Il cinema per Kristoffer Borgli: come nasce un autore

di Arianna Caserta
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Per le sale italiane, il secondo e il terzo lungometraggio del regista norvegese Kristoffer Borgli sono arrivati a un mese di distanza, restituendo agli spettatori l’idea che questo nuovo autore - sconosciuto a molti fino a poco prima - fosse una tra le poche leve emergenti in grado di ritagliarsi un posto consolidato nel panorama cinematografico mondiale in pochissimo tempo. Nonostante il fatto che Sick of Myself abbia dovuto lottare prima di ottenere una distribuzione ampia - era  stato presentato nella sezione Un Certain Regard al Festival del Cinema di Cannes nel maggio 2022 - e che il contrario sia invece accaduto con Dream Scenario, arrivato subito nelle sale grazie alla spinta di A24, è come se, per casualità di programmazione, la distribuzione italiana avesse riportato il legame tra i due film al loro stato primordiale: il regista, infatti, li ha scritti entrambi nello stesso periodo, e non avrebbe mai immaginato che da lì a poco lo avrebbero reso uno degli autori più chiacchierati dell’industria. 

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Ma chi è Kristoffer Borgli? Nato nel 1985 a Oslo, la vita del regista segue la parabola di molti altri che come lui hanno lasciato l’Europa per inserirsi - lottando con le delusioni, la competizione e la bassa autostima - nel clima delle produzioni di Los Angeles che, in molti casi, è ancora l’unico vero trampolino di lancio per raggiungere un pubblico internazionale, creare connessioni e ricevere finanziamenti ingenti. Tra le strade affollate e le luci sgargianti di Los Angeles, però, Borgli non è arrivato solo con l’idea del lungometraggio che lo avrebbe consacrato; alle sue spalle aveva Drib (2017), uno strano film dove documentario e finzione si mescolano continuamente per raccontare la storia di un finto “caso mediatico” relativo a uno YouTuber impegnato a aizzare risse con sconosciuti per strada (proprio come nel celebre film mai realizzato da Harmony Korine, Fight Harm). È proprio quando il finto YouTuber - che mette in scena le risse senza parteciparvi davvero - viene contattato da un famosa marca di bevande effervescenti americana che lo vuole come volto dell’azienda, che Borgli comincia a seguire il feedback di realtà e finzione che si snoda attorno alla faccenda. Con Drib, due corti e una serie di video musicali nel suo portfolio, il regista norvegese aveva in realtà già messo al mondo il germe di una poetica che sarebbe rimasta coerente fino all’incontro con A24 e alla fama mondiale: una poetica messa a punto, particolarmente, nei sei cortometraggi realizzati a Los Angeles prima del rilascio di Sick of Myself nel 2022.

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Chi non ha familiarità con i leitmotiv dell’opera di Borgli ben prima della commedia nera sulla giovane Signe, che si deturpa pur di essere notata, non sa infatti che la quantità di film in cui il regista non appare anche come attore è minore rispetto a quella dei film in cui il regista presta il suo volto all’obiettivo per assumere il ruolo da protagonista. Eppure, il fattore più sorprendente rivelato da un’analisi della produzione dei suo cortometraggi, ha a che vedere con la sua divisione in blocchi tematici. Seppur con linee di contorno non troppo nette, - ma significative - il cinema di Borgli sembra aver attraversato due fasi cruciali: la prima, a cui si riferiscono lavori come A Place We Call Reality (2018) It’s not a phase (2019), The Loser (2019), The Altruist (2020) ha come nucleo tematico la sensazione di arresa e il perpetuo timore di sentirsi un perdente attorno a un mondo che continua a muoversi in modo rapido - e famelico - fino ad alimentare delusioni e ossessioni, soprattutto indirizzate verso la fama e il riconoscimento. In A Place We Call Reality, che coincide con il periodo di spostamento tra l’Europa e gli Stati Uniti, il regista risponde alla chiamata della rivista Dazed girando un cortometraggio sul suo stesso spaesamento una volta arrivato nella giungla di LA, e con il budget datogli per il film, paga il viaggio e le spese a uno strano guru rintracciato sul web che assume il ruolo di sua guida spirituale. It’s not a phase è un finto documentario su un fan die-hard di una band fittizia (di cui il frontman è interpretato da Borgli), che raggiunge l’estasi solo nel momento in cui riesce a introdursi furtivamente nella casa del suo idolo ed essere quindi finalmente notato.

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Sulla scia del finto documentario si muove anche The Loser, dove lo stesso Borgli, che interpreta sé stesso, si rende conto di non avere abbastanza stoffa o carisma per condurre un’intervista con il grande scrittore David Shields. The Altruist - forse il più significativo tra tutti i corti di questa fase - vede il regista interpretare nuovamente sé stesso mentre, durante la quarantena, chiama ognuno dei suoi conoscenti divorato dalla paura che gli altri si stiano magari incontrandosi e divertendosi alle sue spalle. La FOMO (Fear of missing out), la paura di non essere abbastanza, la sensazione di sentirsi esclusi e di non avere nulla da offrire, sono gli elementi cardine della fase che nella vita di Borgli coincide con l’arrivo in America e lo scoppio della pandemia. Di qui, al senso di disperazione che accomuna e attraversa questo gruppo di lavori, segue una seconda fase , volta a esaminare tutto ciò che si è disposti a fare pur di non esserlo. Un approccio che pare  ravvivare le suggestioni di Drib, e che corrisponde all’osservazione dei meccanismi della scintillante industria di LA, dove finanche l’ultimo detrito di umanità viene ingurgitato, sminuzzato e parcellizzato dalle regole della fama, dei soldi e da un modo di pensare corporate. È qui che il cinema di Borgli comincia a parlare dell’estenuante tentativo di emergere in un’epoca iper competitiva in cui l’attenzione è poca e i metodi per attirarla sempre più sconvolgenti. A questa fase corrispondono Former Cult Member Hears Music For The First Time (2020), EER (2021) e Filmmaker Gets Shot Suring Interview (2023), quest’ultimo rilasciato subito dopo Sick of Myself. Former Cult Member è una satira oscura su cosa accade quando le fragilità e l’innocenza altrui si scontrano con lo spietato mondo dei riflettori di LA, raccontato grazie alle vicende di una troupe intenta a filmare il primo incontro con la musica di una ragazza nata e cresciuta in una setta dove udire qualsiasi melodia era vietato. EER, figlio diretto degli studi per Sick of Myself, riflette invece sulle contraddizioni del sistema sanitario americano, e prende spunto dal fatto che lo stesso regista abbia dovuto dar prova di lavorare negli States per poter ricevere l’assicurazione sanitaria lontano dalla Norvegia. Ispirato all’episodio celebre di cui il regista Werner Herzog è stato protagonista nel 2006, Filmmaker Gets Shot vede il regista vittima di proiettili sparati anonimamente durante un’intervista per presentare il suo nuovo film in sala, e preme sul comico espediente di voler continuare l’intervista nonostante il sangue sgorghi e i colpi continuino a ferire.

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«Sono sempre stato interessato dal fatto che una persona che pare avere già tutto dalla vita, finisce spesso per rendersi miserabile concentrandosi sulle cose sbagliate»,  ha detto il regista durante un’intervista. E in un panorama in cui tutti sembrano vivere la versione migliore delle loro vite e la possibile fama è lontana solo un click, i film di Borgli riflettono, puntualmente, sulle dinamiche sociali che si snodano fuori dal grande schermo: la dimensione performativa del dolore sui social media, la corsa alla fama, l’annichilimento di ogni caratteristica umana sostituita dalla sua rappresentazione, l’olimpo degli influencer e dei contenuti virali, chiamati in causa nonostante gli schermi degli  smartphone non appaiano mai nei suoi film. L’operazione di Borgli non è didascalica, ma conta invece sullo spettatore e sulla sua capacità di riempire gli spazi mancanti di una narrazione contemporanea che non mira dritto alle sue cause, ma le sviscera fino allo sfinimento.

