Il buco

di Michelangelo Frammartino

Un film che è ricerca spirituale e riflessione sulla luce, sui limiti del rappresentabile, attraverso uno studio di corpi umani e massosi, celesti, pulsanti o morenti.

Il buco - recensione film Frammartino copertina

Capisco possa far sorridere pensare a Il buco di Michelangelo Frammartino come a un remake in chiave realista di Viaggio allucinante di Richard Fleischer. Ma, guardando bene, questa narrazione minimale e quasi del tutto priva di dialoghi, che rievoca un’ormai dimenticata spedizione speleologica del 1961 – lo stesso anno in cui a Milano veniva inaugurato e incensato il Pirellone come torre di Babele del boom economico –, prende le mosse dalla miniaturizzazione dei corpi umani degli speleologi che si erano calati per 683 metri all’interno dell’Abisso del Bifurto (o “Fossa del lupo”), in Calabria, al fine di indagarne le profondità, esattamente come nell’adattamento del romanzo di Asimov del 1966 l’equipe medica veniva rimpicciolita per solcare l’interno dell’organismo del morente scienziato Jan Benes, e provare così a salvargli la vita. Una discesa, quella degli speleologi, in grado di atomizzare i corpi, microscopici a confronto di quell’immenso organismo roccioso che è “il buco” e trainati da un punto all’altro della cava grazie alla tecnica, la stessa tecnica che i corpi permette di ispezionarli sia con gli strumenti del medico che con quelli del regista, che siano corpi massosi, corpi celesti, corpi pulsanti e di colpo morenti. Perché se è vero che Il buco ritrae un’escursione alla Jules Verne verso il centro della terra, questi sembra al contempo incarnare un più ampio studio della materia vivente, in particolare dell’anatomia del corpo umano, quello di un pastore in fin di vita, il guardiano del buco, sezionato, analizzato attraverso analogie formali con la struttura della cava, rese possibili dalla macchina da presa che Frammartino o avvicina al volto, alla schiena, agli occhi, fino quasi a tastare il polso, a monitorare il battito cardiaco, o lascia indugiare dall’alto sulle fiaccole che illuminano le pareti e la complessità della fossa.
Quest’ultima fatica del regista de Le quattro volte ha i contorni di una ricerca spirituale e di una riflessione sulla luce (e quindi sul cinema, tenendo a mente che sia la settima arte che la Société de Spéléologie fondata dal padre della speleologia Édouard-Alfred Martel sono nate nel 1895) come strumento d’orientamento nel mondo sensibile, uno sforzo produttivo che ci porta ai, e ci parla dei, limiti del rappresentabile.

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Lungo questo percorso di roccia e pelle, vagliato con gli strumenti dello speleologo che percorre le pareti, del medico che ausculta il cuore, e del regista che fa sì che attraverso la luce, alla giusta distanza, si manifestino le immagini, lasciando, ad esempio, che delle mucche si avvicinino con discrezione al buco e alla macchina da presa che le immortala, si accarezzano tutte le superfici, le direzioni e le geometrie del cinema: dalla dimensione verticale della ripresa televisiva in bianco e nero che dal basso corre verso l’alto sul grattacelo Pirelli, e che fa eco al contrasto tra luce e tenebre provocato dalle fiaccole accese nell’oscurità, cadendo dall’alto verso il basso nella cava, a quella orizzontale della superficie terrestre e di un corpo morente. Sembra trasparire in questo Il buco una chiara idea di cinema come strumento di indagine dei corpi organici, dell’uomo e della sua componente spirituale, costretta però all’interno della consapevolezza filmica che la luce è l’unica cosa che esiste e che il sensibile indica il limite dell’esplorabile, per cui la macchina da presa, i dolly, i carrelli, i crane e via dicendo sono costretti a viaggiare lungo le superfici, dovendosi per forza arenare sui loro limiti, che siano quelli della tensione ascensionale dei 127 metri di altezza del Pirellone o i 683 delle profondità della cava.

In chiusura, per tornare a Fleischer, se al centro di Viaggio allucinante c’era un pieno, le meccaniche del corpo dello scienziato, i suoi scontri interni, la battaglia per la vita, qui c’è quindi un vuoto, il buco, appunto, che non è solo l’Abisso del Bifurto o il cielo che sovrasta il Pirellone, ma è proprio quel limite insondabile contro il quale la tecnica deve obbligatoriamente scontrarsi: la parete che impedisce di procedere oltre all’interno della Fossa del lupo una volta raggiuntene le estremità, il limite del grattacielo Pirelli e l’impossibilità di rappresentare la morte, il grande invisibile del cinema: quell’unico punto dove la luce non può arrivare.

 

Autore: Pietro Lafiandra
Pubblicato il 17/09/2021
Italia, Francia, Germania 2021
Durata: 93 minuti

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