Ferrari

di Matteo Berardini
Ferrari rece film mann venezia

“He died in a metal I made for him”. Mosso da un opaco senso di responsabilità, è con queste parole che Enzo Ferrari rivendica il proprio ruolo nella morte di uno dei suoi piloti. L’ossessione e la pressione psicologica si propagano da lui a dipendenti e collaboratori, nella velocità crescente si accumulano punti ciechi, le lamiere sono costantemente prossime a piegarsi, la carne a infrangersi. Non fosse un film costituzionalmente funereo, Ferrari, gronderebbe sesso. Sperma e umori il controcampo di ogni frenata, frizione, accelerazione. Crash. Manca invece l’impulso vitale, la contropartita, Ferrari è storia di vedove, bastardi, genitori mutilati senza più figli, ciascuno ha perso un qualche amore, e la vita si riduce a una condizione di morte in respirazione residua, stato in luogo di una convivenza con la fine che opera secondo regole di un gioco in cui vince chi sfiora la morte più da vicino. Non a caso Ferrari si apre e chiude con una visita al cimitero: l’Enzo Ferrari incarnato da Adam Driver è un carnefice che finge di essere martire, saturno divorante i propri figli lo chiamano i giornali, becchino che sigilla in tombe di metallo i suoi piloti uno dopo l’altro, interscambiabili. Il ritratto del grande fondatore non è proprio edificante. Ma Ferrari è anche un uomo tormentato da fantasmi, visitato da ricordi, volti, voci senza corpo, sogni abitati da morti in risposta ai quali predica all’altare della perfetta fede ingegneristica dell’acciaio e dei motori, l’oliata meccanica dell’ingranaggio, l’ottimizzazione millimetrica dei flussi di carburante, la massima resa tecnica che sempre, come in natura, corrisponde dice all’assoluta bellezza estetica.

Resterà spiazzato chi si aspettava da questo biopic lungamento rincorso (le prime versioni della sceneggiatura risalgono agli anni 90) un film adrenalinico e aggressivo, quel cinema muscolare che Michael Mann ha contribuito a forgiare e di cui ci ha regalato gli esempi più complessi e magnifici. Ugualmente deluso rischia di rimanere chi cerca in Ferrari una prosecuzione del discorso portato avanti da Blackhat, quella riflessione sulla relazione acida tra immagine digitale, corpi e informazione, rete globale e individualità, che di fatto il film precedente portava al punto di saturazione, risolvendola in una nuova forma di sintesi tra sistemi sintetici e carnali sussunta dalla sparizione finale, la fuga tra le maglie del codice, chiudente quella storia e quel percorso teorico lungo buona parte di carriera. Il Mann di Ferrari, insomma, non è quello del digitale avanguardistico e sperimentale inseminato in Insider e fiorito tra Collateral, Miami Vice, Nemico pubblico e Blackhat. Quella sequenza – impressionante e imprescindibile da ogni punto di vista – dialoga con Ferrari nella marche stilistiche, certo, nel bisogno umanista di divergere, di scartare dal cuore apparente della scena verso un dettaglio, un respiro sulla pelle o il vento sulle foglie, sapendo che è lì, nei luoghi in cui lo sguardo sa fermarsi quell’attimo in più dell’apparente necessario, che vive il cuore delle cose. Altrettanto coerente è l’uso dei primi e primissimi piani, quella costruzione manniana dell’inquadratura per cui il personaggio viene quasi aggredito dall’immagine, stretto al confine, schiacciato in una resa dei conti quasi mai espressa verbalmente perché risolta anzitutto sul piano della forma. Basta un ralenti, o lo stringersi della macchina da presa sugli occhi in evidenza, o il lieve dilungarsi gentilmente a latere, per portare alla luce la drammaturgia interna al personaggio, quel magma che si agita sotto la blindatura di cromo e acciaio. Ma l’insieme di queste coordinate opera secondo un’impostazione che si rivela inaspettatamente classica, solidamente narrativa, priva delle decostruzioni più ardite viste e amate negli ultimi film. Ferrari è piuttosto un'opera in cui Mann torna a rinegoziare le possibilità mitopoietiche della propria estetica, riaprendo uno studio della relazione tra personaggi e mondo per come, sotto molti aspetti, era rimasta sul tavolo di Heat. Non a caso, assieme a quel capolavoro fiume e film-mondo, Ferrari è il film dalla presenza femminile più intensa e importante, l’opera che forse più di tutte si sforza di creare un duopolio che sia anche di genere oltre che di vedute e morale. Scisso rigidamente in due, con una blindatura che rispecchia l'anima del personaggio, il film si divide nettamente in interni ed esterni, sospensione e aggressività visiva, femminile e maschile, in un costante intersecarsi dei piani che solo nell'ultima parte, quella dedicata alla corsa delle Mille Miglia, deflagra e lascia spazio alle soluzioni manniane più muscolari e tecnicamente elaborate. Sospinto dal tipico determinismo pragmatico che anima questo cinema, il personaggio di Driver assorbe in sé gli estremi delle dicotomie passate, in lui convive il controllo e il bisogno di fuga, Hanna e McCauley, il rimpianto e la necessità di restare e costruire, il doppio è il suo passato imprigionato dentro il muro che lui stesso ha costruito, prigione del sé atta a sopravvivere quando la morte ti è addosso ogni giorno e il pensiero va solo al metallo ciclicamente in costruzione, corsa, distruzione. Nuova carne senza particolare gloria, orgoglio soprattutto, e angoscia mal sopita.