Il cinema di Borgli non parla di internet e di social media, ma degli impeti umani che li hanno resi quello che sono. Come succedeva per Michael Haneke, - che come nessun altro ha sviscerato l’ontologia dei nuovi media - i testi filmici non si nutrono tanto della loro trama, quanto del modo in cui lo spettatore si relaziona a essi — perché il modo più sincero di parlare dei media è parlare di chi li fruisce. L’operazione di Borgli è di ribaltamento: ricordare che le nuove tecnologie hanno solo esaltato alcune dinamiche umane, ma di certo non le hanno inventate. Se internet è la digitalizzazione dell’inconscio collettivo junghiano, è anche vero che questo è dettato da dinamiche di potere, algoritmi e bolle, e non è un caso che siano proprio i sogni a essere i protagonisti del più recente Dream Scenario (2023). Come salvare quei pochi brandelli di sincerità non raggiunti dalle fauci dell’exploitation capitalista? Probabilmente non c’è soluzione, e le aziende potrebbero aver già preso di mira persino la dimensione onirica. Del resto è proprio A24, che di quella trasformazione della cultura in gadget, merchandising e lustrini è a capo, a produrre un corto rilasciato negli ultimi giorni del 2023 dove il regista viene intervistato mentre sogna. Dream Scenario, però, dà inizio a una nuova fase che si apre con un nuovo quesito già suggerito dalle ultime scene di Sick of Myself: cosa succederebbe se, una volta raggiunta l’agognata fama, ci si rendesse conto che è esattamente l’opposto di ciò che si voleva? 

Se grazie a una vasta produzione di cortometraggi è già possibile un’ampia operazione di politique des auteurs per il regista appena presentato al grande pubblico, meno efficace sarebbe limitarsi ad attribuire un mucchio di parole chiave alla sua poetica, che si snoda invece come un un dialogo in cui regista controbatte, risponde a sé stesso, introduce domande laterali, si contraddice come principio irremovibile. Un movimento costante, in cui ciò che resta è l’importanza di un testo filmico in relazione all’anno della sua realizzazione, e il fatto  che un’opera come Sick of Myself sia stato in sala mentre al telegiornale passava la notizia di una donna che aveva finto di deturparsi il viso con un enorme tatuaggio sulla fronte, rivelatosi nient’altro che una bufala per raggiungere la fama su TikTok.
Accettare di dedicare il proprio estro artistico allo studio dei meccanismi che regolano i (nuovi?) media vuol dire confrontarsi con la primordialità dell’inconscio umano, che non ha età e resterà invariato anche quando ogni nuova tecnologia verrà spazzata da un’altra ancora più nuova; vuol dire analizzare un chiasso straniante, confuso e opprimente, mettendo la testa fuori e osservando con un po’ di distanza qualcosa da cui sembra impossibile non lasciarsi travolgere. Muoversi nel paesaggio dei media contemporanei con occhio critico prevede la messa in prospettiva di un fracasso assordante, e prevede l’accettazione del fatto che tutto sia già in procinto di svanire, di essere sostituito e trasformato in nient’altro che cenere. Perché come suggerito dallo stesso Borgli nel corto Willem Dafoe (2023), tra gli ultimi da lui realizzati, a cosa serve raggiungere lo stato di icona se le persone non riescono neanche a ricordare il tuo nome? 

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Passages

di Irene Frau
Passages recensione film

«Non ho nulla da dire. Solo da mostrare. Non sottrarrò nulla di prezioso e non mi approprierò di alcuna espressione ingegnosa»
Walter Benjamin, I «passages» di Parigi volume primo

In una Parigi inafferrabile allo sguardo, il giovane regista tedesco Tomas (Franz Rogowski) sta girando un film. Nella scena successiva è insieme alla troupe e a suo marito Martin (Ben Whishaw), mentre tenta di divertirsi al party di fine riprese. Il film nel film, diretto dal protagonista, sembra essere costato parecchio stress a Tomas, che non riesce a coinvolgere il suo consorte nei festeggiamenti e finisce per passare la serata con Agathe (Adèle Exarchopoulos), una ragazza con la quale si ritrova a ballare per una lunga e seducente sequenza. Sin dall'incipit, carico di erotismo, prende forma una triangolazione amorosa dalle dinamiche tossiche fra i due coniugi e Agathe, dove Tomas è il motore, o meglio il regista, che dispone dei sentimenti e dei corpi dei suoi amanti per assecondare le sue smanie di controllo, tipiche di un narcisista patologico.

Passages è la seconda produzione europea di Ira Sachs dopo Frankie (2019), ed è anche il lungometraggio nel quale impiega tinte più vivide e pennellate più nette, sia nella regia che nella scrittura di una storia ricca di scene di sesso, mai superflue e sempre funzionali. Di fatto, nelle relazioni tossiche l’attrazione fisica è una delle armi utilizzate per manipolare, confondere e indurre il partner o la partner a sviluppare un rapporto disfunzionale, fatto di dipendenza affettiva e insincerità. Non solo il sesso, ma tutta l’estetica dell’ultimo lungometraggio di Sachs si manifesta con potente grazia, specialmente per la raffinatezza del linguaggio, dalle evidenti assonanze con Antoine Pialat e la Nouvelle vague di Jean-Luc Godard e Éric Rohmer. Anche le prove attoriali risultano determinanti per la riuscita di un lavoro senza sbavature, raffinato, capace di attraversare la grammatica di un cinema ormai lontano, rendendolo attuale e senza anacronismi.

Nei contenuti, Passages è un film contemporaneo; nella forma è immerso nella tradizione del cinema francese. I dialoghi degli amanti hanno come sfondo le tinte chiare delle camere da letto, illuminate dalla luce filtrata dalle finestre, dove Tomas cerca conforto. La natura dei loro discorsi, leggeri e nervosi, ricorda quelli di À bout de souffle (1960) e degli amanti clandestini di Romer in L'amour l'après-midi (1972). Ogni inquadratura è elegante, sobria e dalla composizione nitida a opera del direttore della fotografia Josée Deshaies. L’estetica delle immagini è esaltata dalla colonna sonora che varia dal folk al funky, fino a "La Marsigliese" free jazz di Albert Ayler.
La scrittura dei personaggi risulta densa, ma non didascalica. In ogni dialogo e scambio di sguardi emerge con naturalezza l’indole dei tre amanti parigini. Martin si occupa di arti grafiche, ha l’animo fragile e la corporatura esile; vorrebbe essere accudente ed è sinceramente innamorato. Tomas, pur essendo al centro della narrazione, non occupa tutta la scena e si rivela sofferente, sovversivo rispetto a ogni retaggio del passato e alla ricerca di uno spazio di azione che non troverà mai. Lo dimostra quando conosce i genitori di Agathe, i quali giudicano sintomo di inaffidabilità la sua natura bisessuale e le sue origini tedesche. Lei, pur essendo vittima della instabilità di Tomas, lo difende nelle questioni di principio e nei valori che con lui condivide. Risulta curioso notare come il personaggio di Agathe possa ricordare l’evoluzione di quello di Adèle in La vita di Adele (2013), interpretato dalla stessa e omonima attrice. Entrambi i personaggi sono semplici e seducenti: sia Agathe che Adèle fanno le maestre e sono alla ricerca spasmodica di amore e passione. Sia Agathe che Adèle sembrano succubi di chi dice di amarle, ma Agathe manifesta una maggior maturità e distacco rispetto ad Adèle.

