un sentimento.

La riflessione sull’immagine di Ridley Scott, sulle possibilità di ricrearla, il rifugio nel passato dei Manetti e la rincorsa all’indietro verso un tempo svanito. Cosa hanno dunque in comune? Semplice: sono due mondi a parte. Due operazioni estreme, anche spericolate, fuori tempo e luogo, due contropiedi consapevoli da parte dei loro registi. Due film che non verranno capiti, non a caso entrambi accusati di essere scult: due film che chiedono di uscire dall’oggi, dalle nostre aspettative, di dimenticarsi cosa vorremmo vedere e guardare solo cosa stiamo vedendo.

Categoria
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Il potere del cane

di Arianna Pagliara
Il potere del cane recensione Point Blank

Nell’ultimo film di Jane Campion – avvolgente, insinuante, languidamente feroce – del western tout-court restano alcune traiettorie peculiari: il confronto impari uomo-natura, dove la fragilità del primo è enfatizzata dall’immensità maestosa e incombente e dall’indifferenza della seconda; la necessità, che diviene coercizione, di imporsi con la forza e la brutalità, in quanto uomini, in un orizzonte quasi esclusivamente maschile che si autocondanna continuamente negandosi la possibilità di mettere in discussione i limiti che si è autoimposto; l’amicizia virile intesa come alleanza che esclude conseguentemente il femminile (perché potenzialmente destabilizzante, perché elemento di inconciliabile alterità)  relegandolo in uno spazio ben definito e controllabile.
Come in molto western contemporaneo però, tutto questo è rielaborato e riletto in un atto di smascheramento della mitografia della frontiera, portato avanti in maniera elegante ma inesorabile.
L’isolamento nella natura meravigliosa e sconfinata è premessa per una solitudine emotiva e psichica che è deriva, abbrutimento, follia nutrita di solipsismo e incomunicabilità. La dimensione del sentire imperante - all’incrocio di misoginia, omofobia e machismo – è indagata e sviscerata per mostrarne le falle profonde, le ferite aperte.

Tratto dal libro omonimo di Thomas Savage (1967), il film mette in scena la vicenda di due fratelli proprietari di un grande ranch nel Montana, negli anni ’20. Phil (Benedict Cumberbatch), è un uomo rude e crudele, provocatore e tirannico. È in virtù di questo suo atteggiamento – e non certo per la laurea in lettere che anzi si sforza di tenere nascosta – che ha ottenuto il rispetto di tutti. Il fratello George (Jesse Plemons), spirito gentile, controparte conciliatoria, desideroso di amare e condividere, decide quasi su due piedi di sposare una vedova (Kirsten Dunst) e la porta a vivere nel ranch insieme a suo figlio Peter (Kodi Smit-McPhee), giovane sensibile e appassionato studente di medicina.
L’insicurezza del ragazzo e la fragilità della donna sono per Phil un boccone troppo stuzzicante per resistere: diventeranno immediatamente il bersaglio prediletto per sfogare sadicamente rabbia e frustrazioni, fino a che, rovinosamente ma inevitabilmente, l’uomo non finirà per rivelare la sua segreta vulnerabilità a un nemico che non credeva tale.

La sceneggiatura, qui meccanismo solido e perfettamente oleato, è quella di una partita a scacchi dove ruoli apparentemente granitici si fanno man mano sottilmente ambigui, mostrando crepe pericolose e zone d’ombra per poi sgretolarsi attraverso inversioni e disvelamenti.
Tutto avviene fluidamente, lentamente, attraverso continui, disorientanti spostamenti che coinvolgono ora i personaggi e l’immagine che hanno di loro stessi e dell’altro, ora lo spettatore, dentro il film (chi è la vittima e chi il carnefice?) e prima del film (chi è, in ultimo, il protagonista della storia?)

Il potere del cane è un film densissimo: di contrapposizioni (debolezza e ferocia, innocenza e malvagità; ma anche maschile e femminile, maturità e giovinezza); di dimensioni del vivere e del pensare (quella urbana, addomesticata, linda e pura – George -  contro quella selvaggia, pericolosa e violenta – Phil); di riflessioni metacinematografiche (la destrutturazione dei miti fondativi americani e quindi del western come codice espressivo e prima ancora di valori).
È anche un film disseminato di simboli e soprattutto di azioni simboliche: l’uccisione, e poi il sezionamento, del coniglio; la castrazione brutale del bue. Azioni che non valgono soltanto in sé, in astratto, ma sono rivelatrici in relazione a coloro che le compiono.

