Army of the Dead

di Zack Snyder

Zack Snyder porta in scena la morte (temporanea) del suo cinema in un film che è coraggioso strumento di autoanalisi della vita e dello sguardo del suo regista. Una lucida opera concettuale, persino troppo integralista, a tratti, per le platee contemporanee.

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Come in un inesorabile effetto domino, senza il cut integrale della Justice League e senza la tragedia legata alla morte di sua figlia Autumn, Zack Snyder probabilmente avrebbe girato un Army Of The Dead molto diverso da quello giunto poche settimane fa su Netflix.
Tutto nel film potrebbe in fondo partire dal linguaggio e dall’immaginario filmico del regista, esaurito, saturato dopo l’esperienza Justice League, ma, non sarebbe troppo assurdo pensarlo, anche a seguito della perdita della figlia. E allora, forse, a Snyder in questo momento serve soprattutto un appiglio che gli permetta di rimettere insieme i pezzi di un universo di segni mandato in crisi, ingolfato dal suo kolossal. Per farlo si fa aiutare da Netflix, partner produttiva del nuovo lungometraggio e unica realtà che, in questo momento, dà al regista ciò di cui ha bisogno: carta bianca. Non dovrebbe dunque stupire che, una volta stabilite le regole del proprio gioco, Snyder scelga di ripartire dalle origini del suo cinema, con un film che, nel raccontare l’impresa di un commando di rapinatori impegnato a fare irruzione nel caveau di una Las Vegas ormai conquistata dai non-morti, si inserisce nel solco del remake romeriano di Dawn Of The Dead con cui ha esordito. Perché in fondo non c’è luogo più sicuro a cui tornare di casa propria. Army Of The Dead è dunque soprattutto un film che, attraverso il genere, porta efficacemente alla luce la crisi del cinema del suo regista.

Non è probabilmente un caso che il film sia ambientato a Las Vegas, sorta di non luogo cimiteriale in cui intere schegge di immaginario sono riprodotte e riposizionate in forma disordinata e artefatta, né è casuale che una delle prime creature zombificate incontrate dai protagonisti sia una delle tigri bianche dei domatori star Siegfried e Roy, niente più che un altro relitto della cultura di massa, dunque. E da un certo punto di vista Army Of The Dead è in effetti un lucido film di detriti, in cui il solitamente vivace dialogo di Snyder con i segni che danno sostanza al suo cinema pare chiaramente indebolito. Per la prima volta, l’immagine pare effettivamente mancare e il regista non nasconde il suo fallimento nel declinare i tratti di un intero genere attraverso il proprio linguaggio. Tutto si costruisce piuttosto a partire dal recupero di materiali di risulta, anche minimi, che mostrano con evidenza il loro rapporto di filiazione, dal muro della Fuga da New York di Carpenter alla bandana indossata da Vasquez in Aliens, passando per le immancabili doppie pistole di John Woo e i modelli narrativi dell’action muscolare anni ’80. Più curioso, forse, notare come l’unico immaginario stabile a cui attinge il film sia quello di videogame come Days Gone e, soprattutto, Dead Rising, action postapocalittico massivo che è anche rilettura grottesca del genere.

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Facendo riferimento a uno spazio digitale, da un lato Snyder dimostra quanto l’unico immaginario in grado di sostenere il suo film si posizioni lontano dal cinema, dall’altro evidenzia come quello del videogame sia l’insieme di segni ideale per costruire un film a suo modo sovversivo rispetto alla dimensione mediale in cui si inserisce. Army Of The Dead è in effetti un film post-apocalittico in cui la fine della civiltà è rinchiusa nello spazio recintato di un muro, quasi volesse offrire allo spettatore una versione in scala, laboratoriale, di un intero genere, ma è anche uno zombie movie che sfugge con risolutezza a ogni classificazione e che si ibrida con l’heist movie e il western e in cui persino lo sguardo politico di Romero finisce depotenziato da una deriva verso l’assurdo, che riempie la bocca dei personaggi di exploit parossistici, tra teorie del complotto, razzismo endemico e psicosi. Ne viene fuori un film a tratti paradossale, un blockbuster che è parodia di sé stesso e delle sue pratiche. L’ariosità delle riprese panoramiche si scontra con i claustrofobici primissimi piani, il ritmo è rallentato dalla tipica dilatazione Snyderiana, ma soprattutto l’azione del prelievo raggiunge un eccesso tale che anche gli elementi più interessanti del film, dall’ottima gestione dell’ultimo atto al coraggioso world building che vorrebbe riformare la mitologia dello zombie al cinema, sembrano la copia della copia di qualcosa di già visto o sentito (che sia la dinamica regia di George Miller in Fury Road o i Fantasmi da Marte di Carpenter poco importa in realtà).

Alla fine, Army Of The Dead non perimetra altro che un panorama di rovine, in cui anche i minimi dettagli utili a costruire la struttura di quello che chiaramente sarà un franchise a lungo termine sono volutamente lasciati alla rinfusa nello spazio della narrazione, demandando al pubblico il compito di sbrogliare la matassa. L’unico elemento che pare sopravvivere è, non a caso, l’umanissima, complessa, sfaccettata storyline con al centro il personaggio di Bautista e sua figlia, che prende sempre più spazio nel racconto, evidente simulacro traumatico della perdita di Snyder, che il regista affronta con coraggio e lucidità, confezionando forse il suo film più oscuro e pessimista e spingendosi a utilizzare la macchina del cinema per cambiare il suo stesso passato, per conservare, almeno nella finzione del racconto, ciò che non può più avere nella realtà. È forse questo il dettaglio che rappresenta la sovversione completa di un film che è al contempo blockbuster pop e prodotto forse davvero necessario solo a processare il lutto del regista.

Vero e proprio progetto complementare e al contempo contrario rispetto a Justice League, Army Of The Dead è un film dal fortissimo passo concettuale oltreché uno straordinario atto di coraggio di Snyder, che si spoglia forse per la prima volta di tutti i suoi scudi immaginifici per mostrarsi in tutta la sua vulnerabilità. Al contempo, tuttavia, viene da chiedersi se l’obiettivo del regista non gli si sia rivolto contro, almeno da un certo punto di vista. Il rischio è che l’urgenza con cui Snyder si è avvicinato al progetto ha privato il film della possibilità di parlare davvero a tutti, finendo per piegarsi su sé stesso, come si accennava, mangiato dal suo stesso concept e forse inavvicinabile senza una chiave di lettura adatta, che permetta di schiudere il potenziale di un film altrimenti facilmente considerabile un B Movie fuori tempo massimo.

Autore: Alessio Baronci
Pubblicato il 14/06/2021
USA 2021
Regia: Zack Snyder
Durata: 148 minuti

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