Un monde sans femmes (A World Without Women)

di Federico Pedroni
Un monde sans femmes - recensione film Brac

Costa della Piccardia, cittadina di Ault. In un’estate sonnolenta si affacciano sulla costa della Manica Patricia (Laure Calamy, in perenne movimento) e sua figlia Juliette (Constance Rousseau, seduttiva senza infingimenti loliteschi): fin troppo estroversa la prima, fin troppo seriosa la seconda. Il primo contatto sul posto è Sylvain (Vincent Macaigne, capace di essere gigione senza fare di sé stesso una caricatura), un timido corpulento di fragilità infinita e sconnessa che gestisce la pensione locale. Una sformata elettricità anima il trio, che racconta di un uomo dalle placide emozioni sconvolto da un lampo di vita. Questa relazione, che assomiglia a un triangolo isoscele, porta i personaggi ad annusarsi e conoscersi, finendo per incartarsi in una ronde emotiva le cui regole del gioco sono segnate dall’intraprendenza naturale, quasi immateriale delle due donne.

Un monde sans femmes è infatti il racconto di una – o più – esplosioni: la sola presenza di Patricia e Juliette terremota le certezze ataviche di un luogo privo di presente, prima ancora che di futuro. Qualsiasi cosa accada infatti, i personaggi di Ault sono destinati a una perenne marginalità sentimentale, incapaci di affrontare i moti del cuore come di prendere in mano le redini della propria vita. Guillaume Brac testimonia qui per la prima volta, in modo compiuto, la sua predilezione per le languide atmosfere estive, dove le azioni dei protagonisti sembrano liquefarsi in una perenne stasi. Un monde sans femmes racconta in fondo la scelta di un nuovo campo di battaglia per due donne emancipate in naturale conflitto, con sullo sfondo un movimento entropico degli abitanti del villaggio, incapaci e inadatti a qualsiasi cambiamento. Gli uomini del posto, protagonisti o meno, vengono ridotti a un coro di rimbalzo, a figure immerse in un paesaggio immutabile, vivificato all’improvviso da una nuova e imprevista emotività. Sylvain fa a botte con un poliziotto locale, a causa della sua gelosia improvvisamente incontrollabile. Sogni di avventure estive si affacciano nelle menti dei “dragatori” di turiste, incapaci di distinguere un sogno da seduttori da una realtà sempre uguale; vecchie di paese ricordano le loro avventure piccole con il fascino delle chansons de geste: tutto è perché nulla accade.

Non è casualmente che le inquadrature di Brac – quadri semi immoti in cui ogni movimento appare come una frattura – si animino solo in presenza delle due protagoniste. Perché, andando avanti in una storia che consapevolmente appare come circolare, come una vite che piano piano trova il suo posto nel legno, si intuisce con chiarezza che l’unica spinta propulsiva – certo, principalmente verso un conflitto, qualsiasi conflitto – è portata da Patricia e Juliette. Ogni frustrazione e difficoltà è messa in superficie, come si portano in superficie le vongole che Sylvain, in uno dei rari momenti di sicurezza di sé, insegna loro a pescare. La trama è, in fondo, un piccolo cortocircuito, un momento in cui Patricia e Juliette lasciano spazio ai loro goffi corteggiatori, pieni di storie e ricordi che non sono neanche i loro. Il “mondo senza donne” – e quindi, senza vita – è quello che trovano e lasciano le due protagoniste, con tutti i dubbi e le confusioni che incarnano, ma sempre piene di una vitalità che sembra aliena, per quanto necessaria. L’ultima inquadratura del film, di rohmeriana e cristallina limpidezza, mostra madre e figlia finalmente – per ora – pacificate: felici di aver trovato il disinnesco della loro bomba personale e coscienti del ruolo che, naturalmente, sono state in grado di ricoprire. La vita, si sa, è altrove e ogni movimento dell’anima porta con sé qualcosa di sacro e benedetto.
Nel 2011 Brac già conosceva il potere dei sentimenti e si dimostrava capace di metterlo in scena senza orpelli, senza accelerazioni, senza enfasi retoriche. Un monde sans femme, in fondo, ci prepara “all’abbordaggio” emotivo più eclatante e ostentatamente romantico dell’ultimo, splendido film di un autore ancora tutto da studiare.

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Guillaume Brac Vincent Macaigne Laure Calamy Constance Rousseau Laurent Papot 55 minuti
Francia 2011
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Le repos des braves

di Mattia Caruso
Le repos des braves - recensione film Brac

Heureux qui comme Ulysse / A fait un beau voyage / Heureux qui comme Ulysse / A vu cent paysages / Et puis a retrouvé / Après maintes traversées / Le pays des vertes allées”. Risuonano quasi come una sinossi tardiva le parole di Brassens alla fine del breve documentario di Guillaume Brac e Nicolas Anthomé, Le repos des braves. Non la cronaca di un'impresa – quella di un gruppo di ciclisti amatoriali che, ogni anno, attraversa le Alpi da Nord a Sud – ma la fine di un viaggio da esaltare assieme ai ricordi del passato. Nelle ventiquattro ore in cui i suoi pallidi e attempati eroi in costume si godono il meritato riposo sulle spiagge della Costa Azzurra, Brac, appassionato di ciclismo (e ciclista era anche il protagonista del suo primo corto), si pone infatti in ascolto, registrandone le confidenze, i ricordi, le storie di una passione inesauribile che è anche, e soprattutto, rifugio esistenziale.

È un tempo sospeso, lontano dal quotidiano, in fondo, quello di Le repos des braves. Non dissimile in questo dalle altre estati francesi che popolano la filmografia del regista. Un tempo fatto di incontri e di fugaci stati di grazia, dove il futuro sembra infinito e pieno di promesse. Eppure, questa volta, nel cinema di Brac, nella forma del racconto corale e negli inserti di repertorio che affiancano le sue immancabili immagini balneari, trova spazio anche qualcosa di diverso. È il peso del passato a condizionare qui storie e vite, obbligando i soggetti a fare i conti, mentre le immagini delle loro imprese scorrono sullo sfondo, col rapporto sempre più sbilanciato tra ricordi e aspettative. È in questo scarto temporale, in questo spazio dove le promesse del futuro sono più incerte, che prende così vita forse il film più malinconico del regista.

Confrontandosi per la prima volta con la terza età, Brac stempera la frenesia illusoria del qui e ora in cui di solito sono immersi i protagonisti dei suoi film per seguire, con altrettanta empatia, la piccola odissea (e un canto di gesta, Le repos des braves, lo è in tutto e per tutto) di questi uomini schiacciati dal tempo ma sempre tenacemente alla ricerca, come i loro colleghi più giovani, di quell'attimo che duri per sempre.
Dopo aver dato voce a introversi ed emarginati vari, questo cinema si arricchisce così di una nuova categoria di perdenti. Un'umanità in fuga che il regista risarcisce con un ritratto corale colmo d'affetto e partecipazione. L'ennesimo inno all'“infanzia eterna” (così sarà chiamata nel successivo documentario, L'ile au trésor) di un cineasta che continua, assieme ai suoi personaggi, a credere nell'importanza del cuore e di ogni suo battito.

