Ambulance

di Alessio Baronci
ambulance - recensione film bay

C’è quasi sempre un inseguimento in auto al centro delle varie iterazioni del cinema di Michael Bay.

È un motivo che torna costantemente, da Bad Boys II a The Island, passando, ovviamente, per il franchise dei Transformers in cui gli scontri più spettacolari si svolgono durante lunghissime sequenze di corsa sulle autostrade. Per Bay l’highway americana è chiaramente uno spazio giocoso, che usa, spesso, per rileggere le coordinate di certi generi tradizionali, ma è soprattutto uno spazio sicuro, a cui torna spesso, per riprendere fiato, riposizionarsi all’interno del film, oppure ritirarsi quando qualcosa non torna.

Non è un caso, in effetti, che il suo nuovo progetto, Ambulance, sia non soltanto un film letteralmente fondato su un inseguimento stradale ma che, soprattutto, sia il progetto con cui Bay torna nello spazio della sala dopo la folle incursione su Netflix di 6 Underground, straordinario oggetto concettuale che sovverte le logiche della Franchise Age all’insegna di un approccio apertamente ricombinatorio. In 6 Underground nulla esiste al di fuori dello sguardo di Bay, che evoca e assembla gli elementi tipici del blockbuster in uno spazio sospeso, labilissimo, in cui ogni struttura può essere potenzialmente riconfigurata e tutto accade quasi nello stesso momento. Il risultato è un’ipertrofia che ammette qualsiasi spunto, qualsiasi linea tensiva e dà corpo ad una storyline in costante espansione, in cui i fatti si susseguono più per contiguità che per consequenzialità narrativa e l’unico punto fermo sembra essere l’immersività delle sequenze action.

Ma a Netflix i risultati del film non convincono e così chiude le porte ad un Michael Bay mai così lucido nel ragionare sulle potenzialità del cinema digitale.

E allora, davvero, in prospettiva, si fa fatica a considerare questo Ambulance come un semplice remake dell’omonimo film danese del 2005, su due fratelli costretti ad una disperata fuga dalla polizia dopo una rapina fallita. Si tratta di un progetto troppo personale, in cui troppo del cinema di Bay è in gioco, per non permettergli di dialogare con il resto della sua filmografia, per non considerarlo come il progetto con cui il regista, dopo la caduta nello spazio delle piattaforme, torna in sala per riflettere sullo stato di salute del suo cinema, quasi a voler ricostruire, aggiornare, il dialogo con il suo immaginario. 

Ambulance è, almeno in apparenza, lo Yang di 6 Underground, un film che, forse non a caso, ricorda le produzioni Bruckheimer dei primi anni ’00 (in cui Bay ha iniziato), diretto, compatto, quasi intimo.

Ma il racconto, qui, è solo un pretesto per sostenere un progetto che ha al suo centro lo sguardo di Bay e la sua rieducazione. Quello di Ambulance è un processo graduale e tuttavia centratissimo, che si sposta tra i piani, gli spazi, i linguaggi. Si parte dalla dimensione analogica, da una Los Angeles costantemente mappata dalle traiettorie dell’inseguimento, per poi passare ai vertiginosi voli con le drone-cam, violento segnale della presenza del regista sulla scena e fondamentale strumento per prendere possesso degli spazi del racconto, fino a esorbitare nella moltiplicazione di quello stesso sguardo negli strumenti di sorveglianza per immagini, tra microspie, segnali gps, tracciati termici.

ambulance 2 - recensione film bay

Mentre Bay riprende meticolosamente contatto con il suo cinema delle origini, il film assume un passo sempre più libero, strafottente, più interessato a costruire ambiziose coreografie con le auto in corsa e a disorientare lo spettatore tra le traiettorie di fuga, che a costruire una narrazione complessa. È un approccio mai così giocoso, quello di Bay (e non è un caso che uno dei referenti maggiori del film si ritrovi in quel Grand Theft Auto di cui Ambulance riproduce rituali e dinamiche), che tra l’altro, per la prima volta, si diverte apertamente a puntellare il film di evidenti citazioni alla sua filmografia, affascinante, definitivo show of power con cui il regista rende evidente la sua presenza sulla scena al di là di tutto e tutti.

Perché più che (o oltre a essere) una terapia, Ambulance è soprattutto un’inesorabile ed appassionato processo di liberazione della sintassi di Bay dalle ingerenze di quel cinema delle piattaforme che, appena qualche anno fa, stava per condurlo sull’abisso.

Affrancarsi di altri sguardi per riappropriarsi del proprio punto di vista, dunque e, magari, riprendere un discorso che era stato interrotto.

Perché, in fondo, nel tornare a quella velocità, a quel movimento costante che è il fondamento della sua estetica Michael Bay è ancora lì, interessato a teorizzare quello strumento di narrazione combinatorio, in perenne riconfigurazione che aveva sfiorato con Six Underground.

Il risultato delle sue ricerche si ritrova proprio nelle strutture essenziali di Ambulance. Perché quello attorno a cui prende il corpo il film è uno straordinario inseguimento “espanso” che tra le sue linee archivia, reitera, rilancia, alcune fondamentali svolte dell’action più o meno recente, tra il maxi tamponamento di Landis, il Fury Road di Miller, la jeep ipertecnologica e panottica del Deja Vu di Scott, l’ultimo atto dell’Heat di Mann, quello della disperata fuga a piedi per le strade di quella stessa Los Angeles.

Al contempo, ecco che quell’ambulanza in perenne movimento diventa fucina di nuove narrazioni, nuove dinamiche, tra scazzottate, sparatorie, momenti tensivi, vertiginose operazioni in corsa, all’insegna di quel parossismo narrativo che, paradossalmente, è stato teorizzato nello spazio digitale delle piattaforme ma è stata ottenuto solo in un contesto orgogliosamente analogico: quello della sala, certo, ma anche quello a cui fa riferimento un linguaggio, un approccio, lontanissimi dal tradizionale Bayhem, tutto ripiegato negli spazi del mezzo di emergenza o nelle dinamiche tra i soli tre protagonisti della storia.

Pur fondato su una forsennata corsa a perdifiato per la salvezza, Ambulance è dunque, per certi versi, il primo vertiginoso film d’interni, ennesimo paradosso di un progetto affascinante proprio per il modo in cui devia, esorbita dalle attese a causa della sua urgenza: un relitto del passato che però riflette sul medium con uno sguardo attualissimo, un film eccessivo, esorbitante e che tuttavia si regge solo sullo sguardo del suo regista, pronto, forse per la prima volta, a confrontarsi con la sostanza stessa del suo cinema, senza preoccuparsi delle conseguenze, pronto, piuttosto, ad accogliere con curiosità tutto ciò che emergerà dal dialogo.