È un film che risplende, nel vero senso della parola: risplende il paesaggio brullo e arido che si spalanca come una vertigine, palcoscenico infinito nel quale il ranch – così “hopperianamente” isolato e malinconico – è un oggetto estraneo, un enigma sospeso e tutto umano nel vuoto smisurato e lunare. Risplende la sensualità dei corpi, su cui la regista si sofferma solo a tratti per dire però a chiare lettere della negazione dolorosa che sottende ogni cosa: il desiderio represso e però inestinguibile, che si traduce, in senso lato, nell’impossibilità di esprimere se stessi al di fuori di un determinato canone che non ammette tolleranza né perdono.
Ma la fascinazione de Il potere del cane – titolo che viene da un versetto del libro dei Salmi, metafora dell’istintualità più bestiale e spietata – deriva tutta dall’ambiguità, che è la sua cifra espressiva e sua chiave di volta: è nell’ambiguità che il reale si svela e si fa inaspettato, è dall’ambiguità che nasce la seduzione. L’opacità, il dubbio, l’inintelligibilità appartengono ai personaggi nel loro reciproco relazionarsi, ma anche al loro modo – articolato, mutevole - di offrirsi allo sguardo spettatoriale.

Categoria
Jane Campion Benedict Cumberbatch, Kirsten Dunst, Jesse Plemons, Kodi Smit-McPhee 126 minuti
Nuova Zelanda, Australia, 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Late August, Early September

di Leonardo Strano
Fin aout, début septembre - recensione film assayas

Mentre sta girando Late August, Early SeptemberOlivier Assayas pensa già a Les Destinées sentimentales. Non perché non creda al progetto in cui è impegnato: il ritratto di una generazione alle prese con i problemi sentimentali ed economici di una condizione instabile e senza certezze, nell’ultimo atto della giovinezza e già all’ingresso nel mondo della realtà adulta, gli è famigliare e vicino, in una parola naturale. No, sta pensando ai Destini (come anche nel caso di Irma Vep, che è, per stessa dichiarazione del regista, un film girato nel tempo libero proprio nell’attesa del futuro film), perché lì le sue immagini vogliono arrivare. Sintesi di tutto il suo cinema precedente, in realtà forse addirittura movente del suo fare cinema, l’adattamento dell’omonima opera di Jacques Chardonne è visto dal regista come la soluzione (ovviamente provvisoria) del suo cruccio tematico-formale: come rendere visibile in immagine, dopo la modernità post-godardiana, la complessa luminosità emanata da ciò che per un attimo esiste e tocca chi vive per sempre? Che fare quindi dopo Godard? Che fare dopo il cubismo? Che fare dopo Proust?  Assayas risponde a questa domanda iniettando la sua grafia, il suo diagramma formale di movimento, dentro a un codice normativo che lo faccia risplendere; quello della linea classica, l’unica disponibile dopo la fine della modernità, linea rinvenibile proprio nel genere romanzesco post Proust – di cui Chardonne è esponente. 

Late August, Early September non vuole essere questa sintesi tematico-formale, ma si pone le stesse domande e raggiunge le stesse risposte, perché è in un certo senso già Les Destinées, e infatti è girato come se lo fosse (con i suoi temi), solo attraverso la mediazione del blando autobiografismo proprio della prima fase (di cui il film è summa) e senza l’irrigidimento nella regola. Rispetto all’adattamento di Chardonne “il film di famiglia” è più libero, disinteressato agli obiettivi, impegnato non nella ricerca di un’immagine teorica ma solo nella propria gioia di fare ed essere – talmente libero (e girato nella povertà del Super16) da causare la paura in Assayas dell’abbandono di tale libertà; un film fatto “tra” che assorbe tutto ciò che lo precede e lo supera e sta in acrobatico equilibrio all’interno di una carriera, diventando teorico suo malgrado. Teoria al massimo grado proprio su quei destini sentimentali, su Proust, su come superare Proust, su come confrontarsi con il tempo della vita e con il suo incedere, sulla fine della giovinezza, sulla fine delle certezze, sulla morte, sul perdono, sulla memoria, sugli oggetti che la contengono. Teoria che inizia con delle pulsazioni luminose e non è mai veramente altro che una panoramica di queste intensità abbaglianti, concretate da corpi attoriali che gli danno forma tramite connotati, gesti, azioni. 