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Guillaume Brac Nicolas Anthomé 37 minuti
Francia 2016
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Kimi

di Matteo Berardini
Kimi - recensione film soderbergh

Che fare, oggi, della memoria? Nel pieno della Franchise Age, dove nostalgia, anagrafica e cinefilia sono i fattori, reificati, di un riuso datificato e on demand delle immagini e degli sguardi, e il passato non è altro che lo spunto per una nuova serializzazione brandizzata, non è più sufficiente il ricordo, l’omaggio, la relazione affettiva tra l’immagine di ieri e quella di oggi, per un rapporto denso col mondo. A meno che non si voglia vendere mera malinconia in stock 2.0, un semplice ponte tra passato e presente adesso non è più percorribile, perché è proprio con la mercificazione seriale della memoria che il cinema del Duemila – non più occhio del secolo – sta contrattaccando alla quotidiana frammentazione dell’immagine esercitata da schermi personali, dispositivi multimediali e reels di social network. Il ricordo fine a sé stesso è affare di catena di montaggio.
Lo sa bene Spielberg, il cui magnifico West Side Story è tutt’altro che un remake nostalgico del cult di Robert Wise bensì un film che cerca incessantemente un dialogo tra l’immaginario classico e il contemporaneo, contaminando generi, riferimenti, età diverse dell’immagine; lo sa bene Steven Soderbergh, che attraverso il suo accordo triennale con HBO Max ha firmato l’anno scorso uno dei film che meglio rappresentano questa necessità di crasi, di non sovrapposizione e semplice contatto ma tensione, contrasto tra passato e presente, come antidoto alla brandizzazione della memoria. No Sudden Move è un revival noir unico nel suo genere, fedelissimo per scenografia, costumi e passo narrativo al tardo gangster movie anni Cinquanta, eppure capace di frantumare il calco filologico con un linguaggio ultra-espressivo e strettamente contemporaneo fatto di grandangoli deformanti, punti macchina “sorveglianti” e lente panoramiche da occhio elettronico che rilanciano la percezione fatale e claustrofobica tipica del noir aggiornandone all’oggi la forma e il senso. In vesti diverse ma con la stessa intenzione arriva adesso Kimi, un thriller hi-tech impeccabile nei meccanismi di genere che mescola capitalismo della sorveglianza, paranoia movie e lockdown interiorizzato assorbendo passate forme cinematografiche in dialogo costante col presente.

la conversazione coppola

Dentro Kimi è facile trovare tracce di Hitchcock, Coppola, Pakula, De Palma, ma Soderbergh, dovrebbe essersi capito, è un regista che di nostalgia e cinefilia fini a sé stesse non sa che farsene; il suo è un cinema intimamente insurrezionalista, teso oltre l’orizzonte conosciuto verso altri modi di vedere. Anche quando la base di partenza è una tradizione cinematografica solida come quella fornita dal cinema paranoico anni Settanta e dai film che, più in generale, riflettono sull’uso dei dispositivi tecnologici per l’osservazione, registrazione e comprensione del reale. Il cinema del passato per Soderbergh, che sia citazione o semplice eco, deve entrare in contrasto con l’oggi e offrire nuovi strumenti gnoseologici o interpretativi; solo così La finestra sul cortile diventa un testo con cui confrontarsi attivamente nell’indagine iconica del presente, e non il film da applicare in modo automatico all’isolamento domestico dettato dall’era pandemica; solo così quei processi di alienazione e ossessione tecnologica messi in scena da La conversazione, Perché un assassinio e Blow Out diventano referenti attivi di un discorso cinematografico che non si limita ad aggiornare gli stilemi della paranoia alla società del controllo (Deleuze) ma che attraverso contrasti e assonanze tra le immagini guarda oltre, alle forme discorsive e sorveglianti esercitate dal reale post COVID-19. Del resto Soderbergh il suo film sulla pandemia lo ha già girato, è Contagion e sono passati dieci anni da allora, non ha senso ritornare sul tema in termini di emergenza; piuttosto Kimi è un ritratto della COVID-era come stasi e genesi di nuovi comportamenti. Lo scopo qui è quello di inquadrare le nuove cicatrici, gli strascichi dei Lockdown, le fobie interiorizzate e i nuovi territori agentivi del capitalismo informatico, datificato e digitale, le nuove pretese e ricadute sui corpi e gli sguardi, ben sapendo che la pandemia è stata un acceleratore qualitativo di molti processi della contemporaneità. Per questo in Kimi cinefilia e rispetto certosino per le regole di genere (scrive un redivivo David Koepp) creano un terreno in cui collimano smart speaker e voice stream interpreters, agorafobia e voyerismo, chiamate FaceTime e sedute di psicanalisi digitale, benzodiazepine accanto allo svuotatasche dell’ingresso e accordi coi vicini per il troppo rumore diurno, tra echi di Me Too, strategie di colpevolizzazione della vittima, call in mise camicia&pigiama, e hacker sovietici che lavorano in smart working accanto alle madri che fanno l’uncinetto in salone.

Il cinema hollywoodiano sta esercitando una timidezza estrema nei confronti dell’immaginario generato dalla COVID-19, specie nei termini delle nuove forme di normalità. Se la serialità broadcast è il terreno in cui è iniziata l’elaborazione visiva e tematica della pandemia in termini emergenziali (da Grey’s Anatomy a NCIS, molte serie medical e crime sono state i primi contesti a rappresentare in maniera sistematica gel, mascherine, contagi e distanze sociali), Kimi è il primo passo verso un cinema che ha finalmente il coraggio di affrontare la pandemia in termini storici e generativi. Segnatevi questo momento, Soderbergh ha di nuovo scritto un pezzetto di storia del cinema.

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Steven Soderbergh Zoe Kravitz Byron Bowers Devin Ratray Derek DelGaudio 89 minuti
USA 2022
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Il profumo magico di Guillaume Brac

di Emanuele Di Nicola
Guillaume Brac

Non ci giriamo intorno: Guillaume Brac è la più grande novità cinematografica della Francia di oggi. E quindi, per metonimia, del cinema del nostro tempo. Parigino, 45 anni, a partire dal 2011 autore di quattro lungometraggi e tre corti o medi, inizia ad essere seriamente apprezzato in patria: in Italia nessun titolo è uscito in sala e viene scoperto grazie alla piattaforma MUBI.

«Tutti i miei film parlano dell’incontro tra persone e mondi - premette -, un incontro spesso fugace e contrastato ma con momenti di grazia». Ed è proprio così: il primo cortometraggio Le naufragé (2009) è la storia di Luc, giovane ciclista che si ferma per caso in un piccolo villaggio della Piccardia, dove conosce Sylvain, interpretato da Vincent Macaigne, per dare vita a un “breve incontro”. I temi prediletti sono in filigrana ma esplodono nel primo grande film, Un monde sans femmes del 2011: il regista assolda sempre Macaigne, sempre in Piccardia e lo chiama sempre Sylvain, forse è lo stesso personaggio. Nell’arco di 55 minuti l’autoctono Sylvain conosce due donne, una madre e una figlia in vacanza, le frequenta ma c’è un problema: Macaigne è il volto più malinconico del cinema francese, è il corpo più pesante che inscena un perenne “vorrei ma non posso”, un desiderio continuamente frustrato che diventa presto struggente. Perché la mamma o la figlia dovrebbero stare con lui, perché mai dovrebbero dargli retta? I “non belli” hanno una vita sentimentale diversa, Brac la rappresenta senza inibizioni e a suo modo sfida un tabù. Però alla fine il regista il suo aspirante perdente lo risarcisce, costruendo un finale di rimborso per chiunque creda ancora nei sentimenti: perché l'incontro è controverso, ma c’è sempre anche la grazia. Il cineasta è già un ottimo direttore di attori: guardate la madre raffigurata in Laure Calamy, in perenne oscillazione tra l’odioso e il commovente, e ovviamente Macaigne che rende tangibile un personaggio memorabile e spaccacuore.

