Pearl

di Mattia Caruso
Pearl - recensione film west

Appena il tempo di metabolizzare il ritorno all'horror di Ti West che eccolo di nuovo dietro la macchina da presa con un film che del precedente X è il prequel dichiarato. Pearl, scritto in coppia con la protagonista Mia Goth, non è infatti altro che una origin story, il coming of age di una ragazza che voleva essere una star e scopre invece di essere qualcos'altro.
Messi da parte gli incendiari anni settanta, con la loro libertà sessuale e la ferita ancora aperta della guerra del Vietnam, l'America che questa volta West rimette in scena è quella segnata da un altro grande conflitto. È il 1918 e la Prima Guerra Mondiale, benché agli sgoccioli, continua infatti a mietere vittime Oltreoceano (assieme alla nuova epidemia di influenza spagnola), disgregando famiglie e facendo provare a chi è rimasto a casa un colpevole, inedito senso di libertà.

Ancora una volta, è un contesto che non è semplice contorno quello che West tratteggia per la sua vicenda. Se in X, infatti, lo spirito del tempo era motore stesso della storia, qui lo è altrettanto, anche se in maniera profondamente differente. Perché Pearl – benché la presentazione del personaggio sia speculare a quella della protagonista di X – non è una semplice ragazza desiderosa di libertà e insofferente allo stile di vita dei genitori, ma è anche e soprattutto una persona repressa, disturbata e influenzabile in un mondo pieno di nuovi stimoli e promesse. È proprio qui che il cinema si innesta, acquistando, anche questa volta, un ruolo centrale. Cos'altro è infatti la sala che Pearl frequenta di nascosto (invaghendosi, guarda caso, proprio del proiezionista) se non una fabbrica di sogni e desideri in espansione, capace di insinuarsi, con le sue illusioni, nei più oscuri meandri della psiche?

È tutto filtrato attraverso lo sguardo della sua protagonista, del resto, Pearl. A partire dalla realtà che la circonda. Una fattoria non più vista attraverso la patina seventies di una macchina da presa spesso diegetica, ma trasfigurata e rimessa in scena dalla stessa mente distorta e imbevuta di sogni di celluloide della sua eroina. Un incubo in Technicolor fatto di colori accesi, iridi e numeri musicali, che precorre i tempi e guarda, ancora una volta – tra colossal del periodo (la locandina di Cleopatra con Theda Bara) e incursioni nel porno delle origini – ai classici. Abbandonato il cinema grindhouse del film precedente, questa volta è infatti quello classico hollywoodiano a finire sotto la lente di West, con le consuete suggestioni mimetiche e metalinguistiche che questo comporta. Un viaggio di (de)formazione che abbandona Non aprite quella porta in favore di una versione distorta de Il mago di Oz, con lo spirito, però, dello Psyco di Hitchcock, lasciandoci sin da subito in balia di una serial killer divenuta protagonista assoluta.

È proprio Mia Goth, con la sua interpretazione ferocemente sopra le righe, a fare, questa volta, la differenza. Sul suo volto distorto, paralizzato da sorrisi agghiaccianti o percorso da fremiti durante interminabili monologhi, va infatti in scena la lotta tra illusioni infantili e impulsi omicidi della protagonista. Un percorso di emancipazione portato alle estreme conseguenze che se, da una parte, poco aggiunge alla portata teorica del film precedente dall'altra si fa perfetto proseguo del suo discorso sul cinema e sul genere. L'horror, attraverso lo sguardo sempre più consapevole di West, si conferma così terreno fertile per ogni sorta di reboot del suo stesso immaginario. Un genere da ricalcare e omaggiare senza limiti, senza derive cinefile o nostalgia. Nel proposito tanto sfacciato quanto genuino di far ripartire sempre tutto da zero. Come se quello che vediamo sullo schermo stia avvenendo sempre e comunque per la prima volta.

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Ti West Mia Goth David Corenswet Tandi Wright Matthew Sunderland Emma Jenkins-Purro 102 minuti
USA 2022
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The Watcher

di Jacopo Bonanni
The Watcher

Quando parliamo di un prodotto firmato da Ryan Murphy è lecito aspettarsi tutto e il contrario di tutto; d'altronde non importa che se ne parli bene o male, l'importante è che se ne parli. Non fa eccezione The Watcher: la nuova serie "record" di  Netflix, prodotta insieme all' inseparabile collega Ian Brennan e interpretata da un cast stellare, tra cui spiccano i nomi di Bobby Cannavale, Naomi Watts e Mia Farrow. Contraddistinto, fin dagli esordi, da uno stile unico e inconfondibile in grado di amalgamare influenze culturali e sintassi cinematografiche differenti alle sue abilità di sceneggiatore, imprenditore e provocatore tout court, Murphy è diventato in breve tempo lo showrunner più ambizioso e prolifico di Hollywood, forse il primo, vero, autore postmoderno della televisione. Tuttavia, nonostante le ragioni principali legate al suo inarrestabile successo commerciale siano spesso attribuite esclusivamente alla carica trasgressiva e al carattere sfacciatamente glamour delle sue produzioni,  il valore artistico dell'opera di Murphy risalta quando sfodera un' affilata vena satirica e dimostra di essere non soltanto un lucidissimo indagatore ma, soprattutto, uno spietato cronista dell'attualità.  

Questo talento, forse il meno celebrato dalla critica, emerge in maniera evidente anche nella recente miniserie di The Watcher, rilasciata a poche settimane di distanza dall'acclamato "Dahmer - Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer". Parliamo di una storia ansiogena di orrori domestici, conflitti sociali  e ricatti famigliari, capace di destabilizzare lo spettatore, senza bisogno di versare una goccia di sangue, con le sue sottili allusioni ai traumi e ai risvolti psicologici della pandemia appena trascorsa. Ispirandosi a eventi realmente accaduti, Murphy utilizza come pretesto un articolo di giornale su una casa infestata da un fantomatico stalker - chiamato "l'Osservatore"-   per mettere in scena una parodia grottesca della società (americana) contemporanea all' ombra del Lockdown, divisa tra ossessioni collettive e frustrazioni personali. Presentata come un thriller a sfondo paranormale sulla falsa riga della saga di Amityville , The Watcher  si rivela uno psicodramma corale dai toni farseschi e dalle tinte nerissime, incentrato sugli incubi finanziari e  le manie di persecuzione e disturbi voyeuristici - ben più tangibili -  che affliggono i protagonisti della storia: una famiglia di yuppie del terzo millennio  intrappolata all'interno di un microcosmo casalingo ostile e inospitale, in balia di un subdolo complotto a base di fake news in cui è coinvolta un'intera cittadina del New Jersey.