Questa luce dei corpi, catturata nel movimento incessante della camera, ruota intorno alla minaccia della sua scomparsa, alla possibilità di un affievolirsi: se fosse possibile normalizzare la progressione ellittica del film, fatta di accensioni e spegnimenti arbitrari come impressionati in modo casuale, in una trama si potrebbe dire che la trama racconta della malattia di Adrien (interpretato da  François Cluzet), scrittore da poco quarantenne, e della reazione dei suoi amici e collaboratori (il mondo è quello dell’editoria) a questo suo malessere un po’ nascosto, un po’ ignorato. Il punto non è però la rappresentazione della malattia e della reazione degli affetti, per quanto dotata di disarmante lucidità – quella lucidità che permette al particolare di sforare nell’universale -, bensì la rappresentazione dell’impermanenza delle cose che la malattia (che è in realtà certezza più o meno confessata della fine) innesca nel corpo del vivente e dei viventi. E, non secondariamente, la rappresentazione della disperata necessità di sostanziare questa transitorietà improvvisamente rivelata, il desiderio di sconfiggerla contraddicendola tramite il raggiungimento di qualcosa di concreto, qualcosa di meramente materiale in grado di durare. Ecco se c’è un avverbio che potrebbe corrispondere alle immagini con cui Assayas cerca di trasmettere lo stato emotivo dei personaggi che fa vivere sullo schermo questo avverbio sembra essere meramente: perché il termine mero, nel suo doppio significato, corrente – solo, schietto, quasi banale – e arcaico – singolarmente lucente -, rende bene lo stato di immagini che si fanno carico della lotta contro lo svanire delle cose e soprattutto del valore che le cose assumono in sé proprio in virtù del loro svanire, mediante la frequentazione del loro banale esserci, della loro superficie. 

late august - film assayas 2

Assayas non si ferma che sulle superfici delle cose, le coglie per un attimo, vola sopra di esse, indugia e poi, come se guardarle fosse troppo, distoglie lo sguardo. La mera superficie colta però si fa sempre attimo singolarmente lucente che vale in se stesso, patrimonio che si può per pochi istanti catturare, ricordare. Adrien racconta bene di questa forma di appropriazione delle cose quando racconta di un disegno che ha comprato per il solo gusto di poterlo fare, con i soldi guadagnati dal suo primo libro. Intorno a questo stesso disegno ruota il film: è firmato da Joseph Beuys, rappresenta un cervo e vale una fortuna. Questo stesso disegno diventa l’eredità lasciata da Adrien per Véra, la ragazzina di lui innamorata (interpretata da una giovane Mia Hansen-Løve), che proprio nel finale del film riceve il disegno come ricordo della relazione passata. Adrien diventa, dopo la sua scomparsa, il disegno, nella misura in cui è ricordato attraverso di esso, cioè l’oggetto con cui per un attimo è stato in grado di compiere qualcosa di concreto nel mondo; un gesto di autentica, disperata presenza teso a contraddire la sua necessaria dispersione nel nulla. Il destino sentimentale di chi resta sembra essere ricordare l’assenza, rilevarne la traccia attraverso le mere cose che parlano la lingua dei morti, resistere perché persisti ancora un po’ la vibrazione di ciò che ha attraversato lo spazio vitale - e quando Assayas conduce la macchina negli spazi provocando sbalzi senza drammaturgia non è forse il suo un modo di riprodurre la vibrazione vitale di ciò che può al massimo transitare e transita senza grandi ragioni?

Beuys non è una scelta casuale a questo proposito: in un momento in cui l’orizzonte culturale della Germania del dopoguerra era segnato da una volontà di un internazionalismo non intenzionato a riflettere sul passato recente e a dichiarare la propria incapacità di elaborare il lutto per le vittime del fascismo, la sua operazione artistica si caratterizzò in senso contrario come un’estetica della memoria. Questa estetica della memoria in Beuys si coordinava con la ferma negazione di ogni cristallizzazione (tutto è coinvolto nella polarità freddo/caldo, caos/forma, e bisogna cercare il calore), tentativo di uscire dall’arte cercando di seguire la metamorfosi, la dinamicità della natura. Anche Assayas propone un’estetica della memoria (che diventerà nel suo cinema forza contraria alle anestetizzazioni del capitale) coinvolta nella tensione tra dissoluzione e aggregazione: i suoi personaggi cercano di aggrapparsi alla materia, le immagini cercano di strappare qualcosa dal mondo, sia i primi che le seconde rispondono al destino sentimentale di chi è costretto a tutti i costi a ricordare per non farsi vincere dalla perdita, per non lasciare l’ultima parola all’assenza e allo scorrere temporale che tutto disgrega, che tutto rimuove. La forma si impregna di questa consapevolezza, di questa lotta in tensione e si fa cattura indebita, contrabbando di luminosità che rimane sospesa sopra le necessità illustrative senza diventare mai astrazione fuori contesto. Non è ancora linea classica, ma è una linea che si apre e apre le cose, radicandosi in esse, anche quando queste sembrano non avere più niente da dire. È linea che interroga e ascolta i silenzi, perché sa che in essi c’è un mormorio che dal fondo del tempo perduto dice «vita, vita, vita»