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Martin e Agathe parlano in inglese con il tedesco Tomas. Lui dice qualche parola in francese, ma non è a causa della lingua che comunicare risulta complesso. Il problema maggiore è dato dal contesto in cui è ambientata la loro storia d’amore, ovvero quello della fine della modernità. Non a caso il film è intitolato Passages prendendo il nome di ciò che il filosofo Walter Benjamin definiva come il monumento ai fantasmi della cultura borghese capitalista di fine ottocento. I passages parigini erano i precursori dei centri commerciali e raccontano di un mondo in cui l’esplosività del sorgere della modernità ha pervaso ogni aspetto della vita dell’uomo. L’avanzare della cultura mediale (l’avvento della fotografia e del cinema), il processo di massificazione e il capitalismo industriale hanno modificato inesorabilmente le modalità del sentire in ogni sua forma. Perciò, modernità è sinonimo di choc. Secondo Benjamin, le masse atrofizzate da continui stimoli invasivi sono ridotte a folle di sonnambuli, pervasi dalla fantasmagoria delle merci esposte nelle vetrine dei passages e delle prime esposizioni universali. Vagano come flâneur tra i monumenti alla modernità, decaduti prima ancora di essere stati eretti.
Anche Tomas sfreccia per le strade di Parigi come un flâneur contemporaneo sulla sua bicicletta, correndo da un amante all’altro, da un fallimento all’altro, inseguito dalla camera con veloci carrellate. Martin e Agathe invece restano nei loro ambienti, quasi ne fossero intrappolati. Loro non hanno cambiato paese, né hanno rimesso in discussione il loro orientamento sessuale. Non si muovono compulsivamente per la città, ma restano nei binari delle loro professioni, delle loro abitudini e dei loro principi, per uscirne solo quando cedono al regista delle loro vite, ovvero l’insaziabile Tomas. Verso il finale, tra i sopravvissuti si instaura un rapporto di solidarietà, lasciando che i veleni rimangano a chi ne dispone.

I protagonisti si muovono in un contesto privilegiato, siedono al tavolo dei ristoranti più cool di Parigi, incontrando intellettuali e artisti della scena metropolitana. Abitano in case raffinate, ma dal gusto decadente; indossano abiti eccentrici, all’apparenza poco costosi. Sembra che siano disposti a superare le rigidità delle relazioni monogame e che possano spingersi alla sperimentazione del poliamore, ma in realtà Tomas, Agathe e Martin non sanno come gestire la libertà a cui aspirano. Tentano di andare oltre la “gabbia” dei rapporti di coppia eteronormati, ma come in una sorta di Jules e Jim (1962) queer del ventunesimo secolo, falliscono.

Con Passages la prospettiva del precedente Love Is Strange (2014), ovvero la lunga storia d’amore newyorkese dei protagonisti Ben e George, è ribaltata e superata per mostrare una complessità relazionale che potrebbe essere sintomatica dei nostri giorni, pur senza esprimere giudizi. Ira Sachs ha lavorato al suo ultimo film come se non avesse nulla di definitivo da dire con le parole, ma tanto da mostrare attraverso le immagini, composte secondo la sua interpretazione dei passages parigini nel mondo contemporaneo, senza pretendere di sapere cosa sia giusto o sbagliato nelle relazioni amorose.

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Ira Sachs Adèle Exarchopoulos Franz Rogowski Ben Whishaw 92 minuti
Francia 2013
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Red Rooms

di Emanuele Polverino
Red roomes-  recensione film

Kelly-Anne è una giovanissima e affermata modella, algida e imperturbabile nella sua spaventosa bellezza – «fai paura per quanto sei bella», le dirà un’amica – simbolo traslucido di una generazione che vive e respira su internet: «i soldi sono numeri, e io sono brava con quelli». Perché arricchirsi non è un problema: sedute di poker online, bitcoin, shooting fotografici, tutto le appartiene senza il minimo sforzo. Una fastidiosa routine che la separa dall’unica cosa che riesce a renderla partecipe di un mondo altrimenti sfocato e confinato alle sue spalle (insistiti e rivelatori i primi piani sul suo volto, in un ricorso quasi matematico a una minima profondità di campo): assistere ogni giorno alla morbosa (non solo per lei) ricerca della verità nel processo che vede imputato Ludovic Chevalier, presunto colpevole di tre efferati omicidi ai danni di altrettante ragazze.
La natura degli assassini è brutale, insostenibile per la macchina da presa: tre ragazze seviziate e riprese all’interno di camere rosse, luoghi “conosciuti” e famosi nel Dark Web (e anche qui il film risulta saldamente ancorato al contemporaneo, nel distinguere il Dark dal Deep Web, definizioni spesso fumose e mai chiarificatrici), sin dai visionari tempi di Videodrome. Ma se Cronenberg risulta tematicamente e formalmente (per lo meno a tratti) distante come riferimento, Red Rooms di  Pascal Plante trova il suo spazio tra l’astrattismo e l’artificiosità di The Neon Demon e il mondo post-pandemico e quasi post-umano di Kimi. Perché se è attraverso il corpo – gli shooting di alta moda, i duri allenamenti etc. – che la protagonista si aggrappa alla realtà analogica e ai suoi riflessi che abitano lo spoglio ma funzionale appartamento, è nel dialogo con Guenievre, intelligenza artificiale confezionata e adattata su misura, che Kelly-Anne riesce in qualche modo a non perdere contatto con sé stessa. Emblematica la domanda che pone all’AI durante una serata in compagnia di Clementine, l’altra ragazza che segue spasmodicamente il processo: «Guenievre, mi devo suicidare?» – proprio come il personaggio di Zoë Kravitz nel film di Soderbergh, eremita nella sua torre d’avorio perché simbioticamente collegata alla sua Intelligenza Artificiale.

È un film che vive di immagini, quello scritto e diretto da Plante, principali e di rimando. Dove il controcampo diventa soggetto delle scene, specchio di una mostruosità che non può essere svelata ma solamente accennata, dedotta. Ed è nelle urla dei parenti che visionano per la prima volta le bestialità subite dalle figlie che affrontiamo l’orrore, apice spettacolare di un pornografico gioco true crime che infesta talk show e dibattiti televisivi. Accorato argomento di discussione in grado di unire, anche solo momentaneamente, due persone così distanti come Kelly-Anne e Clementine. E sarà proprio la ricerca di un video mancante, tassello fondamentale che disvelerà la colpevolezza di Ludovic Chevalier, di un’immagine primaria che legherà ogni elemento in gioco, a permettere che Kelly-Anne si unisca al riflesso di sé. A un alter ego digitale che morbosamente assumerà le sembianze farsesche di una delle vittime, doppelgänger involontario figlio di un ossessivo viaggio verso la verità. Una rincorsa che culminerà in una singola scena madre, in una stanza inondata di rosso e del frutto delle ricerche di Kelly, che prende forma sul suo viso. Una cinica freddezza che trova riscontro formale nella messa in scena di Plante, chirurgica nelle geometrie durante il processo, ma mutevole e costruita su immagini di rimando (telecamere di sorveglianza, schermi di pc e cellulari) quando Kelly si trova a vivere “al di fuori” della finzione.

Ed è proprio nel suo dialogo con la realtà-altra, quella del digitale, ormai vera e propria linea parallela con il mondo fenomenico, che il film assume un’estrema importanza. Nel sorpassare la pura e semplice critica ai talk show – elemento che rimane comunque interno al film, con il personaggio di Clementine che passa dall’inveire in diretta TV al diventare soggetto ella stessa di un programma di gossip – per portare il tutto su un altro livello di consapevolezza del contemporaneo.

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Pascal Plante Juliette Gariépy Laurie Babin Maxwell McCabe-Lokos 118 minuti
Canada 2023
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New Religion

di Riccardo Turchi
New Religion cop img recensione

"Vuoi salire a vedere la mia collezione di farfalle?”
Ricco di elementi riconducibili al J-Horror e al sottogenere trasversale del Denpa, New Religion, opera prima di Keishi Kondo, è la storia crudele di giovani giapponesi senza spina dorsale, incapaci di declinare l’invito di uno squilibrato con l’ossessione per le colonne vertebrali (e in cerca di discepoli a cui manchi un sostegno). Le coordinate sono quelle lasciate da Kiyoshi Kurosawa: cercare la “X” e scavare dentro le persone più deboli, per trovare quei desideri e quei ricordi che non dovrebbero, per nessun motivo al mondo, tornare in superficie.