A distanza di due anni dall'emergenza globale del Coronavirus, in un clima generale di incertezza e precariato a tutto tondo,  ancora contaminato dall'eco delle restrizioni, che ci ha abituato a diffidare gli uni degli altri, The Watcher ci ricorda, senza addentrarsi in spiegazioni inutili, come il "sonno della ragione" genera mostri, reali e immaginari,  esponendo tutti - nessuno escluso - al rischio di abbandonarsi a comportamenti irrazionali alla ricerca disperata di un "capro espiatorio" su cui sfogare la nostra paura dell' ignoto e proiettare le nostre angosce sul futuro. Malgrado alcuni difetti congeniti a tutte le sue creazioni, Ryan Murphy riesce a farsi a perdonare i ritmi dilatati e le incongruenze di un intreccio farraginoso grazie alla verve caricaturale dei suoi personaggi e un'atmosfera paranoica, unita alla una suggestiva ambientazione suburbana a metà strada tra un episodio di Ai confini della realtà ("Mostri in Maple Street") e una pellicola di Joe Dante ("L'erba del vicino"), regalandoci un altro feroce ritratto (di famiglia) del nuovo gotico americano perfettamente in linea con quanto realizzato finora con il format American Horror Story.

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Ryan Murphy Bobby Cannavale Jennifer Coolidge Prima stagione 7 episodi
USA 2022
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Dahmer - Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer

di Mattia Caruso
Dahmer - recensione serie tv netflix murphy

Ci sono soprattutto due cose che rendono riconoscibile un prodotto di Ryan Murphy. La prima è il sottotesto politico esplicito, la seconda è una certa sensibilità verso gli emarginati, i freaks, gli invisibili. Non può che essere un ibrido di questi due aspetti – se non la summa intera di una poetica, a metà strada tra American Horror Story e American Crime Story – la nuova miniserie Netflix Dahmer - Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, ennesimo tentativo di accostarsi alla figura del tragicamente noto Mostro di Milwaukee.

Privando, almeno in parte, il protagonista (interpretato da Evan Peters, già freak in AHS e presenza ricorrente nel Murphy-verse) dell'aura cui la cultura pop ha da sempre ammantato i serial killer, Murphy, insieme al sodale Ian Brennan, da una parte riporta a una dimensione pateticamente umana il mostro (come aveva già tentato di fare il Marc Meyers di My Friend Dahmer), dall'altra gli affianca un diverso tipo di emarginati e invisibili: le sue vittime. Perché l'America tra la fine degli anni '70 e l'inizio dei '90 è un gorgo di razzismo sistemico e omofobia, bigottismo e negligenza. Una società terrorizzata dall'AIDS e sorda alle rivendicazioni della comunità nera. Il terreno di caccia perfetto, insomma, per uno come Jeff, uomo bianco, borghese, piacente, in grado, senza nemmeno doversene coscientemente rendere conto, di sfruttare questo privilegio a proprio vantaggio. È in questa falla del sistema che il mostro si insinua e prolifera, facendone emergere l'essenza altrettanto mostruosa, quella di una realtà incapace tanto di cogliere i segnali di allarme nei comportamenti del futuro carnefice quanto, soprattutto, di ascoltare le grida di aiuto delle sue vittime.

Sono giovani uomini quasi sempre omosessuali, poveri e per la maggior parte appartenenti a minoranze, del resto, le 17 vittime di Dahmer, invisibili tra gli invisibili, individui senza voce (anche letteralmente, come nel bellissimo sesto episodio) e senza speranza. Dalle richieste d'aiuto inascoltate di famigliari, vicini e sopravvissuti fino ai più clamorosi casi di negligenza da parte delle forze dell'ordine, tutto in Dahmer pare concorrere a dare il ritratto di una società connivente, così incapace di giustificare il sangue sulle proprie mani da favorire persino la narrazione innocua del mostro come Male incarnato, riducendo il tutto a un racconto di Halloween o a una mitizzazione a misura di idioti. Pur concedendosi qualche incursione nell'horror psicologico e d'atmosfera - ma rifiutando categoricamente qualsiasi contaminazione gore o splatter - , la serie entra così nella distorta psicologia del protagonista (ben resa anche visivamente, grazie a registi come Greg Araki e Jennifer Lynch), senza per questo perdere mai di vista il giusto equilibrio tra dimensione pubblica e privata, scavo psicologico e invettiva politica.

Ma chi era veramente Jeffrey Dahmer? Nel corso di dieci episodi Murphy, con un approccio agli antipodi del true crime, indaga il senso profondo di questa domanda. Lo fa attraverso una narrazione frammentaria fatta di continui slittamenti temporali, ridondanze e omissioni, addentrandosi tra le pecche e le storture della situazione famigliare del protagonista, in un'infanzia e un'adolescenza vissute nel segno della repressione e della solitudine, cercando cause, motivi, ragioni impossibili da trovare una volta per tutte. È in questa impossibilità dichiarata di comprendere l'anomalia Dahmer fino in fondo che Murphy vede, però, l'occasione per sviscerarne invece un'altra ben più chiara ed evidente, quella della società in cui il mostro è nato e ha agito indisturbato per più di un decennio.
Come verrà detto esplicitamente nella serie, Dahmer, allora, non è altro che “una metafora di tutti i mali sociali che affliggono la nazione”, un grande affresco corale su un tempo tutt'altro che passato e, al contempo, una riflessione su un immaginario da rifondare, senza più compiacimenti granguignoleschi, psicologie spicce da b movie o assurde romanticizzazioni. Perché il problema, dice il Murphy più didascalico, non è (più) tanto quello di trovare un po' del mostro in noi, ma rendersi conto che mostruoso è lo stesso mondo in cui ci ostiniamo a vivere e morire.

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10 episodi
USA 2022
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We're All Going to the World's Fair

di Arianna Caserta
We’re All Going to the World’s Fair - recensione film

Esiste un’opera d’arte che, in maniera del tutto sorprendente, sembra attirare a sé le nuove generazioni di appassionati più di ogni altra opera contemporanea: è Live-Taped Video Corridor (1970) dell’artista statunitense Bruce Nauman, noto per l’incessante esplorazione dei propri confini corporei - e della dimensione performativa di questi in relazione allo sguardo altrui -  che contraddistingue la sua personale ricerca artistica sin dalla metà degli anni ’60.
Nell'installazione, lo spettatore è invitato ad attraversare un corridoio lungo 10 metri e largo 50 centimetri, il cui perimetro è dettato da due alte pareti bianche. In fondo a questo, in basso, si trovano due monitor uno sopra l’altro: quello inferiore trasmette una ripresa del corridoio, vuoto, visto da una videocamera che si trova all’entrata, a più o meno 3 metri di altezza. Il monitor superiore trasmette lo stesso spazio, dalla stessa angolazione, ma questa volta dalle immagini emerge una figura umana; quella dello spettatore ripreso di spalle, che diventa sempre più piccolo mentre questo si avvicina ai monitor per accovacciarsi e scoprirne il contenuto. Attivare il circuito alienante di Video Corridor è un’esperienza allucinante: se il monitor inferiore elimina totalmente la figura di chi attraversa lo spazio, l’altro trasmette un punto di vista esterno, estraniante, impossibile. Si diventa nello stesso momento sorvegliati e sorveglianti, il senso dell’orientamento è confuso, la percezione del proprio corpo divisa in due, e la sensazione finale è di pura scissione: è così che avviene un viaggio astrale, quando l’anima si allontana dal corpo per osservarlo dall’esterno per un po’? Oppure l’esperienza di Video Corridor somiglia di più al controllo remoto del proprio avatar in un videogioco in terza persona?