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Michael Bay Jake Gyllenhaal Yahya Abdul-Mateen II 136 minuti
USA, 2022
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Nella Bolla

di Fabiana Proietti
thebubble-recensione

La pandemia ci ha cambiati tutti. Ma che potesse cambiare anche il cinema di Judd Apatow era un effetto collaterale davvero imprevedibile. Anzi, forse ora più che mai ci saremmo aspettati da lui un abbraccio (o almeno un pugnetto, un tocco di gomito) stretto e solidale.

Invece, dopo il coming of age di King of Staten Island, ispirato alla vita di Pete Davidson, in cui i classici temi apatowiani – come la paura di crescere, il rifugiarsi in un quotidiano rassicurante fallimento anziché esplorare il mondo e rischiare di farcela – si confrontavano con il trauma collettivo dell’11 settembre, Apatow inverte bruscamente la rotta e si sposta nella campagna inglese per una satira feroce che non risparmia nessuno.  Forse è proprio questo a spiazzare di The Bubble. Il film, distribuito da Netflix e scritto con la Pam Brady di South Park, taglia i ponti con la commedia romantica e i racconti generazionali al centro delle produzioni apatowiane del decennio, da Trainwreck a Love e The Big Sick, e guarda piuttosto al demenziale dei National Lampoon, contaminandolo con i giochi di specchi del film-nel-film, che prestano il fianco alla speculazione su riferimenti a cose e persone nient’affatto casuali.

Sulla scorta del reale set di Jurassic World Dominion, isolato in un rigido protocollo anti-Covid per portare a termine la produzione, Apatow costruisce la sua bolla per le riprese del sesto – non necessario – capitolo dell’immaginaria saga Cliff Beasts, mettendo pericolosamente insieme una fauna attoriale che va dall’attrice con velleità intellettuali (costretta a riunirsi al franchise precedentemente abbandonato dopo l’insuccesso del suo ruolo da “metà israeliana-metà palestinese”) alla coppia disfunzionale di star che non fa che lasciarsi e tornare insieme, al premio Oscar con problemi di dipendenza alla giovanissima influencer di TikTok, guidati da un regista al suo primo blockbuster – “premio” per aver vinto il Sundance con un film girato con un Iphone 6 –  e disposto a tutto, pur di non tornare a vendere piastrelle da Home Depot.

In questa sorta di Overlook Covid Hotel, il film inizia a giocare d’accumulo snocciolando una sequenza infinita di gag da quarantena che non sembrano neanche voler essere divertenti ma raccontare, piuttosto, il vuoto e la sospensione di questi anni Venti, nei quali la pandemia ha giocato il ruolo di un acceleratore di particelle.

Nella bolla si diventa egoisti, si diventa brutti. E tutti siamo stati racchiusi per due anni nelle nostre piccole bolle private. Apatow racconta la propria, quella di uno show biz chiaramente in crisi, con i suoi protagonisti attaccati a delle corde, marionette sospese a mezz’aria davanti a uno sfondo inesistente, smaterializzato.
In atto di insolita ferocia per il suo cinema familiare e umano, li fa addirittura vomitare uno sull’altro, morire e ritornare in vita come dei cartoon nella lunga, quasi sfiancante, sequenza dell’overdose da rianimare con ogni mezzo possibile.

Improbabili balletti su TikTok, festini drogherecci, amputazioni, litigi, tradimenti: non si ride nella bolla e quando accade si tratta comunque di una risata dal retrogusto amaro. Per la prima volta nella sua filmografia da regista e produttore, Apatow sembra non provare affetto per i suoi personaggi ma ritrarre una Hollywood da rehab, popolata di volti che durante la pandemia, tra video domestici di bassa qualità e dirette non richieste, hanno smarrito l’allure divistica dimostrando davvero di non essere più “il club cool”, per dirla con il lucido commento di Jim Carrey sull’isteria degli ultimi Academy Awards.

E se Hollywood non è più Hollywood anche il film non è più un vero film: tra il reality show e il gioco da tavola, Apatow elimina senza preavviso i suoi concorrenti: nella logica ferrea del franchise, gli attori che non ce la fanno vengono rimpiazzati in post-produzione - perfino l’amata Leslie Mann! –  e nessuno è indispensabile se non il profitto, come ribadiscono i dirigenti degli Studios collegati in video da paradisi terrestri Covid-free.

Duramente criticato dai recensori americani, con una media voti tra le più basse per un autore solitamente molto amato, The Bubble è una commedia che non fa assolutamente ridere. Ma è probabilmente il Don’t look up di Apatow sul mondo del cinema, il suo monito verso un sistema artisticamente e produttivamente in stallo, come gli attori in fuga, bloccati su un elicottero fatto alzare in aria ma incapaci di volare. Spiazzati da questo inedito sguardo apocalittico sul destino del cinema, accusiamo Apatow per averci spacciato un dramma per commedia. Ma come sostiene la cinica studio executive interpretata da KateMcKinnon: blame the game, not the player.

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Judd Apatow Pedro Pascal Karen Gillan Maria Bakalova David Duchovny 124 minuti
USA 2022
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Spencer

di Andreina Di Sanzo
Spencer-recensione

Non è Lady D. e neanche Diana, qui è Spencer. Un’altra possibilità della Principessa di Galles, la principessa triste, la principessa del popolo. E qui non c’è la Storia a fare da sfondo, né il gossip ingannevole. Questa è una “favola da un tragedia vera”, come in esergo.
Pablo Larraín realizza un altro ritratto femminile che non è biopic, ma effigie romanzata di una figura iconica, proprio come Blonde di Joyce Carol Oates. E come Oates con Marylin, Larraín utilizza Diana Spencer per mostrarci la spazialità di un mondo lontano. Non è Hollywood qui, ma la famiglia reale con le sue regole, con la sua finzione, proprio come nel cinema.

