Judas and The Black Messiah
Fred Hampton e il Black Panther Party hanno finalmente il grande film che meritavano: ma la prova di maturità del nuovo cinema black americano è rimandata ancora.
Judas and The Black Messiah di Shaka King è bello, e in fondo tanto dovrebbe bastare. Che la storia di Fred Hampton venisse raccontata in un film rispettoso era tutt'altro che pronosticabile, vista la patologica ritrosia dei media USA nell'approcciarsi alla propria peraltro già marginalizzata tradizione antagonista; mezzo secolo dopo l'omicidio, era lecito temere che al chairman delle Black Panther di Chicago sarebbe toccato il mortificante trattamento-MLK, trasformato da leader socialista in vita a sorta di Padre Pio liberal-pacifista in morte – prassi standard dei centristi statunitensi nei confronti delle proprie icone di estrema sinistra, che Malcolm X aveva provveduto ad evidenziare già sessant'anni fa. I film dedicati all'eredità del Black Panther Party, forse il movimento più radicale ad essere emerso in seno allo Zio Sam dal dopoguerra a oggi, già si contano sulle dita di una mano (un low budget di Mario Van Peebles nel 1995, e un pugno di documentari); e chi più della Hollywood democratica neo-bideniana, ancora paralizzata dall'urto delle rivolte BLM, poteva avere interesse nel rimasticare l'eredità di Hampton, di Huey P. Newton, Bobby Seale, Angela Davis e Assata Shakur, magari per risputare fuori dei disinfettati santini del dissenso moderato?
Nel riportare alla luce il rimosso violento della cultura americana, il rispetto viene per forza prima dell'originalità, e in quel senso Judas and The Black Messiah è quasi un capolavoro. Il film di Shaka King è bello - non perfetto, ma giusto: è cosciente del proprio ruolo epocale, al punto da sacrificare consapevolmente gli aspetti più turbolenti e traumatici della vicenda (la storia del Giuda del titolo, l'informatore FBI William O'Neal, che vendette il leader popolare alla polizia la notte dell'omicidio) in direzione di un'esauriente quanto formulatica rievocazione da period piece. È un film scritto da gente che ha studiato, e sa andare oltre l'annacquata narrazione mainstream sul civil rights movement. Tanto basta a rendere impietoso il confronto con il suo blockbuster-gemello della stagione, il piagnisteo paternalista del Processo ai Chicago Seven; rispetto al cerchiobottismo del vecchio riformista Sorkin, il film di King ha il coraggio di inquadrare con chiarezza la natura politica del COINTELPRO - e della guerra etnica contro il movimento che J. Edgar Hoover non esitò a definire storicamente «la più grande minaccia» alla sicurezza interna del paese.
“Il Conformista incontra The Departed” lo avevano pitchato Keith e Kennie Lucas, stand-up comedians e scrittori, autori del progetto poi sviluppato da Ryan Coogler in produzione. Suona bene, e rende l'idea di cosa sarebbe potuta essere la versione ideale di un film “soltanto” ottimo. L'assenza di uno sguardo in grado di capitalizzare la fulminante premessa non è certo imputabile al solo regista; è sintomo piuttosto di una più ampia mancanza, che questa nuova generazione di autori black deve ancora dimostrare di saper colmare. Cresciuta in seno al sistema-Hollywood, protetta e premiata e coccolata, quella di Barry Jenkins, Jordan Peele e lo stesso Coogler è una scuola competente e preparata, ma che non ha ancora partorito un Maestro capace di farsi carico di progetti all'altezza delle ispirazioni citate. Lo fu Spike Lee, prima di finire digerito dal consenso e dalle cattedre universitarie, per la prima storica generazione di registi afroamericani a inizio '90; una visione altrettanto dirompente, oggi, non si vede.
Impeccabile e by the book, il film di Shaka King si aggrappa alla coperta di Linus del Biopic con la morsa dello studente modello terrorizzato dall'idea di sbagliare il compito. Judas and the Black Messiah ama forse troppo il suo Hampton (o sa, cinicamente, che la commozione paga più della provocazione): è tutto per i suoi primi piani, la sua canonica love story, i suoi infuocati discorsi (trascritti dagli originali) declamati dal camaleontico Daniel Kaluuya. Il dramma edipico del burattino O'Neal, costretto a manipolare l'estinzione dell'unico vagito di coscienza di classe tra comunità marginalizzate nella storia USA, si fa da parte: e con lui il vero ideale Oscar del film, quel Lakeith Stanfield già volto dei pochi lavori veramente originali di questa new wave in cerca di leader (l'Atlanta di Glover, ma soprattutto Sorry to Bother You di Boots Riley, tra i migliori film politici americani dell'ultimo decennio). La sua prova straziante, magistrale, è lo zenit di una carriera – ma si è visto nominato da Non Protagonista, in quello che è un po' l'epilogo della vicenda.
Anteponendo il proprio ruolo didattico a tutto il resto, Judas and The Black Messiah sfuma parzialmente la sua rabbia nell'elegia commossa. Fred Hampton conosceva bene le ragioni geopolitiche che non permettevano (e non permettono) l'esistenza di una rete organizzata di assistenza sociale e socialista su suolo Americano; ma il film non sembra esserne sicuro, non lo segue (o semplicemente, non sputa nel piatto in cui mangia premi e incassi), chiude un occhio sulle responsabilità strutturali riagganciandosi all'aneddotica individualista (i potenti sono ignoranti e razzisti - conclusione non diversa da quella cui approdava Sorkin, nel personaggio di Langella), cristallizzata nel caricaturale villain del bavoso Hoover/Sheen. Ed è un po' un peccato, perché questi attori e questa vicenda avrebbero meritato uno sguardo capace di andare oltre le foto dei personaggi reali sui titoli di coda a uso lacrime. Un lampo di lucidità e faccia tosta in più ne avrebbe fatto un capolavoro di cinema civile: ciò che resta è “soltanto” la più importante (anche perché unica) ricostruzione dell'esperienza Black Panther – e il biopic più bello dell'anno.