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“Dissociazione” è la parola chiave dell’opera di Nauman, ed è il termine che più spesso ritorna nei discorsi di Jane Schoenbrun, regista di We’re All Going to the World’s Fair: presentato un anno fa al Sundance Film Festival e disponibile su HBO Max US da inizio settembre, il film horror è diventato un istantaneo piccolo cult per gli amanti del genere e, nello specifico, per tutti coloro attenti alle evoluzioni in soggettiva di casa Blumhouse, dall’home invasion di Paranormal Activity (2007) alla webcam del desktop movie Unfriended (2014). Ma se Unfriended pescava nell’immaginario del segreto e oscuro Dark Web, il film di Schoenbrun attinge a una fetta di internet ancora più stimolante: quella dei forum dedicati alle Creepy Pasta, ovvero storie ideate, scritte e diffuse con lo scopo di renderle libere, indipendenti, aperte ai più disparati contributi da parte della comunità intera. Quello delle Creepy Pasta è un mondo dove è la capacità nello storytelling a fare la differenza: si comincia spesso da una foto trovata sul web - quasi sempre ritoccata in modo grossolano -, le si allega una storia dell’orrore creata ad hoc, la si rilascia in un forum sperando che possa diffondersi con la stessa velocità di un virus altamente infettivo: è compito degli utenti cooperare affinché il racconto diventi parte della mitologia del web, fino al punto di uscire dai confini digitali e farsi strada nel mondo fisico. Talvolta, come nel celebre caso Slender Man, questa si espande così tanto da diventare un franchising, o addirittura da trovarsi nell’occhio del ciclone di un processo alle cause della violenza giovanile.

La verità è che detenere il controllo su una narrazione, modificandola e arricchendola progressivamente, è nient’altro che un metodo salvifico di manipolare la realtà: quello delle Creepy Pasta è solo uno dei tanti modi di concepire l’idea di una dimensione virtuale dove la finzione astrae dall’ostile mondo circostante, dove la creazione di universi altri è la chiave d’accesso alla più confortante illusione collettiva. È così anche per la protagonista Casey, che per il suo canale YouTube decide di provare una dei giochi di role-playing più diffusi del web, che consiste nel riprendersi mentre si pronuncia per tre volte - e non cinque, come per invocare Candyman - la frase “I’m going to the World’s Fair” per poi documentare i cambiamenti corporei che la formula dovrebbe apportare a chiunque sia così coraggioso da pronunciarla. Casey dà inizio così a una performance perpetua: si riprende continuamente per cercare di rendere i suoi spettatori partecipi della trasformazione che sempre più velocemente sembra star avvenendo al suo corpo. L’adolescente entra in simbiosi con la webcam e con la sua videocamera che la segue durante ogni minuto della giornata, restituendole ogni volta un’immagine di sé stessa effimera, immateriale, pixelata. È qui che la dissociazione ha inizio: “Mi sembra di vedere la mia immagine su una tv in fondo alla stanza” dice Casey in un vlog registrato qualche giorno dopo aver compiuto la sfida. Un virus dal mondo virtuale sembra starsi insinuando nella sua vita reale, una forza che la avvicina di più all’etere cibernetico quanto la distanzia dal suo corpo fisico: un’identità simulata di cui possiede il pieno controllo, una lotta che altro non è che l’espressione della foschia di vivere in un corpo che non si sente essere il proprio.

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“Adesso ti dico perché sei qui. Sei qui perché intuisci qualcosa che non riesci a spiegarti. Senti solo che c'è. È tutta la vita che hai la sensazione che ci sia qualcosa che non quadra, nel mondo. Non sai bene di che si tratta ma l'avverti. È un chiodo fisso nel cervello”: 22 anni dopo il discorso di Morpheus a Neo in Matrix, un’altra giovane regista racconta l’esperienza personale relativa alla disforia di genere mettendo in scena la sensazione di vivere un’identità che va oltre la propria forma corporea, di sentirsi davvero sé stessi solo tra le ragnatele di un mondo che non ha appigli nella realtà sensibile. Come Neo, Casey avverte l’urgenza di liberarsi dallo spazio simulato e di ritrovare un corpo che sia la vera espressione di sé stessa, di estrarre la sua immagine incorporea dallo schermo e proiettarla nel mondo tangibile. Non è chiaramente un caso, dunque, che la stessa Jane Schoenbrun abbia dichiarato di aver trascorso la maggior parte del suo tempo su internet nello stesso periodo in cui gli interrogativi sulla sua identità di genere si facevano strada alla ricerca di una risposta, di una via d’uscita. Allora via al movimento della macchina da presa - la handycam - che restituisce materialità all’immateriale, via alla ballo forsennato che, performato da Casey in una delle scene più ipnotiche del film, - e simile alle più famose performance di Nauman - ha le sembianze di un rituale compiuto per liberarsi da uno spirito che infesta il suo corpo: eppure è proprio l’involucro ad essere più fragile e precario della forza interna, che salda e scalpitante cerca di uscire modificando l’aspetto della ragazza fino a renderla irriconoscibile. “Gloria e vita alla nuova carne”, incitava Max Renn nel finale di Videodrome (1983); viva la carne che si mescola ai codici, alle immagini digitali, allo spazio virtuale, ai sogni nati dall’immenso inconscio collettivo che è internet. Perché in fondo è di sogni che si parla, di illusioni: Casey posa nella locandina del film con l’occhio vitreo del suo peluche preferito di cui era bambina, ormai smembrato in preda ad un attacco schizofrenico dovuto alle conseguenze della sfida online. I nuovi giochi sostituiscono i vecchi, l’escapismo infantile diventa lucido e compiuto attraverso nuovi canali, l’immaginazione cerca altri metodi di sopravvivenza. Questo è We’re All Going to the World’s Fair: un film sui “Nuovi Giochi”, linguistici e relativi al mezzo cinematografico, ma soprattutto meccanismi di difesa, metodi di fuga e auto-determinazione. Perché se internet è espressione massima dell’inconscio, è lì che bisogna guardare per scoprire le illusioni lucidissime delle nuove generazioni, non poi così distanti da quelle delle vecchie. Allora viva le auto-narrazioni, viva la manipolazione del mondo con lo scopo di avvicinare le rappresentazioni all’essenza della propria realtà, viva le forme immateriali che si concretizzano davanti ai nostri occhi.
“Gloria e vita alla nuova carne”, e al nuovo cinema.

