Acque profonde (Deep Water)

di Andrea Vassalle
Deep Water - recensione film Lyne

Inizia e termina con due scene speculari, Acque profonde (Deep Water). Un lungo sguardo tra i protagonisti, interpretati da Ana de Armas e Ben Affleck, e un fugace scambio di battute che si ripete immutato. È un cerchio che si chiude, e forse non è un caso che Adrian Lyne sia tornato alla regia vent'anni dopo L'amore infedele - Unfaithful proprio con questo film. Perché è come se fosse la quadratura del cerchio del suo cinema, che per circa due decenni (dagli anni Ottanta fino appunto al 2002 di Unfaithful) ha tracciato un percorso ben preciso, muovendosi tra le pieghe dell'erotismo con storie di amori, tradimenti e misteri, per dirigersi in realtà altrove. Dalla superficie, per il quale è stato erroneamente considerato e criticato sin dagli inizi, si inabissa nelle acque profonde del sentimento e della coppia, esplorando la sessualità, la mascolinità e la femminilità, i ruoli, anche in funzione di rilettura sociale. Si arriva così al suo nuovo film, dopo una lunghissima e significativa pausa, e insieme a Lyne torna il thriller erotico, scomparso dagli orizzonti di un cinema americano che sembra voler rimuovere il sesso e la sessualità, sotto uno sguardo che si è fatto sempre più pudico e spesso asettico.

Acque profonde, tratto dall'omonimo romanzo di Patricia Highsmith (già portato sullo schermo nel 1981 da Michel Deville) contiene tutti i topoi del cinema di Lyne, che riallaccia i fili del proprio discorso ricontestualizzandolo. C'è dunque una coppia sposata, c'è il tradimento, ci sono soprattutto il desiderio e la dipendenza, come in 9 settimane e ½, Attrazione fatale, Proposta indecente e Unfaithful, e, come in quest'ultimo, ci sono misteriose sparizioni e omicidi. Ma non è alla ricerca dell'assassino, alle motivazioni o alle svolte narrative che Lyne si interessa. Non è mai stato quello l'obiettivo del suo sguardo, quanto rifuggire la sfera del razionale per indagare le ossessioni e le pulsioni che sorgono dalle profondità dell'Io. Quelle pulsioni che spingono Melinda a cercare avventure sessuali con altri uomini e a non far nulla per nasconderle, nonostante continui ad amare il marito; o che inducono Vic a non separarsi da lei e a mostrarsi anzi impotente e indulgente, nascondendo la ferrea determinazione a fermare le liaisons in qualsiasi modo. Non c'è razionalità, solo impulsi inesplicabili e assillanti, che si insidiano come tarli sino a governare la mente. Come in quasi tutti i film di Lyne, sono un frutto oscuro dell'insicurezza, della paura, della necessità di provocare per sopperire alla fragilità interiore, ed è tramite di essi che si sviluppa la tensione sessuale e che si creano i conflitti di genere. Questa spinta dal basso, spesso torbida e quasi immorale, viene sempre rappresentata visivamente, più o meno fugacemente, attraverso luoghi "sporchi", decadenti, degradati; il vicolo iniziale e la discarica in Unfaithful, la sporcizia accumulata ai piedi delle slot machines di un bar in Proposta indecente, il mercato sotto l'abitazione di Alex Forrest e l'ascensore del palazzo in Attrazione fatale, la fabbrica abbandonata in Acque profonde.

acque profonde recensione del film lyne

Tutto ruota attorno agli sguardi di Vic e Melinda, che si cercano e si osservano continuamente, come se ogni loro azione (soprattutto quelle della donna) necessitasse degli occhi dell'uno e dell'altra. Si guardano mentre Melinda, ubriaca e provocante, suona il pianoforte, si cercano quando sono lontani, si osservano attraverso finestre e specchi, che rilanciano le immagini e i riflessi. Si guardano persino quando lei si apparta con altri uomini, ed è proprio tramite lo sguardo di Vic che prendono forma i fantasmi del tradimento, della gelosia e di un'impotenza che può trovare sfogo solo con una pulsione ancor più forte, tra eros e thanatos. Se nei precedenti film di Lyne ogni impulso era poi ricalibrato e riassorbito, in Acque profonde (l'unico che comincia in media res) non è più così. Nella sottile ma determinante differenza rispetto al finale di Unfaithful c'è la riflessione su un presente in cui si rende necessario venire a patti con i propri tormenti interiori, liberandoli e accettandoli, in una forma d'amore che ricorda per certi versi quella ossessiva e tumultuosa vista ne Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson.

Non ha dunque perso smalto ed efficacia, il cinema di Adrian Lyne. Prosegue come se il tempo dal suo ultimo film non fosse trascorso e prosegue soprattutto nella propria puntuale osservazione, in quelle che sono più di mere riproposizioni dei temi che hanno caratterizzato la sua filmografia. Si conferma la sua bravura nella direzione degli attori, con la perfetta alchimia tra il flemmatico Affleck e la splendida e palpitante femme fatale di Ana de Armas (poi diventati una coppia anche nella vita reale), che si aggiunge alle grandi e iconiche interpretazioni femminili del cinema di Lyne, dopo Jennifer Beals, Kim Basinger, Glenn Close, Demi Moore e Diane Lane. Acque profonde segna il ritorno di un cinema vivo e fremente, in grado di sedurre, provocare, irretire i sensi come oggi sono in pochi a saper fare, sfruttando il melò per una discesa agli inferi più personali, nella profondità delle acque dalle quali possono emergere cadaveri segreti e occultati.

Categoria
Adrian Lyne Ben Affleck Ana de Armas Tracy Letts Jacob Elordi 115 minuti
Australia, USA 2022
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Full Time - Al cento per cento

di Emanuele Di Nicola
Full Time di Éric Gravel

Il lavoro è questione di tempo. Anzi, di più: forse l’intera organizzazione sociale, il regime capitalistico, lo sfruttamento dei ricchi sui poveri sono tutti questione di tempo. Insieme al corpo e alla mente, è proprio il tempo ciò che si ruba, quello che viene sottratto alla vita delle persone rosicchiando anche i bordi, asciugandolo gradualmente come il letto di un fiume finché non resta nulla. Il lavoro prende tutto il tempo: e allora il cosiddetto tempo della vita? Solo gocce, frammenti, istanti veloci da ritagliare nel macro-tempo divorante dedicato all’occupazione. «Non puoi mangiare o fare sesso otto ore: il lavoro è l’unica attività umana che dura otto ore», diceva il documentario Workingman’s Death del compianto Michael Glawogger. Magari fossero solo otto ore. E proprio l’impiego del tempo è il titolo di un film di Laurent Cantet (L’emploi du temps), in italiano A tempo pieno, che racconta di un uomo licenziato che finge di recarsi a lavoro per ingannare la famiglia, ma ha il problema di come passare il tempo, perché il rovescio della medaglia è l’altra grande questione dell’oggi, avere troppo tempo. All’ultima Berlinale, poi, una rivelazione è stata Unrueh di Cyril Schäublin, racconto anarchico in una fabbrica di orologi svizzeri nel tardo Ottocento: se venisse abolito il tempo, si chiedono questi operai che producono lancette, senza un tempo del lavoro come farebbero i padroni a sfruttare?