Tonnerre (2013) è il titolo-città del primo lungometraggio, che inscena guarda caso un incontro: quello di Maxime, per l’ultima volta Macaigne, un musicista che torna nella città natale del padre e lì si innamora di una ragazza molto più giovane, Mélodie col volto angelico di Solène Rigot. Guillaume Brac ha poi due altre passioni: il ciclismo e il documentario. Le mette insieme nel corto Le repos des braves (2016), girato con Nicolas Anthomé, che riprende un gruppo di ciclisti adulti alla fine del loro percorso sulle Alpi, facendoli parlare e registrando le storie. Per dire che anche il ciclismo è questione di cuore: gli atleti maturi raccontano il loro legame, il senso di riconoscimento racchiuso in quello sport, ma anche il tempo che passa.
A conferma inessenziale dell'amore per il cinema in sé, per il gesto di farlo e non per la soddisfazione dell’ego, il regista lavora spesso con i giovani: lo fa con gli studenti dell’Accademia nazionale di arte drammatica, con cui gira Contes de Juillet, unione di due mediometraggi (68 minuti) che costruisce una doppia storia d’amore con gli aspiranti attori del corso, ancora una volta ben diretti. Il genio di Brac ha ormai lasciato l’incubatrice e si prepara a spiccare il volo: un colpo d’ala è il documentario L'Île au trésor (2018), che inquadra il parco acquatico della sua infanzia alla periferia di Parigi con gli adolescenti e i lavoratori, le prime tentate tresche, e pone anche una questione razziale. Proprio come la pone quello che ad oggi è il capolavoro del regista: À l’abordage del 2020. Pochi elementi: un giovane nero passa una notte con una ragazza bianca, la vuole ritrovare nella sua località di villeggiatura, vi si reca con un amico nero che è Macaigne a razza invertita, e prendono il passaggio di un bianco. Da questi cenni Brac riscrive e aumenta Un monde sans femmes, conduce un gioco che è tanto esilarante quanto commovente, colloca due neri in vacanza coi bianchi (ecco la politica), spacca il capello dell’amore giovanile e conduce a un finale di bellezza ineffabile, che non si dimentica.

Un monde sans femmes di Guillaume Brac

Il cinema di Guillaume Brac viene generalmente accostato a Éric Rohmer. Nulla di sbagliato, intendiamoci, basti vedere le lunghe sequenze sulla spiaggia di Un monde sans femmes, una sorta di “un ragazzo, due ragazze”. E la vicinanza non fa che confermare l'influenza costante del magistero rohmeriano sul cinema, passato il centenario del maestro. Ma le ispirazioni di Brac sono anche altre. Dentro i suoi racconti c'è un film fondamentale che spesso cita, L'Âge des possibles di Pascale Ferran, ma anche un tassello centrale e ancora poco riconosciuto nel cinema francofono, L’età acerba di André Téchiné. E il film più istintuale e fiammeggiante di Olivier Assayas, L’eau froide. Insomma siamo nel terreno di quel cinema francese che raccontava gli adolescenti negli anni Novanta, periodo di formazione di Brac e di innamoramento per la cinepresa: quel cinema che i ragazzi li trattava senza edulcorazione, in modo obliquo, sfrangiato, attraverso una scala che andava dal riso al pianto, dal sesso alla morte. Sono loro i maestri di Guillaume Brac, che ritaglia quelle vibrazioni e le innesta nel contemporaneo, e come loro è un poligrafo del cuore.

Brac non è però un regista che si riassume nei suoi film. Non basta il racconto, l’analisi non esaurisce. Il totale non è la somma delle parti. C’è qualcosa di più e di meglio, un umore che si diffonde, una sensazione impalpabile che sfugge all’etichetta. Come diceva Anne Baxter in Eva contro Eva entrando per la prima volta nel teatro: “Sento un magico profumo”. Ecco, qualcosa di simile si può applicare alla visione dei film di Guillaume Brac, alla conoscenza del suo cinema: dentro c’è davvero un profumo magico. Brac riesce a cogliere esattamente i movimenti del cuore. Sa che la vita è un intrigo di incontri e battiti. Li rappresenta, ne sonda le oscillazioni e le mette in scena, qui all’improvviso, davanti a noi, in modo quasi insopportabile. Ma poi, appunto, ripaga i suoi falliti, i neri, quelli in sovrappeso: regala loro una carezza che è anche per noi. Guillaume Brac: se c’è un nuovo autore da vedere e amare è senz’altro lui. Se c’è uno sguardo da capire questo porta il suo nome. Un grande regista già oggi, che diventerà imprescindibile domani.

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Scream (2022)

di Alessio Baronci
Scream 2022 - recensione

È lo stesso Scream, senza troppe cerimonie, a farci capire che, stavolta, qualcosa non torna. Basta un dettaglio fuori posto che manda fuori asse la tradizionale, cruenta, scena d’apertura, e l’intero sistema simbolico e tematico della saga viene riconfigurato in modo imprevisto. Scream continua a essere un franchise profondamente affascinato dalle evoluzioni del contesto mediale, e se già il capitolo precedente ragionava sulla trasformazione dello spettatore da homo videns a homo ludens, totalmente immerso nell’esperienza cinematografica, stavolta il centro del discorso non può che essere la fine degli immaginari.
Il primo Scream senza Wes Craven, diretto stavolta dalla coppia formata da Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett, si infila infatti nella stessa linea di altri film Apocalittici, come Matrix Resurrections, il West Side Story di Spielberg e il fondamentale The Irishman.

Ghostface torna a colpire nel tentativo di creare una narrazione che sia migliore dell’ultimo, annacquato Stab, ennesimo capitolo del franchise tutto meta ispirato alle vicende del primo Scream. Forse, tuttavia, non c’è più posto per lo slasher, oggi. Le vittime del killer, anzi, neanche ne conoscono più i capisaldi, sono piuttosto attratte dalle traiettorie Post Horror dei vari Jordan Peele, Ari Aster e Jennifer Kent (“chiedimi di Babadook”, implora uno dei personaggi, appena capisce che la sua fine potrebbe essere prossima). Eppure, più che a un raptus nichilista, disperato, sull’orlo dell’abisso di un intero genere, la sequela di omicidi del killer assomiglia a un rito sacrificale. Per Ghostface la partita è tutta generazionale: sotto le sue coltellate cadono figli, nipoti, parenti prossimi dei personaggi originali, veri e propri simulacri che custodiscono lo spirito della saga. Non c’è nessuna vera distruzione di un immaginario in Scream, piuttosto c’è la purificazione di un intero sistema di segni.

