Wolfsburg

di Christian Petzold

La seconda regia di Petzold inscrive nel realismo e nell’immagine livida della città di Wolfsburg il dramma di un paese che non riesce ancora a definirsi, ed è ancora alla ricerca del proprio Heimat.

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Il Petzold di Wolfsburg (2003) sembra voglia giocare a straniarsi da quello scivolamento ondivago tra le figure fantasmatiche dell’omonima trilogia, dai codici identitari offuscati, dalle zone liminali che aprono a partiture temporali sfalsate (Transit) e tracce di mitologie subacquee (Undine), tutte dominanti nella filmografia successiva. È un po’ come se il regista teutonico si trovasse già a un crocevia decisivo per la sorte delle proprie immagini, dopo il solo lavoro di Die innere Sicherheit (2000). Come può risolversi il rapporto col cinema del mentore Harun Farocki? Dove confluisce il portato teorico della Scuola di Berlino, di cui lui stesso era ed è una delle figure di spicco? E dove, invece, il suo estro creativo?

In Wolfsburg, Petzold riparte dall’immagine livida dei lavori precedenti, depauperata e ingrigita dalle scorie delle guerre che furono, e soprattutto riparte da una geografia specifica che sarà poi da smantellare. Un nome appunto nel titolo, Wolfsburg. La città della Bassa Sassonia è ovviamente il teatro delle vicende del film, ma pure e soprattutto uno spazio la cui identità fatica a definirsi e imporsi. Wolfsburg nasce e funziona per la produttività, nel ’38, per dare una casa agli operai dell’azienda automobilistica della Volkswagen; è cioè il luogo col più fragile degli imprinting culturali e storici e insieme il frutto più compiuto e moderno di un bisogno pratico. E già ambiente dall’attrattività castrata, punto sulla mappa del turismo tedesco di inevitabile transitorietà, di Wolfsburg Petzold predilige e inquadra persino le strade fuorimano, le vie strette innalzate sulla campagna ma affossate nel buio e nella nebbia. Oltre queste traiettorie, sta solo il grosso edificio asettico a vetrate della concessionaria dove lavora Philipp Gerber (Benno Fürmann). Ma come si smantella ulteriormente un luogo che è già coagulazione e genesi di identità intorpidite?

Philipp a lavoro è impeccabile, dà consigli ai sottoposti e osserva che la loro vendita vada in porto. Sopra di lui c’è però Klaus (Stephan Kampwirth), suo futuro cognato che non vorrebbe vedere Philipp sposare la sorella Katja (Antje Westermann): non la ama, del resto; il suo è un bisogno soltanto di solidità e sicurezza economica. Un giorno Philipp fa per tornare a casa, ma nel tragitto litiga pesantemente al telefono con la compagna e, distraendosi, investe un bambino in bicicletta con la sua automobile. La strada è desolata. Non ci sono testimoni oculari, se non il bambino steso inerme. Philipp temporeggia appena nell’indecisione sul da farsi e alla fine se la svigna. È un incipit congelato. Lo dicevamo per i colori e lo è anche per il dramma: l’incidente automobilistico si smarca dai sensazionalismi risolvendosi come quelli dei film di Kieslowski, in silenzio, non uditi. A casa, la compagna Katja lo ama troppo e decide di restare con lui. Philipp si reca pure in ospedale per origliare ciò che i medici dicono del bambino. Può far tornare tutto alla normalità e rassicurarsi nel suo micro-sistema di bisogni sposando Katja, perché tanto il bambino si riprenderà, nonostante abbia ricordato il colore dell’automobile che l’ha investito. Il senso di colpa e il bisogno di votarsi a una responsabilizzazione non reggono il confronto col rischio che quel Heimat già precario, di facciata, si sfaldi del tutto.

Come in ogni Petzold che si rispetti, Nina Hoss irrompe a calamitare non tanto una sciagura, quanto l’inevitabilità di un raffronto con la propria identità, quindi con l’idea stessa di Heimat. Stavolta lo fa interpretando la madre del bambino, Laura, su cui Philipp riverserà tutte le attenzioni e i desideri quando scoprirà che il bambino è morto. La Hoss indossa la consueta prossemica desolata delle successive firme petzoldiane di maggior successo, come Barbara (2012) e Phoenix (2014). Trascina sempre un uomo con sé e mortifica gli esiti di normalizzazione o restaurazione identitaria. Philipp le nasconde la propria colpa, la segue, la salva quando si getta da un fiume, le offre un lavoro, e alla fine s’innamora, ma in questo sforzo di tenerla in vita è in realtà lui a dover tornare alla vita, o a vivere per la prima volta, quando la moglie lo caccia di casa e il cognato lo licenzia. In questo realismo senza le naturali recrudescenze che una storia triste e infida come quella di Philipp e Laura potrebbe accogliere, e che rievoca invece il passo lento delle immagini di Angela Schalenec (anche lei tra gli autori di punta della Scuola di Berlino), la città di Wolfsburg diventa traccia sbiadita nel movimento già confuso di un’emotività smorta, opacizzata. Philipp, Laura, Katja, Klaus si guardano tutti allo stesso modo, vestono le divise da lavoro (grembiuli da operatori manuali in serie, blazer da venditori auto), magari provano pure a vedersi e toccarsi, ma dragando inutilmente nelle pareti ispessite di una esasperata produttività. Philipp scappa dal bambino morente per non mettersi a rischio. Klaus si lamenta per i mali che procura alla sorella, ma guarda la sua compagna con il medesimo distacco. Laura si arrovella nella ricerca ombelicale dell’automobile colpevole perché la vendetta suona come l’ultimo grido di una vita che non vale la pena riedificare. Persino il matrimonio è confinato fuori dall’immagine, fuori dall’inquadratura, a Cuba – del resto, quale promessa d’amore può aver luogo a Wolfsburg?

Petzold non può assolvere il suo protagonista in una fuga verso una nuova vita, in una conciliazione d’amore e un amplesso in spiaggia con Laura, coi due finalmente descritti in una cornice visiva dai cromatismi più accesi. E alla fine, se l’uomo paga il prezzo più alto per le proprie scelte è, guarda caso, proprio a causa di quel prodotto del capitale a cui lui ha sempre votato la sua esistenza, quell’automobile rossa che lascia traccia e permette a Laura di identificarlo come colpevole. Il pertugio verso un Heimat sembra squarciarsi, per un attimo, ma per decisione di Laura – cioè di Nina Hoss, cioè di Petzold – a Philipp è destinato solo un contrappasso, l’urto contro la chiusura di quel buco che lo scaraventi fuori strada, fuori dal parabrezza, inerme contro il suolo.

Autore: Andrea Giangaspero
Pubblicato il 29/03/2021
Germania 2003
Durata: 90 minuti

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