È stata la mano di Dio

di Paolo Sorrentino

L'adolescenza, Napoli, la speranza e il dolore: per la prima volta Paolo Sorrentino rivolge direttamente l’obiettivo verso la propria intimità e il proprio vissuto

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La famiglia, l’adolescenza, la quotidianità e il sogno, l’affetto e la delusione, la speranza, il dolore e l’amarezza, e soprattutto Napoli, dimensione emotiva più che geografica: l’ultimo film di Paolo Sorrentino rappresenta il tassello chiave di una filmografia già ampia e strutturata, perché qui il regista, affabulatore, esteta, a tratti visionario, per la prima volta rivolge direttamente l’obiettivo verso la propria intimità e il proprio vissuto. Lo fa, inevitabilmente, con estrema cautela, con pudore, quasi con circospezione. È una resa dei conti, un Amarcord, uno spazio per lasciarsi andare al ricordo che si fa rimpianto ma anche dichiarazione d’amore. Verso i genitori scomparsi in un’età in cui il futuro appare ancora così incerto e nebuloso, verso la città che è heimat, ventre materno oscuro e sotterraneo ma anche apertura sull’azzurro senza fine dell’onnipresente mare.

Gli stilemi tipici del Sorrentino che conosciamo e amiamo a ben guardare ci sono tutti. Il grottesco, nella descrizione di certi personaggi che compongono una vivacissima galleria di ritratti (a cominciare dalla baronessa, quasi caricaturale eppure così umana). L’immaginifico, la sospensione magica di certi momenti epifanici (l’uomo appeso sul set di Capuano), con echi felliniani più o meno marcati (la femminilità prorompente e statuaria della zia Patrizia). C’è, persino, Fellini stesso, inconfondibile voce fuori campo durante i provini a cui partecipa, speranzoso, il fratello del protagonista.
Eppure questo è forse in assoluto quello meno “sorrentiniano” tra i film dell’autore, perché nel complesso è indubbiamente il più scarno, il più nudo, il più autentico: la vita vera brucia ancora nelle mani del regista, ed è una realtà che non sopporta ornamento e stilizzazioni, che non può essere tradita. Dunque, si procede per sottrazione, specie nella seconda parte del film, quella che racconta il lutto e il tentativo di elaborazione.
In principio, quello che vediamo attorno al giovane Fabio (alter ego del regista), è universo di affetti solidi, dove il buonumore è autentico e i contrasti e le ferite, quando presenti, non vengono taciuti, ma anzi palesati anche platealmente nel tentativo, fallimentare o meno, di superarli. C’è sempre, verosimilmente, qualcosa che sfugge al controllo: lo spettro della deriva psicologica che rischia di farsi follia, l’imprevedibilità dell’eros che mette a rischio la stabilità sentimentale, qualche segreto che potenzialmente è una mina che attende di esplodere. Ma il giovanissimo Fabio si muove ancora in un universo ordinato, conoscibile, che risponde a un orizzonte di senso. Poi, il lutto improvviso e inaspettato lo precipita nel vuoto abissale, nell’assenza muta, in un limbo in cui tutto sembra essere privo di colore. È la mano di Dio che si è posata sulla sua testa: nel momento fatidico, il ragazzo, che sarebbe dovuto essere insieme ai genitori, si trova invece allo stadio per vedere Maradona. Perché, come dirà Sorrentino in una intervista, “Maradona è una figura che ha che fare con il divino, Maradona non è arrivato a Napoli, Maradona è apparso”.

Poi l’estate, le spiagge nere di Stromboli, i vicoli di Napoli, una serata al teatro. Fabio è tra il pubblico quando un uomo si alza in piedi e inizia a insultare l’attrice, un uomo che ha il coraggio di gridare “quello che tutti pensano ma che nessuno dice”. È Antonio Capuano: beffardo, scorbutico, scontroso, provocatore. Per Fabio, è fascinazione, stupore, sbigottimento, un nuovo amore: il cinema. Ed è anche e soprattutto un nuovo inizio. Anche se il maestro dirà che “solo gli stronzi vanno a Roma per fare cinema”, Fabio il treno lo prenderà lo stesso. È sul quel treno che lo vediamo per l’ultima volta lungo i titoli di coda, è lì che il film finisce e la storia di Sorrentino regista inizia.

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 16/12/2021

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