È uno scarto minimo, a suo modo inedito e per questo affascinante, tutto ancora inscritto nella semantica di Apocalisse (che rimanda alla distruzione ma anche a una sorta di catarsi), eppure contiene in sé le premesse di un rischioso cortocircuito nel sistema del film. Perché lo Scream che avrebbe dovuto dimostrare l’impossibilità dello slasher oggi non fa altro che riaffermarne, potenziati, i codici, in modo aggressivo, quasi forsennato. È forse il film più veloce della saga, questo, eppure il sistema non esorbita mai dai moduli del canone craveniano. È vero, si potrebbe dire che è proprio la cornice meta a imporre al film un ritorno alla forma, del primo episodio, e tuttavia è indubbio che un approccio del genere rischia di risultare controproducente. Perché Scream si limita, stancamente, a procedere quasi per accumulazione: segue lo schema di situazioni note, tra telefonate minatorie, inseguimenti, jump scares e feroci omicidi senza che questi spunti siano regolati da una presa di posizione originale sul genere e sull’immaginario di riferimento. E così qualsiasi riflessione sulla caducità dello slasher avviene quasi in modo involontario, stimolata da gesti, rituali, che non approcciati in modo critico vengono ridotti a inerti cliché a distanza di vent’anni.

Scream 2022 - recensione sydney

Da un certo punto di vista, Scream è un film ambiguamente nazionalpopolare, tanto una satira del fan-service e del linguaggio dello slasher movie, quanto il film che ogni fan integralista della saga dovrebbe amare senza riserve, a seconda del pubblico con cui si interfaccia. Bettinelli-Olpin e Grillet sono cineasti appassionati, affettuosi nei confronti della saga e del genere ma evidentemente non hanno lo sguardo ironico e il piglio satirico di Wes Craven, e tuttavia il discorso, forse, è più complesso delle attese. Forse l’unico modo per incasellare davvero Scream è di trattarlo come il primo capitolo della saga inserito nelle meccaniche della Franchise Age. Stavolta non ci sono né Craven né Williamson a supervisionare lo script, ma soprattutto non c’è una casa di produzione veramente indipendente a gestire il progetto. Ci sono, piuttosto, il collettivo Radio Silence, nato come gruppo di lavoro indie ma sempre più inglobato nei meccanismi da major, e la Paramount, mai come ora alla ricerca di un franchise redditizio. E allora non è un caso, forse, che lo script sia stato affidato alla coppia formata da James Vanderbilt e Guy Busick, che sì, hanno già scritto Ready Or Not, il precedente film dei due registi, ma sono anche sceneggiatori sempre più strutturati nel sistema blockbuster (Vanderbilt ha scritto il secondo Independence Day, ad esempio e sarà l’autore del prossimo film di Bay).
Lo sguardo di Craven si brandizza, dunque, diventa uno strumento utile a fidelizzare (di nuovo) i vecchi fan della saga e attrarne di nuovi, un insieme di segni da ricreare in provetta senza comprenderne davvero mai la portata. Non stupisce che Scream tenti di riflettere su una delle grandi tematiche dell’intrattenimento contemporaneo, sulla crisi del suo stesso immaginario, senza però sporcarsi mai davvero le mani, evidentemente per non bruciarsi una property redditizia e, al contempo, cerchi di offrire allo spettatore un prodotto non soltanto il più possibile trasversale ma anche rassicurante.

Orchestrato per non fallire, Scream non può che risultare un asfissiante prodotto laboratoriale, che riesce a respirare davvero solo in determinati momenti, schegge che riescono a sfuggire alle maglie del controllo. Il film è in effetti puntellato di promettenti spunti che improvvisamente squarciano un reticolo altrimenti rigidissimo e riescono a interrogare davvero lo slasher sulla sua natura profonda, tra parentesi che ripensano il concetto di Final Girl, momenti che riconfigurano il genere al di fuori dei suoi tradizionali spazi domestici o sequenze dal piglio quasi concettuale, che mettono in crisi un intero immaginario semplicemente facendo girare a vuoto i suoi meccanismi essenziali, smaterializzando il gioco tra preda e predatore o giocando spudoratamente con il materiale (come nella straordinaria sequenza dell’omicidio letteralmente moltiplicato dagli schermi). Ma si tratta di elementi non finiti, idee solo abbozzate per decine di film-da-fare, forse, addirittura, sfuggite alle probabili, continue riscritture dello script, atti mancati che non riescono a liberare il film dalla sua fredda natura programmatica.
Scream trova il suo vero passo forse solo nell’ultimo atto, quando, inaspettatamente, la diegesi ha il coraggio di mandare in crisi almeno quella cornice “etica” che da sempre contraddistingue l’elemento slasher della saga, ma, al di là di questo, il film di Bettinelli-Olpin e Grillet è un prodotto che cade vittima del suo stesso meccanismo e paradossalmente, riesce nei suoi intenti, dimostrando quanto l’unico slasher possibile sia quello Post, d’autore, che si muove il più lontano possibile dai meccanismi delle major. Peccato che l’abbia fatto forse inconsapevolmente e ricorrendo a un folle autosabotaggio.

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Matt Bettinelli-Olpin Tyler Gillett Neve Campbell Courtney Cox David Arquette Marley Shelton Melissa Barrera 114 minuti
USA, 2022
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The Innocents

di Giacomo Calzoni
innocents

Va bene, l’argomento non è certo nuovo: dal classico Il villaggio dei dannati ai più recenti Them, Eden Lake e The Children, passando per il cult Ma come si può uccidere un bambino? e il kinghiano Grano rosso sangue, il genere si è sempre confrontato con il mondo dell’infanzia e con il contrasto – talvolta nerissimo – tra il candore dei suoi protagonisti e l’orrore delle loro gesta. Un leitmotiv sempreverde, soprattutto quando a venir meno è la spiegazione razionale che si cela dietro a un bambino che uccide: specchio della crudeltà del mondo adulto, certamente, ma anche sguardo abissale sull’ignoto, destinato a rimanere senza una risposta ai tanti perché che lo accompagnano. E se quindi è vero che The Innocents, in fin dei conti, non dice nulla di inedito su un tema già ampiamente trattato dal cinema (e dalla letteratura), non per questo il flm di Eskil Vogt si dimostra meno efficace nella messa in scena di un turbamento silenzioso che striscia davanti agli occhi di tutti, passando inosservato.

Come nel Cronenberg di Il demone sotto la pelle, il teatro è un super-condominio che si estende a perdita d’occhio: meno tecnologico e all’avanguardia di quanto sarebbe lecito aspettarsi visti i tempi, ma comunque non luogo ideale per una vicenda dai toni asettici e glaciali ambientata in una Norvegia sui generis e geograficamente indefinita. C’è qualcosa, o forse qualcuno, che possiede le anime dei giovani protagonisti, offrendogli la capacità di spostare oggetti con il pensiero e di comunicare telepaticamente tra loro; più che una maledizione, all’inizio sembra quasi un dono che si tinge di fiabesco, per cancellare le distanze – geografiche e mentali - tra queste giovani vite che devono lottare quotidianamente contro il pregiudizio dato dalle differenze: di estrazione sociale, di etnia e persino di condizioni fisiche (una di loro è autistica). Ma le suggestioni supereroistiche da prequel di un X-Men qualsiasi hanno vita breve e, nel mezzo di questa estate nordica dove la luce del sole non lascia mai totalmente spazio alla notte, la morte comincia a dilagare: l’amicizia dei piccoli si trasforma in sopraffazione e in lotta per la sopravvivenza, e a farne le spese sono tutti, adulti e bambini, indistintamente.