Due sequenze (il montaggio incrociato in chiesa dell’inizio, e la sequenza operistica intessuta di flashback) mettono con chiarezza le carte sul tavolo: Enzo Ferrari nasce sul solco di Michael Corleone, e di quell’italianità, di quei gesti e lutti e necessità di tenere ogni cosa dentro, esponendo alla luce del giorno la sola maschera impassibile dell’indifferenza, è replica ed estensione. Dentro Ferrari c’è molto Coppola e molto dell’Italia cinematografica vista da fuori, attraverso i cifrari offerti dalla mitologia mafiosa e dalla femminilità casalinga, Penelope Cruz sempre come Anna Magnani, melodramma da interni e violenza domestica che ribolle tra frustrazione e rapide esplosioni di violenza. Come Michael, Ferrari vive secondo un codice in cui non si tollera che innocenti ed estranei vengano coinvolti nella cifra mortifera del gioco, quei bambini e famiglie dell’incidente mortale di Guidizzolo sono vittime innocenti che non si possono accettare. L’altro lato di questo sistema morale è però la distanza che isola da tutto e tutti, le scelte drammatiche che alienano nel lutto; la perdita ne fa una figura costantemente fuori di sesto, disallineata, e comunque dotata di una forza gravitazione che attira a sé portando fuori fuoco chiunque gli si avvicini. La moglie Laura è tra tutte le figure quella più straziante, l’unica che cerca di opporre una propria autonomia drammatica in quanto colei che vive a pelle tutte le emozioni che il marito si opera sistematicamente a congelare. Rea di aver perso un figlio senza porre rimedio, è la socia malvoluta negli affari e nella vita. Tolta lei, e gli occasionali interventi della madre, Ferrari è un sistema di autonomia solitaria, come visto a poca distanza anche in Oppenheimer. Curiosamente vicini tra loro, i due film lavorano su figure geniali della tecnica isolate dal consorzio umano, entrambi impegnati a conservare una distanza muraria operante tanto come rifugio che come prigione. In entrambi i casi il giudizio è sospeso, la morte fiorisce da un prodigio tecnico senza castigo immediato, le azioni passano alla storia sulla pelle degli altri, che siano metallo o radiazioni il viatico di ciascuna ambizione.

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Michael Mann Adam Driver Penélope Cruz Shailene Woodley Sarah Gadon Jack O'Connell Patrick Dempsey 130 minuti
USA 2023
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El Conde

di Leonardo Strano
El Conde - recensione film larraìn

“Non troverà nulla dentro di me, sono un guscio vuoto”. Lo sussurra nelle sue sotterranee Augusto Pinochet, dittatore cileno, ma più precisamente vampiro secolare, falsamente deceduto per scomparire dalla circolazione e non pagare i propri crimini. Sta parlando con il suo lacchè, servitore, maggiordomo e sodale collega vampiro, rassicurandolo su alcune preoccupazioni: una giovane donna è giunta alla magione desertica del generale, dicendo di essere una contabile assoldata dai figli per sistemare l’eredità del loro caro papà; in realtà è una suora mandata dalla chiesa cristiana per esorcizzare il demone vampiresco. In città, infatti, qualcuno con un lungo mantello è stato visto volare nella notte aguzzando i canini e si contano le vittime dissanguate a cui è stato strappato di netto il cuore. I famigliari del Conte (è così che si faceva chiamare il generalissimo) non se lo spiegano, perché da tempo sentono dirgli che vuole morire, che il momento delle bevute di sangue rigenerante è finito ed è ora di assopirsi mangiando verdura cotta, salutando la lunga e gloriosa vita assieme agli immobili, ai terreni e ai contratti segreti da regalare alla propria prole. Che il Conte stia preparando una sorpresa? O l’arrivo della seducente suora munita di paletto e martello ha risvegliato in lui il desiderio di vivere? 

Sono domande da satira grottesca, e infatti El Conde lo è appieno: esperimento per la tv (come The Irishman,ecco una formattazione molto poco cinematografica, con tutta la complessità del secolo breve schiacciata in una camera del dramma), annotato a piè pagina di altri progetti (la trilogia biografica sul femminino chiuso dalle strutture dell’istituzioni, che si chiuderà avvicinando Maria Callas a Jackie Kennedy e Diana Spencer), alla maniera di un divertissement in linea con la tensione critofilmica del proprio cinema più frontalmente politico. Che pur essendo già arrivato a un’ideale chiusura - El Club esponenziava il pessimismo politico in un pessimismo esistenziale ragionando sulla permanenza del male – continua a cercare nuove vie formali per mettere in scena le dinamiche espressive del potere, o meglio, dei poteri - un po’ in rima con il Fairytale di Sokurov, altra satira a sigillo di un ventennale progetto politico. Ecco quindi, dopo le forme del cripto remake di Shining in Spencer (per mostrare l’inadeguatezza di un corpo all’interno di una struttura alienante), una commedia nera che non vuole scavare dentro l’opacità comportamentale di Pinochet (sta tramando qualcosa? ha un piano segreto?) ma piuttosto, con ammirevole convinzione isomorfista, lasciarsi informare da essa. Strutturandosi come una girandola di eventi sconnessi e incomprensibili, tenuti insieme solo da un ritmo indiavolato e da una labile superficie di genere, annullando ogni disanima psicologica e spingendo la propria drammaturgia a procedere a vuoto per circonvoluzioni barocche, lontane dallo scavo di qualsivoglia “ragione di fondo” degli eventi. Non per una mancata lucidità saggistica, ma piuttosto per rimarcare l’assenza, sotto la stessa robusta opacità (accuratamente inspessita dal bianco e nero di Edward Lachman), di una vera ed effettiva “ragione di fondo” nelle azioni del generale. 