La figura impacciata, la recitazione esasperata e rotta di Kirsten Stewart (in una delle sue interpretazioni migliori), si muove in quella residenza che diventa il suo Overlook Hotel, in quei tre giorni che la separano dalla libertà che sta cercando di afferrare. Si oppone Diana a quella famiglia che la respinge e li tiene sotto scacco con ritardi, indifferenza, ostinandosi a cambiare gli abiti scelti. Esile Diana, diafana, ma forte e beffarda. Questa enorme residenza non porta alla follia, ma le permette di scegliere una vita normale, lontana da norme, silenzi, inchini. Diana rifiuta quella freddezza così come rigurgita quel cibo così raffinato, tanto da essere trasportato da un esercito, proprio all’inizio dei tre giorni delle feste natalizie.
Il tempo è scandito da cene, rituali, merende, battute di caccia e soprattutto il tempo è imposto da quali abiti indossare per ognuno di questi momenti. E Diana sfida quelle norme. Ogni vestito corrisponde per lei a un sentimento, a uno slittamento di volontà, a un desiderio che, trasgredendo quelle regole, prende piano piano forma. Larraín ci restituisce la fiaba dalla tragedia, dà a Diana la complessità di un’intera esistenza, le restituisce il suo passato (Spencer) e le permette un nuovo futuro, il miracolo che non è mai avvenuto: Kentucky Fried Chicken e un brano di Mike & The Mechanics, All I need is a Miracle. Appunto. 

La principessa smarrita vaga nelle nebbie del Norfolk, in una scena che ricorda la brughiera di Conan Doyle, e ritorna alla casa dove è cresciuta, ormai fatiscente, come il passato che ha dovuto cancellare per costruire la figura pubblica della futura regina. E lì Anna Bolena, figura a cui si lega in questi giorni di cambiamento, le concede una nuova epifania. E può distruggere finalmente ciò che la soffoca, rivestire lo spaventapasseri della sua tenuta di famiglia e ricongiungersi con la parte obbligata a nascondere. In un via vai di figure vuote, quasi manichini che si muovono intorno alla figura di Diana, spicca quella della guardarobiera Maggie (Sally Hawkins) che accompagna la principessa nel suo cammino di rivelazione: poter ricevere amore. Loro, i Reali, sono figure di contorno, tratteggiati come ostili ma necessari nel percorso di metamorfosi. Diana così può finalmente strappare quella collana che la costringe, sfilare le tende cucite per ingabbiarla. Può finalmente correre su una macchina che non la ucciderà. E ballare, libera, di nuovo.

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Pablo Larraín Kristen Stewart Timothy Spall Sally Hawkins 111 minuti
Germania, Cile, Regno Unito 2021
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Un autre monde

di Andrea Pirruccio
un autre monde - recensione film brize lindon

«Rifiutare di accettare le realtà del mercato vuol dire tornare a un altro mondo. Vivere in un altro mondo». È ciò che nel precedente film di Stéphane Brizé, In guerra, risponde il CEO tedesco alla delegazione sindacale che, dopo trattative estenuanti, riesce a incontrarlo per chiedergli di cambiare idea, di non chiudere uno degli stabilimenti della ditta lasciando disoccupati 1100 lavoratori. Un autre monde; un altro mondo, dunque. Che però è sempre lo stesso che il regista, insieme a Vincent Lindon e allo sceneggiatore Olivier Gorce, ha iniziato a raccontare nel primo capitolo della sua trilogia sul lavoro, La legge del mercato. Ed è talmente uguale, questo mondo, che il titolo del nuovo film sembrerebbe assumere connotati sinistramente sarcastici. Perché un mondo “altro” non sembra esistere; perché ancora una volta si parla di aporie del capitale, di aziende in attivo che producono utili ma vengono comunque considerate in perdita, non abbastanza performanti, incapaci di accrescere i profitti e di far lievitare i dividendi degli azionisti. E la risposta della proprietà, di ogni padrone (quanto suona obsoleta, oggi, questa parola?) è sempre e solo una: tagliare, epurare, delocalizzare, lavorare peggio lavorando in meno.

E allora non sarà un altro mondo ma questo è un altro film, in cui lo straordinario Lindon (diretto da uno tra i maggiori direttori d'attori contemporanei) si trova dall'altra parte della barricata: non più operaio ma dirigente col compito di individuare una sessantina di 'esuberi' e farli fuori. Uno per uno, nome dopo nome. Con lo stesso evidenziatore che stringe sempre in mano e che non molla neppure per guardare il video di auguri inviatogli dalla figlia per il compleanno. Un altro film, in cui l'attore non è più, come avveniva durante In guerra, un volto tra la folla, ma è una figura isolata praticamente in ogni inquadratura, perché il dolore delle scelte da compiere non deve riguardare altri che lui: non la moglie che non può più tollerarlo, quel dolore, e che ha chiesto il divorzio per non doverlo più respirare; non il figlio, studente di una business school che ha ereditato il senso del dovere paterno come una tara genetica e subisce un collasso emotivo da cui ha fretta di riprendersi «per non restare indietro».

Il Philippe di Lindon non è un solitario: è un uomo solo, prostrato dal tentativo di trovare una mediazione inaudita tra le richieste aberranti della proprietà – che pretende di «ridurre il grasso dov'è possibile», dove per “grasso” si intendono i lavoratori – e gli scrupoli inestimabili della sua umanità residua. Un uomo che quando pensa di averla trovata, quella soluzione, rinunciando al proprio bonus annuale per salvare delle “teste”, viene prima blandito, poi irriso e infine umiliato. Perché la sua risposta può essere logica ma è talmente “fuori registro” e inattuale da apparire naive; perché svilisce il principio della competitività e aggira penosamente lo slogan ottuso della multinazionale: «ponetevi sempre l'obiettivo di pensare più in grande di voi stessi». E così Philippe decide di fare da sé, di approvare in autonomia la risoluzione che possa ammansirgli la coscienza: esattamente come la guardia giurata Thierry in La legge del mercato, che rinunciava a denunciare i poveri cristi che rubano per fame, o come il Laurent di In guerra, che si dava fuoco davanti alla sede centrale della sua azienda per far riaprire le trattative sindacali. E in questo ennesimo thriller dialettico, in cui il dato con cui fare i conti è constatare come tutti abbiano le proprie ragioni, per quanto sbagliate o immorali siano, la decisione dell'uomo è quella di interrompere i negoziati con la controparte per trasformarsi, ancora una volta, in un eroe riluttante che mostra come si possa conservare la propria dignità in un mondo che sembra cospirare per annientarla. Un eroe di cui Brizé celebra orgogliosamente lo status mostrandone non a caso (e più volte) la vestizione, come in un action degli anni Ottanta, il cui sacrificio non lo emenderà agli occhi dei colleghi (che non ne sapranno mai nulla) né dei manager (che semplicemente non hanno gli strumenti etici per apprezzarlo) ma grazie al quale potrà ricominciare a guardare sua moglie e suo figlio negli occhi in un magnifico finale en plein air. «Perché la libertà ha di certo un costo, ma non ha prezzo»: Brizé e Lindon riescono nel miracolo di farcelo credere. Come di farci credere che sì, forse un altro mondo è possibile.

