Diabolik - Ginko all'attacco!

di Antonio Manetti Marco Manetti

Un sequel che rimarca l'immersione (bellissima) dentro un mondo che non esiste, forse ancora più radicale nel prendere le distanze dalle regole della grammatica cinematografica contemporanea.

Diabolik Ginko all'attacco - Recensione film Manetti

Avevamo lasciato Eva Kant e Diabolik a godersi i frutti delle loro imprese a bordo di uno yacht privato, dopo gli eventi raccontati nello mitico albo numero tre, quel popolare (almeno tra i lettori) L’arresto di Diabolik che metteva in scena il primo storico incontro tra i due. Un anno più tardi, il criminale più famoso della storia del fumetto italiano torna nuovamente in azione, e per l’occasione i fratelli Manetti scelgono ancora di attingere da una delle storie più celebri del personaggio: questa volta è il turno di Ginko all’attacco (numero sedici della prima serie, pubblicato per la prima volta nell’aprile 1964), in cui il protagonista cade nella trappola messa a punto dalla sua nemesi storica e si ritrova a fare i conti con la confisca di tutti i suoi famigerati rifugi faticosamente accumulati nel corso del tempo (che nel film si riducono però a uno soltanto). Incassato il forfait di Luca Marinelli, sostituito da un Giacomo Gianniotti certamente meno carismatico ma più aderente su un piano strettamente fisico al ruolo richiesto, la saga può ora continuare in attesa del terzo e ultimo capitolo, girato back-to-back con questo e basato - stando ai rumors - sull’altrettanto fondamentale Diabolik, chi sei? (numero 107, marzo 1968).

Chi già aveva storto il naso per le scelte estetiche e narrative adottate dai Manetti nel film precedente, difficilmente ora troverà motivi di interesse per un’operazione che forse è ancora più radicale nel prendere le distanze dalle regole della grammatica cinematografica contemporanea, dilatando i tempi dell’azione come nessun cinecomics a stelle e strisce si sognerebbe mai di fare: e se le riflessioni di un anno fa sulla dimensione coraggiosamente e testardamente analogica del progetto Diabolik possono tranquillamente ritenersi valide anche per questo sequel, allo stesso tempo il patto con lo spettatore viene qui in parte riscritto e aggiornato, alla luce di un contesto produttivo differente rispetto a prima e certamente più travagliato. Costretti a rapportarsi con un budget di molto inferiore che ha imposto soluzioni narrative drastiche (meno location, meno personaggi, meno sottotrame), i fratelli registi concentrano tutti i loro sforzi su un plot maggiormente lineare, da poliziesco d’altri tempi, senza però rinunciare alla natura intima e giocosa di un’idea di cinema inteso ancora come arteficio e meraviglia.

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Il significato infatti è già tutto nella sequenza dei titoli di testa: un’apertura classica come nei film della saga di 007, con i volti, i nomi e le dissolvenze che irrompono durante l’esecuzione della title track di Diodato, inserita però all’interno della narrazione (quello che vediamo è quello che sta accadendo dentro la storia); un momento spudoratamente diegetico che sottolinea con forza il costante rapporto tra verità e finzione che proseguirà ininterrottamente per tutta la durata, e poi ancora oltre, durante i titoli di coda, con Valerio Mastandrea/Ginko che sembra non volerne sapere di abbandonare il set.. E allora anche il brusco cambio di volto (di maschera?) tra Marinelli e Gianniotti diventa funzionale al tutto, perché Diabolik (ma anche Ginko, Eva, Altea…) è un’ombra di carta che scivola dentro e fuori lo schermo, appare e scompare senza lasciare traccia, esattamente come la sua controparte femminile quando viene inondata dal fascio di luce di un faro - una delle sequenze più riuscite del film - e sembra trasformarsi in una silhouette sospesa a metà tra la dimensione del cinema e quella del fumetto.

Poco importa che il plot twist sia telefonato e largamente prevedibile anche per chi non ha mai sfogliato un albo in vita sua, perché nulla di quello che si vede è reale: non lo è la recitazione, compassata, catatonica, finta (il dialogo apparentemente inascoltabile attraverso il quale Diabolik abbandona Eva al suo destino, vera e propria pantomima dentro la messinscena), e non lo è nemmeno l‘apparente assenza del protagonista dalle scene per buona parte del film. Pensi che sia sempre rimasto in disparte, e invece lo hai avuto davanti agli occhi per tutto il tempo, senza accorgertene. Il risultato è tanto affascinante quanto respingente, ed è comprensibile l’atteggiamento di rifiuto da parte di chi non riesce (o non vuole) accettare il compromesso: ma se si sta al gioco, e si accettano le sue regole fino in fondo, Diabolik – Ginko all’attacco! (esattamente come il suo predecessore) è davvero l’immersione dentro un mondo che non esiste, e che proprio per questo è bellissimo da abitare e da guardare ogni volta come se fosse la prima.

Torna allora alla mente l’indimenticabile trick a tradimento del finale di I vampiri di Praga di Tod Browning (Mark of the Vampire, 1935), dove la rivelazione dell’inganno giustificava l’esistenza di universi e immaginari potenzialmente infiniti: è ancora, sempre e comunque no hay banda.

Autore: Giacomo Calzoni
Pubblicato il 24/11/2022

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