Songs My Brothers Taught Me

di Chloé Zhao

Nel suo film d'esordio Chloè Zhao guarda già alle Badlands, agli spazi desertificati e morenti che torneranno in The Rider e Nomadland, come luogo in cui riconoscere una casa e verso cui esprimere un moto d’amore.

Songs my brothers - recensione film Zhao

La graduale riapertura delle sale di queste settimane sta imponendo una inevitabile trasversalità della fruizione, delle possibilità di visione, appunto tra il ritorno alla ritualità del grande schermo e la distribuzione su piattaforma, che mai come in quest’anno di grande difficoltà ha avuto un ruolo determinante. Una questione delicata, e sui cui varrebbe la pena spendersi in altra sede. Sicuramente quello che a noi qui interessa è l’opera di bene condotta da MUBI, che si cura proprio di restituire un senso a questa trasversalità con recuperi e distribuzioni esclusive in aperta continuità coi titoli passati in sala. Succede soprattutto per Nomadland (2020), Leone d’Oro a Venezia 77 e ora anche Premio Oscar al miglior film (ma con una caterva di altri premi in cantiere), a cui si affianca sulla piattaforma di Efe Çakarel il film d’esordio della sua regista, Chloè Zhao, Songs my brothers taught me (2015).
Dal titolo già evocativo in stile Minervini e perfettamente in linea con le cornici di presentazione (la Quinzaine e il Sundance), il film di Zhao si veste interamente di un’aura indie, adottando la camera a mano e una sottile granulosità di un titolo low budget, e un parlato sfilacciato nella forma di battute che sembrano rivolte al vento e ai tramonti delle immagini. Ecco, con tutti i suoi premi e tutto il suo rumore mediatico, Nomadland offre a MUBI l’opportunità per il recupero e la scoperta della sua autrice, l’individuazione dei tasselli comuni e di ciò che si è evoluto, o di ciò che si è perso.

Songs my brothers taught me è allora il luogo originario delle Badlands in campo lungo, con le silhouette solitarie in paesaggi desertificati, col cielo e la terra che tra di loro sfumano nell’opacità dei colori crepuscolari, inevitabilmente malickiani (la vicinanza è soprattutto con La rabbia giovane e I giorni del cielo). È poi il luogo originario di quello sguardo antropologico, seppure sempre abbozzato, che colloca i suoi protagonisti in geografie e storie peculiari, quelle dell’America Perduta di Bill Bryson: i luoghi di frontiera delle carovane e dei nomadi di Nomadland; il South Dakota dei rodei in The Rider, e delle riserve indiane Lakota, appunto, in Songs. Similmente agli altri due titoli, nell’esordio Zhao tiene insieme istanza documentaria (dicevamo antropologicamente orientata) e finzione, accompagnata da una propensione all’imbellettamento delle immagini. Questo atteggiamento ha prodotto i risultati migliori in The Rider, più onesto nel raccontare la vera esperienza di un cowboy costretto ad abbandonare i rodei in seguito a un grave incidente, e più calibrato nella dosatura di sospensioni auratiche che apparino poco sincere.

Nella riserva indiana di Pine Ridge, in Songs, un incendio in casa toglie la vita a un cowboy da rodeo, Carl, un uomo dall’aura quasi leggendaria che dal rapporto con nove donne diverse ha avuto venticinque figli. E sono tutti lì al suo funerale, quei venticinque ragazzi, tra cui Johnny, costretto a ponderare più attentamente l’idea di trasferirsi con la sua ragazza a Los Angeles e lasciare la sorellina Jashaun sola con una madre inaffidabile. Proprio la celebrazione notturna della dipartita dell’uomo davanti a un falò rappresenta uno dei momenti più riusciti del film di Zhao, e che torna più o meno uguale a sé stesso in The Rider e Nomadland (sempre nella forma del falò nel primo, e dell’incontro circolare tra i nomadi nel secondo), dove il parlato fumoso e la partitura sempre sfilacciata della narrazione si fissano qui, invece, nella ritualità di un movimento coeso, fluido, tra inquadratura, corpi e parole pronunciate. Il crepitio lieve della legna, la luce dorata e soffusa sui volti dei tanti fratelli e fratellastri che si confrontano sulla figura del padre e poi virano sul divieto della circolazione d’alcolici, eccetera; è la ritualità di un gesto che funziona perché più autentico, più consapevole, di una convivialità più sincera.

Tutto è assorbito in un’idea che è il fulcro dell'opera e della restante filmografia di Zhao: la pietra angolare dei natali, un luogo in cui far abitare l’Io, la terra a cui tornare e da cui prendere pure le distanze. Per Johnny, accompagnare la ragazza a Los Angeles, dove comincerà gli studi di giurisprudenza, significa svestirsi di un’identità precaria, sì, raffazzonata, tra il guadagno sporco delle consegne illegali di alcolici e l’agguato di una gang che lo riempie di botte e gli brucia il pick-up; ma in quelle vesti luride e sempre uguali (come la canotta che indossa lungo tutto il film, tesa sulla muscolatura delle spalle) non ci trova alcuna mortificazione, non si pronuncia in nessun movimento goffo. Johnny rinuncia alla partenza guardando alla sorellina Jashaun, che lo ama e che è innamorata di quella casa, sì dimessa, dimenticata, derelitta, asfissiata nel proibizionismo e in una giustizia solo locale, inquadrata sempre in paesaggi brulli e al crepuscolo, alla fine dei loro giorni; ma di quella fine inevitabile Johnny e Jashaun vogliono essere partecipi, trattenendo lo spirito selvaggio dei cavalli imbizzarriti della riserva, da non reprimere perché vitale, e un giorno spegnersi romanticamente, come una Macondo che perisce soffocata nella polvere.

Autore: Andrea Giangaspero
Pubblicato il 19/05/2021
USA, 2015
Regia: Chloé Zhao
Durata: 98 minuti

Articoli correlati

Ultimi della categoria