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Stéphan Brizé Vincent Lindon Sandrine Kiberlain Anthony Bajon 97 minuti
Francia 2021
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Acque profonde (Deep Water)

di Andrea Vassalle
Deep Water - recensione film Lyne

Inizia e termina con due scene speculari, Acque profonde (Deep Water). Un lungo sguardo tra i protagonisti, interpretati da Ana de Armas e Ben Affleck, e un fugace scambio di battute che si ripete immutato. È un cerchio che si chiude, e forse non è un caso che Adrian Lyne sia tornato alla regia vent'anni dopo L'amore infedele - Unfaithful proprio con questo film. Perché è come se fosse la quadratura del cerchio del suo cinema, che per circa due decenni (dagli anni Ottanta fino appunto al 2002 di Unfaithful) ha tracciato un percorso ben preciso, muovendosi tra le pieghe dell'erotismo con storie di amori, tradimenti e misteri, per dirigersi in realtà altrove. Dalla superficie, per il quale è stato erroneamente considerato e criticato sin dagli inizi, si inabissa nelle acque profonde del sentimento e della coppia, esplorando la sessualità, la mascolinità e la femminilità, i ruoli, anche in funzione di rilettura sociale. Si arriva così al suo nuovo film, dopo una lunghissima e significativa pausa, e insieme a Lyne torna il thriller erotico, scomparso dagli orizzonti di un cinema americano che sembra voler rimuovere il sesso e la sessualità, sotto uno sguardo che si è fatto sempre più pudico e spesso asettico.

Acque profonde, tratto dall'omonimo romanzo di Patricia Highsmith (già portato sullo schermo nel 1981 da Michel Deville) contiene tutti i topoi del cinema di Lyne, che riallaccia i fili del proprio discorso ricontestualizzandolo. C'è dunque una coppia sposata, c'è il tradimento, ci sono soprattutto il desiderio e la dipendenza, come in 9 settimane e ½, Attrazione fatale, Proposta indecente e Unfaithful, e, come in quest'ultimo, ci sono misteriose sparizioni e omicidi. Ma non è alla ricerca dell'assassino, alle motivazioni o alle svolte narrative che Lyne si interessa. Non è mai stato quello l'obiettivo del suo sguardo, quanto rifuggire la sfera del razionale per indagare le ossessioni e le pulsioni che sorgono dalle profondità dell'Io. Quelle pulsioni che spingono Melinda a cercare avventure sessuali con altri uomini e a non far nulla per nasconderle, nonostante continui ad amare il marito; o che inducono Vic a non separarsi da lei e a mostrarsi anzi impotente e indulgente, nascondendo la ferrea determinazione a fermare le liaisons in qualsiasi modo. Non c'è razionalità, solo impulsi inesplicabili e assillanti, che si insidiano come tarli sino a governare la mente. Come in quasi tutti i film di Lyne, sono un frutto oscuro dell'insicurezza, della paura, della necessità di provocare per sopperire alla fragilità interiore, ed è tramite di essi che si sviluppa la tensione sessuale e che si creano i conflitti di genere. Questa spinta dal basso, spesso torbida e quasi immorale, viene sempre rappresentata visivamente, più o meno fugacemente, attraverso luoghi "sporchi", decadenti, degradati; il vicolo iniziale e la discarica in Unfaithful, la sporcizia accumulata ai piedi delle slot machines di un bar in Proposta indecente, il mercato sotto l'abitazione di Alex Forrest e l'ascensore del palazzo in Attrazione fatale, la fabbrica abbandonata in Acque profonde.

acque profonde recensione del film lyne

Tutto ruota attorno agli sguardi di Vic e Melinda, che si cercano e si osservano continuamente, come se ogni loro azione (soprattutto quelle della donna) necessitasse degli occhi dell'uno e dell'altra. Si guardano mentre Melinda, ubriaca e provocante, suona il pianoforte, si cercano quando sono lontani, si osservano attraverso finestre e specchi, che rilanciano le immagini e i riflessi. Si guardano persino quando lei si apparta con altri uomini, ed è proprio tramite lo sguardo di Vic che prendono forma i fantasmi del tradimento, della gelosia e di un'impotenza che può trovare sfogo solo con una pulsione ancor più forte, tra eros e thanatos. Se nei precedenti film di Lyne ogni impulso era poi ricalibrato e riassorbito, in Acque profonde (l'unico che comincia in media res) non è più così. Nella sottile ma determinante differenza rispetto al finale di Unfaithful c'è la riflessione su un presente in cui si rende necessario venire a patti con i propri tormenti interiori, liberandoli e accettandoli, in una forma d'amore che ricorda per certi versi quella ossessiva e tumultuosa vista ne Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson.

Non ha dunque perso smalto ed efficacia, il cinema di Adrian Lyne. Prosegue come se il tempo dal suo ultimo film non fosse trascorso e prosegue soprattutto nella propria puntuale osservazione, in quelle che sono più di mere riproposizioni dei temi che hanno caratterizzato la sua filmografia. Si conferma la sua bravura nella direzione degli attori, con la perfetta alchimia tra il flemmatico Affleck e la splendida e palpitante femme fatale di Ana de Armas (poi diventati una coppia anche nella vita reale), che si aggiunge alle grandi e iconiche interpretazioni femminili del cinema di Lyne, dopo Jennifer Beals, Kim Basinger, Glenn Close, Demi Moore e Diane Lane. Acque profonde segna il ritorno di un cinema vivo e fremente, in grado di sedurre, provocare, irretire i sensi come oggi sono in pochi a saper fare, sfruttando il melò per una discesa agli inferi più personali, nella profondità delle acque dalle quali possono emergere cadaveri segreti e occultati.

