All Hands on Deck

di Domenico Saracino
 A l'abordage - recensione film Guillame Brac

C’è, in All Hands on Deck (À l’abordage), ultimo lungometraggio di Guillame Brac (presentato nella sezione Panorama della Berlinale 2020 e mai uscito nelle sale italiane, ma recentemente disponibile su MUBI per un certo periodo), tutto un condensato, il sedimento stesso, del suo cinema. Una sorta di cremore depositato sul fondo dei suoi metabolismi (d’uomo e d’artista) che come in un bâtonnage risale in sospensione, s’agita e si rimescola con la sostanza più liquida, mutevole, delle sue creazioni. Facendo in modo che il carattere intrinseco del suo pensiero per immagini persista, affinandosi, di film in film. La vacanza intesa come spazio di liberazione del desiderio, ad esempio; l’estate come quintessenza del debordare, della vitalità che può finalmente straripare fuori dagli argini dei giorni contenuti, trattenuti, del tempo feriale, dell’ordinario; i giovani come unici possibili portatori di questa ebrezza, di questa febbre di vita; la dimensione dell’incontro tra persone e mondi, in cui si materializza la fugacità ma al tempo stesso l’incanto dello stare assieme. E poi, ancora, gli aspetti metodologici, produttivi, le scelte riguardanti il processo di lavoro, che determinano, inevitabilmente, la natura stessa, l’anima del film: i budget risicatissimi, la scrittura calibrata sugli attori, la predilezione per interpreti ignoti al grande pubblico, presi direttamente dalle classi del Conversatoire national supérieur d'art dramatique (CNSAD), e di non professionisti, il ricorso all’improvvisazione, la mescolanza tra elementi fiction e non fiction.

In tal senso tutti i lungometraggi e i corti precedenti, da Le Naufragè a Un monde sans femmes, da Tonnerre a Contes de juillet, fino a L'Île au trésor potrebbero essere visti come propedeutici all’ultimo lavoro di Brac, À l’abordage. Ciascuno di essi nasceva dalla volontà di filmare dei giovani attori provenienti dal Conservatoire (in particolare Vincent Macaigne, Julien Lucas e Laure Calamy) e traeva spunti narrativi e stilistici direttamente dalle loro esperienze di vita, dai loro ricordi e confessioni, collezionati dal regista con appositi incontri durante la fase letteraria del film, in un processo di scrittura aperto e osmotico, che si lascia permeare e fecondare dalla realtà. E che porta tutto il cinema di Brac a snodarsi con un certo fascinoso equilibrio fra invenzione e realmente accaduto, immaginazione e osservazione, preordinato ed estemporaneo; peculiarità che conferiscono ai suoi racconti un’estrema vitalità e immediatezza senza per questo pregiudicare la validità e la tenuta dell’ossatura, della struttura di base, su cui il regista innesta le gemme che prende dal reale, dalla viva voce di quei giovani che poi si ritrovano dentro il film.

Da questo punto di vista è interessante constatare come le recenti politiche di selezione dei propri allievi da parte del CNSAD – con cui Brac ha sempre collaborato e che gli aveva richiesto di scrivere un lungometraggio appositamente per la classe 2020 (che poi sarebbe diventato, appunto, À l’abordage) –, maggiormente improntate a riflettere l’eterogeneità etnica, sociale, sessuale e culturale della Francia contemporanea, si siano tradotte nella possibilità di riflettere in modo ancora più fecondo sul tema dell’incontro, tanto caro al regista francese. I due protagonisti, Félix e Chérif (interpretati da Eric Nantchouang e Salif Cissé), non appartengono alla borghesia bianca che può solitamente permettersi vacanze e ferie: sono giovani studenti-lavoratori di colore e la loro presenza non può che essere pregna di significato. Entrambi devono ricorrere a compromessi e stratagemmi, alcuni spassosi, altri molto più amari, anche solo per passare qualche giorno di libertà lontano dalle sbarre di una quotidianità fatta di lavori malpagati e futuro incerto. A differenza di Alma e di Édouard, bianchi e figli di una classe sociale certamente più privilegiata.

Così come L’Île de loisirs di Cergy-Pointoise in cui era ambientato il precedente L'Île au trésor veniva raccontata come luogo di mescolanze, di pluralismo di sguardi, di corpi e relazioni, così il campeggio del Sud della Francia in cui si svolge la storia di À l’abordage diventa uno spazio di convergenza e divergenza, di incontro-scontro tra giovani che appartengono alla stessa generazione ma a contesti anche molto diversi tra loro. Una ricchezza che Guillaume Brac continua a filmare con grande intelligenza e partecipazione, senza enfasi alcuna e senza fredde distanze, preservando, anche da un punto di vista fotografico e nella direzione attoriale, l’intensità semplice ma toccante dello stare al mondo. 

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Guillaume Brac Salif Cissé Asma Messaoudene Benjamin Natchouang 95 minuti
Francia 2019
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Nightmare Alley - La fiera delle illusioni

di Riccardo Bellini
nightmare alley - recensione film del toro

Al di là di un mero giudizio di valore, Nightmare Alley La fiera delle illusioni riesce a essere un atto di rottura nella filmografia di Guillermo Del Toro e al contempo la riconferma di una precisa idea di cinema. Difficile parlarne da un lato senza considerare il remake del 1947 di Edmund Goulding e dall’altro senza inquadrare il film nel percorso artistico del regista messicano. Un gesto radicale nel cambio di tono e soprattutto di sguardo sulle coordinate tracciate dall’autore che pur coincide, meno esplicitamente e nell’insieme, con una rinnovata adesione a un chiaro orizzonte di riferimento.  

Se La forma dell’acqua è il film della consacrazione di un regista che non ha mai nascosto la sua anima popolare, La fiera delle illusioni è la tappa successiva di un autore ormai nell’Olimpo del sistema hollywoodiano. Eppure, i due titoli paiono guardarsi come l’immagine rovesciata l’una dell’altra. Una volta tanto, il didascalismo del titolo italiano illumina la questione fondamentale. Perché il cinema di Del Toro, un cinema dove citazionismo e metalinguismo si piegano, tra disimpegno e tensione politica, a uno sguardo che sa anche farsi sociale e fuggire la bolla del postmodernismo, è un cinema in cui l’illusione e l’artificio artistico sono da sempre, più che occasione di fuga dall’orrore del mondo, spesso impotente antidoto ai suoi veleni, e dunque chiave per leggerne meglio le ombre secondo traiettorie classicistiche. La forma dell’acqua portava al massimo – per sfoggio produttivo e limpidezza linguistica – la poetica dell’artificio artistico come forza benefica, anche se non salvifica, contro le barbarie dell’uomo, in un momento in cui casualmente, all’epoca del caso Weinstein, proprio la macchina hollywoodiana era bisognosa di ripulire la propria immagine senza ignorare le istanze sociali al di là di essa. All’epoca, Del Toro aveva consegnato all’Accademy il film giusto, attingendo a uno dei mostri più celebri di casa Universal (Il mostro della laguna nera) e al più artificioso e americano dei generi, il musical.