E cioè per esporre, con lucidità sociopolitica inusitata per l’audiovisivo, la natura strettamente strumentale che il dittatore cileno ebbe storicamente sotto il neoliberismo. È invero quest’ultima entità, e non Pinochet, a detenere un potere malignamente metafisico, ostinato a non farsi vedere, a rimanere letteralmente oltre la fisica, (magari nei panni di una femminile voce narrante che controlla gli eventi e li guida a insaputa di tutti) e a muovere allo stesso tempo i fili delle proprie marionette audacemente inconsapevoli. Come invece il dittatore, che si pensa “guscio vuoto” e cioè male puro irredimibile ed eterno (nella sua ingenua visione “senza anima”, e quindi impossibile da esorcizzare) e invece è semplicemente un “guscio vuoto” proprio nel senso più strumentale possibile: pura immagine superficiale, ad uso di altri. A differenza di un Albert Serra, che in Història de la meva mort pensava di eternare Casanova per rivelarne l’importanza seminale nella cultura, il regista cileno rilegge così il generale come un vampiro per mostrarne la natura di simulacro, copia di una copia di una copia,  senza profondità, manipolabile, intercambiabile e quindi sempre ritornante – infatti nel film il vampiresco non solo si trasmette endemicamente ma si interpreta a turni, anche vestendo il sacro mantello del Conte: qualcosa di molto diverso quindi da un despota in grado di architettare e controllare un vero e determinante potere, e qualcosa di molto vicino a una sbiadita ma testarda proiezione. Pablo Larraín ancora una volta, ma in maniera del tutto nuova (e altamente fraintendibile), chiarisce che il vero potere agisce diversamente dalla sua immagine, sta all’origine, scrive il copione e lo riscrive a piacimento, “fa le cose” invece di “dirle”, le produce, non riflette ma opera, non contratta condizioni di eredità ma semplicemente genera, figlia. Come si vede nell’ultima scena: una straordinaria partenogenesi che retroillumina il film come un corpo gravido di tensioni nascoste e colori sotterranei, istanziandolo oltre ogni categorizzazione algoritmica con cui presto Netflix lo indirizzerà per il gradimento dei suoi utenti. 

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Pablo Larraín Jaime Vadell Alfredo Castro Gloria Münchmeyer Paula Luchsinger 110 minuti
USA 2023
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La bella estate

di Veronica Vituzzi
la bella estate - recensione film luchetti

Nella Torino prebellica alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, la giovane Ginia, riunitasi con gli amici in riva al fiume, incrocia lo sguardo della bellissima Amelia mentre questa emerge dall’acqua come una ninfa moderna. Ginia, trasferitasi dalla campagna in città assieme al fratello Severino, con il comune progetto di migliorare la propria vita, è impiegata come sarta in un atelier di moda; Amelia fa invece un lavoro oscuro e scandaloso per l’epoca, si spoglia cioè di fronte agli uomini per essere da loro ritratta. L’incontro con la modella è per la protagonista un evento ricco di turbamento e fascinazione che dà voce a desideri e impulsi fino ad allora trattenuti nel fondo di sé.  

Tratto dall’omonimo romanzo breve di Cesare Pavese, La bella estate parte dal canovaccio iniziale per attuare uno spostamento dello sguardo agito sia sulla trama originaria che sui principali personaggi. Lo scrittore piemontese difatti delineava nel suo testo una storia di crescita, amicizia femminile e disillusione sentimentale tutto sommato piuttosto classica. La regista Laura Luchetti decide invece di sviluppare l’attrazione istintiva fra le due ragazze evolvendola in un nuovo racconto. Se la sarta ha il compito di vestire il corpo femminile, la modella al contrario lo sveste: aderendo al paradigma tradizionale dell’epoca che vede la donna oggetto passivo del desiderio, Ginia insegue Amelia nel suo mondo un po’ fuori le righe alla ricerca di quello sguardo amoroso, convenzionalmente maschile, da cui acquisire un riconoscimento che dia senso alla sua identità di persona. L’idea, nemmeno troppo celata, è quella di giungere lei stessa all’atto di spogliarsi – come donna desiderata, come modella ritratta – e in quel supino soggiacere agli occhi e alle mani altrui, scoprire finalmente sé stessa.

luchetti

È un percorso di ricerca che si fa però tortuoso e smarrito, perché l’assai ambito sguardo maschile si poggia sulla sua persona in modo tanto violento quanto superficiale, e dura non più dello spazio di tempo preteso dall’amore fisico. Il fratello Severino invece, cui spesso Ginia rivolge occhi scrutatori nell’intento di penetrarne l’inquietudine che lo allontana dai libri di studio, sfugge a sua volta all’indagine della sorella. In generale tutti gli uomini nel film sono imperscrutabili, sia nei loro silenzi che nelle risate sornione accompagnate da battute ambigue e dita leste e invadenti Sullo sfondo Amelia, apparente stereotipato modello di femminilità bello e sregolato, si ribella però al ruolo piatto e statico che società e cultura le attribuiscono, e si fa soggetto mobile che vede e tocca a sua volta: sono difatti i suoi occhi e le sue mani a riconoscere veramente Ginia, ed è nella sua carne perfetta che si nasconde la malattia che rivela l’indifferenza degli uomini e l’affetto sincero dell’amica. Non a caso è proprio Deva Cassel, figlia per eccellenza dello star system, a recitare questo parte facilmente fraintendibile per la sua fiducia nella propria straordinaria bellezza. I pregiudizi che pesano su Amelia sono i medesimi che gravano sulla sua interprete, che al contrario riesce a far intuire uno spessore maggiore di quanto i modi civettuoli del suo personaggio farebbero pensare.  

Mentre al limitare dell’inquadratura e della storia, come un qualcosa che si coglie solo con la coda dell’occhio, si muove silenzioso il fascismo, La bella estate risolve il conflitto interiore della sua protagonista, smarritasi nella propria ricerca interiore, offrendo un salvifico riposizionamento di soggetto e oggetto che suggerisce nuove modalità di sguardo e di esposizione di sé. Nell’incontro fra le due amiche, in un silente patto amoroso, si concretizza una conquista della propria identità che trascende finalmente i soliti schemi sentimentali. Al suo terzo lungometraggio l'approccio stilistico di Laura Luchetti si attesta oramai come una firma riconoscibile nella sua pacata gentilezza: gli occhi ingenui e lucenti della sua protagonista (Yile Vianello) bastano ad esprimere una visione di cinema altrettanto delicata e luminosa, come un’ultima fulgida estate di colori prima del buio della guerra. 