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Adrian Lyne Ben Affleck Ana de Armas Tracy Letts Jacob Elordi 115 minuti
Australia, USA 2022
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Full Time - Al cento per cento

di Emanuele Di Nicola
Full Time di Éric Gravel

Il lavoro è questione di tempo. Anzi, di più: forse l’intera organizzazione sociale, il regime capitalistico, lo sfruttamento dei ricchi sui poveri sono tutti questione di tempo. Insieme al corpo e alla mente, è proprio il tempo ciò che si ruba, quello che viene sottratto alla vita delle persone rosicchiando anche i bordi, asciugandolo gradualmente come il letto di un fiume finché non resta nulla. Il lavoro prende tutto il tempo: e allora il cosiddetto tempo della vita? Solo gocce, frammenti, istanti veloci da ritagliare nel macro-tempo divorante dedicato all’occupazione. «Non puoi mangiare o fare sesso otto ore: il lavoro è l’unica attività umana che dura otto ore», diceva il documentario Workingman’s Death del compianto Michael Glawogger. Magari fossero solo otto ore. E proprio l’impiego del tempo è il titolo di un film di Laurent Cantet (L’emploi du temps), in italiano A tempo pieno, che racconta di un uomo licenziato che finge di recarsi a lavoro per ingannare la famiglia, ma ha il problema di come passare il tempo, perché il rovescio della medaglia è l’altra grande questione dell’oggi, avere troppo tempo. All’ultima Berlinale, poi, una rivelazione è stata Unrueh di Cyril Schäublin, racconto anarchico in una fabbrica di orologi svizzeri nel tardo Ottocento: se venisse abolito il tempo, si chiedono questi operai che producono lancette, senza un tempo del lavoro come farebbero i padroni a sfruttare?

Il problema del tempo torna con forza in Full Time - Al cento per cento di Éric Gravel, in originale À plein temps (appunto). Il tempo è la gabbia in cui si dibatte Julie, una persona normale, una madre single di due figli costretta a lavorare per mantenerli: all’inizio la vediamo che si sveglia nella sua casa fuori città, è ancora notte, e si reca a lavoro a Parigi nell’hotel di lusso in cui è impiegata, non prima di lasciare i due bambini alla generosa vicina di casa. La sua giornata è un movimento vorticoso: prende treni, arriva al lavoro, pulisce le stanze di clienti che sporcano (simbolicamente e letteralmente: di merda), concretizza in sé il contrasto tra potenti e deboli, tra coloro che “servono” e quelli che vengono serviti, i quali non si vedono mai. Opera in silenzio e velocità, come tutte le lavoratrici dell’hotel: “La regola è essere invisibili”. Fa una corsa a ostacoli per i ritardi dei treni, bloccati da un grande sciopero, problematizzando così il nodo sociale: la lotta per migliorare le condizioni finisce per mettere in difficoltà proprio i pendolari, ossia i più fragili, lavoratori come gli scioperanti ma ancora meno tutelati, nel classico ouroboros, il serpente che si morde la coda. I piccoli se le danno tra loro, il capitale è il nemico invisibile. Insomma Julie corre tutto il giorno e infine rientra a casa stremata, ritirando i figli solo di notte, senza poter assolvere alle funzioni di madre e rischiando di generare difficoltà per i bambini. La parabola si può verificare a confronto col suo negativo, Un altro mondo di Stéphane Brizé, che curiosamente esce in sala insieme a questo film e ne offre uno scavalcamento di campo: come qui c’è una lavoratrice umile, là c’è il dolore di un dirigente, due rovesci del lavoro 2020.

Full Time di Éric Gravel

In realtà Julie non sarebbe una waitress, bensì un’operatrice di marketing che è stata licenziata dall’azienda dopo una delle molte crisi del contemporaneo. Rimasta disoccupata, ha accettato la decrescita infelice come i protagonisti di Giorni e nuvole di Silvio Soldini. È retrocessa su posizioni operaie pur di lavorare: anche ora prova a rientrare nel settore, sostenendo colloqui, mandando curriculum. All’insegna del pudore sociale: la donna inserisce un buco negli anni che corrispondono al periodo da cameriera, mai mostrare debolezza, mai rivelare un impiego umile agli occhi del mercato. Ma anche tornare al vecchio lavoro non è facile, assentarsi per fare una interview è già un’impresa. In tal senso il film di Éric Gravel inscena un altro aspetto, quello più loachiano di tutti: il ruolo della rete degli amici. La protagonista, stretta nella morsa e senza tempo, deve attivare un intreccio di favori per poter sopravvivere, dalla vicina di casa alle amiche e colleghe; viene mostrato il meccanismo di protezione solidale, vista l’assenza dello Stato, e insieme i suoi limiti, perché non si può affidarsi completamente agli altri, un’assistenza solo personale e non pubblica in ultima istanza non potrà funzionare.

Detto così, il racconto di Full Time potrebbe sembrare l’ennesimo film sociale, giusto e condivisibile ma allo stesso tempo obbligato, talmente esatto da diventare sottinteso. Non è così. Il regista riesce ad evitare la retorica attraverso il movimento della macchina da presa: sin dall’inizio segue la protagonista, la sempre magnifica Laure Calamy, non nel consueto pedinamento ma creando un vortice, una confusione, un ritmo indiavolato e isterico che vuole ricostruire le giornate di lavoro della donna. Ci riesce: da subito siamo trascinati in mezzo al gorgo, veniamo sballottati nell’odissea ordinaria e banale della lavoratrice madre, con lei proviamo ad arrivare a fine giornata. E, soprattutto, l'autore mette sullo stesso piano stilistico il lavoro retribuito e la cura dei figli, ovvero li gira allo stesso modo: suggerisce mediante l’immagine che una donna ha due occupazioni, in una delle raffigurazioni più potenti che si ricordino sul tema.
Grandi istant classics hanno catturato il lavoro nei nostri anni (Brizé, Guillaume Senez, lo stesso Loach), ma finora non si era visto un film che rendesse così tangibile la schiavitù del tempo di lavoro. Quello di Julie, come quello di tutti: ecco perché nel finale, quando la donna ottiene un nuovo impiego, regala un ossimoro, ovvero sorride piangendo. Sorride perché avrà una migliore occupazione, e piange perché continuerà a non avere tempo, non fermarsi, non vedere i figli. Nel contrasto si racchiude il mondo del lavoro oggi, il suo aut aut spietato, la beffa per cui giri e rigiri ma perdi comunque.

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Éric Gravel Laure Calamy Lucie Gallo Agathe Dronne Anne Suarez 88 minuti
Francia
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I segni del cuore – CODA

di Mattia Caruso
CODA - recensione film Heder

Ruby (Emilia Jones) è un'adolescente con un vero e proprio talento per il canto. Peccato che nella sua famiglia nessuno possa sentire la sua voce. Perché Ruby è figlia di persone sorde, una Child of Deaf Adults (CODA, appunto), una condizione che inevitabilmente finirà per scontrarsi con le sue ambizioni, portandola sul punto di (pensare di) dover scegliere tra sogni e affetti.