Miyabi ha perso da poco Aoi, la figlia piccola. Divorziata, convive con il nuovo fidanzato (produttore musicale) conosciuto a una festa e si è reinventata squillo. Un giorno, il suo “protettore” la accompagna a casa di un nuovo cliente, diverso da tutti gli altri. A ogni incontro, l’uomo misterioso (con la passione per le falene) pretende di fotografare diverse parti del corpo della giovane donna. Man mano che l’immagine di Myiabi viene scomposta, quella della sfortunata figlioletta inizia a ricomporsi nella sua mente. E l’assenza si fa pericolosamente presenza.
Analizziamo una delle primissime sequenze. Colori spenti, linee verticali e orizzontali che creano più di un quadro nel quadro (in piena tradizione giapponese, qui si tratta di finestre scorrevoli presenti all’interno di un moderno appartamento giapponese), particolare attenzione alla profondità di campo e personaggi che non mostrano mai il volto nella sua interezza: sembra Kairo del già citato Kurosawa.

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Viene anche inquadrata una tazza con del tè ancora bollente, mancano solo il detective Takabe e Mamiya. Mentre Myiabi legge un libro di Virginia Woolf (Gita al faro), la figlia è sul balcone. Prende uno sgabello, ci sale sopra e, apparentemente senza un motivo, si lancia giù. Cade, o forse vola. Destino - il suicidio dovuto a salti da considerevoli altezze - che accomuna numerosi personaggi, spesso femminili, all’interno delle produzioni Denpa giapponesi (All About Lily Chou Chou di Shunji Iwai). Tra i personaggi più iconici del genere, caratterizzato da individui incapaci di comunicare tra loro ma in grado di captare l’invisibile (le onde elettromagnetiche) e di udire le voci provenienti dall’Universo (e dai “micro regni” contenuti nel cranio) - nel quale sembrerebbe non esserci spazio per il concetto di vuoto, si pensi allo “spettro” di Mizumi attraversato da “particelle di Luna” in August in The Water di Gakuryū Ishii - c’è sicuramente Chisa Yomoda di Serial Experiments Lain, anime del 1998 scritto da Chiaki J. Konaka.
 

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Ispirata al personaggio omonimo di Alice 6 – un Area Code Drama (produzioni a basso budget visibili solo in determinate regioni del Giappone, popolari intorno a metà degli anni ’90) del 1995, diretto dal fratello minore di Konaka e trasmesso da TV Shizuoka per la prefettura di Shizuoka – la tredicenne Chisa Yomoda si suicida nel primo episodio di Lain buttandosi da un palazzo, apparentemente senza motivo, proprio come la figlia di Myabi. Durante la sequenza, entrata nell’immaginario collettivo giapponese, si ha la costante sensazione che la ragazza sia vittima di ipnosi o sotto l’influenza di una qualche voce. Prima di commettere il gesto estremo (con i suoi pensieri riportati allo spettatore attraverso l’utilizzo di cartelli, altro elemento tipico delle produzioni Denpa), Chisa Yomoda allunga un braccio, quasi a voler indicare qualcosa che solo lei vede. Mentre vola, i cavi elettrici le strappano la divisa scolastica. Dirà, in seguito, di aver raggiunto il posto dove si trova Dio.

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Anche in New Religion è presente un personaggio che allunga il braccio, indicando qualcosa di invisibile allo spettatore: si tratta di Akari, collega di Myabi. Come la protagonista, anche lei è alle prese con traumi che sembrano insuperabili (tanto da portarla a compiere atti di autolesionismo): la morte del padre e gli abusi subiti in passato dalla madre, ora gravemente malata e bisognosa di medicine costose. Lo stato di salute mentale precario della donna precipita definitivamente nel momento in cui entra in contatto con il misterioso fotografo, che nel mentre ha spostato il suo interesse verso il corpo di Myabi: probabilmente sotto ipnosi (non viene mai esplicitato), Akari inizia a compiere numerosi attentati, provocando decine di morti e feriti, per poi darsi sempre alla fuga. Impossibile non pensare al personaggio di Sumida di Himizu (Sion Sono) durante la scena in cui la giovane si aggira con occhi spenti per le strade illuminate della città, armata di cutter e alla disperata ricerca di vittime: entrambe persone che dal Sol Levante hanno smesso di ricevere luce, cedendo all’oscurità che le abita. Semplificando ai minimi termini, è di questo che parla New Religion.

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Destino simile a quello di Akari toccherà a Myabi: forse ipnotizzata, con il fantasma della figlia ormai presenza fissa nella sua mente, strangolerà a morte il fidanzato e attaccherà una scuola a bordo di un’auto riempita con gas esplosivo per poi darsi alla macchia. E così i traumi di due individui ormai vuoti, facilmente influenzabili e alla ricerca di una nuova fede che possa sostenerli nella vita di tutti i giorni, riaprono le ferite di un paese intero. Che in Giappone ci sia ancora spazio per l’insorgere di un nuovo movimento religioso (ricordiamo il titolo internazionale) come quello di Aum Shinrikyō?

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Keishi Kondo Daiki Nunami Satoshi Oka Saionji Ryuseigun 100 minuti
Giappone 2022
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Inside the Yellow Cocoon Shell

di Andrea Vassalle
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"Le cadre est une cache", scriveva André Bazin. L'inquadratura è una benda, un nascondiglio, che stabilisce ciò che è visibile e ciò che invece rimane fuori campo, invisibile, ai limiti della percezione. Due elementi che nel cinema instaurano un costante dialogo, compenetrandosi nello spazio centrifugo dello schermo. È proprio il fuori campo che spesso assume il ruolo più importante, delineando e ampliando, nella sua imminenza, quello che si mostra allo sguardo. Phạm Thiên Ân sin dai primi cortometraggi si è dimostrato particolarmente affascinato dal rapporto tra campo e fuori campo, tra ciò che prende forma nell'immagine e ciò che succede subito al di fuori o che non risulta in un primo momento visibile. Il giovane regista vietnamita, in Inside the Yellow Cocoon Shell, ripensa questa relazione e la ridefinisce con un'approssimazione tra cornice e schermo, che diventa qui centripeto. Le immagini perdono qualsiasi confine e al loro interno i margini si piegano allo sguardo e alla sua persistenza. Guardando in profondità e a lungo, oltre la durata consentita, vincendone la resistenza, l'immagine si apre a nuovi spazi e attrae il fuori campo, disvelandolo. È quello che cerca di fare Thien, il protagonista, nel tentativo di trovare la fede e di riconnettersi con la propria anima. Di aprirsi, quindi, a una nuova percezione, a una nuova dimensione di sè, che avverte in un primo momento come un qualcosa di sfuggente, situato al di là della vista.

Inside the Yellow Cocoon Shell inizia con un piano sequenza che rappresenta un'estensione del precedente cortometraggio di Phạm Thiên Ân, Stay Awake, Be Ready. Un'unica inquadratura che si affaccia come una finestra su una piazza di Saigon e che si apre alla sua brulicante e frenetica vita. Da una partita di calcio - vista attraverso una rete, il primo dei tanti filtri che schermano le immagini del film - si passa, attraverso il movimento di una mascotte seguita dalla macchina da presa, a tre giovani ragazzi che discutono di fede e degli scopi dell'esistenza, mentre attorno a loro decine di persone cenano e si spostano, in un incrocio di vite e di traiettorie. "Vorrei credere, ma non posso", dice Thien. È la mente a trattenerlo, a frenarlo, a precludergli la fede. Tutto sembra partire da qui, da queste parole pronunciate fugacemente e distrattamente, che sono un prodromo del conflitto e del viaggio interiori che avranno luogo di lì a poco. L'incidente che toglie la vita alla cognata segna l'esistenza di Thien, riconducendolo nei luoghi in cui è cresciuto per prendere parte ai funerali e per accudire il piccolo nipote, e riconnetterlo così con tradizioni e culture da cui ormai si era allontanato. Sono ombre che sembrano richiamarlo dal passato e da un altrove, in attesa di una risposta, com'è in attesa il cellulare di Thien che squilla incessantemente, da lui ignorato. "È Dio che sta chiamando", e forse è davvero così.