Ne La fiera delle illusioni invece l’artificio spiana la strada verso la dannazione, l’illusione assume i connotati dell’inganno, con tanto di biblici rimandi e dantesco contrappasso finale. Nella discesa infernale del truffatore Stan (Bradley Cooper), l’illusionista è tanto più riuscita quanto più capace di fare leva sui sentimenti delle persone per pilotarli. Stan è la rappresentazione moraleggiante di un cinema, e più in generale di un intrattenimento, svuotato di ogni sincera affezione, un cinema preveggente più che veggente perché già informato sui drammi e sui fantasmi dei malcapitati «gonzi» da spennare, così da poterne indirizzare le richieste fornendo risposte e stimoli preconfezionati ad hoc, apparentemente specifici e puntuali ma in realtà, come chiosa il mentalista Pete (David Strathairn), «validi per chiunque». Una logica non dissimile da quella dei modelli di mercato che sotto l’egida dell’intrattenimento on demand, della personalizzazione dell’intrattenimento, indirizzano la domanda, in un generale appiattimento del desiderio. Se il bersaglio morale di Del Toro è ancora la mostruosità umana, per la prima volta in Del Toro la luce, plumbea e sinistra, viene puntata sui lati oscuri dell’audiovisivo di ieri e soprattutto di oggi. Così, più che tenersi a distanza dall’immaginario del regista, il film ne scoperchia e disinnesca i trucchi da prestigiatore. È un percorso che ha il suo culmine nell’unica scena, una delle più riuscite, in cui non a caso Del Toro sembra tornare a essere Del Toro, recuperando per un attimo le atmosfere dark gotiche di molto suo cinema di cui rimangono però solo i trucchi del mestiere, con tanto di sangue finto bene in mostra, in una messa in scena afflosciata su sé stessa e trasformata in farsa impietosa.

Nightmare Alley è un film livido, il più spietato della filmografia di Del Toro. Una giostra a centrifuga chiusa su tutti i lati. Un noir le cui uniche luci sono i bagliori del circo e dei saloni dell’alta società che anziché rischiarare abbacinano e confondono. Così, recuperando il romanzo di William Lindsay Gresham, il regista messicano fa giustizia anche del film di Goulding, riproponendo il tragico finale scritto in origine ma modificato in un posticcio happy ending dalla Fox nel 1947. Lontano dalle fantasmagorie del suo regista, Nightmare Alley si mantiene fedele, – forse troppo –, al romanzo e al primo adattamento cinematografico, fatta eccezione per la scelta di dare un passato al protagonista, sviluppando un conflittuale rapporto paterno a cui però la sceneggiatura non riesce a dare spessore. Recuperata nella sua interezza la materia narrativa dell’originale, Del Toro vi costruisce sopra un’impalcatura estetica lussuosa, imbelletta e rifinisce tramite un comparto tecnico che se da un lato non ha ingenti effetti speciali da esibire dall’altro non lesina sullo sfarzo. Così, il film ripropone in un certo senso quegli stessi meccanismi che denuncia, assomigliando a una giostra di luci (elettriche e bellissime) e fuochi fatui sotto cui si rivela, al termine degli eccessivi 150 minuti di durata, una parabola morale e moralista che non sempre trova la forza di incidere a fondo e non aggiunge molto all’originale.

Lo sguardo di Del Toro è qui più che mai severo, serioso addirittura, ma non per questo meno incline a credere a quel mondo popolare e ai miti che Nightmare Alley sembrerebbe demistificare. Perché la percezione a visione conclusa è che anche la caduta del velo di maya faccia comunque parte del gioco di chi ha ancora bisogno di credere nei fantasmi.

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Guillermo del Toro Bradley Cooper Cate Blanchett Rooney Mara Willem Dafoe Toni Collette Richard Jenkins Ron Pearlman 150 minuti
USA, Messico, 2021
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Dal pianeta degli umani

di Arianna Pagliara
Dal pianeta degli umani, recensione Point Blank

Il cinema di Giovanni Cioni è un cinema di sogno. Non metaforicamente, perché evoca l’irraggiungibile, ma in senso più letterale: perché affastella, incrocia e sovrappone immaginari e sensazioni, perché trova nessi e consonanze segrete nel casuale e nell’incongruente, perché attraverso una selva di segni, suggestioni e tracce ci guida sempre, immancabilmente, verso la realtà, spesso cruda e dolorosa da metabolizzare. Come certi sogni, è un cinema sfaldato e dolce, misterioso, abitato a volte da fantasmi, difficile da “catturare” eppure così pervasivo e insistente nel suo imprimersi nella mente di chi, affascinato, lo osserva.

Dal pianeta degli umani – presentato a Locarno, premiato al Festival dei Popoli e al Trieste Film Festival – è un’indagine poetica sul nostro rapporto con la morte, sul nostro bisogno ossessivo di negarla ma anche sulla nostra inammissibile capacità di ignorarla quando riguarda l’altro – l’altro che viene da oltre il confine, l’altro che non parla la nostra lingua, l’altro che nel nostro orizzonte non esiste mai davvero (e quindi è già morto?).
Cioni, come altre volte nel suo percorso cinematografico, muove e fonda la sua riflessione a partire da un luogo chiave, luogo che stavolta condensa utopie smisurate, speranza e tragedia: la frontiera italo-francese tra Ventimiglia e Mentone. Qui, tra le rocce, nella foresta a picco sul mare, ci sono Il sentiero della morte e quello del paradiso, percorsi dai migranti che alle spalle si sono lasciati stracci, bottiglie di plastica, miraggi e illusioni, e hanno varcato (non tutti) il confine spinti dall’onda potente della disperazione. Prima di loro, ci dice la voce narrante del regista (quasi una nenia, un sottofondo sonoro che ci accompagna in questa indagine visionaria ) proprio qui sono passati ebrei in fuga dal regime: ieri, oggi, ora e sempre, il tempo si ingarbuglia, si ripete, si sospende, si disgrega.