È un cambio di prospettiva considerevole quello che, sin dal titolo, caratterizza I segni del cuore – CODA, remake americano de La famiglia Belier e premio Oscar 2022 come Miglior film. Una dichiarazione d'intenti che dimostra come il film diretto dalla statunitense Sian Heder (Tallulah) voglia questa volta puntare maggiormente l'obiettivo, anziché sulla famiglia e la sua disabilità, proprio sulla protagonista e sul suo particolare coming of age, sul suono e la voce piuttosto che sulla sua assenza. Uno scarto lieve ma significativo rispetto all'originale francese che meglio si adatta alla nuova realtà consentendo al film di farsi portatore di uno sguardo differente, in linea con i temi, i valori e la sensibilità d'oltreoceano.
Sembra in tutto e per tutto parte di quel contesto, infatti, il film della Heder. Non solo per il maggiore individualismo che sottende e per l'ambientazione (una cittadina di pescatori del Massachusetts) ma anche per le sue dinamiche da teen drama, per la sua irrinunciabile estetica indie e per la sua tensione incalzante da film sportivo.

D'altronde, era inevitabile che una storia come quella de La famiglia Belier conquistasse anche il cinema statunitense. Non solo e non tanto a causa di un'industria sempre più attenta alle narrazioni inclusive (l'anno scorso, in corsa agli Oscar, c'era Sound of Metal) ma per una fascinazione antica, come dimostra qui la presenza dell'attrice Marlee Matlin, prima interprete non udente a ricevere una statuetta per Figli di un dio minore. È proprio la scelta di far interpretare tutti i membri della famiglia da vere persone sorde (provenienti dal Deaf West Theatre di Troy Kotsur, qui nel ruolo del padre e premiato a sua volta come miglior attore non protagonista) la principale novità del film. Una scelta coerente e legittima che però non gli impedisce di cadere, nonostante tutto, in una programmaticità evidente. Toccando doviziosamente ogni svolta da manuale, è come se il film non riuscisse infatti a nascondere l'ingombrante peso di una sceneggiatura spesso impaziente di toccare le sue tappe obbligate e ben più tradizionale di quanto possa apparire a prima vista. Perché mantenendo Ruby protagonista assoluta, a perdersi, ancora una volta, è l'occasione di guardare e raccontare veramente la disabilità dall'interno, preferendo incrociarla in maniera incidentale, attraverso lo sguardo di un eroe che la “subisce”, mettendola in secondo piano (un po' come già era avvenuto col razzismo per Green Book).

Non che CODA non sappia mantenere una certa autenticità di fondo o che gli interpreti non siano all'altezza (anzi, dalla Ruby della sorprendente Emilia Jones in giù poco gli si potrebbe rimproverare), nemmeno che non sappia usare al meglio il mezzo per rendere tangibile lo straniamento dei suoi personaggi, facendo della voce uno strumento di passaggio da un mondo all'altro. Eppure è difficile non vedere in questa quintessenza di film “da Sundance” (festival dove, ovviamente, ha fatto incetta di premi nel 2021) un'opera fortemente costruita, che saccheggia dall'originale i momenti più emozionanti senza temere di commuovere a oltranza. Un dramma sentimentale gratificante che non ha paura di esserlo, lodevole nel rifuggire facili pietismi ma non altrettanto abile nell'abbracciare la complessità del tema trattato, congelato com'è in uno sguardo troppo stretto, limitante e sorprendentemente convenzionale.

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Sian Heder Emilia Jones Eugenio Derbez Troy Kotsur Ferdia Walsh-Peelo Marlee Matlin Daniel Durant 111 minuti
USA 2021
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Red

di Matteo Mazza
disney pixar turning red recensione film

Turning Red, diventare Red: un nome, un colore, una condizione. Fare i conti con qualcosa o con qualcuno, soprattutto con la propria storia di figlia, di donna. A questo guarda il venticinquesimo lungometraggio Pixar, distribuito in Italia con l’immediato titolo nominale Red, realizzato da Domee Shi (già autrice del cortometraggio Bao, Oscar 2019), prima regista a guidare un’opera della casa di Emeryville. Ma chi sia, cosa voglia e da dove provenga Red, un grosso e morbido esemplare di panda rosso in cui la protagonista Mei Lee si trasforma, sono domande a cui la tredicenne di origine cinese tenterà di trovare risposta insieme alle amiche Miriam, Priya e Abby, non prima di essersi scontrata con la propria emotività instabile, una madre decisamente troppo invadente e un’eredità famigliare a dir poco misteriosa.

Seguendo la tradizione delle fiabe, come accade in Cappuccetto Rosso, Red ha chiaramente a che fare con l’essere e il diventare donna: il film cattura il momento in cui da una bambina dovrà nascere una donna e, non a caso, abbraccia tutto il femminile dispiegandosi attorno alle grandi figure della Mamma, della Bambina e della Nonna, affrontando emozioni violente e contraddittorie. Il riferimento al colore rosso, come nel caso del cappuccetto, è da questo punto di vista rivelatore perché si tratta del sangue, dell’inizio del ciclo del sangue e dunque dell’inizio del tempo della fertilità; ma anche, e contemporaneamente a quanto accadeva in Biancaneve con la mela rossa, del desiderio sessuale, dell’affermarsi di una sessualità ormai matura. Come precisa Bettelheim «il colore della mela evoca associazioni sessuali come le tre gocce di sangue che produssero la nascita di Biancaneve, nonché le mestruazioni, l’evento che segna l’inizio della maturità»[1].

In questo senso il film si presenta come ideale continuazione del precedente Luca: attraverso una storia di formazione ambientata a Toronto nel 2002, quindi collocata nello spazio e nel tempo e autobiografica (la regista ha preso spunto dal proprio passato), Red mette in scena il percorso che la protagonista deve compiere per la conquista della propria identità. Sul piano dei contenuti, Luca e Red sono film gemelli, dall’anima bestiale. Infatti, analogamente a Luca, Red è un film capace di far dialogare mondo esteriore e mondo interiore coniugandone le complessità e le forze espressive: da una parte i malumori preadolescenziali di una ragazzina perfettina che vede nella madre l’immagine da consacrare ma vuole a tutti costi andare al concerto della sua boy band preferita, i 4*Town, e per questo tradirà il modello da seguire; dall’altra una bestia pelosa e puzzolente, ingombrante e rabbiosa, che si palesa all’improvviso nella vita della ragazza scombinandone l’ordine originale. E non solo.

red film recensione disney pixar g

Adeguandosi alle logiche della (casa) madre, Mei Lee deve liberarsi del panda Red mediante un rito magico che porterà il film a trasformarsi in un’estensione ibrida e orientaleggiante  (che non manca di guardare agli anime, da Sailor Moon a Ranma) del dittico di Pete Docter composto da Inside Out e Soul: con il primo condivide l’idea dei criteri cromatici che lì servivano per distinguere le emozioni mentre qui aiutano a riconoscere le amiche; con il secondo spartisce l’idea di una dimensione astratta e altra nella quale proiettare il proprio spirito pandesco. Così, al pari del cervello di Riley e dell’Ante-Mondo, rappresentazione di uno spazio fantastico dove le potenzialità creative si manifestavano in modo clamoroso, anche in Red il piano astrale è un luogo immaginario molto simile a una foresta di bambù in grado di accogliere il duello finale tra lo spirito del panda e la libertà di Mei Lee, pronta alla conquista dell’identità.