Categoria
Olivier Assayas Mathieu Amalric Virginie Ledoyen François Cluzet Mia Hansen-Løve 107 minuti
Francia, 1998
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Cry Macho - Ritorno a casa

di Matteo Marescalco
Cry Macho - recensione film Eastwood

«Non so come curare la vecchiaia» afferma Clint Eastwood in Cry Macho, il suo ultimo film presentato in anteprima italiana al Torino Film Festival. È un ex macho in viaggio lungo il confine tra gli Stati Uniti quello che incontriamo in questo mesto e caldo addio agli spettatori. Campione di rodeo che ha dovuto abbandonare la carriera per un infortunio alla schiena e con un trauma familiare alle spalle, Michael Milo ha anche un passato da alcoolista. Un suo vecchio conoscente lo incarica di attraversare il confine messicano per andare a recuperare suo figlio adolescente (Rafo) e riportarlo a casa sfuggendo alle grinfie della pericolosa ex moglie. Mike, così, si avventura in questo road movie sentimentale che attraversa il tempo del cinema di Clint Eastwood.

Il sole sta tramontando, i cavalli galoppano in libertà e furoreggiano in parallelo al mezzo guidato da Mike Milo, restituito attraverso una serie di dettagli. Infine, a scendere dal veicolo è proprio Clint Eastwood, inquadrato dal basso verso l’alto, come fosse un monumento-estensione e sintesi dell’ambientazione western. Ancora una volta nel suo cinema, bastano un dettaglio e un semplice corpo a dettare le coordinate emotive e immaginarie di riferimento. In Cry Macho - Ritorno a Casa, il volto del suo protagonista si staglia sull’orizzonte come una scultura lignea modellata dalle difficoltà della vita, dalla durezza della wilderness e dalle colpe trascorse impossibili da espiare.

Come in Un mondo perfetto, Million Dollar Baby e Gran Torino, a fare da sfondo in quest’ultimo film del regista di San Francisco è il rapporto tra mentore e allievo, un ragazzo che crede nel mito del machismo, demolito da Clint Eastwood attraverso la sua anima anarchica e liberale. Intiepidito dai raggi del sole fotografato da Ben Davis, il corpo spigoloso di quest’ultranovantenne cela un cuore tenero e sensibile e il desiderio di un anfratto paradisiaco da abbracciare e in cui godersi la lentezza della vita.

Cry Macho porta in scena l’ennesimo padre sconfitto del cinema di Eastwood, un fallito che regge un doloroso fardello sulle spalle ma che ha imparato a guardare alle cose con rinnovato stupore. Il carattere elementare della messa in scena ben si sposa con la demitizzazione del personaggio del macho, che si sottrae con decisione dal piedistallo su cui l’immaginario collettivo lo ha posizionato per abbracciare la montagna di fragilità che questa seduta di autocoscienza porta a galla. Tra inseguimenti in auto, lotte tra galli e potenziali sparatorie, il film scarta più volte da sé stesso e riesce a dare vita a numerose parentesi in grado di dialogare anche con I ponti di Madison County. Il vecchio macho diventa un terapeuta e impara a curare l’anima di chi ha individuato l’essenziale nei sentimenti.

Così, Mike si congeda dall’adolescente che restituisce al padre e dà il suo addio a noi spettatori, testimoni della struggente genesi di una nuova vita al di qua del confine - o, forse, semplicemente di un sogno in cui poter danzare liberi da qualsiasi costrizione terrena. Il ritorno a casa del titolo italiano è il dono della propria crepuscolare icona all’eternità.

Categoria
Clint Eastwood Clint Eastwood Eduardo Minett Natalia Traven Dwight Yoakam 104 minuti
USA 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Iscriviti a