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Ancora qui, su questo tratto di costa pietrosa, si infrange però anche un altro sogno inesauribile: la chimera dell’eterna giovinezza nelle ricerche (folli?) di Serge Voronoff, scienziato che negli anni ‘20 allevava scimmie – lo testimoniano ancora le gabbie in bella vista sulle rocce – per trapiantarne le gonadi sugli esseri umani, per restituire loro forza e vigore perduti. Vivere, sopravvivere, vivere ancora, vivere più a lungo: nell’apparente distanza – di contesto, orizzonte, filosofia – due desideri diversi si compenetrano e si richiamano.
Il Castello Voronoff, con i suoi giardini affacciati sull’azzurro del mare, accoglie ora i passi e lo sguardo del regista che, quasi come ne Le mille e una notte, inanella una fiaba dentro l’altra, un film dentro l’altro (King Kong, Cabiria), una realtà dentro l’altra - i migranti del presente e i bagnanti del passato, nelle immagini d’archivio sfarfallanti e soleggiate di un lungomare favoloso e perduto. Anche il Fascismo, dopotutto, non è altro che fiaba, perché è una fiaba quella che racconta: “il crimine e la misera sono aboliti, la donna è abolita (…), il reale è abolito”. Del resto, il Mussolini accigliato che ci parla da un filmato virato in seppia, nell’assurdità violenta e cieca del suo progetto megalomane, è forse più credibile del Dottor Voronoff? Ma la storia ingurgita tutto e Voronoff – ebreo – fuggirà in Svizzera; i suoi fratelli verranno deportati ad Auschwitz e la splendida villa sarà confiscata. La giovinezza senza fine, il colonialismo, sono ora frammenti di immagini di fantasticherie vanagloriose, che si sgretolano in fretta e rovinosamente.

Nei luoghi, nei suoni, nel silenzio, nella luce, nelle immagini che citano altre immagini il regista trova un filo rosso che segue, incuriosito, in un personalissimo diario che è seduzione visiva e parola recitata in un sussurro. In questo film meravigliosamente anarchico, dove anche le rane parlano, Cioni si muove magicamente dentro e fuori il reale sovrapponendo il proprio sguardo, a tratti, a quello di un alieno dell’era post-umana e ci mostra che questo pianeta è abitato da una specie forse crudele ma in ultimo fragilissima, condannata al sogno e al desiderio, e soprattutto destinata a restare imprigionata per sempre nello scarto incolmabile tra utopia e realtà.

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Giovanni Cioni 83 minuti
Italia, 2021
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July Tales

di Leonardo Strano
July Tales recensione film brac

In July Tales (Contes de Juillet) il riferimento guida per le immagini del regista francese Guillaume Brac sembra essere Rohmer. In realtà, a sorpresa, si tratta di Jean Renoir, il Renoir en plain air di Partie de campagne, della brezza sul volto, dalla luce frastagliata dai rami, del dolce appoggiarsi di una barca sul bordo di un laghetto in piena estate. In una scena della prima parte infatti - il film è diviso in due, in un gioco di dentro e fuori dalla realtà urbana, prima incentrato sul fuori di un’escursione acquatica in un parco e poi sul dentro degli interni di una residenza studentesca - Brac richiama “la scampagnata” quasi sequenza per sequenza: durante la loro gita domenicale Milena e Lucie, due colleghe di lavoro, incontrano Jean, membro della sicurezza del parco, che presto tenta di sedurre Milena portandola in canoa nella parte più romantica di un laghetto. Il tentativo sarà sconveniente, fallimentare e poi anche comicamente triste. Da quel film incompiuto Brac riprende in primis il modo di raccontare due diversi incontri amorosi (perché anche Lucie, apparentemente abbandonata, incontra qualcuno) in un montaggio alternato che porta a un ribaltamento di sorte inatteso; poi la famosa scena del bacio in cui il turbamento emotivo degli amanti si fa turbamento ambientale, specchio d’acqua, vento agitato; ma riprende soprattutto, al di là della dolcezza del tocco di Renoir - mai monocorde, sempre dialettico nella danza tra comico e malinconico –, l’idea presente in quella sequenza di raccordare in un tuttotondo atmosferico il sentimento umano e la vita della natura, e così di interpretare il dramma su una scala più grande di quella che apparentemente pertiene alla persona.

Nell’economia narrativa del primo racconto, intitolato L’ami du dimanche, questo passaggio citazionista – aggiornato con lucidità alle dinamiche del consenso - cambia la posta in gioco e trasforma quello che sembrava una semplice storia di amicizia, delicata ma un po’ anonima, in una più sottile disamina del rapporto tra mondo e individuo: situando l’emozione del singolo sul metro della natura, Brac legittima di colpo la vicenda personale delle protagoniste come questione esistenziale e sociale; esistenziale in quanto legata a una certa universalità degli affetti – cercati, provati, subiti all’interno di un più generale patetismo di cui il mondo partecipa facendosi specchio emotivo –, sociale in quanto caratterizzata come momento di una peculiare condizione antropologica. Non è un caso che la storia delle due amiche si apra su una scena di sfogo in orario di lavoro, che prosegua come parentesi sospesa e isolata dalla linearità delle abitudini quotidiane (in una domenica di girotondi senza tempo intorno a un lago) e che si concluda con un ritorno a quella linearità (il ritorno, come l’andata, avviene in treno, per linea retta e brusca). Scrivendo in sceneggiatura e montaggio la scampagnata come una deviazione isolata, una improvvisa depressione del territorio, Brac la sostanzia come momento di approfondimento delle relazioni umane, occasione di scoperta del sé e dell’altro, ma solo in quanto evasione dalla realtà sociale del lavoro: evasione ovviamente tanto salutare quanto fugace e impercettibile, resa per ellissi sospese continuamente sfaldate dal peso dell’aria litigiosa che dice di un conflitto psicosociale, di uno stress condiviso da tutti.

Non è secondaria nel film questa sensazione generazionale (al regista interessano le generazioni giovani, appena entrate nel mondo del lavoro – e questo film è stato fatto con gli studenti dell’Accademia nazionale di arte drammaticadi un inconfessato, e quindi mal elaborato, stress psicologico che è motore di malessere e cattivi comportamenti, ma anche di fraintendimenti senza colpa e rimorsi senza possibilità di sollievo. Il secondo capitolo, Hanne et la fête nationale, lo illustra sempre sulla stessa scala ingrandita del sociale e del sentimentale, ritardando però il momento di congiunzione dei due poli al finale. Secondo la consueta struttura circolare e a dislivello (inizio e fine a grandi linee coincidono ma tutto nel mezzo ha prodotto uno sfalsamento decisivo) l’episodio si apre e si chiude su una situazione sociale – la festa nazionale francese del 14 luglio – ma si sviluppa intorno alla girandola emotiva tutta privata di Hanne, studentessa norvegese in difficoltà emotiva di fronte alle avance più o meno scorrette di due ragazzi, Andrea e Roman, e alla presenza di un terzo, Sipan. È in questo privato, chiuso nelle mura di una casa per studenti semi deserta che è specchio ribaltato del lago del primo capitolo, che l’inespresso malessere generazionale provocato dalle incertezze di un mondo globalizzato e multiculturale, ma anche diviso in nazionalismi e individualismi passivo-aggressivi (la festa si apre sul boato degli elicotteri militari e con un pedinamento), cerca di sfogarsi attraverso le vie del desiderio.