Il problema del tempo torna con forza in Full Time - Al cento per cento di Éric Gravel, in originale À plein temps (appunto). Il tempo è la gabbia in cui si dibatte Julie, una persona normale, una madre single di due figli costretta a lavorare per mantenerli: all’inizio la vediamo che si sveglia nella sua casa fuori città, è ancora notte, e si reca a lavoro a Parigi nell’hotel di lusso in cui è impiegata, non prima di lasciare i due bambini alla generosa vicina di casa. La sua giornata è un movimento vorticoso: prende treni, arriva al lavoro, pulisce le stanze di clienti che sporcano (simbolicamente e letteralmente: di merda), concretizza in sé il contrasto tra potenti e deboli, tra coloro che “servono” e quelli che vengono serviti, i quali non si vedono mai. Opera in silenzio e velocità, come tutte le lavoratrici dell’hotel: “La regola è essere invisibili”. Fa una corsa a ostacoli per i ritardi dei treni, bloccati da un grande sciopero, problematizzando così il nodo sociale: la lotta per migliorare le condizioni finisce per mettere in difficoltà proprio i pendolari, ossia i più fragili, lavoratori come gli scioperanti ma ancora meno tutelati, nel classico ouroboros, il serpente che si morde la coda. I piccoli se le danno tra loro, il capitale è il nemico invisibile. Insomma Julie corre tutto il giorno e infine rientra a casa stremata, ritirando i figli solo di notte, senza poter assolvere alle funzioni di madre e rischiando di generare difficoltà per i bambini. La parabola si può verificare a confronto col suo negativo, Un altro mondo di Stéphane Brizé, che curiosamente esce in sala insieme a questo film e ne offre uno scavalcamento di campo: come qui c’è una lavoratrice umile, là c’è il dolore di un dirigente, due rovesci del lavoro 2020.

Full Time di Éric Gravel

In realtà Julie non sarebbe una waitress, bensì un’operatrice di marketing che è stata licenziata dall’azienda dopo una delle molte crisi del contemporaneo. Rimasta disoccupata, ha accettato la decrescita infelice come i protagonisti di Giorni e nuvole di Silvio Soldini. È retrocessa su posizioni operaie pur di lavorare: anche ora prova a rientrare nel settore, sostenendo colloqui, mandando curriculum. All’insegna del pudore sociale: la donna inserisce un buco negli anni che corrispondono al periodo da cameriera, mai mostrare debolezza, mai rivelare un impiego umile agli occhi del mercato. Ma anche tornare al vecchio lavoro non è facile, assentarsi per fare una interview è già un’impresa. In tal senso il film di Éric Gravel inscena un altro aspetto, quello più loachiano di tutti: il ruolo della rete degli amici. La protagonista, stretta nella morsa e senza tempo, deve attivare un intreccio di favori per poter sopravvivere, dalla vicina di casa alle amiche e colleghe; viene mostrato il meccanismo di protezione solidale, vista l’assenza dello Stato, e insieme i suoi limiti, perché non si può affidarsi completamente agli altri, un’assistenza solo personale e non pubblica in ultima istanza non potrà funzionare.

Detto così, il racconto di Full Time potrebbe sembrare l’ennesimo film sociale, giusto e condivisibile ma allo stesso tempo obbligato, talmente esatto da diventare sottinteso. Non è così. Il regista riesce ad evitare la retorica attraverso il movimento della macchina da presa: sin dall’inizio segue la protagonista, la sempre magnifica Laure Calamy, non nel consueto pedinamento ma creando un vortice, una confusione, un ritmo indiavolato e isterico che vuole ricostruire le giornate di lavoro della donna. Ci riesce: da subito siamo trascinati in mezzo al gorgo, veniamo sballottati nell’odissea ordinaria e banale della lavoratrice madre, con lei proviamo ad arrivare a fine giornata. E, soprattutto, l'autore mette sullo stesso piano stilistico il lavoro retribuito e la cura dei figli, ovvero li gira allo stesso modo: suggerisce mediante l’immagine che una donna ha due occupazioni, in una delle raffigurazioni più potenti che si ricordino sul tema.
Grandi istant classics hanno catturato il lavoro nei nostri anni (Brizé, Guillaume Senez, lo stesso Loach), ma finora non si era visto un film che rendesse così tangibile la schiavitù del tempo di lavoro. Quello di Julie, come quello di tutti: ecco perché nel finale, quando la donna ottiene un nuovo impiego, regala un ossimoro, ovvero sorride piangendo. Sorride perché avrà una migliore occupazione, e piange perché continuerà a non avere tempo, non fermarsi, non vedere i figli. Nel contrasto si racchiude il mondo del lavoro oggi, il suo aut aut spietato, la beffa per cui giri e rigiri ma perdi comunque.

Categoria
Éric Gravel Laure Calamy Lucie Gallo Agathe Dronne Anne Suarez 88 minuti
Francia
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

I segni del cuore – CODA

di Mattia Caruso
CODA - recensione film Heder

Ruby (Emilia Jones) è un'adolescente con un vero e proprio talento per il canto. Peccato che nella sua famiglia nessuno possa sentire la sua voce. Perché Ruby è figlia di persone sorde, una Child of Deaf Adults (CODA, appunto), una condizione che inevitabilmente finirà per scontrarsi con le sue ambizioni, portandola sul punto di (pensare di) dover scegliere tra sogni e affetti.