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Dal caos di Saigon Thien si ritrova nelle antitetiche valli del Vietnam centrale, ammantate da una nebbia misterica, che risuona nell'immagine, e abitate dalla minoritaria popolazione cristiana. Lo sguardo di Phạm Thiên Ân si fa quasi antropologico nell'osservare uno dei volti meno noti del paese asiatico, riprendendone i rituali funebri, i canti, le processioni e i simboli religiosi. Affiorano nelle inquadrature come la statuina di Cristo che vediamo spuntare dall'alveo di un fiume, o come la scena di San Tommaso rievocata quando un anziano mostra e fa toccare a Thien la ferita di guerra sul costato. Il viaggio del protagonista assume un valore profondamente spirituale, allontanandolo progressivamente dalla civiltà e dai suoi punti di riferimento, attraverso l'astrazione dei luoghi e la diluizione del tempo, ed esponendolo a un confronto onirico con l'ignoto. Spazio e tempo perdono quindi la propria definizione, mentre presente, passato e sogno si confondono - e sembrano persino sovrapporsi, nella scena d'amore e di commiato tra Thien e la ragazza nell'edificio abbandonato di tarkovskijana memoria - sino a culminare nel momento in cui si immerge nelle acque di un fiume, in una raffigurazione battesimale che lo avvia a una nuova vita e a una nuova visione.

La ricerca intrapresa nella seconda parte del film, nel tentative di Thien di rintracciare il fratello scomparso anni prima, è in realtà una ricerca interiore, che Phạm Thiên Ân esprime e racchiude nelle immagini, sondandone la durata e l'intensità. La camera fissa, i piani sequenza interminabili e i movimenti di macchina sinuosi richiamano il cinema di Bi Gan, Apichatpong Weerasethakul e Tsai Ming-liang, ma è soprattutto alla comune matrice antononiana che il regista vietnamita sembra guardare, non solo per il tema della scomparsa, ma in particolare per l'alienazione di Thien ("Hai forse abbandonato la tua anima?"), per il rapporto spirituale tra personaggio e paesaggio e per la pulsione del fuori campo. Ogni piano sequenza del film, ben lungi dall'essere uno sfoggio tecnico gratuito, è un atto di osservazione, un momento di puro sguardo che vince ogni resistenza e che valica le finestre, le grate e i vetri che spesso schermano le inquadrature. Uno sguardo che si condensa nel gesto di Thien di passare una mano sul vetro di una doccia, per diradare l'appannamento e poter vedere meglio, o negli splendidi piani sequenza che fissano la penombra e il buio fino a che l’occhio si abitua e svela ciò che nascondono tra le loro pieghe.

Inside the Yellow Cocoon Shell si rivela un'espressione della spiritualità nell'immagine, oltrepassando i limiti nei quali il tempo vorrebbe comprimerla e donando non solo a Thien, ma anche allo spettatore una percezione diversa e nuova, a suo modo sconvolgente e intima.

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Phạm Thiên Ân Lê Phong Vũ Nguyễn Thị Trúc Quỳnh Nguyễn Thịnh Vũ Ngọc Mạnh 182 minuti
Francia, Singapore, Spagna, Vietnam
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Trenque Lauquen

di Saverio Felici
Trenque Lauquen recensione film Citarella

L’atteso abboccamento tra l’Europa e il Pampero Cine è infine arrivato, un po’ a sorpresa, con Trenque Lauquen di Laura Citarella. La presentazione a Orizzonti, e soprattutto l’incoronazione da parte dei Cahiers nella loro classifica annuale, segnalano una sintonia più profonda di quanto farebbe un comunque improbabile successo di sala. Arbitrarie che ne siano le scelte, non si sottovalutino questi dispenser di legittimità culturale nell’indirizzare, se non i gusti del grande pubblico, quantomeno le attenzioni degli addetti ai lavori. Da oggi, e c’è da scommetterci, il cinema “autoriale-mainstream” troverà nel modello teorico e realizzativo del Pampero il nuovo scossone in grado di rivitalizzarne i manierismi.
Quello della casa guidata dal sornione ideologo/regista Mariano Llinás rappresenta infatti il progetto di un fare-cinema nuovo, prima che banalmente “bello”: una filmografia che non somiglia a nessun’altra, divisa tra una manciata di kolossal no-budget e una produzione più o meno continua di esperimenti, corti, documentari. Trenque Lauquen è il film che consacra oltre il Sudamerica una delle proposte più originali e innovative di questo millennio cinematografico - programmaticamente, con il più accessibile capolavoro del gruppo. 

Per i pochi e riservati adepti di questo bizzarro culto, Trenque Lauquen si accompagnava ai toni da film-evento già da prima del debutto lagunare. Anzitutto, il film rappresenta la magnum opus di Laura Citarella, membro fondatore del collettivo (assieme al già citato Llinas, il Dop Agustín Mendilaharzu e il montatore Alejo Moguillansky), da sempre presente in firma alla maggior parte dei lavori della casa. Dopo un paio di piccoli lavori di riscaldamento, l’autrice ha recuperato alcune suggestioni del suo esordio Ostende (2011), per cimentarsi finalmente con un anti-bluckbuster personalissimo e trionfale.
In secondo luogo, Trenque Lauquen è da considerarsi prosecuzione ideale di Historias Extraordinarias (2008), capolavoro contemporaneo e pietra angolare dell’intera produzione. Entrambe le opere si animano del medesimo paradosso: porsi come articolatissimo film “di trama” (thriller, nientemeno), impenetrabile ragnatela narrativa di twist e personaggi, e al contempo come negazione stessa del concetto. Così Trenque Lauquen assembla un affresco romanzesco sconfinato salvo squarciare un buco al centro della tela, suggerendo l’importanza strutturale della fallacità al cuore della narrazione. Controsenso o no, è la grande intuizione che il Pampero eredita dal romanzo postmoderno (e dalla sua grande scuola sudamericana, dall’ovvio Borges a Bolaño - sfiorata al cinema recentemente da Raúl Ruiz e indirettamente dall’europeo Miguel Gomes): storie-macchine la cui perfezione formale è funzionale non a chiudersi in una spiegazione, quanto ad aprire spazi vuoti.

trenque recensione ghfd

Lo spettatore all’avventura entri in questa particolare terra del mistery con l’anima in pace: Laura (Paredes, moglie di Llinas, volto ricorrente e omonima dell’autrice: non fosse la realtà documentata, sembrerebbe una delle tante false piste investigative con cui questi film amano giocare), Laura è sparita. Ha mollato la macchina del collega Ezequiel in un’area di sosta, allontanandosi a piedi per le lande argentine. Il doppio film segue a ritroso la malinconica indagine di Ezequiel, innamorato di lei, e di Rafa, suo fidanzato, determinati (ma neanche tanto), come lo spettatore, a riempire i buchi, unire i punti, trovare un senso a un vuoto (Laura stessa, e la sua abdicazione al proprio ruolo nel plot) che non ne ha. Due film, due indagini, due possibili complotti vouyeur-spionistici a ricostruire la storia della donna: la corrispondenza segreta di Carmen Zuma, misteriosa insegnante senza volto vissuta mezzo secolo prima, scoperta da Laura tra i libri della biblioteca locale; la comparsa di una felliniana creatura degli abissi nel lago locale, catturata e allevata in un laboratorio segreto da una coppia di biologhe clandestine.

Come da molti evidenziato, la centralità femminile è l’altro grande tema di Trenque Lauquen. Non si tratta di osservazioni contenutistiche spicciole: le qualità formali ereditate da Historias Extraordinarias, per quanto rivoluzionarie rispetto a pressoché qualunque altra proposta del cinema contemporaneo, da sole non porrebbero il film al di là dei maggiori exploit della casa argentina. Erano questi racconti collettivi, re-immaginazioni di un Paese e della sua storia, in cui il trope del “protagonista” implodeva come marionetta vuota. Trenque Lauquen, invece, è la sua protagonista: Laura inchioda il flusso del racconto a un punto di capitone emozionale, strumento di decodifica tradizionale che altre opere sacrificavano alla vertigine della narrazione reticolare e senza centro (di questo slancio entropico, La Flor fu forse l’apoteosi). Al contempo, Laura è l’incognita irriducibile a nulla, i cui amanti-investigatori cercano invano di ricondurre a un orizzonte di senso comprensibile - trinità di ruoli sessualizzata, la cui lettura femminista non è dunque campata in aria.
Paradosso nel paradosso, Laura è tutto questo non-essendoci: laddove i precedenti lavori del gruppo deliravano schizofrenici nella profusione di centri narrativi, Trenque Lauquen trova un prezioso “senso del film” nell’esplicita negazione dello stesso.