Un desiderio che da ragione privata si svela presto dinamica esistenziale di sbadata ricerca di conforto nell’altro, e scopre la sua umana megalomania solo di fronte all’improvviso confronto con la tragedia: quella che colpì davvero Nizza alla festa nazionale nel 2016. Il finale del film, in cui con evidente astrazione si sovrappone alla solitaria esplosione emotiva di Hanne il report delle vittime, non è una sparata di pornografia del dolore ma esempio di quel lucido tuttotondo di cui sopra, per cui il destino sentimentale del singolo è rappresentato in occasione della sua esistenza nel mondo. Dopo questa improvvisa vertigine Brac chiude Contes de Juillet con un contro finale disperato e tenero, fatto della consapevolezza dei propri sbagli, con cui aggiusta con grazia e decisione qualsiasi interpretazione pressapochista del suo cinema. Le sue sono immagini solo apparentemente superficiali, in grado di sostenere invece il confronto con il dolore e la morte per cogliere la sensibilizzazione, il farsi corpo vivo di una situazione sociale del mondo; i suoi film fatti di “vedute emozionate” catturano di soppiatto, senza morbosità o strategie voyeuristiche, frammenti che la realtà sottovaluta ma in cui non fa fatica a riconoscersi. 

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Guillaume Brac Milena Csergo Lucie Grunstein Jean Joudé Théo Chedeville 68 minuti
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Un monde sans femmes (A World Without Women)

di Federico Pedroni
Un monde sans femmes - recensione film Brac

Costa della Piccardia, cittadina di Ault. In un’estate sonnolenta si affacciano sulla costa della Manica Patricia (Laure Calamy, in perenne movimento) e sua figlia Juliette (Constance Rousseau, seduttiva senza infingimenti loliteschi): fin troppo estroversa la prima, fin troppo seriosa la seconda. Il primo contatto sul posto è Sylvain (Vincent Macaigne, capace di essere gigione senza fare di sé stesso una caricatura), un timido corpulento di fragilità infinita e sconnessa che gestisce la pensione locale. Una sformata elettricità anima il trio, che racconta di un uomo dalle placide emozioni sconvolto da un lampo di vita. Questa relazione, che assomiglia a un triangolo isoscele, porta i personaggi ad annusarsi e conoscersi, finendo per incartarsi in una ronde emotiva le cui regole del gioco sono segnate dall’intraprendenza naturale, quasi immateriale delle due donne.

Un monde sans femmes è infatti il racconto di una – o più – esplosioni: la sola presenza di Patricia e Juliette terremota le certezze ataviche di un luogo privo di presente, prima ancora che di futuro. Qualsiasi cosa accada infatti, i personaggi di Ault sono destinati a una perenne marginalità sentimentale, incapaci di affrontare i moti del cuore come di prendere in mano le redini della propria vita. Guillaume Brac testimonia qui per la prima volta, in modo compiuto, la sua predilezione per le languide atmosfere estive, dove le azioni dei protagonisti sembrano liquefarsi in una perenne stasi. Un monde sans femmes racconta in fondo la scelta di un nuovo campo di battaglia per due donne emancipate in naturale conflitto, con sullo sfondo un movimento entropico degli abitanti del villaggio, incapaci e inadatti a qualsiasi cambiamento. Gli uomini del posto, protagonisti o meno, vengono ridotti a un coro di rimbalzo, a figure immerse in un paesaggio immutabile, vivificato all’improvviso da una nuova e imprevista emotività. Sylvain fa a botte con un poliziotto locale, a causa della sua gelosia improvvisamente incontrollabile. Sogni di avventure estive si affacciano nelle menti dei “dragatori” di turiste, incapaci di distinguere un sogno da seduttori da una realtà sempre uguale; vecchie di paese ricordano le loro avventure piccole con il fascino delle chansons de geste: tutto è perché nulla accade.

Non è casualmente che le inquadrature di Brac – quadri semi immoti in cui ogni movimento appare come una frattura – si animino solo in presenza delle due protagoniste. Perché, andando avanti in una storia che consapevolmente appare come circolare, come una vite che piano piano trova il suo posto nel legno, si intuisce con chiarezza che l’unica spinta propulsiva – certo, principalmente verso un conflitto, qualsiasi conflitto – è portata da Patricia e Juliette. Ogni frustrazione e difficoltà è messa in superficie, come si portano in superficie le vongole che Sylvain, in uno dei rari momenti di sicurezza di sé, insegna loro a pescare. La trama è, in fondo, un piccolo cortocircuito, un momento in cui Patricia e Juliette lasciano spazio ai loro goffi corteggiatori, pieni di storie e ricordi che non sono neanche i loro. Il “mondo senza donne” – e quindi, senza vita – è quello che trovano e lasciano le due protagoniste, con tutti i dubbi e le confusioni che incarnano, ma sempre piene di una vitalità che sembra aliena, per quanto necessaria. L’ultima inquadratura del film, di rohmeriana e cristallina limpidezza, mostra madre e figlia finalmente – per ora – pacificate: felici di aver trovato il disinnesco della loro bomba personale e coscienti del ruolo che, naturalmente, sono state in grado di ricoprire. La vita, si sa, è altrove e ogni movimento dell’anima porta con sé qualcosa di sacro e benedetto.
Nel 2011 Brac già conosceva il potere dei sentimenti e si dimostrava capace di metterlo in scena senza orpelli, senza accelerazioni, senza enfasi retoriche. Un monde sans femme, in fondo, ci prepara “all’abbordaggio” emotivo più eclatante e ostentatamente romantico dell’ultimo, splendido film di un autore ancora tutto da studiare.