E qui può sorprendere che per affrontare una mole di temi così impegnativi (l’imbarazzo, la crescita, i legami famigliari, le tradizioni culturali, le prime mestruazioni) lo studio adotti la strada della semplificazione simbolico-cromatica in salsa pop: se il concerto monopolizza la ritualità simbolica dell’iniziazione, il versante estetico è dominato dal rosso. D’altra parte cos’hanno in comune la bandiera della Cina e quella del Canada? Ecco, quindi, se da una parte il rosso del titolo conferma l’intenzione di Pixar a far convivere presente e passato dell’animazione - rosso come la mela di Biancaneve, ma pure le rose pitturate da Alice, i capelli di Ariel, il cappello e i capelli di Jesse o di Merida - dall’altra risulta evidente la fatica che lo studio sta affrontando nel portare avanti quel percorso di rinascita basato sul riconoscimento di nuovi target e la ricollocazione di chiavi poetiche, elementi innovativi e proposte universali in un mercato necessariamente internazionale e sempre più diversificato.

Per tali motivi, il lieto fine del film risulta compiacente, ambiguo sul piano della morale ma non su quello del significato. Parafrasando le parole con cui Mei Lee esordisce nell’incipit: «La prima regola di famiglia? Onora i tuoi genitori. Assecondare ogni loro richiesta ma non dimenticare di onorare te stessa». Non è il momento di andare avanti verso l’infinito e oltre, è ora di accontentarsi e fare cassa con il panda puccioso che strizza l’occhio ai paganti (del tempio-cinema). Non è il momento di lasciare andare (come nel finale di Luca), in Red diventare grandi significa trattenere, un po’ alla maniera di Encanto.
Insomma Pixar non ha tutti i torti, diventiamo. Ma qui non si cambia un granché, piuttosto ci si arrangia con quello che si è e quello che si ha.

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[1]:  B. Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Feltrinelli, 16° ed., Milano 1997.

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Domee Shi Rosalie Chiang Sandra Oh Ava Morse Maitreyi Ramakrishnan 99 minuti
USA 2022
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Licorice Pizza

di Matteo Berardini
licorice Pizza - recensione film

L’uomo è innamorato e ama ciò che svanisce,
cos’altro c’è da dire?

Yeats

In nuce, Licorice Pizza è tutto in quella sequenza lì, di Vizio di forma, in cui Doc e Shasta ricevono una dritta impossibile per comprare dell’erba e finiscono per correre assieme sotto la pioggia, avanti e indietro, tra le luci blu e rosse delle insegne luminose, senza trovare alcunché di lisergico o resinoso ma semplicemente sé stessi, abbracciati sul pavimento di un negozio, al riparo dalla pioggia, in quello che diventa uno dei momenti migliori della loro storia d’amore, uno degli ultimi. In sottofondo Journey Through The Past di Neil Young, colonna sonora di un ricordo dopo il quale, nel film, iniziano a emergere e concatenarsi coincidenze impossibili, associazioni irrazionali, mentre l’indagine si fa via via più complicata e inintelligibile, e il sentimento resta l’unico strumento con cui orientarsi. Ecco, dalle vibrazioni di quel momento, da quella corsa a due in cui tutto sembra possibile e ogni svolta promette un’avventura, un incontro memorabile, una detour d’emozioni impreviste e ancora tutte da comprendere, cresce e si espande Licorice Pizza, che da quegli anni di paranoia applicata al sentimento e al sogno si spinge verso il decennio successivo, gli Ottanta, ancora lontani all’orizzonte ma già ben presenti nel loro spirito imprenditoriale, nel talento artistico che vira al mondo degli affari. Gary, ex attore bambino che ha già perso lo smalto e le occasioni di un tempo, è ben diverso da Doc Sportello, è un giovane adulto che ama farsi riconoscere e trattare come tale, che ostenta una finta sicurezza come fosse un’armatura nei confronti del mondo, e che riconduce costantemente le sue energie e la sua vitalità all’ennesimo affare, all’ennesima occasione per sé e la sua banda di piccoli attori, amici, traffichini. Ma se i tempi stanno cambiando e il senso di sconfitta è roba per i genitori e la loro generazione, l’amore e il sentimento sono sempre lì, antidoti e totem che tengono in vita la parte migliore di sé.

vizio di forma licorice

Storia d’adolescenza e d’amore, Licorice Pizza riesce nel compito assai arduo di far convivere l’intensità formale tipica del cinema di Paul Thomas Anderson all’illusione spettatoriale di assistere allo scorrere di una vita colta semplicemente nel suo farsi, nel suo procedere casuale tra eccessi e avventure come ogni adolescente sogna di fare. Siamo in un cinema della memoria e della nostalgia, in cui ogni movimento di macchina, ogni tempo di montaggio e disposizione dei corpi, degli sguardi, dei sorrisi che accendono i volti, è rigorosamente studiato, calibrato da una consapevolezza registica tra le più alte nel cinema contemporaneo. PTA è un magistrale manipolatore della macchina cinema e le sue immagini sono evidentemente mediate, lontane da un approccio mimetico e immediato nei confronti del reale; eppure, da questa consapevolezza così ragionata e rigorosamente espressiva nasce un film che riesce a nascondere la sua natura più cerebrale, il suo essere artefatto, offrendosi ai nostri occhi come un luogo naturale che vale la pena abitare e in cui ogni immagine è un invito a perdersi, allo stare al gioco. Licorice Pizza riesce in uno degli effetti più nobili che possiamo chiedere al cinema: farci credere e desiderare, per quelle due ore di visione, di vivere tra i vivi anche se il mondo che ci circonda è quello dei fantasmi intrappolati in un riflesso (e quanti riflessi ci sono in questo film, quanti momenti memorabili che percepiamo attraverso immagini impresse sui vetri, sentendone comunque, nonostante la distanza e la natura mediata, tutta la potenza e l’emozione). È l’illusione più intima offerta da un dispositivo che si nasconde nel suo svelarsi, da un film che si tiene ben lontano dalle fredde forme della nostalgia mercificata perché crede ancora che la sincerità sia a portata di mano, parte integrante dell’immagine.