Vogt non spiega nulla sull’origine o sull’identità del male ma, semplicemente, si limita a registrarne gli effetti: i grandi - sopravvissuti o meno alla furia omicida che ha investito il vicinato - non sapranno mai cosa è successo, accentuando così i contorni di una tragedia resa ancora più insostenibile dal contrasto tra la sua dimensione orrorifica e le tonalità asettiche dei luoghi. Memorabile in questo senso la resa dei conti finale tra i due protagonisti, un vortice di sguardi e di silenzi in campo e controcampo in mezzo alla folla di un parco giochi, senza che nessuno si accorga di nulla: impossibile non pensare alla sequenza dell’omicidio di John Saxon in Tenebre di Dario Argento, in cui la collocazione en plein air rinnegava qualsiasi presunzione di sicurezza per mettere in scena un universo al cui interno le regole non sarebbero mai più state le stesse. E l’inquadratura finale, capace di  rimettere tutto nuovamente in discussione, è la chiusura coerente di un film che, in tempi dove tutto deve essere necessariamente spiegato allo spettatore per filo e per segno, ribadisce il ruolo fondamentale dell’ignoto e dell’irrazionale per raccontare il mondo. Meno male.

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Eskil Vogt Rakel Lenora Alva Brynsmo Ramstad Sam Ashraf Mina Yasmin Bremseth Asheim 117 minuti
Norvegia 2021
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What do we see when we look at the sky?

di Leonardo Strano
What do we see when we look at the sky - recensione koberidze

Alexandre Koberidze non è interessato alle storie ma ai fatti, cioè alle possibilità di una storia, a ciò che una storia è in potenza. È interessato quindi alle città, perché le città sono miniere di potenziali racconti: Kutaisi, città georgiana un tempo capitale dell'antico regno della Colchide, rappresenta in questo senso un ricchissimo campo di possibilità. What do we see when we look at the sky? non a caso si apre con un’inquadratura cittadina, a camera fissa, che ricorda L'uscita dalle fabbriche Lumière: dei bambini escono da scuola attraversando un cancello ripreso frontalmente. Si tratta di un’inquadratura semplice, pensata non per iniziare una storia ma per rilevare un fatto; o meglio, la dignità di un fatto, la sua purezza, la purezza di una cosa che ha dignità d’essere prima di qualsiasi storia, prima di qualsiasi rappresentazione, prima di qualsiasi uso drammaturgico e anche nobilitazione poetica. I bambini semplicemente escono da scuola. Segue un montaggio sui dettagli della loro uscita, con i bambini che parlano tra loro eccitati e i genitori che li attendono un po’ impazienti; quando tutti se ne sono andati sulla strada di fronte al cancello due persone si scontrano e subito si innamorano: ancora non è l’inizio di una storia, ma un fatto tra altri fatti. Anche quando questi innamorati prenderanno il centro della scena – per un sortilegio che non permetterà loro di riconoscersi – la loro vicenda non diventerà mai davvero una storia, anzi, rimarrà spezzettata e sospesa tra altre cose intorno, come frammento interessante ma senza precedenza rispetto ad altri frammenti. 

Se le storie hanno uno sviluppo, un arco, un racconto con cui si dispiegano, il fatto è invece isolato, unico, chiuso in se stesso. Ma che cos’è un fatto che viene troncato prima di poter diventare storia? Un fatto, astratto da qualsiasi possibile concatenazione di causa-effetto, è un evento: senza prima e senza dopo, esso esiste in sé come qualcosa di unico scaturito dal buio, una bolla risorgente per sua stessa forza luminosa. What do we see when we look at the sky? è pensato come una partitura di eventi fermati sul bordo di una storia che non accade mai e sta sempre un po’ più in là, in potenza: due innamorati cambiano aspetto e pur lavorando nello stesso bar per tutta l’estate non si riconoscono, due filmaker cercano di girare un film ma i loro sforzi sono resi vani proprio alla fine della loro ricerca, una fotografa vaga alla ricerca di coppie per un lavoro che fatica a portare a termine, il proprietario di un bar attende i clienti nell’estate del Mondiale di calcio e si ritrova in un attimo a smontare lo schermo che nessuno ha guardato. Insomma tutto accade senza accadere, rimanendo sospeso un po’ più del dovuto tra il passato e il futuro, la causa e l’effetto, come un pallone che dopo mille rimpalli sconnessi è scagliato in aria e rimane nel cielo per qualche secondo più del normale – la scena al centro del film è in questo senso una dichiarazione teorica rispetto alla propria idea di cinema. La sospensione trasforma tutte le vicende del film, persino quella che si potrebbe definire principale degli innamorati, in un crocevia di possibilità che stanno per attualizzarsi e intanto splendono come eventi.

koberidze

Koberidze intuisce che la storia non è necessaria per raccontare la dignità dell’evento, anzi, è quasi un ingombro, ed è proprio la questione della dignità a convincerlo dell’assoluta rilevanza del fatto sulla storia: prima del diritto di raccontare le cose c’è il dovere di saperle ascoltare, di ascoltare con rispetto anche solo la loro mera presenza, e spesso l’obbligo di una narrazione distoglie dall’ascolto (il regista non è estraneo alle fascinazioni del documentario d’osservazione). Per questo nella costruzione del suo film non sceglie direzione, si fa carico di tutte, non impone dove guardare, apre piuttosto a una complessità di punti di vista che riconosce addirittura la vita all’inanimato (nel suo film gli oggetti sono vivi): nel suo cinema la cosa ha dignità prima della rappresentazione, non in quanto rappresentata; esiste prima di uno sguardo ed esiste dopo lo sguardo, il passaggio attraverso che si può compiere nei confronti dell’esistenza indipendente del fatto è solo di testimonianza, una testimonianza che è appunto attraversamento di un fatto, un ruotare attorno ad esso, sempre parziale. Koberidze crede a tal punto nella sospensione di ogni argomentazione narrativa rispetto al reale da chiedere di chiudere gli occhi di fronte alle sue immagini; il cinema in effetti per lui non sembra essere costruito da momenti di visibilità (la costruzione drammaturgica che dispone direzioni) ma da momenti di potenziale visibilità da cogliere nella fragilità passeggera, se non addirittura nella loro momentanea negazione.

Non è un caso che l’immagine più importante del suo film sia quella mancante: quando chiede di chiudere gli occhi di fronte all’incantesimo che trasfigura i due innamorati il regista produce nel meccanismo di visione spettatoriale il buio altrimenti impercettibile, il nero non esperibile dall'occhio umano che sta tra un fotogramma e l’altro, quel nero in cui sempre il cinema riposa nascosto come pura potenzialità, compressione di ciò che può essere o non essere. Nell’impressione cinematografica l’immagine passa continuamente attraverso un buio che costituisce la sua scomparsa provvisoria, ed è proprio perché rischia la scomparsa che quando torna luminosa l’immagine è più viva: la cosa che ha lottato contro la possibilità di scomparire, l’evento che vive dopo la sua possibile catastrofe, è più vivo. Innescando un’otturazione visiva il film opera un atto di innervazione sensoriale-mimetica per cui l'occhio si impossessa per un attimo dei meccanismi di funzionamento dello strumento cinematografico e vive così un’esperienza scopica intensificata: non funziona come un occhio umano ma come un occhio cinematografico che coglie in maniera più intensa lo splendere del fatto, cioè il risultato della sua lotta contro il buio. In definitiva assiste alla possibilità che il fatto accada ma anche che non accada, al momento di sostanziale ambiguità di fronte a un bivio, per così dire, ontologico tra potenziale accensione e potenziale annullamento. L’isolamento del fatto, si diceva sopra accennando alla sua qualità di frammento, era già di per sé riconoscimento della minaccia di una frantumazione, riconoscimento che qualcosa di intatto si è frantumato o che è stato in realtà da sempre frantumato, come un dolore esploso in mille pezzi cristallizzati solo dopo in un incantesimo pronunciato con timida voce, soffio di vento che porta segreto di una disfatta (la voce narrante proprio dopo la scena del pallone inquadra la vicenda in una cornice di presente doloroso).