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Jane Schoenbrun Anna Cobb Michael J. Rogers 86 minuti
USA 2021
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Halloween Ends

di Saverio Felici
Halloween Ends recensione film Gordon Green

È sottinteso uno scarto di tono evidente tra il titolo-manifesto Halloween Ends e il precedente Halloween Kills. Se la giocosa promessa di quel kills attribuiva un senso quasi exploitation all'operazione (senso peraltro assente dal prodotto ultra-mainstream proposto), il perentorio ends pare piuttosto una ferma dichiarazione di intenti, preventive mani avanti di un comparto autoriale sempre più disaffezionato.
La trilogia di David Gordon Green finisce, dunque, ma l'impressione è che tutto si sia concluso ancor prima di iniziare. Dopo 340 minuti di girato, resta difficile stabilire quale sia la direzione artistica intrapresa da Gordon Green e Danny McBride. Non poteva certo dirsi lo stesso per il precedente dittico di Rob Zombie - e persino il recente reboot gemello di Non aprite quella porta aveva trovato una propria specificità commerciale nella discussa svolta sudista. I nuovi Halloween, più ricchi e un po' tronfi, continuano a mettere sul piatto qualcosa in termini di spettacolarità: ma anche al loro meglio, la sensazione è sempre rimasta quella di una lista della spesa di scene "obbligatorie", più che un discorso articolato sulle stesse.

Come altre operazioni contemporanee, l'Halloween del 2018 si era aperto come un back-to-basics, riallacciandosi all'originale per fare terra bruciata di ogni variazione innestata negli anni sulla scarna traccia lasciata da John Carpenter. Una restaurazione intenzionata a spurgare ogni sovrastruttura (psicologica, onirica, grottesca, ironica), e riportare tutto a una sorta di essenza sublimata dello slasher. Ecco, la sfuggente identità dell'opera può forse trovarsi in questa sua ricercata genericità: film lineari, senza fronzoli, dalla struttura consolidata e sicuri ancoraggi iconografici a indirizzare il racconto. Gli eventi del 1978 sono riproiettati sul presente, inalterati: trauma generazionale mai superato, che con meccaniche ritualistiche torna a manifestarsi ciclicamente nel cuore della comunità. La centralità scenica di Haddonfield (con riferimenti anche espliciti alla Derry di Pennywise), è più che il solito obolo nostalgico pagato all'immaginario Amblin: la provincia americana para-eighties ha oggi le dimensioni metastoriche del panorama mitologico - e solo al Mito appartiene ormai la battaglia tra Michael Myers e Laurie Strode.

halloween ends recensione l4

È questa riverenza verso la propria ortodossia ad abbassare l'insieme sotto il livello delle singole parti (di cui Halloween Ends rappresenta comunque la meno efficace). Il trend degli stravolgimenti postmodernisti è finito da un pezzo: nell'epoca post-televisiva i franchise arricchiscono la propria continuity per accumulo, celebrando se stessi nella ripetizione. L'inscalfibilità di Laurie, ormai inarrestabile e potente quanto Myers stesso, è sintomatica: un racconto i cui protagonisti, per contratto, non possono più morire, ha più del superhero movie che dello slasher. L'asservimento ai personaggi tiranneggia su ogni sviluppo che il moderno Halloween possa reclamare per sé, subordinandoli alla riproposizione ossessiva delle sequenze "storiche". Sgraziata parodia di quella famosa massima di Faulkner, il passato non è passato – è fisicamente qui, preso nella goffa recita di se stesso, come quei vecchi eroi del west ridotti a mimare le proprie imprese nei circhi itineranti. Giorno della marmotta, più che delle streghe. 

In Halloween Ends, il movimento centripeto al cuore della nuova trilogia tradisce peggio del solito la povertà di idee di fondo. Nel suo abbozzo di plot, il film suggerirebbe una lettura di Myers come archetipo psicanalitico, riallacciandosi al filone delle origini del mostro come reietto di una comunità infame (già visto, ma pazienza). L'elaborazione del "fenomeno Myers" nella sua dimensione sociale parrebbe quindi coerente con lo spunto iniziale della saga - la ricerca di un senso all'orrore a partire dalla sua esperienza collettiva. Ma è solo una finta, per l'ennesimo scatto a rientrare: lo spunto si esaurisce in un pugno di sequenze, le nuove voci vengono zittite, e il tanto atteso climax ricondotto ai soliti luoghi, e le solite immagini.
Fino a pochi anni fa, gli autori di questo genere di saghe erano abituati a cercare linfa vitale nelle svolte più assurde e creative. La longevità era garantita promettendo (e mantenendo) un surplus continuo sulle inaridite premesse: Jason nello spazio, Freddy sul set di Nightmare, Ash nel medioevo e Yautja a caccia di xenomorfi. Il Myers di Gordon Green, negazione di quell'exploitation pur evocato nei titoli, ad andare nello spazio non ci pensa affatto: è sempre qui, esita di fronte allo stesso armadio, cerca lo stesso coltello nella stessa cucina dove rimettere in scena lo stesso scontro finale di sempre. Ogni tentazione di diventare altro, non può che morire squartata.

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David Gordon Green Jamie Lee Curtis Andi Matichak James Jude Courtney Rohan Campbell 111 minuti
USA 2022
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La donna del mistero (Decision to Leave)

di Andrea Giangaspero
Decision to leave - recensione film Park Chan-wook

Sulla vista di una montagna di sabbia che si rompe rovinosamente colpita da un’onda, si concentra forse il momento decisivo delle immagini di La donna del mistero (Decision to Leave), punto di emersione delle sue vibrazioni più forti. Un momento rapidissimo, apparentemente quasi insignificante nella logica del montato concitato dell'ultima parte. Con un impatto, uno schianto che nel tentativo di scavalcare un ostacolo, lo butta giù. Un ostacolo della vista, soprattutto: quella dello spettatore, a cui la montagna di sabbia nega l’immagine luminosa del sole al tramonto. Al di sotto, nel fuoricampo, giace in una buca il corpo di una donna, svenuta sotto i colpi del fentanyl. È Tang Wei nei panni di Seo Rae, femme fatale sospetta del doppio omicidio di due uomini, suo marito e il successivo compagno, e perdutamente innamorata del detective che le dà la caccia, Hae-jun. Quello che appare come un’occlusione della vista spettatoriale, al contrario diventa nella sua proiezione emotiva, nel suo andare al cuore dello spettatore, dopo tutto il vorticare di segni e di aspettative costruite lungo la visione, una sorta di parete difensiva, lo scudo tra il corpo esausto della donna e la fine tragica che l’attende. Noi non vogliamo che l’onda d’urto delle acque oceaniche scavalchi, rompa il muro di sabbia, non vogliamo che raggiunga il corpo di Seo Rae, che le pareti umide cedano tutt’intorno e finiscano per soffocarla, inumarla. È l’immagine di una speranza disperata che, mostrando il suo cedimento, si fa al contrario più dura, più autentica.