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Laura Luchetti Yile Yara Vianello Deva Cassel Nicolas Maupas Alessandro Piavani Adrien Dewitte Anna Bellato 111 minuti
Italia 2023
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Oppenheimer

di Matteo Berardini
oppenheimer - recensione film nolan

«Se c’era un paradiso, non si fondava forse sui corpi convulsi dei dannati?
Concluse dicendo che a Dio non interessava la nostra teologia, ma solo il nostro silenzio»
Il passeggero, Cormac McCarthy

«This is the water, and this is the well. Drink full, and descend.
 The horse is the white of the eyes and dark within»
Twin Peaks, “Part 8”

«In some sort of crude sense which no vulgarity, no humor, no overstatement can quite extinguish, the physicists have known sin; and this is a knowledge which they cannot lose».
J. Robert Oppenheimer

C’è una formula della lingua inglese che ben riassume la pulsione scopica di Oppenheimer, il bisogno di vedere oltre i confini del sensibile e il tormento che deriva dalla responsabilità prometeica: “once you see, you can’t unsee”. In italiano la frase è intraducibile, manca nel nostro vocabolario un termine come disvedere dato che “tornare a una condizione che precede l’atto del guardare” (Cambridge Dictionary per unsee) non è la stessa cosa di dimenticare. Possiamo allontanarci o rinnegare l’oggetto del nostro sguardo, ma mai tornare a essere quel che eravamo prima dell’immagine.

lynch twin

Coerentemente con le capacità sempre più fini di certo cinema contemporaneo a farsi laboratorio autoriflessivo (Pietro Masciullo) inerente le proprie forze mitopoietiche e la propria natura di immagine mediata, generata da dispositivi in rapida trasformazione, Oppenheimer è un film sospinto dallo squilibrio opaco di un personaggio che è pura ossessione scopica, che solo sogna e abbisogna di vedere all'interno delle strutture intime del mondo. Trinity è il punto di fuga verso cui volge (dopo la scoperta di buchi neri che in quanto tali sono il punto limite dell’atto stesso del guardare) questa necessità ingestibile e ribelle di sguardo, occhi di un Adamo luciferino che perseguono la luce ben oltre la conoscenza data dalla mela avvelenata, al di là delle sfere naturali del visibile verso quel che è addentro e ribolle nei fondamenti della materia, movimenti di danze infinitamente irrisolvibili e sfuggevoli, in bilico sui dualismi di onda/particella, pieno/vuoto. Come già scritto (Luca Malavasi), il film racconta in tal senso la rincorsa e costruzione progressiva, tanto teorica quanto chimica e macchinica, di un’immagina assoluta, il tentativo di volgere lo sguardo, almeno una volta e per pochi attimi, alla nucleare irradianza del bianco meridiano (ancora McCarthy), all’infrangersi dei legami atomici verso ciò che soggiace. Per questo motivo la strada per Trinity è costellata di corpuscoli, frammenti, lampi, nebulose d’immagine che si affastellano nella mente, possessioni spettrali nate da una teoria quantistica percepita sotto forma di lava elettrica, energia pura prorompente indizi e dipanante tormenti negli interstizi del vedere. Nolan semina componenti visive che si affastellano e collimano tra loro verso l’immagine-limite, frutto di una reazione a catena che riguarda la ricorsa agli armamenti, il progressivo innesco del meccanismo nucleare, il susseguirsi incessante e musicale delle immagini, attraverso un montaggio che decostruisce la linearità narrativa secondo una progressione drammaturgica calcolata al millimetro, come di consueto in questo cinema del prestigio ma dispiegata oggi con una maturità e un senso di completezza apicali. Se buona parte del film raffigura Oppenheimer intento a guardare, occhi spalancati a metà tra l’avidità affamata e il terrore sbigottito, non a caso il finale lascia il suo personaggio, irrisolto e inaccessibile al pubblico fino all’ultimo fotogramma, intento per la prima volta a chiudergli, quegli occhi, nell’illusione stentata che fermare lo sguardo possa ripristinare lo stato scopico precedente, il mondo per com’era prima dell’immagine atomica. Disvedere è una capacità che trascende però le nostre possibilità di creazione e finzione: "once you see you can't unsee".

ending nolan

Profondo uomo di cultura, eclettico e consapevole della rivoluzione modernista che anima in quegli anni i diversi ambiti dell’umano, Oppenheimer non è solo un fisico geniale, un scienziato reiventatosi stratega politico, ma un intellettuale intento a creare il mito di sé stesso. Consapevole del potere epico di Prometeo, del mitologema della conoscenza come peccato, è colui che è contemporaneamente soggetto e oggetto della propria alba, di quella nascita di un mondo nuovo, atomico, che è in grado di forgiare perché egli in prima persona ha portato il suo sguardo, e il suo fuoco e la sua mano, dentro l’inguardabile. Levatrice e assieme infante, Oppenheimer è l’animo creativo e insieme infero del genio inventivo, figlio prediletto di Shelley agghindato da tristo predicatore la cui preghiera è una hybris che sconfina nella blasfemia. Già The Prestige era la storia di inventori al limite dell'etica, ma ancor di più qui Nolan si impossessa delle forme del biopic scientifico complicandone il segno morale. Oppenheimer è carnefice o martire? trattiene per sé le redini del giudizio o fa sì che passino ad altri, sperando comunque di controllare e manipolare le opinioni altrui? a chi ritiene di dover rendere conto? Al pari di martiri, profeti e santi, è una figura mitica che interrompe l’andamento corrente della Storia con il suo genio, superando sfide topiche come la solitudine, l’incomprensione, l’ossessione che isola e mina i rapporti umani; oppure di tutto questo è abile tessitore, predicatore di un culto di sé fondato su una comunità in cui essere uno e trino? Attraverso l’alternanza di Fissione, piano soggettivo interno alla prospettiva del personaggio, e Fusione, prospettiva esterna affidata al villain Strauss, lo spettatore non giunge a capo del mistero umano, piuttosto si trova di fronte un reticolato narrativo che rilancia domande più che risposte, nonostante le infinite spiegazioni narrative e disposizioni scientifiche e simboliche presenti nel film.