Quindi, Laura è sparita. È andata e basta, per quelle pampas argentine che il Pampero Cine ha da sempre indicato come nuovo West della postmodernità esplosa, orizzonte fantastico dove la torma delle identità sociali si risolve nella rinuncia a ognuna e la fuga nel nulla. Solo qui Laura può sparire dal cinema e diventare uno dei personaggi leggendari delle sue stesse ricerche, miti fondativi di un’umanità dispersa senza più (una) Storia, ma ancora appesa al suo infinito raccontarsi. 

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Laura Citarella Laura Paredes Ezequiel Pierri Rafael Spregelburd 260 minuti
Argentina 2022
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Grace

di Veronica Vituzzi
grace film laguna

C’è qualcosa di paradossale nell’esasperato dato visivo presente in Grace, opera prima di Ilya Povolotsky vista al Inlaguna Film Festival, Festival Internazionale di Cinema Indipendente a Venezia, da cui è tornata vincitrice nel dicembre scorso del primo premio. È un film, infatti, che non chiede altro che essere visto, nella connotazione più letterale del termine. I dialoghi sono ridotti al minimo, il ritmo narrativo è lentissimo, le informazioni sui personaggi vaghe e sintetiche. Ciò che è possibile dedurre dalle immagini è il racconto del viaggio di padre e figlia adolescente su uno sgangherato furgone lungo le periferie della Russia contemporanea. I due si guadagnano da vivere allestendo cinema all’aperto per la gente del posto e vendendo loro bibite e snacks; null’altro di preciso è dato sapere sul loro passato, a parte un piccolo accenno alla morte della madre della ragazza. Con questi presupposti il film appare difficile, ostico, impenetrabile, e in effetti lo è, finché non si concede alle inquadrature la pazienza necessaria a dire, da sole, tutto quello che c’è da sapere.

Il vero protagonista di Grace è il panorama: lande sterminate, desolate, opprimenti. La presenza del paesaggio è così ingombrante da non poter risultare che una precisa scelta stilistica. Il cielo e la terra assorbono ogni cosa nell’immagine al punto tale che la macchina da presa è costretta a piani lunghissimi o lenti piani sequenza per poter catturare con lo sguardo gli individui che tentano di abitare queste infinite distese. L’unica forma di difesa verso questa vastità a tratti cannibale sembra stare nei piccoli ripari che l’essere umano riesce a costruirsi. Il furgone di padre-figlia, per quanto improbabile e disordinato, diventa una sorta di rifugio con cui scappare e muoversi senza lasciarsi inghiottire dalle stradine impervie costruite sullo sfondo di gigantesche montagne avvolte nella nebbia. Solo un profilo sembra tener testa ai contorni del panorama, ed è quello della fanciulla adolescente che appare spesso in primo piano, i tratti innocenti di un viso scosso da impercettibili attimi di rabbia, alla ricerca di uno spazio realmente proprio, in conflitto con il padre taciturno e con la natura indifferente ed ostile. Come il regista, anche lei nel film cerca di strappare alle dita voraci dello spazio e del tempo gli individui, fotografandoli con una macchina che produce piccole polaroid.

Unico soggetto realmente vitale in uno scenario dove i personaggi sembrano abbandonati a sé stessi, ignari di sè, Grace è il solo elemento narrativo a produrre un atto di rottura con un passato e presente che similarmente sembrano ostinarsi a una quieta paralisi, fatta di micro-eventi che non lasciano traccia nel ricordo. L’evento determinante è una necessaria fuga con tanto di lancio di una pietra contro il parabrezza del furgone abitato con il padre – a significare l’aperto rifiuto di specifiche dinamiche familiari – per vivere il primo rapporto sessuale con un ragazzo fuggitivo come lei. Simile a tante altre fughe adolescenziali, il suo è un tentativo improvvisato, maldestro e destinato al fallimento, ma pur tuttavia prezioso per riposizionare il proprio corpo – e dunque sé stessa – entro uno spazio che non sia solo nemico. 

In tutto il film c’è un solo oggetto che resiste alle forze esterne, rimanendo chiuso e sigillato, dal contenuto invisibile e intangibile: è il vaso che contiene i resti della madre morta, e con esse tutto un mondo di ricordi ed emozioni represse da padre e figlia. L’apertura finale con, l’abbandono delle ceneri alle onde del mare costituiscono forse la prima vera, consapevole appropriazione dello spazio da parte della protagonista. Non ci è dato sapere molto di più su cosa sarà di lei; il film di Povolotsky è troppo silenzioso per lasciar spazio a ipotesi. Ma in un’opera che oltre la semplice visione richiede lo sforzo di un’indagine su ogni dettaglio, è sufficiente l’andatura decisa e sofferta di Grace che si muove tra i flutti marini, a lasciarci la speranza di aver assistito alla storia di un essere umano che, non potendo contare su nessuno, si salva da solo.

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Ilya Povolotsky Maria Lukyanova Gela Chitava 119
Russia 2013
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Perfect Days

di Andrea Giangaspero
perfect days - recensione film Wim Wenders

Komorebi è un’espressione che i giapponesi utilizzano per riferirsi alla “luce che filtra tra le foglie degli alberi”. Un modo come un altro con cui la cultura di un paese prova a scorgere qualcosa di bello nel quotidiano, nelle cose estremamente semplici e prosaiche della vita che ci circonda. Proprio come fa Wim Wenders con il suo ultimo film, Perfect Days, in cui affida al protagonista la capacità di alzare sempre gli occhi al cielo per catturarne istantaneamente la bellezza, ricordarne l’appartenenza comune, quindi sorriderne. Ne approfitta pure per scattare quotidianamente delle foto con la sua vecchia Olympus analogica. La punta verso l’alto e fissa l’impermanenza del fruscio del vento e della luce morbida tra le foglie in un’istantanea in bianco e nero. Allo stesso modo in cui guarda e fa esperienza della bellezza del komorebi, nelle sue lunghe notti di riposo Hirayama  (omonimo del protagonista de Il gusto del sakè di Ozu, di cui il film è tributo diretto, e interpretato da uno straordinario Kôji Yakusho) sogna i medesimi scorci, con la stessa luce sovraesposta delle sue fotografie, gli stessi scenari fuori fuoco, in bianco e nero, gli uni confusi e posti disordinatamente sugli altri.

Sogni liquidi che svaniscono al sopravvenire del nuovo giorno, brevilinei e dolci come un haiku, ma che Wenders restituisce come traccia ineludibile di uno sguardo in grado di saper discernere, di saper decidere cosa guardare, per affidarlo alla custodia della memoria e ai leggeri gorgheggi dell’inconscio. Di più, quei sogni son fatti della stessa pasta di ciò che guardiamo, ne sono l’emulsione analogica, e il montaggio di ciò che abbiamo deciso infine di trattenere. Almeno per Hirayama, che ha fatto di sé quasi alla lettera archivio di ciò che vuole guardare, allontanando tutto il resto, come un lungo film della vita composto solo delle sue inquadrature preziose. E ne avrebbe da scartare, di brutture, di momenti negativi: Hirayama, sulla sessantina, lavora forse da un’eternità come addetto delle pulizie dei bagni per una ditta di Tokyo. Ogni mattina si alza quando il sole è ancora basso dietro la linea dell’orizzonte, beve caffè in lattina da una macchinetta, e raggiunge il luogo di lavoro dove lo aspetta un collega più giovane e frustrato che continuamente si lamenta dell’inutilità di quello che fanno (“tanto sporcheranno di nuovo”, dice ad Hirayama).