È un cambio di prospettiva considerevole quello che, sin dal titolo, caratterizza I segni del cuore – CODA, remake americano de La famiglia Belier e premio Oscar 2022 come Miglior film. Una dichiarazione d'intenti che dimostra come il film diretto dalla statunitense Sian Heder (Tallulah) voglia questa volta puntare maggiormente l'obiettivo, anziché sulla famiglia e la sua disabilità, proprio sulla protagonista e sul suo particolare coming of age, sul suono e la voce piuttosto che sulla sua assenza. Uno scarto lieve ma significativo rispetto all'originale francese che meglio si adatta alla nuova realtà consentendo al film di farsi portatore di uno sguardo differente, in linea con i temi, i valori e la sensibilità d'oltreoceano.
Sembra in tutto e per tutto parte di quel contesto, infatti, il film della Heder. Non solo per il maggiore individualismo che sottende e per l'ambientazione (una cittadina di pescatori del Massachusetts) ma anche per le sue dinamiche da teen drama, per la sua irrinunciabile estetica indie e per la sua tensione incalzante da film sportivo.

D'altronde, era inevitabile che una storia come quella de La famiglia Belier conquistasse anche il cinema statunitense. Non solo e non tanto a causa di un'industria sempre più attenta alle narrazioni inclusive (l'anno scorso, in corsa agli Oscar, c'era Sound of Metal) ma per una fascinazione antica, come dimostra qui la presenza dell'attrice Marlee Matlin, prima interprete non udente a ricevere una statuetta per Figli di un dio minore. È proprio la scelta di far interpretare tutti i membri della famiglia da vere persone sorde (provenienti dal Deaf West Theatre di Troy Kotsur, qui nel ruolo del padre e premiato a sua volta come miglior attore non protagonista) la principale novità del film. Una scelta coerente e legittima che però non gli impedisce di cadere, nonostante tutto, in una programmaticità evidente. Toccando doviziosamente ogni svolta da manuale, è come se il film non riuscisse infatti a nascondere l'ingombrante peso di una sceneggiatura spesso impaziente di toccare le sue tappe obbligate e ben più tradizionale di quanto possa apparire a prima vista. Perché mantenendo Ruby protagonista assoluta, a perdersi, ancora una volta, è l'occasione di guardare e raccontare veramente la disabilità dall'interno, preferendo incrociarla in maniera incidentale, attraverso lo sguardo di un eroe che la “subisce”, mettendola in secondo piano (un po' come già era avvenuto col razzismo per Green Book).

Non che CODA non sappia mantenere una certa autenticità di fondo o che gli interpreti non siano all'altezza (anzi, dalla Ruby della sorprendente Emilia Jones in giù poco gli si potrebbe rimproverare), nemmeno che non sappia usare al meglio il mezzo per rendere tangibile lo straniamento dei suoi personaggi, facendo della voce uno strumento di passaggio da un mondo all'altro. Eppure è difficile non vedere in questa quintessenza di film “da Sundance” (festival dove, ovviamente, ha fatto incetta di premi nel 2021) un'opera fortemente costruita, che saccheggia dall'originale i momenti più emozionanti senza temere di commuovere a oltranza. Un dramma sentimentale gratificante che non ha paura di esserlo, lodevole nel rifuggire facili pietismi ma non altrettanto abile nell'abbracciare la complessità del tema trattato, congelato com'è in uno sguardo troppo stretto, limitante e sorprendentemente convenzionale.

Categoria
Sian Heder Emilia Jones Eugenio Derbez Troy Kotsur Ferdia Walsh-Peelo Marlee Matlin Daniel Durant 111 minuti
USA 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Red

di Matteo Mazza
disney pixar turning red recensione film

Turning Red, diventare Red: un nome, un colore, una condizione. Fare i conti con qualcosa o con qualcuno, soprattutto con la propria storia di figlia, di donna. A questo guarda il venticinquesimo lungometraggio Pixar, distribuito in Italia con l’immediato titolo nominale Red, realizzato da Domee Shi (già autrice del cortometraggio Bao, Oscar 2019), prima regista a guidare un’opera della casa di Emeryville. Ma chi sia, cosa voglia e da dove provenga Red, un grosso e morbido esemplare di panda rosso in cui la protagonista Mei Lee si trasforma, sono domande a cui la tredicenne di origine cinese tenterà di trovare risposta insieme alle amiche Miriam, Priya e Abby, non prima di essersi scontrata con la propria emotività instabile, una madre decisamente troppo invadente e un’eredità famigliare a dir poco misteriosa.

Seguendo la tradizione delle fiabe, come accade in Cappuccetto Rosso, Red ha chiaramente a che fare con l’essere e il diventare donna: il film cattura il momento in cui da una bambina dovrà nascere una donna e, non a caso, abbraccia tutto il femminile dispiegandosi attorno alle grandi figure della Mamma, della Bambina e della Nonna, affrontando emozioni violente e contraddittorie. Il riferimento al colore rosso, come nel caso del cappuccetto, è da questo punto di vista rivelatore perché si tratta del sangue, dell’inizio del ciclo del sangue e dunque dell’inizio del tempo della fertilità; ma anche, e contemporaneamente a quanto accadeva in Biancaneve con la mela rossa, del desiderio sessuale, dell’affermarsi di una sessualità ormai matura. Come precisa Bettelheim «il colore della mela evoca associazioni sessuali come le tre gocce di sangue che produssero la nascita di Biancaneve, nonché le mestruazioni, l’evento che segna l’inizio della maturità»[1].

In questo senso il film si presenta come ideale continuazione del precedente Luca: attraverso una storia di formazione ambientata a Toronto nel 2002, quindi collocata nello spazio e nel tempo e autobiografica (la regista ha preso spunto dal proprio passato), Red mette in scena il percorso che la protagonista deve compiere per la conquista della propria identità. Sul piano dei contenuti, Luca e Red sono film gemelli, dall’anima bestiale. Infatti, analogamente a Luca, Red è un film capace di far dialogare mondo esteriore e mondo interiore coniugandone le complessità e le forze espressive: da una parte i malumori preadolescenziali di una ragazzina perfettina che vede nella madre l’immagine da consacrare ma vuole a tutti costi andare al concerto della sua boy band preferita, i 4*Town, e per questo tradirà il modello da seguire; dall’altra una bestia pelosa e puzzolente, ingombrante e rabbiosa, che si palesa all’improvviso nella vita della ragazza scombinandone l’ordine originale. E non solo.

red film recensione disney pixar g

Adeguandosi alle logiche della (casa) madre, Mei Lee deve liberarsi del panda Red mediante un rito magico che porterà il film a trasformarsi in un’estensione ibrida e orientaleggiante  (che non manca di guardare agli anime, da Sailor Moon a Ranma) del dittico di Pete Docter composto da Inside Out e Soul: con il primo condivide l’idea dei criteri cromatici che lì servivano per distinguere le emozioni mentre qui aiutano a riconoscere le amiche; con il secondo spartisce l’idea di una dimensione astratta e altra nella quale proiettare il proprio spirito pandesco. Così, al pari del cervello di Riley e dell’Ante-Mondo, rappresentazione di uno spazio fantastico dove le potenzialità creative si manifestavano in modo clamoroso, anche in Red il piano astrale è un luogo immaginario molto simile a una foresta di bambù in grado di accogliere il duello finale tra lo spirito del panda e la libertà di Mei Lee, pronta alla conquista dell’identità.