passenger

Sono anni questi in cui siamo tornati a percepire il farsi della Storia attorno a noi, in cui gli eventi non solo accadono ma accelerano, prendono peso, prefigurando capitoli chiave nei manuali di studio che saranno. Si prefigurano all'orizzonte riformulazioni di un sistema che ha ripreso a manifestare con forza ed evidenza le sue irregolarità e contraddizioni, incertezze e derivazioni tutte da considerare. Non è un caso allora se in questi ultimi anni accelerati tre artisti di grande calibro (Lynch, McCarthy e appunto Nolan) hanno sentito il bisogno di confrontarsi con Trinity e la nascita del mondo atomico, rivelando in esso un punto di discontinuità sostanziale, uno scarto tanto sul piano politico che morale, fisico e metafisico. All’alba di quella che forse si configura come una nuova era, la fine dell’antropocene e la riscrittura dell’umano a fronte del cambiamento climatico, l’immagine dell’arma nucleare è il luogo in cui collimano le forze di creazione e distruzione, il simbolo di un nuovo peccato originale e la pia illusione di un equilibrio migliore. La forgia incandescente dove arde ciò che significa essere umani.

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Christopher Nolan Cillian Murphy Matt Damon Emily Blunt Robert Downey Jr. Florence Pugh Josh Hartnett Benny Safdie Kenneth Branagh Dane DeHaan 180 minuti
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Mission Impossible - Dead Reckoning, parte 1: Fade to black in the digital world

di Alessio Baronci
Mission-Impossible-Recensione-Film-Cruise

Un sottomarino russo gestito da un cervello digitale, che regola la rotta ma anche le regole d’ingaggio e gli armamenti, viaggia nelle profondità del mare artico. D’improvviso scatta l’allarme di prossimità. Un altro sommergibile in avvicinamento. Il capitano e il primo ufficiale passeranno i minuti successivi a capire se sono pronti o meno a dare inizio, da soli, a una guerra nucleare. Non serve raccontare oltre, basta prendere atto che il prologo di MissionImpossible - Dead Reckoning - Parte uno pare provenire da un altro tempo e altro spazio, lo stesso di certi thriller militari anni ’80 o di alcuni film di Aldrich.
Ma non basta. Perché la prima sequenza di Dead Reckoning 1, già linguisticamente “separata” dal resto della saga, rinuncia anche alla presenza del corpo attoriale del suo protagonista, che non pare trovare spazio nel mondo da cui quella stessa scena proviene. Non è un’occorrenza da sottovalutare, soprattutto perché, forse più che l’assenza di Tom Cruise negli attimi iniziali del film, a colpire è soprattutto il suo ingresso in scena che pare portare in primo piano, a vivo, la crisi piuttosto che ricomporla. Perché Ethan Hunt emerge dal buio, pochi secondi dopo la sequenza del sottomarino, come un fantasma, entità priva di quella fisicità “analogica” che finora lo aveva contraddistinto nel contesto del cinema contemporaneo.

Forse allora è necessario fare un passo indietro. Negli ultimi mesi si è provato a raccontare, su queste pagine, il senso delle immagini e dell’identità di un cinema popolare sempre più infiltrato da un digitale che ne ripensa traiettorie, obiettivi, caratteri essenziali. Ebbene, in prospettiva è evidente che l’epilogo (almeno momentaneo) della riflessione debba intercettare il destino dell’agente Hunt e del suo attore. Anzi, a onor del vero, questa coda inizia da tutt’altra parte, per la precisione da quel Top Gun: Maverick che è vero e proprio manifesto di resistenza analogica al digitale, sia in termini esperienziali che di rappresentazione, con Cruise che svela apertamente (ma ce n’era ancora bisogno?) il suo primato di Ultimo Attore Analogico, di performer che agisce sulla scena in prima persona, con il proprio corpo, ultimo baluardo di una fisicità tangibile che sembra disperdersi giorno dopo giorno.

maverick mi 6

Vero è che Hunt e Maverick sono entità difficilmente confrontabili, ma altrettanto innegabile è il fatto di come la quotidianità di Cruise e la sua costante narrazione autopromozionale si sovrapponga alle traiettorie dei suoi personaggi, tale da metterli tutti sullo stesso piano, come tasselli di una riflessione che ha in lui il punto di partenza e di arrivo. E in questo senso, dunque, è inevitabile percepire l’urgenza, da parte sua, di ragionare sul mutamento del medium in cui si muove.

Qualcosa però sembra andare storto, l’impatto tra la sua identità analogica e lo spazio digitale pare in Dead Reckoning 1 violentissimo. Lo svela forse già questo suo deporre simbolicamente le armi fin dall’inizio, questa riemersione dal mondo delle ombre; ma le linee su cui si muove il film sono presto chiarissime, a partire da una storyline che contrappone Hunt e la squadra a un’intelligenza artificiale intenta a prendere il controllo dello scacchiere geopolitico. E davvero ogni riflessione potrebbe partire proprio dalla scrittura fastidiosamente didascalica, dal piglio millenarista, quasi apocalittico, con cui è raccontata questa AI.