Con fare routinario, l’uomo elabora una propria poetica del vivere strenuamente secondo la disposizione del bello, da cogliere per sottrazione e con un affiancamento morbido e costante alle arti della letteratura e della musica. Le poche parole pronunciate emergono come epifanie leggere (specie quelle rivolte alla nipote in fuga dalla madre), le letture serali prima di andare a letto sono come chiavi di comprensione del mondo, la musica in audiocassetta schiude in forma limpida i versi pronunciati da Lou Reed, The Animals, Nina Simone, che parlano di “giorni perfetti”, di “nuove albe, nuovi giorni, nuove vite” sentendosi bene. È la lotta di un savio o di un pazzo contro il morire delle cose e contro la resa incondizionata a un’esistenza necessariamente vestita di miseria, fatta di un’accettazione passiva all’abiezione del mondo. La lotta di un corpo analogico contro il reame simulacrale del digitale, della sua verità materica contro la post verità. È un modo personale di stare al mondo, meglio, di scegliersi un mondo. Hirayama lo dice, a un certo punto, che il suo è un mondo di tanti possibili e compresenti. È diverso, forse remoto, sicuramente di una piccolezza infinitesimale, un vecchio rudere destinato a collassare. Ma funziona perché è frutto di una scelta venuta da lontano e ponderata dall’esperienza, come appunto lo è il cinema di Wim Wenders giunto a questa parte forse terminale della sua carriera.

perfect days - recensione Wim Wenders

Lontanissime dalla ricerca e dall’esperienza del viaggio, quand’anche questo era un falso movimento come nel film omonimo, le immagini di Perfect Days sono ora senili e vegliarde come il suo protagonista. Come Ozu, e non lontane da Kaurismaki (specie l’ultimo di Foglie al vento, che ha condiviso con questo film la presentazione alla Croisette nel 2023), Wenders si appresta a una trascendenza silente, un modo di pensare le immagini di cui forse perderemo traccia nel cinema venturo. E sarebbe tuttavia sbagliato leggere l’ultimo Wenders come un autore del tutto differente dalle sue versioni precedenti, specie da quelle degli esordi. “Il mondo è fatto di tanti mondi. Alcuni di questi sono connessi tra loro, altri no”, dice ancora. Eccola, la lettura forse più calzante, quella più esatta. Nel mondo remoto di Alice nelle città, il foto-reporter Philip Winter/Rüdiger Vogler intraprendeva un viaggio per accompagnare a casa una bambina che non conosceva affidandosi solo a una fotografia, quella di una casa in campagna, una meta da raggiungere. Era il cinema di uno sradicato, come un po’ tutto il Nuovo Cinema Tedesco, disgustato dalla dimenticanza della generazione dei padri, privato di un heimet, uno sguardo non conciliato alla ricerca continua (il road movie) di un’identità da riacciuffare. Philip Winter scattava foto di luoghi trovandovi poi dentro un vuoto, la loro aura era già trascorsa, marginalizzata nel passato. Trattenuto in una dead-end, le immagini non erano più in grado di dimostrare la sua presenza nel mondo, né la consistenza delle cose attorno. Era semplicemente scivolata via, o non era mai stata lì. Come la casa della nonna di Alice nella fotografia, che tradiva la sua funzione perché quella nonna non c’era più, impronta di una realtà svanita. Fino almeno all’intervento di Alice, che scattava una foto a Philip per aiutarlo a riconoscersi, e con lui trovava infine un punctum di emersione emotiva in un’immagine che li vedeva assieme, ridendo e con facce buffe.

Mentre quel mondo si formava e si compiva, moderno perché senza utopie, ne era già contenuto un altro, non ancora esposto, non ancora toccato. Quel mondo cioè che un heimet lo ha generato da sé per un puro atto di volontà, che non insegue nulla perché sceglie di vedere le cose davanti e attorno a sé, anche se durano un’istante e la luce si sposta, svanisce, come l’effetto del komorebi. E giacché per Philip “nessuna immagine ti lascia mai da sola, vogliono tutte qualcosa da te”, sono ora gli stessi Hirayama e Wenders a scegliere per sé ciò che le immagini vogliono da loro, quindi ciò che possono dare in cambio, facendo tacere tutto il resto, conciliandosi col loro tempo, vivendolo mentre si compie, prima che sia tardi, perché “adesso è adesso” e i giorni perfetti non possono esistere in nessun altro momento.

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Wim Wenders Kôji Yakusho 123 minuti
Giappone, Germania
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Inmusclâ

di Riccardo Bellini
Inmusclâ – recensione film pastrello

«Tanto tempo fa mi addentrai in un bosco munifico e mi ferii». Versi dalle reminiscenze dantesche della poetessa Bianca Borsatti aprono Inmusclâ, ultima opera fieramente indipendente di Michele Pastrello presentata all’Edera Film Festival e ora disponibile su CHILI. Anche qui «la diritta via» smarrita dalla protagonista (Lorena Trevisan) rimanda a un percorso interiore. Anche nel mediometraggio di Pastrello, l’errante figura femminile, priva però di un Virgilio che orizzonti l’impervio snodarsi del suo vagare, deve fari i conti con selve, colli e asperità dal valore allegorico, in cui lupi e demoni sono però prima di tutto affioramenti psichici di un passato irrisolto e quindi destinato a tornare. Inmusclâ è infatti un viaggio visionario nella psiche di un io ferito alla ricerca di sé, teso alla riconciliazione con un rimosso che in quanto tale non può che riemergere ostinato come alterità frammentaria, in parte familiare ma al contempo indicibile.  

In una natura algida e ostile, raggelata tra i boschi e le montagne nei pressi della friulana Claut, la protagonista rincorre ed è rincorsa dalle schegge del proprio passato. Spazio e tempo perdono le loro coordinate, la benda finisce con l’anticipare la ferita che verrà e il movimento sembra frustrato in un loop da incubo. «Esiste un nord?», si chiede la voce over della poetessa che puntella lo smarrimento della donna tra i silenzi e i rumori di un labirinto virtuale a cielo aperto. Il falso movimento così tracciato, e più volte sepolto come orme dalla neve, è lo specchio di una condizione umana universale, la cui impasse sembra forse superabile solo con la fine della fuga dal proprio dolore, senza però che si abbia la certezza di essersi per sempre liberati dei propri fantasmi. In questa erranza onirica, la fisicità di corpi, spazi ed elementi naturali è centrale. Il talento di Pastrello emerge soprattutto nella capacità di riplasmare il dato materico in chiave psichica, senza sacrificare il primo in funzione della seconda. Tornando per un momento alla suggestione iniziale, come nel poema dantesco la materia conserva infatti la propria corporeità, anche se configurata come elemento metafisico e allegorico. La ferita della carne dà letteralmente corpo a quella dello spirito, il muschio cristallizzato sulla ruvida corteccia è la manifestazione aptica di un’infestazione interiore che trova piena realtà nell’elemento naturale (lo stesso titolo del film si potrebbe tradurre come «infestato dal muschio»). Il fluido indugiare della macchina da presa su carni e superfici, sulla scorza di una natura inospitale, assieme all’articolata componente sonora nutrita dalle voci del bosco e della montagna, danno così forma al territorio dell’anima, ai suoi recessi e ai suoi traumi.  

In Inmusclâ il legame indissolubile tra l’io e il suo ambiente, e quindi tra essere e materia, è espresso del resto a partire dalla scelta della lingua clautana, una variante del friulano parlata dai pochi abitanti di una manciata di paesi della Valcellina, qui liricamente vivificata dalla voce della poetessa ottantenne Borsatti e dai suoi versi. Una soluzione che sottolinea il radicamento profondo a luoghi e ambienti dello sguardo interiore di chi ne fa parte, quello stesso sguardo che plasma la sostanza e ne è da esso plasmato. Ma, in ultima istanza, la scelta del clautano, rappresentativa di una specifica minoranza culturale, sembra anche riflettere l’idea di un cinema, quello di Pastrello, da sempre pertinace nella propria resilienza minoritaria, nella scelta di restare sempre e comunque fedele a sé stesso, pur a costo di intraprendere la ripida strada dell’autoproduzione. Una scelta di libertà espressiva che si traduce con un cinema fuori dai consueti schemi narrativi e rappresentativi, come lo stesso Inmusclâ, il quale trova nell’aderenza alla visione personale dell’autore un equilibrato connubio tra visionarietà, lirismo e riflessione esistenziale. 