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Guillaume Brac Vincent Macaigne Laure Calamy Constance Rousseau Laurent Papot 55 minuti
Francia 2011
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Le repos des braves

di Mattia Caruso
Le repos des braves - recensione film Brac

Heureux qui comme Ulysse / A fait un beau voyage / Heureux qui comme Ulysse / A vu cent paysages / Et puis a retrouvé / Après maintes traversées / Le pays des vertes allées”. Risuonano quasi come una sinossi tardiva le parole di Brassens alla fine del breve documentario di Guillaume Brac e Nicolas Anthomé, Le repos des braves. Non la cronaca di un'impresa – quella di un gruppo di ciclisti amatoriali che, ogni anno, attraversa le Alpi da Nord a Sud – ma la fine di un viaggio da esaltare assieme ai ricordi del passato. Nelle ventiquattro ore in cui i suoi pallidi e attempati eroi in costume si godono il meritato riposo sulle spiagge della Costa Azzurra, Brac, appassionato di ciclismo (e ciclista era anche il protagonista del suo primo corto), si pone infatti in ascolto, registrandone le confidenze, i ricordi, le storie di una passione inesauribile che è anche, e soprattutto, rifugio esistenziale.

È un tempo sospeso, lontano dal quotidiano, in fondo, quello di Le repos des braves. Non dissimile in questo dalle altre estati francesi che popolano la filmografia del regista. Un tempo fatto di incontri e di fugaci stati di grazia, dove il futuro sembra infinito e pieno di promesse. Eppure, questa volta, nel cinema di Brac, nella forma del racconto corale e negli inserti di repertorio che affiancano le sue immancabili immagini balneari, trova spazio anche qualcosa di diverso. È il peso del passato a condizionare qui storie e vite, obbligando i soggetti a fare i conti, mentre le immagini delle loro imprese scorrono sullo sfondo, col rapporto sempre più sbilanciato tra ricordi e aspettative. È in questo scarto temporale, in questo spazio dove le promesse del futuro sono più incerte, che prende così vita forse il film più malinconico del regista.

Confrontandosi per la prima volta con la terza età, Brac stempera la frenesia illusoria del qui e ora in cui di solito sono immersi i protagonisti dei suoi film per seguire, con altrettanta empatia, la piccola odissea (e un canto di gesta, Le repos des braves, lo è in tutto e per tutto) di questi uomini schiacciati dal tempo ma sempre tenacemente alla ricerca, come i loro colleghi più giovani, di quell'attimo che duri per sempre.
Dopo aver dato voce a introversi ed emarginati vari, questo cinema si arricchisce così di una nuova categoria di perdenti. Un'umanità in fuga che il regista risarcisce con un ritratto corale colmo d'affetto e partecipazione. L'ennesimo inno all'“infanzia eterna” (così sarà chiamata nel successivo documentario, L'ile au trésor) di un cineasta che continua, assieme ai suoi personaggi, a credere nell'importanza del cuore e di ogni suo battito.

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Guillaume Brac Nicolas Anthomé 37 minuti
Francia 2016
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Kimi

di Matteo Berardini
Kimi - recensione film soderbergh

Che fare, oggi, della memoria? Nel pieno della Franchise Age, dove nostalgia, anagrafica e cinefilia sono i fattori, reificati, di un riuso datificato e on demand delle immagini e degli sguardi, e il passato non è altro che lo spunto per una nuova serializzazione brandizzata, non è più sufficiente il ricordo, l’omaggio, la relazione affettiva tra l’immagine di ieri e quella di oggi, per un rapporto denso col mondo. A meno che non si voglia vendere mera malinconia in stock 2.0, un semplice ponte tra passato e presente adesso non è più percorribile, perché è proprio con la mercificazione seriale della memoria che il cinema del Duemila – non più occhio del secolo – sta contrattaccando alla quotidiana frammentazione dell’immagine esercitata da schermi personali, dispositivi multimediali e reels di social network. Il ricordo fine a sé stesso è affare di catena di montaggio.
Lo sa bene Spielberg, il cui magnifico West Side Story è tutt’altro che un remake nostalgico del cult di Robert Wise bensì un film che cerca incessantemente un dialogo tra l’immaginario classico e il contemporaneo, contaminando generi, riferimenti, età diverse dell’immagine; lo sa bene Steven Soderbergh, che attraverso il suo accordo triennale con HBO Max ha firmato l’anno scorso uno dei film che meglio rappresentano questa necessità di crasi, di non sovrapposizione e semplice contatto ma tensione, contrasto tra passato e presente, come antidoto alla brandizzazione della memoria. No Sudden Move è un revival noir unico nel suo genere, fedelissimo per scenografia, costumi e passo narrativo al tardo gangster movie anni Cinquanta, eppure capace di frantumare il calco filologico con un linguaggio ultra-espressivo e strettamente contemporaneo fatto di grandangoli deformanti, punti macchina “sorveglianti” e lente panoramiche da occhio elettronico che rilanciano la percezione fatale e claustrofobica tipica del noir aggiornandone all’oggi la forma e il senso. In vesti diverse ma con la stessa intenzione arriva adesso Kimi, un thriller hi-tech impeccabile nei meccanismi di genere che mescola capitalismo della sorveglianza, paranoia movie e lockdown interiorizzato assorbendo passate forme cinematografiche in dialogo costante col presente.

la conversazione coppola

Dentro Kimi è facile trovare tracce di Hitchcock, Coppola, Pakula, De Palma, ma Soderbergh, dovrebbe essersi capito, è un regista che di nostalgia e cinefilia fini a sé stesse non sa che farsene; il suo è un cinema intimamente insurrezionalista, teso oltre l’orizzonte conosciuto verso altri modi di vedere. Anche quando la base di partenza è una tradizione cinematografica solida come quella fornita dal cinema paranoico anni Settanta e dai film che, più in generale, riflettono sull’uso dei dispositivi tecnologici per l’osservazione, registrazione e comprensione del reale. Il cinema del passato per Soderbergh, che sia citazione o semplice eco, deve entrare in contrasto con l’oggi e offrire nuovi strumenti gnoseologici o interpretativi; solo così La finestra sul cortile diventa un testo con cui confrontarsi attivamente nell’indagine iconica del presente, e non il film da applicare in modo automatico all’isolamento domestico dettato dall’era pandemica; solo così quei processi di alienazione e ossessione tecnologica messi in scena da La conversazione, Perché un assassinio e Blow Out diventano referenti attivi di un discorso cinematografico che non si limita ad aggiornare gli stilemi della paranoia alla società del controllo (Deleuze) ma che attraverso contrasti e assonanze tra le immagini guarda oltre, alle forme discorsive e sorveglianti esercitate dal reale post COVID-19. Del resto Soderbergh il suo film sulla pandemia lo ha già girato, è Contagion e sono passati dieci anni da allora, non ha senso ritornare sul tema in termini di emergenza; piuttosto Kimi è un ritratto della COVID-era come stasi e genesi di nuovi comportamenti. Lo scopo qui è quello di inquadrare le nuove cicatrici, gli strascichi dei Lockdown, le fobie interiorizzate e i nuovi territori agentivi del capitalismo informatico, datificato e digitale, le nuove pretese e ricadute sui corpi e gli sguardi, ben sapendo che la pandemia è stata un acceleratore qualitativo di molti processi della contemporaneità. Per questo in Kimi cinefilia e rispetto certosino per le regole di genere (scrive un redivivo David Koepp) creano un terreno in cui collimano smart speaker e voice stream interpreters, agorafobia e voyerismo, chiamate FaceTime e sedute di psicanalisi digitale, benzodiazepine accanto allo svuotatasche dell’ingresso e accordi coi vicini per il troppo rumore diurno, tra echi di Me Too, strategie di colpevolizzazione della vittima, call in mise camicia&pigiama, e hacker sovietici che lavorano in smart working accanto alle madri che fanno l’uncinetto in salone.