Tra le sue configurazioni rappresentative, il cinema è sempre stato perlopiù un fatto di storie d’amore. E abbiamo sempre cercato, tra le sue immagini, quelle che tengono vive, custodiscono falde di desiderio, quindi di ostinazione affinché questo venga esperito. A guadagnarne in intensità, inevitabilmente, sono in particolare quelle che vedono l’approssimarsi di un esito tragico. Come per Seo Rae e Hae-jun, fregati dai rispettivi ruoli a cui vogliono ingenuamente, cioè romanticamente, inutilmente, dare la forma di un gioco tra guardie e ladri per giustificare il bisogno reciproco l’uno dell’altra. Park Chan-Wook sta già da tempo dentro questo solco, ma ne beneficia ora maggiormente perché sembra non guazzarci più con quella voracità godereccia di una volta (quella neanche troppo remota di Mademoiselle, del 2016), nella forma, nella tecnica, nella narrazione. L’oggetto di un concupito attorno al quale si arrovella e vortica in forma tentacolare una storia, con le sue immagini e le sue piroette, si è fatto meno bulimico, il suo movimento meno avulso. E asciugandosi, anche più ruvido (che è essenzialmente un bene).

decision to leave

Il gioco a perdere e la natura resistiva, contrastiva del rapporto impossibile tra Seo Rae e Hae-jun, che ci aspettiamo si faccia rutilante, infuriare da cauchemardesque, soggiace invece sull’azzurro marino di una carta da parati, sulle ombrature pervinca, si posa sul blu dei tendaggi e sulle variazioni che sfumano incertamente fino alle cromie del verde. Come l’oceano. Come il vestito di Seo Rae, che agli occhi di Hae-jun appare verde, ma “guardando meglio” (lo ammonisce la donna) è invece blu. Non smottamenti, ma smorzamenti. Che non vuol dire cedere il passo alla cadenza del valzer alla Wong Kar-wai, ma produrre tensione nelle impercettibilità delle variazioni di sguardo, e di più, nella rilocazione straniata del dispositivo (nascosto, dentro gli oggetti, persino dentro lo schermo di un telefono), nell’oscurità di un linguaggio bifronte, tra cinese e coreano, nelle farciture action da poliziesco che rilevano la falsa apparenza di rotture definitive, un falso movimento.

Anche se poi, il movimento c’è, pure con qualche acrobazia e contorsione (poi anche contusioni dei corpi, tagli sul viso). Il punto però è che l’evidenza di un dramma più smaccato, sanguinoso, se posta accanto a quello che conosciamo dell'autore coreano, è messa ora alle corde, a tratti persino confinata dentro lo schermo di una televisione, cioè dentro il dramma in costume del samurai che tiene l’amata morente tra le braccia, a cui Seo Rae partecipa piangendo dal divano (ecco, soltanto ora vestita di rosso, lontana dagli spazi e dalle azioni delittuose). Mentre la stringa di realtà in cui Seo Rae incontra, come può, Hae-jun ha a che fare, piuttosto, coi luoghi della cucina (con la preparazione di piatti tipicamente cinesi ad opera del detective), delle visite nei templi e del gusto sartoriale di Hae-jun a cui Seo Rae pone meticolosa attenzione. Un’applicazione di traduzione sullo smartphone garantisce che nel passaggio dal cinese al coreano i due non si perdano nulla del loro flirt. Sullo smartwatch entrambi registrano la propria voce come testimonianze diaristiche, che poi rivelano in cuffia l’uno all’altro. Ecco però che quando le cose non possono più procedere secondo la formula stabilita da entrambi, anche in luogo di questi dispositivi e di queste soluzioni si sostituisce l’insindacabilità di uno spettro emotivo che non può essere informatizzato. “Hai detto di amarmi”, afferma al telefono Seo Rae. Ma Hae-jun non ne ha memoria, e neppure nelle registrazioni telefoniche ve n’è traccia. Qual è la verità? Un nodo alla gola. E Park Chan-wook, che ben conosce le vie per annegare la verità dentro immagini liquide, dopo aver lasciato le onde del mare come solo sfondo, pattern che riveste le pareti della casa di Hae-Jun (con un'ambiguità di rappresentazione che rimanderebbe anche a delle montagne, altro luogo fondamentale nel film), dunque immagine del presagio funesto, le porta a scavalcare infine la superficie (come dicevamo in apertura): le onde dell’oceano diventano reali, blu e verdi, acque torbide come l’amore che stanno per investire. Da immagine del presagio a immagine di un sensuoso colmo di dolore e di fiducia disperata. E dentro di esse, Decision to Leave fa allora il polar, il thriller, il dramma classico hollywoodiano, il film d’amore struggente. E' tutto questo e di più, con la cura certosina e il gran cuore del cinema maiuscolo di Park Chan-wook.

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Park Chan-wook Tang Wei Park Hae-il 138 minuti
Corea del Sud 2022
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Hatching – La forma del male

di Gaia Fontanella
hatching recensione film

Presentato in anteprima al Sundance e uscito ora nelle sale italiane, Hatching – La forma del male è l’opera d’esordio della regista finlandese Hanna Bergholm, che sceglie il genere horror per creare la sua interessante metafora sulla famiglia ai tempi dei social network.

Il canovaccio su cui costruisce la narrazione è quello del coming of age, con protagonista una ginnasta preadolescente, Tinja, che si ritrova inconsapevolmente imbrigliata nelle maglie del narcisismo digitale operato dalla sua famiglia borghese. La madre Äiti infatti, cura un blog di lifestyle con cui dà in pasto al suo pubblico la loro finta perfezione famigliare. Il fulcro delle dinamiche messe in scena è proprio il rapporto apparentemente idilliaco tra madre e figlia, in cui la prima cerca di sublimare i fallimenti della propria esistenza spingendo la seconda a ottenere i successi da lei mai raggiunti. L’azione si svolge in un sobborgo finlandese di case tutte uguali, e tutte perfette, dove il sole risplende in continuazione e i vicini salutano sempre; il contraltare ideale per le vicende orrorifiche che si svolgeranno dentro casa. A partire da quando Tinja raccoglie l’uovo di un corvo ucciso dalla madre e incomincia a prendersene cura, creando con esso un rapporto emotivo sempre più viscerale; ne nascerà una creatura chiamata Alli, con le sembianze di un uccello. Entra presto in scena, dunque, tutto un contesto inerente la maternità e le aspettative che vengono proiettate sulle donne fin dalla più giovane età; ma qui la cura assume una declinazione patologica, che conduce a una progressiva mutazione di Alli in doppelgänger di Tinja.
La creatura fantastica diviene ovviamente il mezzo attraverso il quale la giovane protagonista può esprimere la sua rabbia e la sua insoddisfazione più represse, scatenando una grottesca escalation di raccapriccio e terrore. Il doppio di Tinja scatena il disagio all’interno della dimensione domestica, portando alla disgregazione del nucleo famigliare e instillando dubbi e paure in ognuno dei suoi membri. In questo specchio aggressivo della natura più recondita della ragazzina ritroviamo l’essenza più estrosa di Hatching, in un’ibridazione dal sapore body horror che convince.

hatching recensione film

Il rapporto conflittuale tra le due figure femminili, madre e figlia, è archetipico e sfocia in una rassegnazione passiva da parte di Tinja, che accumula frustrazione dentro di sé per compiacere la madre vacua e superficiale. Le dinamiche stantie di una famiglia autocostrettasi alla felicità forzata vengono smascherate da Bergholm attraverso i meccanismi tipici del genere horror, nella consueta consapevolezza che il vero orrore è quello della società ipocrita e perbenista che vuole tutti vincenti, in una corsa senza freno verso l’eccellenza e il trionfo dell’apparenza. Gli intenti sono chiari, forse troppo chiari, ma la narrazione procede compatta, facendo ricorso a degli escamotage che si ripiegano sul raccapriccio e sulla ferinità.