E qui può sorprendere che per affrontare una mole di temi così impegnativi (l’imbarazzo, la crescita, i legami famigliari, le tradizioni culturali, le prime mestruazioni) lo studio adotti la strada della semplificazione simbolico-cromatica in salsa pop: se il concerto monopolizza la ritualità simbolica dell’iniziazione, il versante estetico è dominato dal rosso. D’altra parte cos’hanno in comune la bandiera della Cina e quella del Canada? Ecco, quindi, se da una parte il rosso del titolo conferma l’intenzione di Pixar a far convivere presente e passato dell’animazione - rosso come la mela di Biancaneve, ma pure le rose pitturate da Alice, i capelli di Ariel, il cappello e i capelli di Jesse o di Merida - dall’altra risulta evidente la fatica che lo studio sta affrontando nel portare avanti quel percorso di rinascita basato sul riconoscimento di nuovi target e la ricollocazione di chiavi poetiche, elementi innovativi e proposte universali in un mercato necessariamente internazionale e sempre più diversificato.

Per tali motivi, il lieto fine del film risulta compiacente, ambiguo sul piano della morale ma non su quello del significato. Parafrasando le parole con cui Mei Lee esordisce nell’incipit: «La prima regola di famiglia? Onora i tuoi genitori. Assecondare ogni loro richiesta ma non dimenticare di onorare te stessa». Non è il momento di andare avanti verso l’infinito e oltre, è ora di accontentarsi e fare cassa con il panda puccioso che strizza l’occhio ai paganti (del tempio-cinema). Non è il momento di lasciare andare (come nel finale di Luca), in Red diventare grandi significa trattenere, un po’ alla maniera di Encanto.
Insomma Pixar non ha tutti i torti, diventiamo. Ma qui non si cambia un granché, piuttosto ci si arrangia con quello che si è e quello che si ha.

-

[1]:  B. Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Feltrinelli, 16° ed., Milano 1997.

Categoria
Domee Shi Rosalie Chiang Sandra Oh Ava Morse Maitreyi Ramakrishnan 99 minuti
USA 2022
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Licorice Pizza

di Matteo Berardini
licorice Pizza - recensione film

L’uomo è innamorato e ama ciò che svanisce,
cos’altro c’è da dire?

Yeats

In nuce, Licorice Pizza è tutto in quella sequenza lì, di Vizio di forma, in cui Doc e Shasta ricevono una dritta impossibile per comprare dell’erba e finiscono per correre assieme sotto la pioggia, avanti e indietro, tra le luci blu e rosse delle insegne luminose, senza trovare alcunché di lisergico o resinoso ma semplicemente sé stessi, abbracciati sul pavimento di un negozio, al riparo dalla pioggia, in quello che diventa uno dei momenti migliori della loro storia d’amore, uno degli ultimi. In sottofondo Journey Through The Past di Neil Young, colonna sonora di un ricordo dopo il quale, nel film, iniziano a emergere e concatenarsi coincidenze impossibili, associazioni irrazionali, mentre l’indagine si fa via via più complicata e inintelligibile, e il sentimento resta l’unico strumento con cui orientarsi. Ecco, dalle vibrazioni di quel momento, da quella corsa a due in cui tutto sembra possibile e ogni svolta promette un’avventura, un incontro memorabile, una detour d’emozioni impreviste e ancora tutte da comprendere, cresce e si espande Licorice Pizza, che da quegli anni di paranoia applicata al sentimento e al sogno si spinge verso il decennio successivo, gli Ottanta, ancora lontani all’orizzonte ma già ben presenti nel loro spirito imprenditoriale, nel talento artistico che vira al mondo degli affari. Gary, ex attore bambino che ha già perso lo smalto e le occasioni di un tempo, è ben diverso da Doc Sportello, è un giovane adulto che ama farsi riconoscere e trattare come tale, che ostenta una finta sicurezza come fosse un’armatura nei confronti del mondo, e che riconduce costantemente le sue energie e la sua vitalità all’ennesimo affare, all’ennesima occasione per sé e la sua banda di piccoli attori, amici, traffichini. Ma se i tempi stanno cambiando e il senso di sconfitta è roba per i genitori e la loro generazione, l’amore e il sentimento sono sempre lì, antidoti e totem che tengono in vita la parte migliore di sé.

vizio di forma licorice

Storia d’adolescenza e d’amore, Licorice Pizza riesce nel compito assai arduo di far convivere l’intensità formale tipica del cinema di Paul Thomas Anderson all’illusione spettatoriale di assistere allo scorrere di una vita colta semplicemente nel suo farsi, nel suo procedere casuale tra eccessi e avventure come ogni adolescente sogna di fare. Siamo in un cinema della memoria e della nostalgia, in cui ogni movimento di macchina, ogni tempo di montaggio e disposizione dei corpi, degli sguardi, dei sorrisi che accendono i volti, è rigorosamente studiato, calibrato da una consapevolezza registica tra le più alte nel cinema contemporaneo. PTA è un magistrale manipolatore della macchina cinema e le sue immagini sono evidentemente mediate, lontane da un approccio mimetico e immediato nei confronti del reale; eppure, da questa consapevolezza così ragionata e rigorosamente espressiva nasce un film che riesce a nascondere la sua natura più cerebrale, il suo essere artefatto, offrendosi ai nostri occhi come un luogo naturale che vale la pena abitare e in cui ogni immagine è un invito a perdersi, allo stare al gioco. Licorice Pizza riesce in uno degli effetti più nobili che possiamo chiedere al cinema: farci credere e desiderare, per quelle due ore di visione, di vivere tra i vivi anche se il mondo che ci circonda è quello dei fantasmi intrappolati in un riflesso (e quanti riflessi ci sono in questo film, quanti momenti memorabili che percepiamo attraverso immagini impresse sui vetri, sentendone comunque, nonostante la distanza e la natura mediata, tutta la potenza e l’emozione). È l’illusione più intima offerta da un dispositivo che si nasconde nel suo svelarsi, da un film che si tiene ben lontano dalle fredde forme della nostalgia mercificata perché crede ancora che la sincerità sia a portata di mano, parte integrante dell’immagine.