Il cinema hollywoodiano sta esercitando una timidezza estrema nei confronti dell’immaginario generato dalla COVID-19, specie nei termini delle nuove forme di normalità. Se la serialità broadcast è il terreno in cui è iniziata l’elaborazione visiva e tematica della pandemia in termini emergenziali (da Grey’s Anatomy a NCIS, molte serie medical e crime sono state i primi contesti a rappresentare in maniera sistematica gel, mascherine, contagi e distanze sociali), Kimi è il primo passo verso un cinema che ha finalmente il coraggio di affrontare la pandemia in termini storici e generativi. Segnatevi questo momento, Soderbergh ha di nuovo scritto un pezzetto di storia del cinema.

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Steven Soderbergh Zoe Kravitz Byron Bowers Devin Ratray Derek DelGaudio 89 minuti
USA 2022
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Il profumo magico di Guillaume Brac

di Emanuele Di Nicola
Guillaume Brac

Non ci giriamo intorno: Guillaume Brac è la più grande novità cinematografica della Francia di oggi. E quindi, per metonimia, del cinema del nostro tempo. Parigino, 45 anni, a partire dal 2011 autore di quattro lungometraggi e tre corti o medi, inizia ad essere seriamente apprezzato in patria: in Italia nessun titolo è uscito in sala e viene scoperto grazie alla piattaforma MUBI.

«Tutti i miei film parlano dell’incontro tra persone e mondi - premette -, un incontro spesso fugace e contrastato ma con momenti di grazia». Ed è proprio così: il primo cortometraggio Le naufragé (2009) è la storia di Luc, giovane ciclista che si ferma per caso in un piccolo villaggio della Piccardia, dove conosce Sylvain, interpretato da Vincent Macaigne, per dare vita a un “breve incontro”. I temi prediletti sono in filigrana ma esplodono nel primo grande film, Un monde sans femmes del 2011: il regista assolda sempre Macaigne, sempre in Piccardia e lo chiama sempre Sylvain, forse è lo stesso personaggio. Nell’arco di 55 minuti l’autoctono Sylvain conosce due donne, una madre e una figlia in vacanza, le frequenta ma c’è un problema: Macaigne è il volto più malinconico del cinema francese, è il corpo più pesante che inscena un perenne “vorrei ma non posso”, un desiderio continuamente frustrato che diventa presto struggente. Perché la mamma o la figlia dovrebbero stare con lui, perché mai dovrebbero dargli retta? I “non belli” hanno una vita sentimentale diversa, Brac la rappresenta senza inibizioni e a suo modo sfida un tabù. Però alla fine il regista il suo aspirante perdente lo risarcisce, costruendo un finale di rimborso per chiunque creda ancora nei sentimenti: perché l'incontro è controverso, ma c’è sempre anche la grazia. Il cineasta è già un ottimo direttore di attori: guardate la madre raffigurata in Laure Calamy, in perenne oscillazione tra l’odioso e il commovente, e ovviamente Macaigne che rende tangibile un personaggio memorabile e spaccacuore.

Tonnerre (2013) è il titolo-città del primo lungometraggio, che inscena guarda caso un incontro: quello di Maxime, per l’ultima volta Macaigne, un musicista che torna nella città natale del padre e lì si innamora di una ragazza molto più giovane, Mélodie col volto angelico di Solène Rigot. Guillaume Brac ha poi due altre passioni: il ciclismo e il documentario. Le mette insieme nel corto Le repos des braves (2016), girato con Nicolas Anthomé, che riprende un gruppo di ciclisti adulti alla fine del loro percorso sulle Alpi, facendoli parlare e registrando le storie. Per dire che anche il ciclismo è questione di cuore: gli atleti maturi raccontano il loro legame, il senso di riconoscimento racchiuso in quello sport, ma anche il tempo che passa.
A conferma inessenziale dell'amore per il cinema in sé, per il gesto di farlo e non per la soddisfazione dell’ego, il regista lavora spesso con i giovani: lo fa con gli studenti dell’Accademia nazionale di arte drammatica, con cui gira Contes de Juillet, unione di due mediometraggi (68 minuti) che costruisce una doppia storia d’amore con gli aspiranti attori del corso, ancora una volta ben diretti. Il genio di Brac ha ormai lasciato l’incubatrice e si prepara a spiccare il volo: un colpo d’ala è il documentario L'Île au trésor (2018), che inquadra il parco acquatico della sua infanzia alla periferia di Parigi con gli adolescenti e i lavoratori, le prime tentate tresche, e pone anche una questione razziale. Proprio come la pone quello che ad oggi è il capolavoro del regista: À l’abordage del 2020. Pochi elementi: un giovane nero passa una notte con una ragazza bianca, la vuole ritrovare nella sua località di villeggiatura, vi si reca con un amico nero che è Macaigne a razza invertita, e prendono il passaggio di un bianco. Da questi cenni Brac riscrive e aumenta Un monde sans femmes, conduce un gioco che è tanto esilarante quanto commovente, colloca due neri in vacanza coi bianchi (ecco la politica), spacca il capello dell’amore giovanile e conduce a un finale di bellezza ineffabile, che non si dimentica.