Bergholm ha intuizioni argute, i cui riferimenti spaziano da Lynch a Cronenberg, facendo anche un’incursione nei territori del fantasy; il film, però, si perde nella sua accumulazione forzata di rimandi a qualcosa di più grande di lui, mettendo in campo più di quanto riesca effettivamente a rimasticare con intenzione e creatività. Una certa superficialità diegetica viene in parte compensata da un approccio alla regia funzionale, che prende a prestito la grammatica estetica della soap opera per concretizzare sfacciatamente la crasi tra narrazione e messa in scena. La vera mancanza che si avverte durante la visione è quella del coraggio di osare fino in fondo, spingendo realmente all’estremo un disagio che è, invece, solamente suggerito: le parti più violente sono relegate al di fuori dell’inquadratura, escludendo di fatto lo spettatore dalla dimensione realmente perturbante.

Hatching è un esordio che, nonostante le sue imperfezioni, riesce a catturare l’interesse e a far parlare di sé. Hanna Bergholm è una regista da tenere d’occhio e con buone aspettative, nella speranza di un secondo film che sia più a fuoco e, soprattutto, più personale, così come hanno saputo fare tutti quei registi che sono stati presi a riferimento per lo sviluppo di questo debutto riuscito a metà.

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Hanna Bergholm Siiri Solalinna Sophia Heikkilä Jani Volanen Reino Nordin 86 minuti
Finlandia 2022
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Pinocchio

di Andrea Vassalle
Pinocchio - recensione film zemeckis disney

«Chissà come sarebbe ora», si chiede il Geppetto interpretato da Tom Hanks, guardando la fotografia del figlio scomparso da cui trae ispirazione per creare Pinocchio. È anche una delle domande connaturate nelle riedizioni in live action dei Classici Disney, così come più in generale nella pratica dei remake e dei nuovi adattamenti. Una volontà, persino un istinto, di dare nuova vita, di reimmaginare, talvolta di ripensare, racconti e opere audiovisive che appartengono all'immaginario collettivo con gli occhi del presente. Ma se in molti (spesso deludenti) casi uno dei problemi consiste proprio nel non saper discernere, riflettere e confrontarsi con quella pulsione, il Pinocchio di Robert Zemeckis (anche co-sceneggiatore e produttore) parte di fatto da lì e da quella consapevolezza. Il film si apre con un dialogo tra i due livelli del racconto, stabilendo un legame tra presente e passato, che si trovano interconnessi, compresenti e si dispiegano allo spettatore in un unico orizzonte. C'è poi l'ingresso in scena di un Geppetto che ha perso anni addietro la moglie e un figlio piccolo, ed è soprattutto dal senso di perdita che, in questo caso, nasce il desiderio di costruire il burattino.
L'atto della creazione si presenta come il tentativo di colmare il vuoto che lo attanaglia, in una indagine (quella sul vuoto) che ricorre spesso nella filmografia di Zemeckis. È così che prende vita Pinocchio, con un incantesimo che si origina dal desiderio e che passa attraverso la fotografia del figlio perduto, transfert fenomenico per il compimento del miracolo. L'immagine dona dunque nuova vita e il passato si rimodella e riaffiora nel presente, in quella che sembra quasi un'applicazione della teoria della "sopravvivenza" (Nachleben) di Aby Warburg, con cui lo studioso di Amburgo definiva la concezione di memoria delle immagini e la loro peculiarità di perdurare e rinnovarsi nel tempo. In questo caso l'immagine di Pinocchio, il burattino, è memore di quella del bambino, mentre l'immagine di Pinocchio, il film, è memore dell'originale d'animazione Disney del 1940, di cui recupera il protagonista dalla forma cartoonesca per reinserirlo nella realtà e in un contesto sociale visto con lo sguardo e la percezione del presente.

Zemeckis si attiene piuttosto fedelmente al film animato, ma le lievi discordanze, percepite dai più come irrilevanti o come frutto della politica disneyana, rivelano una forte coerenza e una chiara identità, manifestandosi sin dai primi minuti (come abbiamo visto in precedenza) e ponendosi in linea con la filmografia del regista. Il suo è un cinema che da sempre riflette sul ruolo delle immagini e sulla rappresentazione, un cinema mosso dal sogno e dalla magia del tempo, in equilibrio tra la realtà e la sua figurazione (esibita e mai celata). Pinocchio sembra colmarsi della visione di Zemeckis, che attraverso le peripezie del racconto osserva il rapporto tra il personaggio e il mondo che lo circonda, in un tourbillon soverchiante scatenato dal desiderio e dallo sguardo verso il cielo. È un viaggio nello spazio ma soprattutto tra le pieghe del tempo, simulacro del fantastico e del mistero, scandito dalla presenza degli orologi. Orologi che danzano e si animano, come quelli nella bottega di Geppetto con i personaggi Disney (sempre a proposito di immagini che riaffiorano) che si fermano improvvisamente al tocco della magia o che vanno in frantumi nel Paese dei balocchi. L'alterazione temporale ritorna spesso nel racconto zemeckesiano e si pone come un'apertura su una dimensione che oltrepassa il reale modificandone le traiettorie, così come avviene nel sogno e nel cinema stesso. Pensiamo alla trilogia di Ritorno al futuro, ma anche alla percezione del tempo in Contact e in A Christmas Carol. Lo stupore di Ebenezer Scrooge il giorno di Natale nell'apprendere che è trascorsa una sola notte è lo stesso del mondo intero quando l'astronoma Ellie Arroway racconta il proprio viaggio, così come di Geppetto quando Pinocchio gli rivela ciò che ha fatto in appena un giorno.

Tanto la riflessione sull'immagine quanto quella sul tempo connotano un cinema perennemente focalizzato sul concetto di metamorfosi, che si racchiude attorno ai personaggi e al loro percorso. Anche per questo motivo l'approdo alla favola di Carlo Collodi (seppur indirettamente) appare un naturale prosieguo. Da La morte ti fa bella a Le streghe (tratto dall'omonimo romanzo di Roald Dahl), Zemeckis contrappone a un senso più classico di metamorfosi, dalla valenza punitiva e morale (i personaggi di Meryl Streep e Goldie Hawn, le streghe e i bambini nel Paese dei balocchi), uno completamente antitetico relativo alla presa di coscienza. Non è la forma a definire l'individuo, e quindi a dover essere combattuta e a necessitare di un ritorno a un ipotetico ordine costituito, bensì l'identità che ne prescinde. Il cammino di Pinocchio, cacciato da scuola in quanto burattino, prosegue verso la consapevolezza che per diventare "vero" non serva una trasformazione ulteriore. L'umanità e la coscienza di sé rimangono intatte anche sotto forma di "bambino" di legno, di topo (nel racconto di Dahl) o persino di insetto (come in Kafka), alimentate dal contatto con gli altri che, come si sente dire Ellie in Contact, è l'unica cosa che ci aiuta a sopportare il vuoto e la solitudine.