Perché la vaghezza della nemesi permette alla diegesi di trovare più agevolmente scappatoie nel racconto, come se il film non riuscisse a nascondere l’inquietudine di rapportarsi con un contesto che potrebbe mettere facilmente in scacco persino Cruise/Hunt. In questo senso non è casuale se tutta la prima parte di Dead Reckoning, la più centrata, concettuale, sia un trattatello che si interroga tra le righe sul (ri)posizionamento dell’umano in un reale ibridato dal digitale, sulle sue percezioni, sulla sua identità. Torna in primo piano quel discorso sul primato della vista umana sulla tecnica intravisto in certi passaggi straordinari di Ghost Protocol, di cui il film riattiva tutta una serie di motivi dalla tempesta di sabbia che “impedisce di vedere”  a un protagonista disperso tra non luoghi (lì era il Burj Khalifa, qui l’aeroporto di Abu Dhabi), passando per una caccia all’uomo in cui sono fondamentali proprio i sensi, la tattilità, la ricerca sul “campo” per trovare un bersaglio che confonde la propria identità tramite la tecnologia.

Sarà l’unico, vero, affondo (auto)riflessivo di un film che dopo questa sequenza finirà per ripiegarsi su sé stesso, accantonando il suo concept per cercare rabbiosamente di portare lo status quo a vantaggio della sua star. Ecco allora che la scrittura pura finisce per annullarsi nel set piece divertito ma fine a sé stesso, nello stunt più ambizioso, nella costruzione di sequenze in cui l’atletismo di Cruise è sempre in primo piano. Qui, nella corsa costante, nell’inseguimento tra le strade di Roma, nel lancio nel vuoto che apre il segmento finale del film ecco che torna L’Ultimo Attore Analogico e con lui, soprattutto, il tentativo di riappropriarsi di una fisicità, di una tangibilità da contrapporre allo spazio dei dati. Eppure è evidente che il film fatichi a sostenere un sistema che pare assecondare sempre più l’appassionata ma forse egoistica ricerca di legittimità del suo attore. Qualcosa, alla fine, sembra incepparsi ed è un po’ come assistere a un violento svelamento. E se quella corsa continua di Hunt fosse soprattutto un tentativo di fuga, perché, in cuor suo, persino l’eroe sa che è troppo tardi? La sensazione è che, malgrado il film racconti il digitale in modo superficiale ne percepisca comunque il peso, e lasci trapelare, con evidenza tra le sue immagini, il cambio di paradigma di cui si fa portatore. E lo fa con una ferocia straordinaria. È un po’ come se Christopher McQuarrie si ricordasse della lezione de I soliti sospetti, e lasciasse intendere che la verità è sempre stata sotto i nostri occhi ma noi siamo stati troppo pigri per accorgercene. E la verità è che lo spazio, la forma mentis digitale, ha già cominciato a intaccare l’ultima fortezza analogica dell’intrattenimento contemporaneo.

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Basta tornare su certe particolari vertigini del film per svelarne la vera natura. E allora ti accorgi del gioco referenziale di un McQuarrie vivacissimo, che mentre con la mano destra pesca a piene mani dal Canone (le cavalcate di Lawrence d’Arabia nel deserto ma anche gli ultimi spasmi del Titanic diviso in due di Cameron), con la sinistra esplora più o meno consapevolmente un’estetica che guarda a certe pietre miliari del gaming, tra le avventure nelle steppe afghane di Metal Gear Solid V e la risalita frenetica del treno in bilico sul burrone che chiude Uncharted 2; oppure ti rendi conto che, mentre Cruise prova a rafforzare la sua mitologia, tra Venezia e l’Orient Express, in realtà rimane bloccato in spazi di risulta, in diorama costruiti come database di materiali pre esistenti, chiuso tra gli spazi angusti di una 500 gialla come quella del Lupin di Monkey Punch o, ancor meglio, intrappolato in un convinto, appassionato, passo da Bond Movie, teso tra travestimenti, scazzottate e femme fatale che pare sempre a un’inquadratura di distanza da cadere in mille pezzi come una quinta teatrale. Ma a raccontare la consapevolezza di Dead Reckoning è, come è già stato scritto, il coraggio di portare in primo piano un racconto che, a tratti, asseconda le svolte suggerite dalla stessa macchina, dall’algoritmo che guida i personaggi sulla scacchiera, come a voler escludere l’umano anche dalla sfera creativa. Sul fondo, rimane una rivelazione, quella di un Cruise dall’identità duale, attore analogico, sì, ma comunque, a suo modo, (super)umano, non assimilabile certo allo spazio dei dati ma neanche davvero a quello reale, concreto, malgrado gli sforzi compiuti, per raccontare il contrario.

E con l’infosfera l’Hunt riattraversato, intaccato dal sistema di Dead Reckoning pare condividere soprattutto il carattere più inquietante: la riproducibilità in serie. Come al solito lo script manca di finezza eppure riesce a infilare nel flusso di immagini una sequenza fondamentale. Perché quel cambio di focus della narrazione nell’ultimo atto, con la Grace di Hayley Atwell che agisce da operativa e sale in primo piano, quel momento che sa di passaggio di testimone, lascia intendere tra le righe che l’immagine, i caratteri di Hunt possono essere trasferiti, sovrascritti, su chiunque senza sforzo. E allora il mito di Cruise/Hunt/Maverick, cade senza che ce se ne renda conto, e, forse, egli stesso finisce per essere assorbito senza fare troppe resistenze nello spazio digitale.
Non è casuale se l’ultima inquadratura del film sia su un Hunt in volo in paracadute, come il personaggio di Brad Pitt all’inizio dell’Allied di Zemeckis, pronto ad atterrare in uno spazio all’apparenza vuoto, un Deserto Del Reale in cui, di lui, dell’Ultimo Attore Analogico, non rimane altro che un vuoto status iconico. Il resto sarà tutto da (ri)costruire, magari con mezzi diversissimi da quelli analogici.