Un monde sans femmes di Guillaume Brac

Il cinema di Guillaume Brac viene generalmente accostato a Éric Rohmer. Nulla di sbagliato, intendiamoci, basti vedere le lunghe sequenze sulla spiaggia di Un monde sans femmes, una sorta di “un ragazzo, due ragazze”. E la vicinanza non fa che confermare l'influenza costante del magistero rohmeriano sul cinema, passato il centenario del maestro. Ma le ispirazioni di Brac sono anche altre. Dentro i suoi racconti c'è un film fondamentale che spesso cita, L'Âge des possibles di Pascale Ferran, ma anche un tassello centrale e ancora poco riconosciuto nel cinema francofono, L’età acerba di André Téchiné. E il film più istintuale e fiammeggiante di Olivier Assayas, L’eau froide. Insomma siamo nel terreno di quel cinema francese che raccontava gli adolescenti negli anni Novanta, periodo di formazione di Brac e di innamoramento per la cinepresa: quel cinema che i ragazzi li trattava senza edulcorazione, in modo obliquo, sfrangiato, attraverso una scala che andava dal riso al pianto, dal sesso alla morte. Sono loro i maestri di Guillaume Brac, che ritaglia quelle vibrazioni e le innesta nel contemporaneo, e come loro è un poligrafo del cuore.

Brac non è però un regista che si riassume nei suoi film. Non basta il racconto, l’analisi non esaurisce. Il totale non è la somma delle parti. C’è qualcosa di più e di meglio, un umore che si diffonde, una sensazione impalpabile che sfugge all’etichetta. Come diceva Anne Baxter in Eva contro Eva entrando per la prima volta nel teatro: “Sento un magico profumo”. Ecco, qualcosa di simile si può applicare alla visione dei film di Guillaume Brac, alla conoscenza del suo cinema: dentro c’è davvero un profumo magico. Brac riesce a cogliere esattamente i movimenti del cuore. Sa che la vita è un intrigo di incontri e battiti. Li rappresenta, ne sonda le oscillazioni e le mette in scena, qui all’improvviso, davanti a noi, in modo quasi insopportabile. Ma poi, appunto, ripaga i suoi falliti, i neri, quelli in sovrappeso: regala loro una carezza che è anche per noi. Guillaume Brac: se c’è un nuovo autore da vedere e amare è senz’altro lui. Se c’è uno sguardo da capire questo porta il suo nome. Un grande regista già oggi, che diventerà imprescindibile domani.

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Scream (2022)

di Alessio Baronci
Scream 2022 - recensione

È lo stesso Scream, senza troppe cerimonie, a farci capire che, stavolta, qualcosa non torna. Basta un dettaglio fuori posto che manda fuori asse la tradizionale, cruenta, scena d’apertura, e l’intero sistema simbolico e tematico della saga viene riconfigurato in modo imprevisto. Scream continua a essere un franchise profondamente affascinato dalle evoluzioni del contesto mediale, e se già il capitolo precedente ragionava sulla trasformazione dello spettatore da homo videns a homo ludens, totalmente immerso nell’esperienza cinematografica, stavolta il centro del discorso non può che essere la fine degli immaginari.
Il primo Scream senza Wes Craven, diretto stavolta dalla coppia formata da Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett, si infila infatti nella stessa linea di altri film Apocalittici, come Matrix Resurrections, il West Side Story di Spielberg e il fondamentale The Irishman.

Ghostface torna a colpire nel tentativo di creare una narrazione che sia migliore dell’ultimo, annacquato Stab, ennesimo capitolo del franchise tutto meta ispirato alle vicende del primo Scream. Forse, tuttavia, non c’è più posto per lo slasher, oggi. Le vittime del killer, anzi, neanche ne conoscono più i capisaldi, sono piuttosto attratte dalle traiettorie Post Horror dei vari Jordan Peele, Ari Aster e Jennifer Kent (“chiedimi di Babadook”, implora uno dei personaggi, appena capisce che la sua fine potrebbe essere prossima). Eppure, più che a un raptus nichilista, disperato, sull’orlo dell’abisso di un intero genere, la sequela di omicidi del killer assomiglia a un rito sacrificale. Per Ghostface la partita è tutta generazionale: sotto le sue coltellate cadono figli, nipoti, parenti prossimi dei personaggi originali, veri e propri simulacri che custodiscono lo spirito della saga. Non c’è nessuna vera distruzione di un immaginario in Scream, piuttosto c’è la purificazione di un intero sistema di segni.

È uno scarto minimo, a suo modo inedito e per questo affascinante, tutto ancora inscritto nella semantica di Apocalisse (che rimanda alla distruzione ma anche a una sorta di catarsi), eppure contiene in sé le premesse di un rischioso cortocircuito nel sistema del film. Perché lo Scream che avrebbe dovuto dimostrare l’impossibilità dello slasher oggi non fa altro che riaffermarne, potenziati, i codici, in modo aggressivo, quasi forsennato. È forse il film più veloce della saga, questo, eppure il sistema non esorbita mai dai moduli del canone craveniano. È vero, si potrebbe dire che è proprio la cornice meta a imporre al film un ritorno alla forma, del primo episodio, e tuttavia è indubbio che un approccio del genere rischia di risultare controproducente. Perché Scream si limita, stancamente, a procedere quasi per accumulazione: segue lo schema di situazioni note, tra telefonate minatorie, inseguimenti, jump scares e feroci omicidi senza che questi spunti siano regolati da una presa di posizione originale sul genere e sull’immaginario di riferimento. E così qualsiasi riflessione sulla caducità dello slasher avviene quasi in modo involontario, stimolata da gesti, rituali, che non approcciati in modo critico vengono ridotti a inerti cliché a distanza di vent’anni.

Scream 2022 - recensione sydney

Da un certo punto di vista, Scream è un film ambiguamente nazionalpopolare, tanto una satira del fan-service e del linguaggio dello slasher movie, quanto il film che ogni fan integralista della saga dovrebbe amare senza riserve, a seconda del pubblico con cui si interfaccia. Bettinelli-Olpin e Grillet sono cineasti appassionati, affettuosi nei confronti della saga e del genere ma evidentemente non hanno lo sguardo ironico e il piglio satirico di Wes Craven, e tuttavia il discorso, forse, è più complesso delle attese. Forse l’unico modo per incasellare davvero Scream è di trattarlo come il primo capitolo della saga inserito nelle meccaniche della Franchise Age. Stavolta non ci sono né Craven né Williamson a supervisionare lo script, ma soprattutto non c’è una casa di produzione veramente indipendente a gestire il progetto. Ci sono, piuttosto, il collettivo Radio Silence, nato come gruppo di lavoro indie ma sempre più inglobato nei meccanismi da major, e la Paramount, mai come ora alla ricerca di un franchise redditizio. E allora non è un caso, forse, che lo script sia stato affidato alla coppia formata da James Vanderbilt e Guy Busick, che sì, hanno già scritto Ready Or Not, il precedente film dei due registi, ma sono anche sceneggiatori sempre più strutturati nel sistema blockbuster (Vanderbilt ha scritto il secondo Independence Day, ad esempio e sarà l’autore del prossimo film di Bay).
Lo sguardo di Craven si brandizza, dunque, diventa uno strumento utile a fidelizzare (di nuovo) i vecchi fan della saga e attrarne di nuovi, un insieme di segni da ricreare in provetta senza comprenderne davvero mai la portata. Non stupisce che Scream tenti di riflettere su una delle grandi tematiche dell’intrattenimento contemporaneo, sulla crisi del suo stesso immaginario, senza però sporcarsi mai davvero le mani, evidentemente per non bruciarsi una property redditizia e, al contempo, cerchi di offrire allo spettatore un prodotto non soltanto il più possibile trasversale ma anche rassicurante.