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Robert Zemeckis Tom Hanks Cynthia Erivo Giuseppe Battiston Luke Evans 105 minuti
USA 2022
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Gli orsi non esistono

di Leonardo Strano
Gli orsi non esistono - recensione film Panahi

In This is not a film Jafar Panahi confrontava la scena di un suo film, Il cerchio, con il racconto di una scena non ancora girata, soltanto scritta su un copione bocciato dalla censura di regime. In quell’occasione apertamente diaristica il regista confessava alla camera che in nessun modo con le proprie parole avrebbe potuto eguagliare le immagini, perché in nessun modo l’assenza di attori e attrici a cui assegnare le battute, o meglio, l’assenza di corpi in movimento da filmare, avrebbe potuto trasformarsi in un film. Non dovrebbe sorprendere, lo sforzo cinematografico per Panahi è sempre consistito nel tendere alla massima impressione di realtà attraverso il ritmo prodotto dai corpi in transito nello spazio, in entrata o uscita dal campo - in un sistema di respirazione fatto di pieni e vuoti gestiti nella scrittura e risolti sempre sulla superficie apparentemente innocua delle immagini. Sempre This is not a film però, nella sua stessa natura di esperimento metalinguistico, generato da necessità produttive e congiunture giuridiche tragiche (il regista era costretto ai domiciliari in attesa di un verdetto sulla propria ventennale incarcerazione), poneva un problema sulla compatibilità di questa concezione del cinema come “lavoro sul ritmo” con la struttura riflessiva del metafilm: come poteva essere funzionale a un cinema della trasparenza, interessato a lavorare sulla delucidazione, sulla rimozione dei meccanismi di finzione, l’insistita marcatura della cornice, dell’artificio?

Dopo quattro metafilm è possibile dire che anche quando la macchina e il testo si sono fatti più marcati e riflessivi, il regista iraniano ha sempre identificato il gesto filmico come un atto di essenziale stilizzazione ritmica pensato per avvicinarsi alla realtà, e non per contraddirla, evaderla o mandarla banalmente in cortocircuito. Nel suo cinema autoconsapevole, infatti, l’intricato gioco di doppi fondi non è stato mai segno della possibilità di risolvere il mondo in un’immagine sempre più esponenziale, sempre più virtualmente allargata e inglobante (“la realtà scompare nel gioco di finzione” sarebbe il luogo critico in merito), quanto piuttosto, per inverso, si è rivelato prova della debolezza della macchina cinema nel momento della sua massima e indebita estensione, pervasività e gittata, rispetto al referente reale. La svolta metatestuale ha rinforzato il cinema ritmico di Panahi, certificandone il presupposto - l’impossibilità di raggiungere il nucleo della realtà, l’unità del fatto rappresentato, se non attraverso un’immagine guidata dal corpo e dal suo puro movimento - e legittimandone la chiave di volta - il ritmo come il modo designato ma imperfetto, sempre ancora incompiuto, per cercare di portare a congiunzione rappresentazione e realtà.

panahi film venezia

Gli orsi non esistono, vincitore del Premio Speciale della Giuria a Venezia 79, è perfetta prova di questo discorso, un nuovo metafilm in cui i continui rimpalli virtuali sono barriere installate per essere sfondate dalla forza del reale. Lo mostra la prima inquadratura, in cui un piccolo angolo di paese (una strada, un locale), si rivela essere set cinematografico diretto a distanza da Panahi, ancora una volta nella parte di se stesso (costretto a girare in remoto, da un piccolo paesino iraniano, un film che invece è ambientato in Turchia): l’immagine con cui si apre il film sembra in continuità con la realtà (anche prospettica), ma basta poco tempo per accorgersi che si tratta dello schermo del regista, che interviene per interrompere l’apparente naturalità raggiunta dal set per un errore nella messa in scena. “Stop. C’è un errore nel ritmo” dice Panahi in cuffia al suo aiutoregista sul campo, quando la camera segue il personaggio sbagliato dopo la rappresentazione di un alterco. L’intervento non potrebbe essere più rivelatorio: nel gioco di realtà mascherate da finzioni (Panahi interpreta se stesso regista, mentre dirige un film in isolamento, senza poter lasciare l’Iran) e di finzioni mascherate da realtà (il film che il regista gira a distanza racconta con ibridazione documentaria la storia “vera e in corso” di una coppia che vorrebbe fuggire dal proprio paese e che finirà tragicamente – interrompendo le riprese), il ritmo del corpo funziona come la cerniera che rivela la messa in tensione dell’immagine nei confronti di una realtà che sta sempre là, di fronte, a poca distanza, ma non si riesce ad afferrare – non per caso molti film di Panahi finiscono con scene in cui un evento di realtà appare come aniconico, senza immagine nell’indefinizione di un buio lontano in campo come nello stesso This is not a film o fuori dal campo come in Offside.

Il corpo si configura come un precipitato di realtà, un’unità indissolubile che, anche nell’attraversamento di tutte le virtualità e di tutti i doppi giochi della finzione, non cede nulla della propria presenza e anzi rimane piantato in una vibrante intensità d’essere, che cresce in progressione durante il film assieme alla gravità degli eventi raccontati: da quando Zara (Mina Khosravani), la ragazza protagonista del film nel film di Panahi, accusa il regista di voler strumentalizzare la sua sofferenza (lo stesso faceva la bambina sull’autobus ne Lo specchio) e rivendica il diritto sulla propria immagine proprio facendo scudo con il proprio corpo, anzi, negando il proprio corpo all’immagine; passando per la scena in cui Panahi stesso è lì sulla linea di confine tra il paese in cui è costretto e il paese in cui stanno girando il film e, nell’incertezza dell’autenticità della scena (è quello davvero il confine? può Panahi seguire i consigli dei suoi collaboratori e uscire di nascosto dall’Iran?), il suo passo incerto, il suo volto dubbioso, il suo corpo (in azione performativa verrebbe da dire) si configurano come segno indubitabile, pura presenza nel circuito delle immagini; fino alla tragica scena finale del film, in cui il regista incontra i corpi morti di due giovani innamorati perseguitati nel villaggio che ospitava il regista, uccisi nel tentativo di fuggire dallo stesso confine.

Proprio in questo ultimo caso il corpo è definitivo segno limite per l’avvicinamento al reale, perché la coincidenza dell’assenza di vita con la fine delle immagini innesca non solo il rifiuto di continuare a girare ma anche la consapevolezza di non poterlo più fare. Nel gorgo di visibilità totale, in cui tutto sembra giungere a espressione “vera”, resta una porzione di incompreso, di incomprensibile al visivo, che chiede di ripensare la misura e di riconoscere l’esistenza di una distanza. Quando Panahi vede la scena di morte dalla propria macchina, mentre va via dal villaggio che lo accoglieva mal volentieri, interrompe il film con uno stacco che corrisponde al sonoro tiro del freno a mano: è l’attestazione dell’interruzione volontaria del proprio sguardo, in questi ultimi film legato quasi sempre al mezzo vettura (Taxi TeheranTre volti), l’azzeramento dei giochi e delle proiezioni e delle direttive, l’ammutolirsi dei discorsi di fronte al reale come ferita aperta, che fa male e non si può ricucire. 