Il buio dice la possibilità che qualcosa non sia, che qualcosa non divenga mai, che resti là in fondo al non compiuto come un amore irrisolto senza storia; il dolore si può infatti anche non ascoltare e non ha poi tanta voce per fare sentire le proprie ragioni. Ma Koberidze non vuole strappare il fatto al buio che potrebbe annullarlo attraverso una storia, perché costringere il fatto a una storia è una violenza. Il regista sceglie quindi la terza via, quella della relazione: non il negativo dell’annullamento, non il positivo della storia, ma quella soglia che non nega l’esistenza e non costringe all’esistenza, piuttosto è struttura mai del tutto conchiusa secondo cui le cose nel loro isolamento possono incontrarsi e accadere oppure possono mancarsi e cadere. I fatti per come sono, sempre nella loro dignità d’essere, vengono come raccolti in una realtà relazionale che li supera ma non esiste senza di essi, una realtà strutturale che è quindi spazio tra le cose, spazio definito dai contorni delle cose, disegno ottenuto soltanto grazie all’unione di diversi puntini. Il montaggio del film funziona proprio come linea d’intesa, tessuto connettivo virtualmente disteso a mezz’aria, in balia dei colpi di vento, come una ragnatela in grado di proiettare grandi architetture d’ombra se investita da una luce abbastanza delicata da non spazzarla via; esso non unisce arbitrariamente fatti isolati, è piuttosto un disegno formato da essi, proprio come quello enigmistico di puntini senza apparente senso che però nascondono già da sempre una virtualità codificata nella loro lontananza.

film koberidze

Il risultato è la produzione di uno spazio di vivibilità lontano da ogni forma di costrizione in cui la realtà guadagna la vita che merita. Tutto nelle immagini di Koberidze è vivo non alla maniera di qualcosa a cui è infusa la vita, ma come qualcosa che rivendica i propri diritti vitali. Si tratti di una piantina, di un lembo di cielo o di un gomito abbandonato su una sedia, si tratti in poche parole di fatti apparentemente inerti, ecco che questi fatti si impongono come esistenti. Ma di fronte a questa dichiarazione di esistenza colta dall’immagine come si pone l’occhio di chi guarda? Anche per l’occhio si apre uno spazio di vivibilità inedito: non più costretto ad abitare delle costrizioni drammaturgiche questo può vagare per la città, sospinto invece dalla frantumazione del montaggio relazionale e dall’apertura di immagini vive, che scambiano con lui discorsi sulla possibilità. L’incontro di un occhio liberato con immagini libere produce un ulteriore grado di libertà, quella che attiene all’inscrizione volontaria di un punto di vista all’interno di una visione condivisa con altri. Sono molte le scene di visione collettiva che costellano il film - su una visione collettiva del cielo da parte di alcuni bambini si chiude addirittura il film – e suggeriscono l’importanza di questo fenomeno per il regista. 

Il paradosso di ogni visione collettiva è la generazione di un sentimento condiviso ma vissuto personalmente. Questo tipo di condivisione senza parole originata dal sentimento è la comunicazione più pura che l’arte riesce a generare. È diversa dall’amore, almeno in parte, perché si tratta della comunicazione di una verità profonda che si produce anche tra sconosciuti. Le immagini di Koberidze sono un inno a questo tipo di esperienza di comunicazione collettiva e in qualità di inno cercano di riprodurre il raffinato fenomeno della visione collettiva: non offrono una storia unica e conforme, sospendono anzi qualsiasi cristallizzazione che imponga un senso determinato; costituiscono così uno schermo che sintetizza il visibile senza zittirlo (attraverso la rete relazionale) e anzi lo apre alla varietà interpretativa più libera; uno schermo verso cui si può prendere posizione e che cambia, pur restando lo stesso, proprio a seconda della posizione che si assume nei suoi confronti. Le immagini di What do we see when we look at the sky? si pongono di fronte a chi guarda come il cielo del titolo, si fanno cielo: qualcosa che è indipendente dallo sguardo ma non indifferente ad esso, qualcosa di vivo che è figlio del buio e invoca comunque una vita possibile. Chiedersi che cosa vediamo quando guardiamo il cielo è chiedersi cosa vediamo quando guardiamo un film o più semplicemente cosa proviamo quando, assieme a qualcun altro, guardiamo il mondo. 

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Alexandre Koberidze Ani Karseladze Giorgi Bochorishvili Oliko Barbakadze 150 minuti
Germania-Georgia, 2021
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Get Back

di Veronica Vituzzi
Get Back recensione film

Ci sono storie che sembrano non stancarci mai. A distanza di anni, decenni, secoli, queste continuano a riemergere nel discorso e nell’immaginario collettivo come eventi mai veramente conclusi o definiti nella loro interezza. In breve, non cessano di parlarci, o, nel caso dei Beatles, di suonare e cantare per noi. L’arrivo sulla piattaforma Disney Plus dell’incredibile documentario di Peter Jackson, Get Back, sulla lavorazione dell’album Let It Be, ha generato a fine novembre scorso un interesse proporzionato alla grandezza insita nel progetto: a partire dalle 56 ore di filmato inedito relative alla produzione dell’ultimo film dei Beatles (Let It Be, 1969) il regista neozelandese ha scelto e montato più di 8 ore divise per tre episodi. Non solo; ha operato uno straordinario lavoro di restauro visivo e sonoro e tramite una serie di algoritmi ha riempito, ripulito e integrato le immagini, le voci e la musica. Il risultato finale è una sorta di surreale e irresistibile viaggio nel tempo, poiché tutto ciò che si vede e si sente in Get Back ha il sapore di qualcosa fatto l’altro ieri. Dato fondamentale non solo per la questione tecnica ma anche per il concetto alla base del documentario: ricostruire e far riemergere una storia sulla quale moltissimi appassionati continuano a interrogarsi. La domanda è: che tipo di storia raccontare? Spiegare perché i Beatles si sono lasciati? O c’è qualcos’altro da rivelare, rimasto nascosto nelle immagini di cinquant’anni fa? 