Orchestrato per non fallire, Scream non può che risultare un asfissiante prodotto laboratoriale, che riesce a respirare davvero solo in determinati momenti, schegge che riescono a sfuggire alle maglie del controllo. Il film è in effetti puntellato di promettenti spunti che improvvisamente squarciano un reticolo altrimenti rigidissimo e riescono a interrogare davvero lo slasher sulla sua natura profonda, tra parentesi che ripensano il concetto di Final Girl, momenti che riconfigurano il genere al di fuori dei suoi tradizionali spazi domestici o sequenze dal piglio quasi concettuale, che mettono in crisi un intero immaginario semplicemente facendo girare a vuoto i suoi meccanismi essenziali, smaterializzando il gioco tra preda e predatore o giocando spudoratamente con il materiale (come nella straordinaria sequenza dell’omicidio letteralmente moltiplicato dagli schermi). Ma si tratta di elementi non finiti, idee solo abbozzate per decine di film-da-fare, forse, addirittura, sfuggite alle probabili, continue riscritture dello script, atti mancati che non riescono a liberare il film dalla sua fredda natura programmatica.
Scream trova il suo vero passo forse solo nell’ultimo atto, quando, inaspettatamente, la diegesi ha il coraggio di mandare in crisi almeno quella cornice “etica” che da sempre contraddistingue l’elemento slasher della saga, ma, al di là di questo, il film di Bettinelli-Olpin e Grillet è un prodotto che cade vittima del suo stesso meccanismo e paradossalmente, riesce nei suoi intenti, dimostrando quanto l’unico slasher possibile sia quello Post, d’autore, che si muove il più lontano possibile dai meccanismi delle major. Peccato che l’abbia fatto forse inconsapevolmente e ricorrendo a un folle autosabotaggio.

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Matt Bettinelli-Olpin Tyler Gillett Neve Campbell Courtney Cox David Arquette Marley Shelton Melissa Barrera 114 minuti
USA, 2022
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The Innocents

di Giacomo Calzoni
innocents

Va bene, l’argomento non è certo nuovo: dal classico Il villaggio dei dannati ai più recenti Them, Eden Lake e The Children, passando per il cult Ma come si può uccidere un bambino? e il kinghiano Grano rosso sangue, il genere si è sempre confrontato con il mondo dell’infanzia e con il contrasto – talvolta nerissimo – tra il candore dei suoi protagonisti e l’orrore delle loro gesta. Un leitmotiv sempreverde, soprattutto quando a venir meno è la spiegazione razionale che si cela dietro a un bambino che uccide: specchio della crudeltà del mondo adulto, certamente, ma anche sguardo abissale sull’ignoto, destinato a rimanere senza una risposta ai tanti perché che lo accompagnano. E se quindi è vero che The Innocents, in fin dei conti, non dice nulla di inedito su un tema già ampiamente trattato dal cinema (e dalla letteratura), non per questo il flm di Eskil Vogt si dimostra meno efficace nella messa in scena di un turbamento silenzioso che striscia davanti agli occhi di tutti, passando inosservato.

Come nel Cronenberg di Il demone sotto la pelle, il teatro è un super-condominio che si estende a perdita d’occhio: meno tecnologico e all’avanguardia di quanto sarebbe lecito aspettarsi visti i tempi, ma comunque non luogo ideale per una vicenda dai toni asettici e glaciali ambientata in una Norvegia sui generis e geograficamente indefinita. C’è qualcosa, o forse qualcuno, che possiede le anime dei giovani protagonisti, offrendogli la capacità di spostare oggetti con il pensiero e di comunicare telepaticamente tra loro; più che una maledizione, all’inizio sembra quasi un dono che si tinge di fiabesco, per cancellare le distanze – geografiche e mentali - tra queste giovani vite che devono lottare quotidianamente contro il pregiudizio dato dalle differenze: di estrazione sociale, di etnia e persino di condizioni fisiche (una di loro è autistica). Ma le suggestioni supereroistiche da prequel di un X-Men qualsiasi hanno vita breve e, nel mezzo di questa estate nordica dove la luce del sole non lascia mai totalmente spazio alla notte, la morte comincia a dilagare: l’amicizia dei piccoli si trasforma in sopraffazione e in lotta per la sopravvivenza, e a farne le spese sono tutti, adulti e bambini, indistintamente.

Vogt non spiega nulla sull’origine o sull’identità del male ma, semplicemente, si limita a registrarne gli effetti: i grandi - sopravvissuti o meno alla furia omicida che ha investito il vicinato - non sapranno mai cosa è successo, accentuando così i contorni di una tragedia resa ancora più insostenibile dal contrasto tra la sua dimensione orrorifica e le tonalità asettiche dei luoghi. Memorabile in questo senso la resa dei conti finale tra i due protagonisti, un vortice di sguardi e di silenzi in campo e controcampo in mezzo alla folla di un parco giochi, senza che nessuno si accorga di nulla: impossibile non pensare alla sequenza dell’omicidio di John Saxon in Tenebre di Dario Argento, in cui la collocazione en plein air rinnegava qualsiasi presunzione di sicurezza per mettere in scena un universo al cui interno le regole non sarebbero mai più state le stesse. E l’inquadratura finale, capace di  rimettere tutto nuovamente in discussione, è la chiusura coerente di un film che, in tempi dove tutto deve essere necessariamente spiegato allo spettatore per filo e per segno, ribadisce il ruolo fondamentale dell’ignoto e dell’irrazionale per raccontare il mondo. Meno male.

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Eskil Vogt Rakel Lenora Alva Brynsmo Ramstad Sam Ashraf Mina Yasmin Bremseth Asheim 117 minuti
Norvegia 2021
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