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Jafar Panahi Jafar Panahi Vahid Mobaseri Bakhtiar Panjei Mina Khosravani 107 minuti
Iran
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Omicidio nel West End

di Alessio Baronci
Omicidio nel west end recensione

Vien da chiedersi cosa succede ora, dopo Knives Out, nel microcosmo dei gialli whodunnit. Perché è indubbio che la carica eversiva che il film di Johnson applica al giallo debba sfociare da qualche parte. Verrebbe da dire che dopo la distruzione di un immaginario, l’unica cosa da fare è portare in primo piano il suo linguaggio e giocarci, come dimostra ovviamente il lavoro sull’horror di Craven con Scream. E in effetti Omicidio nel West End pare avvertire la crisi del genere e non sembra voler nascondere in alcun modo la cornice “meta” che lo anima.

Quello diretto da Tom George è in effetti un thriller tutto chiuso nelle quattro pareti di un teatro londinese degli anni ’50, che inizia quando Leo Copernick, estroso regista americano, viene ucciso durante i festeggiamenti per la centesima replica teatrale del classico Trappola per topi, di cui lui avrebbe dovuto dirigere il primo adattamento per il cinema. A indagare sul caso sono chiamati un detective veterano (Sam Rockwell) e un’agente alle prime armi (Saoirse Ronan) affascinata dall’underground teatrale che ospita l'inchiesta. E tuttavia è evidente che l’orizzonte meta-cinematografico non è mai davvero centrale nel discorso, relegato a certi exploit lucidissimi («al pubblico interessa davvero ciò che avviene negli ultimi minuti del film, prima non importa ciò che gli racconti» esplode improvvisamente proprio Copernick) e tuttavia isolati, a tal punto che persino la riflessione su rapporto tra verità, fiction e dignità della vittima, un’intuizione centratissima della scrittura, è affrontata superficialmente e subito accantonata prima dell’epilogo.
È il primo scartamento forte del film che allora, almeno ad uno sguardo superficiale, non può che infilarsi nell’altra linea legata ai detriti del whodunnit, quella più placida, leggibile, quasi antiquaria, del Poirot ripensato da Kenneth Branagh. Ma anche in questo caso si rischia di finire fuori strada. Perché il film di Tom George è luminoso, pensato in uptempo, troppo veloce per aderire in modo convincente agli spazi polverosi in cui si muove Branagh. In realtà George e lo sceneggiatore Mark Chappell dichiarano le loro intenzioni fin da subito.

Omicidio nel west end recensione ok 1

Durante il prologo, infatti, al termine dell’ennesima recita di Trappola per topi, uno degli attori avverte gli spettatori che ora anche loro sono complici del delitto e si impegnano a mantenere l’identità del colpevole segreta per evitare di rovinare lo stupore a chi vedrà le repliche successive. Si tratta di un momento essenziale di Omicidio nel West End, che qui esplicita la sua identità profonda e specifica i rapporti di potere che intrattiene con lo spettatore. Perché il centro di tutto è proprio qui, in uno spettatore che non è più “vittima” della diegesi ma ne è complice. Conosce i meccanismi del racconto e li osserva mentre vengono messi in rilievo, marcati, deviati senza stravolgerne il senso, rispondendo alle sollecitazioni del film con un sorriso sagace più che con una risata inquieta, come accade con le parodie, appunto, più che nella dissacrante apocalisse di segni craveniana. Da qui lo sguardo sul film non può che riposizionarsi ancora, a partire da una ridefinizione dei suoi modelli di riferimento, non più i gialli cinematografici di Agatha Christie, ma, al massimo, la variante più intima e controllata del genere, quella degli adattamenti televisivi inglesi di produzione Granada, riletta con un piglio ironico à la Monty Python con, al fondo, una nota quasi (Mel) Brooksiana.

Il riferimento alla tv non è neanche troppo peregrino: sia Tom George che Mark Chappell provengono infatti dalla serialità televisiva (Chappell ha addirittura scritto per la Granada) e sono all’esordio nel lungometraggio, un’occorrenza, questa, che tra l’altro racconta molto del passo su cui si muove il film (parodia garbata più che sovversione integrale di una sintassi, appunto) perché gli stessi creativi si stanno muovendo in uno spazio nuovo, su cui devono mantenere comunque il controllo al di là di qualsiasi scartamento. E dunque ecco che l’obiettivo è un ritorno all’ordine del genere che è certo più funzionale che nutrito da un qualsiasi afflato autoriale. Il risultato gioca sul sicuro ma è comunque un giallo solido, particolarmente equilibrato nel dare il giusto spazio agli elementi del racconto, protagonisti e comprimari, e che quando devia dal seminato lo fa in modo non scontato, preferendo l’umorismo di parola a quello più dinamico, l’assurdo al grottesco più superficiale, il sottile ribaltamento delle attese spettatoriali attraverso una scrittura in punta di cesello agli exploit più rumorosi.

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Sono appassionati ma prudenti, George e Chappell, sviluppano un progetto calibrato quasi al millimetro, a tal punto che non appena la presa sul sistema si fa più debole si deconcentrano e disperdono gran parte del potenziale accumulato fino a quel momento. Eppure il fiato e le ambizioni per costruirsi da soli le proprie regole del gioco ce li avrebbero avuti. Lo suggerisce già il passo di Chappell, che costruisce un mondo affascinante proprio perché in equilibrio tra i poli opposti del realismo e del poliziesco avventuroso dal feeling retrò, ponendo al suo centro due protagonisti umanissimi pur nel loro essere fuori dal tempo. E tuttavia non sembra fidarsi troppo del suo sguardo, anzi aggiunge continuamente carne al fuoco, sposta i personaggi e l’azione negli spazi più disparati, dai night agli studios cinematografici fino alle ville nella brughiera, perdendo così di vista certe tematiche centrali del racconto.
Tom George è forse ancora più risoluto in questo senso. Tra i fotogrammi lascia infatti intravedere un istinto verso il racconto per immagini e una lucidità rigorosa nei confronti della sintassi del noir inusuali per un esordiente. Ma non va oltre alcuni momenti spiazzanti per complessità e gusto visivo, come la ritmatissima sequenza del secondo omicidio o l’improvvisa fiammata action dell’epilogo. Per il resto, anche lui finisce per girare a vuoto, prigioniero di uno sguardo cauto e spesso incolore. Certo è indubbio che George sia più astuto del suo sceneggiatore e riesca a mascherare meglio le sue insicurezze. Così, quando divaga, sbanda, lo fa assecondando una cinefilia di maniera ma totalizzante che fa impantanare le immagini nel racconto ma al contempo apre affascinanti dialoghi tra il noir e immaginari altri che vanno da Viale del tramonto a Mario Bava fino a esorbitare in una sequenza onirica presa di peso da Shining.

Categoria
Tom George Sam Rockwell Saoirse Ronan Adrien Brody Ruth Wilson 98 minuti
United Kingdom, 2022
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