Privo apparentemente di scheletro, rizomatico per come procede senza progressione apparente o verticalità alcuna, piuttosto interrompendosi e deviando in parentesi costanti, in frammenti che di volta in volta potrebbero diventare film a sé stanti, Licorice Pizza è un film su quel momento della vita in cui a dare forma al percorso non è una linea retta ma le deviazioni nel loro insieme, una dopo l’altra, avventure che si susseguono tra i pomeriggi assolati di un’estate vissuta un’avventura sgangherata dopo l’altra. Come i volti di quando si è bambini e via via adolescenti, in cui ogni parte del viso sembra andare per conto suo per crescere a strappi, tra nasi sproporzionati e simmetrie sbilenche, fronti eccessive e mascelle sporgenti, secondo andamenti irregolari e imprevedibili che solo nel tempo trovano un loro equilibrio e armonia d’insieme. Del resto Licorice Pizza è un film di corpi, non conformi nel canone hollywoodiano e in realtà perfettamente normali, tra denti sporgenti, smalto sbeccato, pelle irritata dall’acne e nasi adunchi. Tratti che PTA sottolinea costantemente con primi e primissimi piani, certificando una nuova forma di naturalezza nel quale l’uso delle celebrità – i personaggi di Sean Penn, Tom Waits e Brandon Cooper, tutti ugualmente istrionici e squallidi, privi di vita – appaiono come evidente liquido di contrasto ai corpi e volti dei due protagonisti. E altrettanto anomalo e anti-hollywoodiano è il tempo concesso a questi corpi: il tempo degli abbracci, dei sorrisi, del toccarsi e sfiorarsi, delle corse e delle attese, di inquadrature che si attardano su tanti piccoli gesti sincronizzando il nostro respiro e il loro, permettendo a noi spettatori di immaginare il calore e gli odori e la morbidezza della pelle e l’emozione incandescente del tocco che vibra appena sotto la superficie dell’immagine. In fondo è un cinema degli incontri, quello di PTA, un cinema duale che da Ubriaco d’amore in poi rielabora la coppia in forme diverse intendendo comunque il sentimento come il motore grazie al quale le due linee convergono, che sia in termini affettivi o conflittuali. Abbiamo sempre bisogno dell’altro per completare la percezione di noi e del mondo.

Categoria
Paul Thomas Anderson Alana Haim Cooper Hoffman Sean Penn Bradley Cooper Tom Waits Benny Safdie 133 minuti
USA 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Flee

di Andrea Fontana
Flee - recensione film

C’è un legame sottile che lega le immagini, così diverse, che compongono la storia di Flee, film diretto da Jonas Poher Rasmussen, candidato all’Oscar come miglior film animato, miglior documentario e miglior film internazionale. E questo legame apparentemente invisibile è in parte spiegato dalle stesse candidature agli Oscar: miglior film animato e miglior documentario. Quest’opera – che racconta la storia vera di Amin, fuggito dall’Afghanistan dopo l’arrivo dei mujaheddin e giunto nella Russia post-comunista, da cui tenta quindi di raggiungere lo zio e le sorelle in Svezia – è un flusso di coscienza, un fiume-ricordo che, proprio in virtù della sua essenza, mescola immagini diverse. Se è vero che la Storia non la si può oggettivizzare, è altrettanto vero che la si può ricostruire attraverso la memoria. E sebbene fallace, viziata dalla prospettiva di una singola soggettiva, è con gli occhi di Amin che attraversiamo dolori e sofferenze di un decennio di Storia, i cui effetti e attualità sono validi anche e soprattutto oggi.

Rasmussen opta per un’animazione classica (che zoppica da un punto di vista tecnico; c’è poca fluidità, in controcorrente con quello a cui siamo abituati nell’animazione contemporanea) che interpola a immagini di repertorio, proposte con un formato anomalo ma che ben rende nella composizione della storia di Flee, e altre immagini più artistiche, essenziali ed intimiste, con cui sono rappresentati gli orrori interiori di Amin. E ce ne sono molti, di orrori, in questo film. Amin cerca la sua strada. Nel farlo compie un viaggio, molti viaggi: tutti terribili, che lo pongono nella scomoda situazione di affrontare la crudeltà umana. In questo, Flee non è compiaciuto ma si pone nei confronti della materia in una forma empatica senza mai cadere nel didascalismo o nella malizia. Le parole e i ricordi di Amin sono reali e in quanto tali fanno male. Ma nonostante la morte, la sofferenza, la spietatezza che il povero Amin è costretto ad assistere, riesce a trovare uno spiraglio di speranza. E in quella speranza, trova sé stesso. Facendo i conti con la propria omosessualità. Ma anche con il male del mondo, che è disposto ad affrontare se affiancato dalla persona che ama. Amin sta per sposarsi, forse ha trovato casa con il suo compagno, ma qualcosa lo blocca. Il ricordo di ciò che ha affrontato gli permette di risalire quell’onda oscura che ha vissuto sulla sua pelle.

Flee è sicuramente un’opera che si muove su un territorio intimista, tutta giocata sulle parole e sullo sguardo del suo protagonista. Ma è anche un film in grado di intersecare condizioni storiche di grande portata, privilegiando sempre il punto di vista personale e intimo di Amin. E così l’Afghanistan, terra martoriata ormai da decenni, diventa il primo teatro della vita di Amin, quello in cui la dolcezza della sua infanzia si mescola con l’orrore della guerra; e dopo l’Afghanistan si arriva alla Russia post-sovietica, un Paese disgregato, corrotto, allo sbando. C’è una sequenza particolarmente significativa: nella Russia povera apre il primo, storico McDonald’s. Dietro un momento di (apparente) felicità, si celebra un dramma, a cui assiste lo stesso Amin. Una duplicità che sintetizza la sua vita, testimone involontario di un dolore e di un’insensibilità spezzata solo a volte da sprazzi di umanità (come quando, nel bosco russo, gli uomini decidono di aiutare un’anziana signora, o quando il fratello di Amin porta in spalle un bambino).

Sono tragedie di più di venti anni fa. Ma sono pregne di contemporaneità. E qui sta la forza di un film come Flee: raccontare la vita e nel farlo, raccontare la Storia. Nella speranza di imparare qualcosa.