La cosa interessante è che nel documentario questa ricerca si ripropone, come in un gioco di scatole cinesi, dal regista del film originale Michael Lindsay-Hogg, che si chiede che tipo di film girare, agli stessi Beatles che si domandano cosa stanno facendo – un album, un live show, un programma televisivo? – e a che punto stanno. Siamo nel gennaio 1969 e le cose si stanno facendo difficili per i quattro musicisti. John Lennon è preso dalla relazione con Yoko Ono e dall’eroina, ed è reduce da un brutto periodo - è stato arrestato per droga e la sua compagna ha avuto un aborto spontaneo – ; George Harrison soffre il rapporto di minoranza nel gruppo, mentre Paul McCartney cerca disperatamente di riempire il vuoto lasciato dalla morte del loro manager Brian Epstein assumendo il ruolo di capo, con molte reazioni negative da parte degli altri componenti. Nel film del 1969, cosi cupo e dalle immagini sgranate, sembrava quasi inevitabile la rottura, insormontabili le distanze. Ma con Get Back vediamo come il concetto tecnologico di realtà aumentata si associ alla presenza di dati aggiuntivi che si concretizzano anche narrativamente nella complessità della storia presentata. La lunghezza del documentario permette di scivolare in una visione prolungata di conversazioni, battute, gli intermezzi offerti dalle sigarette, dal cibo, dalla lettura dei giornali, con un effetto di immersione nella quotidianità dei Beatles quasi da farci spettatori di uno straordinario Grande Fratello.  

Jackson si concede il tempo di soffermarsi sui primi piani, le emozioni che risalgono in superficie e con esse le personalità distinte dei quattro artisti. La pacata ribellione di George, l’allegra disponibilità di Ringo, l’ironia distante di John, il prepotente amore di Paul per il gruppo: benché consapevoli e in un certo senso bloccati dalla presenza costante delle telecamere, i Beatles non possono esimersi dal rivelarsi in un paio di occhi lucidi, un perfetto sguardo di intesa durante una canzone, la complicità nello scherzo. Parallelamente si svolge un estenuante lavoro di creazione musicale, un perenne brainstorming su come suonare e cosa scrivere, che fa eco alla ricerca di un finale per un film con le più svariate proposte di location adatte. È strano come le cose, che una volta concluse ci sembrano inevitabili nella loro forma, nascondano un lungo periodo di evoluzione attraverso più stati; Get Back sembra dire che a volte il tempo, come diceva Let It Be, sa dare le sue risposte. Il senso della storia che i Beatles stavano raccontando nel gennaio del 1969 è ora più chiaro: sappiamo che quelle canzoni comporranno l’ultimo album edito - anche se torneranno in studio per produrre Abbey Road – e sappiamo che la meta finale di quelle riprese non può che essere un tetto divenuto iconico per il concerto che si tenne sopra.  

D’altra parte parliamo del finale cinematografico perfetto. Il gruppo musicale più famoso del decennio che dopo tre anni di assenza dal palcoscenico sorprende una Londra infreddolita con il suono delle canzoni del suo nuovo album, l’arrivo dei poliziotti che in un teso montaggio alternato produce l’eccitazione di un possibile climax esplosivo, le persone in strada ferme con il naso all’insù: il flusso di coscienza delle riprese e le caotiche jam session musicali si concretizzano in una storia coerente, struggente ed emozionante che sembra acquistare senso solo decenni dopo la sua realizzazione. Ma in realtà, più che offrire completezza, Get Back aumenta il desiderio di tornare a immergersi nell’arte dei Beatles, perché questa riesce ancora ad apparire nuova come le immagini di un passato che continua suo malgrado a rivivere nel presente. 

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Peter Jackson John Lennon 468 minuti
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Being the Ricardos

di Alessio Baronci
Being the ricardos - recensione sorkin prime video

Mark Zuckerberg quella sera non poteva bere birra. Ne è convinto Aaron Sorkin, che spesso ricorda un vecchio litigio che ebbe con David Fincher ai tempi di The Social Network. Tutto parte dalla notte in cui Zuckerberg programma la versione embrionale di Facebook. È un momento centrale per comprendere l’approccio di Sorkin alla materia del racconto. Perché tutto ciò che sta accadendo in scena è vero, basato sugli stessi post del blog in cui Zuckerberg, quella notte, registrerà i suoi progressi, tutto tranne i dettagli legati alla sua ubriacatura. Perché Zuckerberg quella notte si sbronzò di birra, una bevanda, però, troppo ordinaria, poco “cinematografica”, così Sorkin gli fa bere un Martini. È solo una licenza poetica, certo, eppure quel Martini è anche un sintomo di un’ambiguità di fondo che modella l’immaginario di Sorkin fin dalle origini e che proprio Being The Ricardos, suo terzo film da regista oltreché da sceneggiatore, porta allo scoperto. In primo luogo perché questo strano meta-biopic politico, che racconta la settimana più difficile di Lucille Ball e Desi Amaz, le star dell’amatissima sitcom I Love Lucy, la cui vita apparentemente perfetta rischia di andare in mille pezzi quando Lucille viene sospettata di essere comunista, è il definitivo svelamento dell’utopia sorkiniana. In prospettiva, Sorkin è infatti un autore post-classico, tra Hawks e Capra, il cui mondo è però sempre più sull’orlo dell’abisso, artefatto, popolato da personaggi che parlano quasi senza pensare, troppo luminoso per risultare credibile. I suoi spazi, nel tempo sono stati in effetti percorsi da una sotterranea tensione distruttiva, quasi percepissero di essere fuori posto e volessero lasciar risaltare il loro debito con il Reale demistificando la loro natura profonda, da Studio 60, ambientato nel dietro le quinte di un programma che pare evidentemente il Saturday Night Live, arrivando fino alla sperimentazione di The Newsroom, in cui ogni episodio prende le mosse da un vero fatto di cronaca. Being The Ricardos non può dunque che proseguire a ragionare su questa frattura. Ma se fosse troppo tardi?

Basta il prologo a rendersi conto che, forse, la catastrofe è già in atto. Being The Ricardos si sviluppa infatti a partire dalla cornice offerta da un documentario sulla vita di Lucille e Desi. Ce lo conferma proprio la prima sequenza, in cui i due sceneggiatori della serie e il suo showrunner, ormai anziani, ricostruiscono quella settimana. Ma è tutto falso, i tre intervistati sono tre attori, malgrado i loro sottopancia provino a depistarci sulla loro identità. È così, con un’azione folle, incontrollata, che l’immaginario di Aaron Sorkin detona.
Being The Ricardos è senz’altro il film più teorico dello sceneggiatore americano, il quale, forse per la prima volta, si confronta con le strutture del suo sistema narrativo mentre vanno in mille pezzi, rimanendo ben saldo nell’occhio del ciclone. È un film paradossale, affascinante, centrato, nelle sue parentesi di maggiore non senso, in tutti quei momenti che lavorano sul cortocircuito tra realtà, verità e menzogna e organizza una sorta di variante ribelle del biopic, che piega il tempo, inventa da zero una settimana che i veri Lucille e Desi non hanno vissuto, per raccontare fatti distanti anni, racconta la gravidanza mediatica della protagonista, incinta nella vita ma anche nello show, ed esalta i tratti più artefatti dell’identità di Lucille.

sorkin ricardos

Being The Ricardos è forse l’unico biopic possibile nel cinema delle piattaforme ma soprattutto in un momento in cui il reale è sempre più inscindibile dal digitale, un film modellato dall’algoritmo, sostanziato da dati in movimento costante, in cui la verità non esiste e che esplode in vertiginosi momenti di autocoscienza, tra una Nicole Kidman mai così simile ad un deepfake di Lucille Ball, come è già stato scritto, e una protagonista che, a partire dalla lettura degli script degli episodi, letteralmente si “immerge” nel set della sitcom per modificarne ogni minimo dettaglio. Ragiona con straordinaria lucidità Sorkin, che si lega a ciò che Fincher (ancora lui…) compie con il suo Mank, altro film fondamentale che guardando al passato riflette, in parte, sulla crisi del biopic nello spazio digitale. Eppure tra le due opere intercorre una differenza fondamentale. Perché Fincher guarda un intero genere dall’esterno mentre Sorkin – che non ha un immaginario visivo solido, non ha un’idea di cinema da riconfigurare dopo la catastrofe e attraverso cui mediare il trauma, e ha piuttosto valori, idee, personaggi, parole, elementi immateriali, troppo labili, soprattutto troppo personali, per reggere un film di tale portata concettuale – è quasi annichilito, traumatizzato.