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Christopher McQuarrie Tom Cruise Hayley Atwell Rebecca Ferguson Simon Pegg Vanessa Kirby Pom Klementieff 163 minuti
USA 2023
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Indiana Jones e il fascino discreto dell'archeologia al cinema

di Jacopo Bonanni
Indy

"L'archeologia mi ha insegnato che ogni volta che sveli qualcosa del passato, contribuisci a dare più significato al presente."  ("La valle dei Re", Robert Pirosh.1954)

Il fascino dell'archeologia è indiscutibile. Tuttavia se la figura dell'archeologo si è radicata così profondamente nell' immaginario collettivo, al punto da alimentare - fino a distorcere - nella cultura popolare la percezione del suo ruolo e della sua professione, trasformandolo da zelante (e precario) studioso alla prese con cantieri polverosi e frustrazioni burocratiche in un seducente avventuriero alla ricerca compulsiva di nuovi stimoli, tesori sepolti e civiltà scomparse, il merito e la colpa spetta indubbiamente al cinema. E' proprio a partire da questa riflessione che si snoda l'analisi di Francesco Bellu, archeologo e giornalista, nel suo saggio "L'Archeologo sul Grande Schermo" (2022) da cui sono scaturiti l'ispirazione e il piacere di curare questo articolo. Il libro, pubblicato dalle Edizioni NPE, è un testo appassionante ed estremamente articolato, frutto di un lungo periodo di studio e di ricerca, in cui l'autore  si propone di affrontare, contestualizzare e spiegare le ragioni storiche e culturali del legame inscindibile tra cinema e archeologia attraverso gli autori e i generi che lo hanno celebrato. Il tutto molto prima che il nome di Indiana Jones diventasse il paradigma dell'Avventura. Infatti, come analizzato nel saggio, nonostante la prima pellicola con protagonista un archeologo, per la precisione un egittologo interpretato da David W. Griffith, l'autore di Nascita di una Nazione, risalga all'epoca del muto ("The Princess in the Vase", 1908), quello tra il mondo della celluloide e l'archeologia è un rapporto atavico che affonda le radici addirittura in esperienze che oggi definiremo di pre-cinema come le fantasmagorie e i travelogues. Si trattava per lo più di esperimenti pionieristici e proiezioni ante-litteram, concepiti per intrattenere e soddisfare la fascinazione del pubblico europeo nei confronti dell'Oriente "esotico e misterioso", due aggettivi imprescindibili per la narrazione, utilizzati maliziosamente per definire quell' arab romance, dove per arabo ci si riferiva a un indefinito Medio Oriente - da Istanbul fino al Maghreb - popolato di stereotipi: faraoni redivivi, donne lascive e barbari feroci. È bene chiarire che l'esasperazione di questo tipo di descrizioni, a uso e consumo prettamente occidentale, insieme al bagaglio immaginifico di suggestioni avventurose (ed erotiche) che sottintendevano, erano già state ampiamente sfruttate e spettacolarizzate dalla stampa dell'epoca e in un secondo momento dalla letteratura d'appendice, complice la grande diffusione dei diari di viaggio e delle biografie di celebri esploratori: lavori dal carattere mistificatorio, impregnati di narcisismo eroico e spirito autocelebrativo. 

"Le Roman de la Momie"

Dalla realtà alla finizione cinematografica il passo è stato breve, anche perché l'eco mediatica, la portata storica e la cronaca serrata di scoperte come quella della città "perduta" di Machu Picchu nel 1911 e quella della tomba "maledetta" di Tutankhamon nel 1922 possedevano già in nuce tutti i requisiti necessari per incollare il pubblico davanti al grande schermo. Dell' "egittomania" dilagata in tutto il mondo, dopo l'incredibile ritrovamento di Howard Carter nella Valle dei Re, sono una testimonianza i numerosi mummy's movies prodotti dalla Universal a partire dal immarcescibile cult La Mummia (1932) di Karl Freund, che ricalcava in parte il canovaccio di alcuni film a tema egizio dell'epoca del muto ("The Lure of Egypt", 1915), con una maggiore attenzione all'elemento archeologico, fino ai successivi e decisamente più macabri remake firmati dall'altrettanto celebre casa di produzione inglese Hammer Film che riassumevano al meglio tutti i cliché del genere: sepolcri violati, antiche maledizioni, amori perduti, vendette e resurrezioni.

La Mummia, 1932

A questo genere di pellicole, a sfondo sovrannaturale, si affiancarono ben presto, tra gli anni Quaranta e i Sessanta, gli explorers movies: avventure declinate in chiave western e noir, a seconda delle esigenze del copione, il cui leit-motiv ruotava intorno alla ricerca di mitiche capitali sepolte nella giungla o di preziosi manufatti da razziare. Uno degli esempi più vividi in materia è Inferno Verde (1940) di James Whale che univa l'avventura esotica all' esplorazione scientifica. Spesso capitava anche che alcuni di questi lavori consistessero in veri e propri serial proiettati a puntate al cinema e ispirati alle strisce a fumetti più in voga, come Ace Drummond (1936) o Jungle Jim (1948). In molte di queste opere, come sottolineato nel libro di Francesco Bellu, il ruolo dell'archeologo assumeva le sembianze di un avventuriero solitario, pronto ad affrontare con coraggio le avversità, restando coinvolto in situazioni straordinarie ed estremamente coinvolgenti per lo spettatore che comprendevano di solito: fughe rocambolesche, esplosioni, risse e duelli con i nemici. Tutti ingredienti fondamentali dell'intrattenimento che ritroveremo puntualmente amalgamati in pellicole come Gunga Din (1943), Cina, (1943), Il segreto degli Incas (1954), I saccheggiatori del Sole (1953) o addirittura Primula Smith (1941), dove un impavido archeologo si schiera apertamente contro i nazisti. Il prototipo dell'eroe più in voga era quello modellato sul personaggio di Allan Quatermain, il protagonista del romanzo "Le Miniere del Re Salomone". Nato a fine Ottocento dalla penna dello scrittore britannico H.R. Haggard, Quatermain, nonostante non venga mai descritto come un archeologo, ha sempre rappresentato l'esploratore per antonomasia: "temerario, risoluto, poliglotta ma soprattutto benevolo nei confronti delle popolazioni indigene verso le quali si pone sempre in modo paternalista, una caratteristica che oggi risulterebbe quantomeno controversa come la sua vocazione di mercante e cacciatore senza scrupoli" (Bellu) . Le trasposizioni cinematografiche delle sue gesta si sono protratte dal 1937 - in modo altalenante - fino ai giorni nostri, sebbene la più riuscita rimanga tutt'ora quella interpretata da Stewart Granger nella famigerata pellicola del 1950. 