Categoria
Jonas Poher Rasmussen Daniel Karimyar Fardin Mijdzadeh Milad Eskandari Belal Faiz Elaha Faiz 89 minuti
Danimarca, Francia, Svezia, Norvegia, 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Petrov's Flu

di Andrea Vassalle
petrov-s-flu recensione film

È ormai ben nota la capacità dell'arte di anticipare i mutamenti e le diramazioni della società, di farsi premonitrice e acuta lettrice del presente e dei suoi sussulti; un ruolo che dal secolo scorso viene ricoperto soprattutto dal cinema. Capita spesso di imbattersi in film che preconizzano eventi incombenti o che, anche per casualità, si trovano a uscire quasi in simultanea, osservandone e riflettendone le pulsioni più profonde. Ne è un esempio Petrov's Flu, il nuovo film di Kirill Serebrennikov, in concorso al Festival di Cannes nel 2021 e distribuito via streaming in Italia da I Wonder Pictures proprio nei giorni in cui la Russia campeggia sulle prime pagine e sugli schermi di tutto il mondo (quantomeno quello occidentale. Del resto la lettura del film non può prescindere dal contesto della Russia odierna, poiché la malattia del protagonista, un fumettista nell'era post-sovietica, è anche la malattia del paese stesso, che è andata aggravandosi fino alla manifestazione acutizzata dei sintomi attuali. Ma è anche la malattia di Serebrennikov, debilitato da anni di accuse per appropriazione indebita che hanno portato agli arresti domiciliari, sotto le quali però si nascondono le ombre della repressione politica per aver duramente condannato il governo di Putin.

Ha la febbre, Petrov. Eppure vaga nella notte gelida di una Russia che sembra quasi post-apocalittica, abitata da autobus e furgoni scalcagnati, abitazioni lugubri e fatiscenti, e ricoperta da una coltre di oscurità nella quale si stagliano piccoli fuochi. Il suo ritorno a casa si trasforma in un'odissea non solo fisica ma soprattutto mentale, inevitabile e persino autodeterminata, insita in un personaggio irretito dalle allucinazioni di una febbre che elimina i confini tra realtà e finzione. Le visioni e gli incubi di Petrov si alternano ai suoi ricordi di bambino, che differiscono dalle immagini del presente per il formato e per il tono nostalgico e caldo: un riparo spirituale, tanto per lui quanto per lo spettatore, che trovano sollievo dal turbinio incontrollato che li ha avvolti.
Con Petrov's Flu, liberamente tratto dal romanzo The Petrovs in and around the flu di Alexey Salnikov, Serebrennikov mette in scena una Russia febbricitante, fantasmatica e angosciosa. Una discesa nel sottosuolo che svela un Io governato da impulsi, che si manifestano soprattutto tramite gli slanci di violenza e forza sovrumana della moglie di Petrov, e aggrappato alla memoria. I ricordi del protagonista risalgono a un'Unione Sovietica in cui compariva la stessa febbre, ma era percepita una prospettiva e una coesione andate perdute con la dissoluzione dell'URSS. Un inabissamento apocalittico che ha tradito le speranze condannando il paese a un'oscurità più fitta, colma di non morti come l'uomo che si risveglia uscendo dalla bara o il modo in cui viene considerato lo stesso protagonista (scambiato per un malato terminale).

La crisi della società non può che passare attraverso la crisi dell'immagine, come si è visto anche nel recente France di Bruno Dumont. È l'immagine stessa a essere, nel caso di Petrov's Flu, quanto mai febbrile, trascinando personaggi e spettatore in un caos spaziotemporale. Già nel film precedente, Summer, Serebrennikov aveva inserito elementi di realtà invasa dalla fantasia, lasciando però questo aspetto ai margini e dando maggior risalto al velo nostalgico. Con Petrov's Flu realizza invece una sorta di contrappunto di quel film, un seguito ideale in cui le proporzioni si ribaltano. Le immagini perdono le proprie coordinate e travalicano i limiti che le racchiudono, portando il vero e il falso, la realtà e l'incubo non solo ad alternarsi senza continuità, ma a coesistere. È questa la visione che Serebrennikov ha del proprio presente e dell'anima tormentata e disperata del proprio paese, preda di una febbre persistente che non è stata alleviata e che ha trovato un terreno fertile in un mutamento mai realmente avvenuto.

Categoria
Kirill Serebrennikov Semyon Serzin Chulpan Khamatova Ivan Dorn Vladislav Semiletkov Yuri Kolokolnikov 145 minuti
Russia, Francia, Germania, Svizzera 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Lamb

di Nicolò Comencini
Lamb - recensione film

Presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes, nel 2021, Lamb è il primo film del regista islandese Valdimar Jóhansson, e un invito a immergersi nella magnificenza di quella terra natale per seguire una storia dalla tonalità drammatico-fantastica co-sceneggiata da un suo compatriota, lo scrittore Sjón, già noto al pubblico cinefilo per aver collaborato con Lars Von Trier in Dancer in The Dark.
L
amb si presenta innanzitutto come una fiaba tetra sul lutto e sul dolore, una lenta e silenziosa discesa nel personale inferno di María e Ingvar, coppia di fattori che vive isolata nell’entroterra islandese alle prese con il dramma della perdita dell’unica figlia, tragedia di cui solo una muta e immobile campagna sembra essere testimone. Fin dalla scena di apertura, ci viene però suggerito che qualcosa si muove in quei paesaggi, una misteriosa minaccia che aleggia in una natura apparentemente sopita, e che il regista decide, con cognizione di causa, di far coincidere, nell’enigmatico prologo, con lo sguardo dello spettatore.

Mano a mano che la pellicola avanza, diventa sempre più evidente che la romantica opposizione tra uomo e natura è solo illusoria, come ci suggeriscono non solo il ricorso all’archetipo dell’ibrido umano-animale, incarnato prima da Ada, bambina-agnello che la coppia adotta in vece della figlia scomparsa, e successivamente dal padre di quest’ultima, uomo-ariete mosso da sentimenti vendicativi e intenzionato a rimpossessarsi della sua prole, ma anche i comportamenti dei protagonisti umani della vicenda —María fra tutti — che a più riprese sfociano nel bestiale. Jóhansson sembra interrogarsi sulla definizione e sui limiti dell’umano, e la risposta che fornisce è tanto nichilista quanto, a suo modo, consolatrice, poiché rivela un mondo in cui tutto il vivente è interconnesso da trame causali e invisibili su cui circolano amore, sofferenza e le loro possibili declinazioni.