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Michele Pastrello Lorena Trevisan Bianca Corsatti 36 minuti
Italia, 2023
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Napoleon

di Alessio Baronci
Napoleon - recensione film

Scrivendo di The Last Duel, ci si era ritrovati davanti a un film a suo modo apocalittico, un progetto attraverso cui lo stesso Ridley Scott prendeva atto di una crisi imminente nel concetto di rappresentazione e nel linguaggio del cinema contemporaneo o, per dirla meglio, nel suo stesso modo di intendere la regia. E la soluzione che il regista aveva reputato più adatta per scongiurare la fine era stata una fuga. Verso altri spazi mediali (quelli della tv, della serialità) ma anche, forse soprattutto, verso modi alternativi, finali, di intendere uno dei suoi generi d’elezione, l’epico, il cavalleresco, lo storico. E così il dinamismo delle battaglie campali perdeva costantemente qualche giro e i valori dell’amore cortese svelavano tutte le loro ambiguità, complice anche un rapporto con la verità sempre più “post”, malleabile, riscrivibile secondo i punti di vista, che riscopre la sua natura di essenziale strumento politico per la costruzione di consenso.
Ridley Scott è forse, tra le righe, il primo a comprendere come, negli ultimi tempi, il trend di certi grandi maestri ancora in attività, posizionati all’interno delle coordinate del cinema contemporaneo, sia l’autoanalisi, la costante messa in discussione del loro linguaggio, dei loro immaginari. Scott come Scorsese e Killers Of The Flower Moon, dunque, ma anche come Fincher e i soliloqui “meta” di The Killer, o Mann alle prese con la morte e la resurrezione delle sue immagini in Ferrari. E allora qualsiasi riflessione sul suo Napoleon non può che partire da lì, dalla fine, volutamente rovinosa, dello sguardo di Scott, costretto in spazi non suoi, rifugiato in contesti straordinariamente “nel tempo” ma la cui agibilità deve ancora soppesare.

Prima, però, un rapido passo indietro: perché in realtà, da un certo punto di vista, la nuova forma del cinema di Scott l'ha già raccontata, quasi in forma di prologo, House Of Gucci, clamoroso requiem sulla fine di un modo di intendere l’immagine e prima esplorazione dei modi in cui i fotogrammi possono sopravvivere, non a caso simbolicamente uscito dopo il film con Ben Affleck, Matt Damon e Jodie Corner. È un cinema di replicanti che sanno di esserlo, quello su cui si costruisce House Of Gucci. cinema postmoderno ormai oltre il postmoderno stesso, cinema di copie e frammenti in fame d'aria, che sembrano cercare nuovo spazio vitale, magari grazie a una rete che li remixa e li sostituisce agli originali. E spesso ci riesce, se è vero che sui social spopolano le immagini dell’Aldo Gucci di Jared Leto molto più di quelle del vero Aldo Gucci, magari protagonista di qualche intervista del tempo. Ma si trattava, è evidente, solo dell’inizio di un percorso che chiedeva di essere continuato, approfondito. E forse Napoleon è davvero l’unico esito possibile dei ragionamenti di Scott, anche solo per il carico simbolico che si porta dietro: è un altro film storico carico di epica, legatissimo alla sua idea tradizionale di cinema, vicino a I duellanti, il suo primo film, ambientato proprio in età Napoleonica ma anche a Stanley Kubrick, di cui coglie più o meno direttamente l’eredità del progetto mai realizzato. Prima di ogni altra cosa, però, è un biopic. Ed è forse proprio il suo rapporto con la verità e la storia che fa saltare il banco in modo affascinante.

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Ma andiamo con ordine. È ancora un film convintamente contemporaneo, Napoleon, anche solo per i suoi linguaggi, per il suo dichiararsi già “versione provvisoria, bisognosa di patch” del lavoro di Scott, che in realtà sta dando gli ultimi tocchi al vero progetto, un film monstre di quattro ore che verrà distribuito non in sala ma direttamente su Apple Tv+, una piattaforma dunque, che accoglierà la vera e propria Director’s Cut del suo lavoro. Ma l’essere “nel tempo” di Napoleon lo si intuisce, prevedibile, anche nella lettura ricercatamente “fragile” della mascolinità del generale, valoroso ma al contempo insicuro, legatissimo alla sua Giuseppina che spesso lo domina e da cui teme di non essere riamato. Le premesse, dunque, sono ancora tutte in The Last Duel da cui Scott prevedibilmente recupera anche quell’atteggiamento fuggiasco, che lo porta a giocare con le attese del pubblico, a dedicare all’epica del campo di battaglia poche (seppur lunghe, muscolari) sequenze e a chiudere il racconto delle traversie di Napoleone negli spazi di uno stranissimo melò fuori dal tempo di cui proprio Giuseppina sembra custodire le chiavi. Perché è chiaro, l’obiettivo è mettere in crisi quel formulario da “Tratto Da Una Storia Vera” tipico di un’idea di cinema evidentemente paludata, esondare in un lavoro teorico purissimo che prova a ipotizzare le forme in cui il biopic può continuare a sopravvivere ora, in un momento storico in cui quella verità, meglio ancora, quel reale, il reale della Storia, della vita dei soggetti rappresentati, sono colti nella crisi.

Per farlo Scott torna quasi alle origini del linguaggio cinematografico, come a recuperare i detriti di una forma in pezzi. E così si affida al montaggio ma quasi ne riscrive le regole di base, ricostruendo la vita di Napoleone accostandone i fatti essenziali quasi per metonimia, seguendo la capricciosa emotività degli anni che hanno visto la sua ascesa più che il rigore cronologico. Uno via l’altro si susseguono dunque l’assedio di Tolone, la repressione dell’insurrezione realista, l’incoronazione, “pezzi (volutamente) staccati”, quasi ipertesti richiamati da una diegesi che si preoccupa di seguire soprattutto una blanda successione logica degli eventi più che riflettere sulla loro storicizzazione. Sballottato tra questi estremi caotici, Napoleone non può dunque che divenire una sorta di avatar della Storia: immerso, innestato (e l’immersione e l’innesto sono, in effetti, due figure essenziali del nostro rapporto con lo spazio digitalizzato del cinema contemporaneo) a contatto con eventi storici di cui non è stato neanche lontanamente protagonista, come la decapitazione di Maria Antonietta.

kirby nap

È forse una delle vittime eccellenti della Post Verità, il Napoleone di Phoenix, spia evidente di quanto il cinema biografico oggi sia imprescindibile dal fact checking dello spettatore, che magari segue la visione, in casa, aiutandosi con smartphone e Wikipedia. Ma se il generale riletto da Scott viene mangiato, riprocessato dalla Storia, forse viene anche fatto a pezzi e rimasticato dalla Macchina Cinema, dal suo autore. Il sistema lo riduce a immagine spettacolare, a fotogramma/ingranaggio di un film scottiano fino al midollo proprio per il modo in cui piega il racconto al puro visivo senza preoccuparsi troppo delle conseguenze, cercando l’effetto, lo stupor dello sguardo a tutti i costi. L’elemento allora più vertiginoso del film (e, a margine, forse il dettaglio che tradisce con maggior chiarezza la sua contemporaneità) è la facilità con cui può essere suddiviso in veri e propri set pieces da cinema massimalista: le navi che scoppiano durante l’assedio di Tolone, le cannonate contro la punta delle piramidi in Egitto, i mortai che disperdono la folla rivoluzionaria; ma anche le battaglie, Austerlitz, Waterloo, che a ben vedere sembrano raccontare meglio di altri momenti i tratti di un cinema sempre più mutante, sequenze limbiche colte a metà tra il rigore della forma postclassica e le accelerazioni della macchina a mano, tra la richiesta, sottintesa, al pubblico di abbandonarsi all’ondata emotiva dell’evento spettacolare e il consiglio dato a mezza bocca di prestare comunque attenzione alla liceità di ciò che si sta vedendo, di esercitare il senso critico. Sezionare il fotogramma per discernere il vero dal falso, scampoli di un immaginario che trova nuova forza a contatto con la contemporaneità.

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Ridley Scott Joaquin Phoenix Vanessa Kirby Tahar Rahim Rupert Everett 157 minuti
USA UK 2023
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