Forse è per questo che si chiude sempre più in sé stesso, e Being The Ricardos diventa un film a due velocità, tanto grintoso, avvincente, impietoso quando rimane negli spazi chiusi del set, quanto didascalico nel momento in cui sposta le sue riflessioni nel quotidiano di Lucille Ball e Desi Amaz. Ha paura di ciò che vede, Sorkin, della distruzione che lo circonda, e per questo, spesso, distoglie lo sguardo, perde il ritmo, cede alle sue stesse trappole, rimane sedotto dalla straordinaria presenza scenica di Javier Bardem o prova a utilizzare la “sua” Lucille Ball per parlare tanto di post-femminismo quanto della dignità dell’intrattenimento che nasce in tv. Sembrano riflessioni che vorrebbero espandere lo spettro del film oltre il suo centro, in realtà non sono altro che tentativi disperati di riemergere dall’abisso.

Ma il vuoto, alla fine ha la meglio ed è alla base di un epilogo straordinariamente maturo, “capriano” nella forma eppure sghembo, artefatto. Magari le immagini, alla fine, hanno preso il sopravvento, oppure Aaron Sorkin ha trovato la maturità per comprendere quanto l’unico modo per raccontare una storia vera, oggi, sia attraverso il filtro Brechtiano dello straniamento. Sollecitato dalla cornice offerta dal cinema delle piattaforme Sorkin si spoglia di tutte le sue sovrastrutture e guarda negli occhi il suo stesso immaginario. Manca il grande balzo, quello compiuto da Scott o da Spielberg, che l’avrebbe portato a guardare la fine del suo cinema senza averne paura, ma c’è un primo piccolo ma promettente passo, c’è il desiderio di mostrarsi senza difese, di movimentare, vivificare, un immaginario che finora è rimasto incastonato nell’ambra.

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Aaron Sorkin Nicole Kidman Javier Bardem J.K. Simmons Nina Arianda 131 minuti
USA 2021
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The Tragedy of Macbeth

di Arianna Pagliara
Macbeth recensione Point Blank

Nel Macbeth di Joel Coen - austero, essenziale, cupo e intimistico - Denzel Washington e Francis McDormand sono i due poli asimmetrici e asincroni della tragedia shakespeariana da sempre emblema della sete di potere e dell’ambizione incontrollata che degenerano in violenza e follia. Il regista, che qui lavora per la prima volta senza il fratello Ethan, trova la cifra stilistica di questa sua nuova, non facile prova in un minimalismo elegantissimo e tagliente che, tanto in senso estetico quanto sul piano narrativo, spoglia (l’immagine) e asciuga (i contenuti).

I protagonisti - volti notissimi eppure quasi inattesi entro i confini di questo specifico panorama “storico” e di genere - si fanno carico di un confronto estremo e doloroso sia reciproco che drammaticamente solipsistico: la mente si fa abisso di paranoia, angoscia e rimorso.
Attorno ai personaggi, vibra e respira una scenografia che non è sfondo ma quasi terzo elemento senziente, che risponde e reagisce alle interpretazioni intense e tesissime degli attori. Interamente ricostruito in studio, il set si presenta come un claustrofobico diorama che denuncia la propria finzionalità nell’astrazione e nella durezza delle geometrie pure, un incrocio tra l’architettura razionalista, le metafisiche costruzioni dechirichiane e un gotico spogliato della sovrabbondanza decorativa in nome di una severa linearità verticale, esasperata dal formato stretto in cui il film è girato (1.37:1, il “formato accademico” standardizzato negli anni ’30).
Per il trattamento della luce e per la fotografia in bianco e nero – ora contrastato e ora soffuso, e sfumato in una miriade di grigi – ma soprattutto per il rigore formale e la dimensione fortemente interiorizzata entro cui il dramma si sviluppa, si percepiscono certi echi di Dreyer e Bergman e certamente si legge, tra le righe, la presenza dell’antecedente ineludibile che è il Macbeth di Welles.

macbeth coen apple

Ma la forza del film sta nel saper porre in atto, con sapienza e originalità, uno slittamento espressivo che pone il fulcro del discorso in una relazione tra personaggio e ambiente. Con un’operazione raffinatissima – e se si vuole quasi ossimorica - la regia di Coen riesce a rimarcare la derivazione teatrale, che nelle scelte scenografiche viene apertamente omaggiata, attraverso scelte linguistiche che sono però precipuamente cinematografiche. La foresta di Birnam, attraverso una sineddoche visiva di grande effetto, diventa così un unico infinito corridoio di alberi, restituito con inquadrature che ne esaltano la fuga prospettica. Al di là della fascinazione visionaria, dello straniante (il pavimento della stanza che si fa improvvisamente abisso acquatico per accogliere le allucinazioni del protagonista), del perturbante (eccezionale l’apertura sulla liquida “danza” della strega - Kathryn Hunter - nel paesaggio brumoso), la costruzione dello spazio si fa essenzialmente traduzione visiva dell’impossibilità di liberazione e salvezza che segnano il protagonista, determinandone la caduta rovinosa. Il vuoto opprimente delle stanze, i corridoi labirintici, le teorie infinite e disorientanti di archi dove gioca la luce radente e, soprattutto, il luogo dove si svolge il duello finale tra Macbeth e Macduff: un camminamento stretto tra spesse pareti di pietra che pare sospeso sulla nebbia, dal quale la fuga è impensabile. Perfino le (rare) aperture sugli esterni si allineano a questo stato di cose: lande caliginose e fosche, senza profondità, dove pare di sentire la pesantezza del cielo.
È anche il suono a enfatizzare e rendere palpabile il senso di soffocamento e inquietudine che permea il racconto. Un’eco di passi, una goccia che cade, una mano che bussa alla porta: ogni rumore, qui, è il rumore del rimorso.

Opera controllatissima, densa di richiami, fascinosa e a tratti ipnotica, innovativa nella modalità di rapportarsi all’originale e tuttavia fedele al senso profondo della tragedia di Shakesperare, The Tragedy of Macbeth è però anche un film, in un certo senso, coeniano: perché racconta uno scacco, un confronto spietato con un destino che si mostra allettante (nella profezia della strega) per rivelarsi invece, infine, beffardo e inappellabile.

 

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Joel Coen Denzel Washington, Frances McDormand, Alex Hassell, Bertie Carvel, Brendan Gleeson, Corey Hawkins, Harry Melling, Kathryn Hunter 105 minuti
Usa, 2021
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