Privo apparentemente di scheletro, rizomatico per come procede senza progressione apparente o verticalità alcuna, piuttosto interrompendosi e deviando in parentesi costanti, in frammenti che di volta in volta potrebbero diventare film a sé stanti, Licorice Pizza è un film su quel momento della vita in cui a dare forma al percorso non è una linea retta ma le deviazioni nel loro insieme, una dopo l’altra, avventure che si susseguono tra i pomeriggi assolati di un’estate vissuta un’avventura sgangherata dopo l’altra. Come i volti di quando si è bambini e via via adolescenti, in cui ogni parte del viso sembra andare per conto suo per crescere a strappi, tra nasi sproporzionati e simmetrie sbilenche, fronti eccessive e mascelle sporgenti, secondo andamenti irregolari e imprevedibili che solo nel tempo trovano un loro equilibrio e armonia d’insieme. Del resto Licorice Pizza è un film di corpi, non conformi nel canone hollywoodiano e in realtà perfettamente normali, tra denti sporgenti, smalto sbeccato, pelle irritata dall’acne e nasi adunchi. Tratti che PTA sottolinea costantemente con primi e primissimi piani, certificando una nuova forma di naturalezza nel quale l’uso delle celebrità – i personaggi di Sean Penn, Tom Waits e Brandon Cooper, tutti ugualmente istrionici e squallidi, privi di vita – appaiono come evidente liquido di contrasto ai corpi e volti dei due protagonisti. E altrettanto anomalo e anti-hollywoodiano è il tempo concesso a questi corpi: il tempo degli abbracci, dei sorrisi, del toccarsi e sfiorarsi, delle corse e delle attese, di inquadrature che si attardano su tanti piccoli gesti sincronizzando il nostro respiro e il loro, permettendo a noi spettatori di immaginare il calore e gli odori e la morbidezza della pelle e l’emozione incandescente del tocco che vibra appena sotto la superficie dell’immagine. In fondo è un cinema degli incontri, quello di PTA, un cinema duale che da Ubriaco d’amore in poi rielabora la coppia in forme diverse intendendo comunque il sentimento come il motore grazie al quale le due linee convergono, che sia in termini affettivi o conflittuali. Abbiamo sempre bisogno dell’altro per completare la percezione di noi e del mondo.

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Paul Thomas Anderson Alana Haim Cooper Hoffman Sean Penn Bradley Cooper Tom Waits Benny Safdie 133 minuti
USA 2021
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Flee

di Andrea Fontana
Flee - recensione film

C’è un legame sottile che lega le immagini, così diverse, che compongono la storia di Flee, film diretto da Jonas Poher Rasmussen, candidato all’Oscar come miglior film animato, miglior documentario e miglior film internazionale. E questo legame apparentemente invisibile è in parte spiegato dalle stesse candidature agli Oscar: miglior film animato e miglior documentario. Quest’opera – che racconta la storia vera di Amin, fuggito dall’Afghanistan dopo l’arrivo dei mujaheddin e giunto nella Russia post-comunista, da cui tenta quindi di raggiungere lo zio e le sorelle in Svezia – è un flusso di coscienza, un fiume-ricordo che, proprio in virtù della sua essenza, mescola immagini diverse. Se è vero che la Storia non la si può oggettivizzare, è altrettanto vero che la si può ricostruire attraverso la memoria. E sebbene fallace, viziata dalla prospettiva di una singola soggettiva, è con gli occhi di Amin che attraversiamo dolori e sofferenze di un decennio di Storia, i cui effetti e attualità sono validi anche e soprattutto oggi.

Rasmussen opta per un’animazione classica (che zoppica da un punto di vista tecnico; c’è poca fluidità, in controcorrente con quello a cui siamo abituati nell’animazione contemporanea) che interpola a immagini di repertorio, proposte con un formato anomalo ma che ben rende nella composizione della storia di Flee, e altre immagini più artistiche, essenziali ed intimiste, con cui sono rappresentati gli orrori interiori di Amin. E ce ne sono molti, di orrori, in questo film. Amin cerca la sua strada. Nel farlo compie un viaggio, molti viaggi: tutti terribili, che lo pongono nella scomoda situazione di affrontare la crudeltà umana. In questo, Flee non è compiaciuto ma si pone nei confronti della materia in una forma empatica senza mai cadere nel didascalismo o nella malizia. Le parole e i ricordi di Amin sono reali e in quanto tali fanno male. Ma nonostante la morte, la sofferenza, la spietatezza che il povero Amin è costretto ad assistere, riesce a trovare uno spiraglio di speranza. E in quella speranza, trova sé stesso. Facendo i conti con la propria omosessualità. Ma anche con il male del mondo, che è disposto ad affrontare se affiancato dalla persona che ama. Amin sta per sposarsi, forse ha trovato casa con il suo compagno, ma qualcosa lo blocca. Il ricordo di ciò che ha affrontato gli permette di risalire quell’onda oscura che ha vissuto sulla sua pelle.

Flee è sicuramente un’opera che si muove su un territorio intimista, tutta giocata sulle parole e sullo sguardo del suo protagonista. Ma è anche un film in grado di intersecare condizioni storiche di grande portata, privilegiando sempre il punto di vista personale e intimo di Amin. E così l’Afghanistan, terra martoriata ormai da decenni, diventa il primo teatro della vita di Amin, quello in cui la dolcezza della sua infanzia si mescola con l’orrore della guerra; e dopo l’Afghanistan si arriva alla Russia post-sovietica, un Paese disgregato, corrotto, allo sbando. C’è una sequenza particolarmente significativa: nella Russia povera apre il primo, storico McDonald’s. Dietro un momento di (apparente) felicità, si celebra un dramma, a cui assiste lo stesso Amin. Una duplicità che sintetizza la sua vita, testimone involontario di un dolore e di un’insensibilità spezzata solo a volte da sprazzi di umanità (come quando, nel bosco russo, gli uomini decidono di aiutare un’anziana signora, o quando il fratello di Amin porta in spalle un bambino).

Sono tragedie di più di venti anni fa. Ma sono pregne di contemporaneità. E qui sta la forza di un film come Flee: raccontare la vita e nel farlo, raccontare la Storia. Nella speranza di imparare qualcosa.

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Jonas Poher Rasmussen Daniel Karimyar Fardin Mijdzadeh Milad Eskandari Belal Faiz Elaha Faiz 89 minuti
Danimarca, Francia, Svezia, Norvegia, 2021
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