Il film coltiva anche un sottotesto biblico che sembra però ironizzare sulla presenza del divino più che avvallare una lettura cattolica del mondo. Ada, eponimo agnello di Dio che nei testi sacri "toglie i peccati dal mondo”, è invece, suo malgrado, lo squarcio che ne rivela la spietatezza. Lungi dall’offrire una possibilità di redenzione, la sua comparsa mette a nudo una dimensione in cui il dolore valica i limiti dell’umano e diventa condizione esistenziale universale, proprietà falsamente transitiva che genera, nel passaggio da un soggetto all’altro, imprevedibili fattori di scarto quali il desiderio di vendetta e il ricatto. Ma non è tutto: all’immacolata concezione del suo corrispettivo biblico, María contrappone uno speculare odioso, spietato e cosciente crimine, ovvero l’omicidio della madre biologica di Ada. E poi ancora Pétur-Pietro, pescatore cui vengono affidate le chiavi del paradiso, che nell’universo narrativo di Jóhansson le utilizza invece per trarne un vantaggio carnale, fallendo e guadagnandosi l’esilio.
Dal punto di vista narrativo, Lamb abbraccia e rielabora una struttura molto diffusa nel racconto fantastico di fine ottocento, e che potremmo definire “a trappola”: costretto figurativamente in un luogo avverso, l’eroe si illude di potersi liberare ma la trappola del mondo gli si richiude addosso ancor più stretta. Per comprenderla appieno possiamo ricorrere alla distinzione schopenhaueriana tra Volontà e Rappresentazione, dove la seconda indica l’illusione soggettiva e universale che si regge su una co-dipendenza tra soggetto rappresentante (nel nostro caso María e Ingvar) e oggetto rappresentato (Ada), mentre la prima è il moto invisibile, senza causa né scopo, che regola tutto l’esistente, ovvero la volontà di vivere. María e Ingvar credono di poter eludere la sofferenza edificando il proprio paradiso personale, senza rendersi conto che nel farlo si stanno in realtà rifugiando in un livello ancor più profondo di Rappresentazione. Ma la Volontà — cieca, irrazionale e implacabile — non può essere elusa, e si manifesta in questo caso tramite l’ibrido uomo-ariete, che per riflesso getta luce sulla fallacia dell’oggetto stesso dell’illusione della coppia, e così facendo la squarcia, riportando l’ordine.

La lunga sequenza finale in cui María, dopo aver pianto la perdita del marito e della figlia, guarda dritta in camera ed espira, sembra suggerire un epilogo tragico in cui l’eroina si rassegna al dolore e al proprio destino, capendo che nulla può fare per modificarlo e per sottrarsi a un sistema-mondo governato unicamente dalla casualità e dalla cieca volontà di vivere di ogni essere, inclusa la sua — e, parallelamente, nulla può fare per sottrarsi alla volontà voyeuristica dello spettatore-ariete, primo motore del dramma, sguardo ibrido che fin dalle prime sequenze insemina la narrazione per poi nutrirsi dei suoi risvolti.

Categoria
Valdimar Jóhannsson Noomi Rapace Hilmir Snaer Gudnason Björn Hlynur Haraldsson 106 minuti
Islanda 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Red Rocket

di Saverio Felici
Red Rocket - recensione film Baker

Ha ancora senso porsi come "regista underground", sembra chiedersi Sean Baker tra le righe di Red Rocket? Sussistono ancora i presupposti per quella contrapposizione militante con le istituzioni dell'intrattenimento? Forse ai tempi del New American Cinema, nella sua formalizzazione newyorkese del '60-'61, quando lo studio system deteneva un controllo burocratico sugli strumenti fisici della produzione audiovisiva; ma in un'industria che porta Chloe Zhao all'Oscar? La mano lunga dell'establishment sa trovare un posto e un mercato a qualunque cinematografia. E ai premi, Sean Baker sta sicuramente pensando: già il coinvolgimento del divo Dafoe nel cast neorealista del bellissimo The Florida Project poteva spiegarsi giusto in tal senso. Red Rocket fa allora un passo ulteriore in quella direzione: più indie che underground, estremamente "scritto" (forse troppo), meno debitore delle prime improvisations di Cassavetes e più della commedia-Sundance di metà anni 2000 (in cui si inserisce il recupero dell'ex volto Mtv Simon Rex). È il film con cui il regista prova a farsi conoscere al grande pubblico: questione di poco, e la consacrazione arriverà.

Nella recente scuola dell'iperrealismo USA (vengono in mente almeno Benh Zeitlin, Tim Sutton, la stessa Zhao), Sean Baker mantiene però un purismo da missionario. L'autore del New Jersey non è un turista in prestito dagli studios, che gioca con i casi umani in attesa di una chiamata alla Disney: il suo approccio è un cinema di persone, in cui lo spazio per la manipolazione del reale è minimo. È figlio di Ombre come di Lionel Rogosin, del documentario etnografico e del cinema-verità: i riferimenti soliti sembrano inadeguati, e tanto i grandi narratori dello sprofondo urbano (Jarmusch) quanto gli esteti dello schifo grunge e sornione (Solondz, Korine) sono falsi parenti. È un cinema estremamente "situato" (dunque difficilmente esportabile, se non in un'ottica di schadenfreude dell'orrido), la cui coerenza può esporre a superficiali accuse di manierismo. I sei lunghi di Baker si inseriscono in un preciso format, i cui continui rimandi interni collocano all'interno di un unico grande reportage lo-fi del presente. Un saggio antropologico in più puntate, in divenire, termometro delle mutazioni sociali come somatizzate dalle fasce più marginali della popolazione statunitense. Ogni nuovo esperimento costituisce un capitolo a sé: organicità, non ripetitività.

Red Rocket azzarda dunque un compromesso sul piano strutturale, rimanendo intransigente su quello stilistico (l'unico che conti, alla fine). Improvvisazioni, dialoghi co-scritti da attori amatoriali, scene rubate, troupe da documentario e lavorazione di due settimane: anche nel vestito della commedia, Baker continua ad applicare quell'idea newyorkese di filmmaking "contro" all'America di oggi. Nel suo settimo film, il reale è però sconvolto dall'irruzione di un archetipo cinematografico: Mikey Saber (Rex) è il classico drifter, l'hustler, l'individuo losco che percorre il continente affidando la svolta al proprio carisma di sorridente manipolatore. È il pronipote spirituale dello Stan Carlisle di Nightmare Alley, come lui facile metafora per estensione del regista, il cinematografaro venditore di fumo e sogni. Parlando e vendendo(si), l'auto-proclamatosi leggenda del porno (in realtà poco più che uno sfruttatore di performer femminili) ipnotizzerà la putrescente cittadina natale, adescando la giovanissima Strawberry (Suzanna Son) come "nuova Sasha Gray" su cui costruire il proprio rilancio.

red rocket recensione film baker

Per la prima volta è dunque il Cinema come oggetto a inserirsi in una filmografia rigorosamente contenutista. Il porno (inteso come reificazione della propria immagine) era già centrale in Starlet (2012), l'audiovisivo come forza affermante e distruttrice in Tangerine (2015): in Red Rocket, è però la messa in gioco del mezzo nella sua presenza fisica a veicolare l'esondazione del pornografico dallo schermo al quotidiano. Se i primi lavori del regista delegavano addirittura agli smartphone la testimonianza del reale, a coglierne i fotogrammi è ora uno slabbrato 16 millimetri alla Gerard Damiano, tra piani e montaggio da softcore eurotrash. Le vite degli attori-personaggi come il backstage di un film erotico semi-amatoriale di mezzo secolo fa, in cui la messa in vendita di sé come ultima unità di scambio è ormai lo stato naturale dell'essere. La "comunità" di Texas City seppellisce l'idealizzato sotto-regno inclusivo e solidale in un microcosmo predatorio, in cui la prossimità dei totem del successo non fa che spingere sempre più lontano la presa di coscienza della propria condizione.

Più sociologo che editorialista politico, l'auto-assegnata dimensione di analista dei deplorables confederati non si addice appieno allo sguardo dell'autore. I richiami a Trump, le bandierine bruciate e fumate, gli agganci allo schiavismo sudista: sembra che stavolta Baker non riesca a fidarsi fino in fondo del proprio cinema, e della sua possibilità di esprimersi attraverso il reale. In The Florida Project lo spettro di Disneyland tra i prefabbricati era un'entità assordante: in Red Rocket, l'autore si sente chiamato a intervenire scenograficamente, suggerendo metafore meno significative di quanto non siano i volti stessi dell'incredibile cast, ancora una volta composto di locali e passanti. Un film forse meno forte, ma coerente con gli standard di una voce chiave del cinema americano contemporaneo. Una delle poche da tenersi strette.

Categoria
Sean Baker Simon Rex Bree Elrod Suzanna Son Ethan Darbone 128 minuti
USA 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Cyrano

di Veronica Vituzzi
Cyrano recensione film wright

Tutti conosciamo in modo approssimativo i dettagli più famosi della storia di Cyrano: un uomo dal naso abnorme, coraggioso eppure troppo timido per rivelare i suoi sentimenti all’amata Roxanne. L’opera teatrale di Edmond Rostand basa però il suo preciso senso nel dettaglio dei discorsi, poi evoluti in lettere d’amore, che Cyrano pronuncia di nascosto attribuendoli alla persona del bel Christian, amato a prima vista dalla donna. Le parole appassionate non sono solo l’oggetto intorno al quale si sviluppa la vicenda, ma in virtù del loro contenuto elaborano esse stesse un soggetto cui devono aderire i personaggi. Se cantarle diviene allora un modo per sottolineare la natura stratificata della storia, il cinema è un ulteriore mezzo di espansione narrativa a disposizione.
L’adattamento cinematografico di Cyrano diretto da Joe Wright trae le sue origini da un precedente adattamento musicale di Erica Schmidt di cui mantiene l’intelligente intuizione di eliminare la presenza del naso smisurato del protagonista per traslarlo nella statura deficitaria dell’attore Peter Dinklage. La “deformità” di Cyrano è un concetto universale, non un singolo ed esplicito dato di fatto: una certa trasversale idea di indegnità, l'impossibilità d’essere amati. Lo stesso Christian, pur bellissimo, soffre l’incapacità di sapersi esprimere degnamente come sa fare Cyrano. Il loro incontro assume le forme di un completamento di talenti atto a realizzare una storia d’amore perfetta: quella ciò che Roxanne pretende di vivere, suggerendo involontariamente a Cyrano l’idea di farsene autore. Tramite il corpo di Christian, forte della propria appassionata eloquenza, egli può divenire l'innamorato ideale, esprimere i propri sentimenti e vivere l'illusione di essere amato. 

Wright risponde con abilità a questa esigenza narrativa adottando un ritmo armonioso e scorrevole dove la cura dei costumi e delle scenografie lascia spazio ai protagonisti del triangolo amoroso, ugualmente ben caratterizzati - benché Dinklage non manchi di primeggiare. Cyrano è un film godibile da guardare perché riconoscibilmente ben fatto fin dalle prime sequenze, ma proprio la sua piacevolezza rischia di mettere in secondo piano lo sforzo con cui il regista cerca di approfondire quella che è ben più di una semplice trama d’amore. Minuscoli dettagli suggeriscono il sospetto che forse Roxanne sappia inconsciamente che è Cyrano a scrivere le lettere per Christian, e che tuttavia la fascinazione per il dialogo amoroso che ne è scaturito le impedisca di abbandonarsi al Cyrano uomo, troppo presa dalle parole del Cyrano autore.
L’amore sembra possibile allora solo come racconto, una distanza fisica colmata soltanto dalla condivisione spirituale. Cyrano è un musical, è come tale presenta scene di danza, ma i tre innamorati non ballano mai insieme: un desiderio di contatto bloccato dalla paura che diviene la colpa e personale deformità interiore dei personaggi. L’unica liberazione possibile, il singolo istante di verità si trova solo nella morte, racconto sincero contrapposto al gioco di maschere di Cyrano e Roxanne; ed è in un campo di battaglia, in attesa di uno scontro suicida, che le voci dei soldati che salutano i propri cari fanno eco alla confessione finalmente sincera del protagonista. Il romanticismo di Wright non può esimersi da farsi sottilmente tragico proprio perché ostacolato da circostanze triviali: il denaro e il potere giocano un ruolo sottile ma decisivo nella storia, accentuando l’ideale amoroso come illusione, sogno, possibile fuga dalla realtà che è specchio dell’indegnità dei personaggi.  

Cyrano è pertanto un film doverosamente sentimentale, elaborato, abbellito; il contesto storico e il passato dei personaggi ha poca importanza perché la loro obbedienza a una recita nella recita assegna già un’attenzione massima alla complessità dei loro caratteri. La fluidità di un’opera così equilibrata, pur nelle vesti di pellicola romantica, nasconde pieghe di disperata fragilità: segno di una coerente coincidenza con un racconto d’amore che, espressamente creato e interpretato dai suoi autori, non riesce a cancellarne la vulnerabilità psicologica, così esigente di sollievo da nutrirsi di sole parole.

Categoria
Joe Wright Peter Dinklage Haley Bennett Kelvin Harrison Jr. 126 minuti
Regno Unito, Usa, Italia, Canada
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Iscriviti a