Le Miniere del Re Salomone

Un'interpretazione che non passò di certo inosservata allo sguardo cinefilo di due registi come Steven Spielberg e George Lucas quando, nell'estate del 1977, iniziarono a delineare i tratti salienti di quello che sarebbe diventato uno dei loro personaggi più popolari e amati dal pubblico. Già partire dall'incipit de I Predatori dell'Arca Perduta (1981), attento a non rivelarci subito il viso di Jones, vediamo stagliarsi nella silhouette del protagonista l'impronta di "un'opera di cinema puro, capace di reinventare e rivitalizzare i moduli dell'avventura, tanto da diventare essa stessa un modello imprescindibile a cui rifarsi e con la quale confrontarsi" (Bellu). Spielberg utilizza il passato come un serbatoio di forme, modelli e figure con cui giocare liberamente, aggiornando e omaggiando consapevolmente la grammatica dei vecchi film con cui era cresciuto. Tutto il franchise di Indiana Jones diventa così un pastiche di allusioni, citazioni e riferimenti di  natura metatestuale  in grado di abbattere i confini tra cultura "alta" e cultura "bassa" al punto da coniugare, allo stesso tempo, il cinema di John Huston ("Il Tesoro della Sierra Madre") con le illustrazioni di Carl Barks ("Zio Paperone e le sette città di Cibola").

Indiana Jones

Inoltre, la figura di Harrison Ford in giacca di pelle e fedora calato sulla testa ribalta gli stereotipi del cinema muscolare dell'era reganomics, regalandoci un eroe sui generis, tormentato e autoironico, che suscita nello spettatore una simpatia e un affetto immediato e con cui è facile empatizzare e immedesimarsi fin da principio. Lo scheletro narrativo delle sue storie è quello della fabula classica che prevede, come da prassi, la chiamata all'azione, i dubbi, il viaggio vero l'ignoto, l'incontro/scontro con alleati e nemici, la vittoria e il suo ritorno; mentre ad amplificare il fascino delle sue avventure contribuiscono le ambientazioni esotiche e la tensione per la scoperta del "McGuffin": il motore virtuale dell'intrigo, in questo caso il reperto archeologico di turno, intorno a cui si articolano le vicende narrate.

McGuffin

Alla luce di queste osservazioni non era difficile immaginare il successo travolgente che avrebbe ottenuto la saga e di conseguenza il proliferare di una lunga schiera di rip-off ed epigoni prodotti nella speranza di ottenere "fortuna e gloria" sulla scia dell'originale, su tutti  Alla ricerca della pietra verde (1984) diretto da Robert Zemeckis. Semmai quello che stupisce è la longevità delle imprese del Dr. Jones che, forte di un'ubiquità mediale fuori dal comune, ha generato nell'arco di quarant'anni ben cinque capitoli da cui sono stati tratti serie tv, videogiochi libri e fumetti. L'ultima avventura in ordine cronologico è "Indiana Jones e il quadrante del destino" di James Mangold - cui è spettato l'onere e l'onore di subentrare a Spielberg - che si è rivelata uno dei blockbuster più attesi di questa stagione cinematografica. Questo dato, insieme alle riflessioni portate avanti nel saggio "L'Archeologo sul Grande Schermo", conferma come dall'epoca del muto ad oggi il fascino dell'archeologia sul grande schermo sia rimasto pressoché intatto e come, grazie alla sua estrema duttilità e alla varietà di situazioni che lo coinvolgono, la figura dell'archeologo , sebbene coniugata quasi esclusivamente al maschile, sia stata declinata praticamente in ogni accezione possibile: da quella di matrice horror di Padre Merrin né L'Esorcista (1973) o nel nostrano L'etrusco uccide ancora  (1972) di Armando Crispino, a quella fantascientifica del personaggio di Cornelius ne Il pianete delle scimmie" (1969) o in Stargate (1994), fino all'improbabile variante action portata alla ribalta da tre interpreti "fuori contesto" come Chuck Norris ("Il tempio di fuoco") , Steven Seagal ("Il vendicatore") e Jackie Chan ("The Myth - Il Risveglio di un eroe"). A questa lista si aggiungono inoltre quegli autori che invece hanno preferito utilizzare l'archeologia come specchio per mostrare le inquietudini umane, è il caso di Roberto Rossellini in Viaggio in Italia (1953) , o come pretesto per raccontare la forza incantatrice del cinema: il Woody Allen de La Rosa Purpurea del Cairo (1985).

Purple Rose of Cairo

D'altronde anche a livello letterario l'archeologia si è dimostrata una fonte costante e inesauribile di metafore da cui hanno attinto autori provenienti dagli ambiti più disparati: pensiamo solamente a Sigmund Freud, Michel Foucault, Italo Calvino o Umberto Eco, per citarne alcuni. La ragione di un tale successo probabilmente è attribuibile al potere evocativo di determinate immagini correlate alla pratica archeologica. Infatti, lo scavo in profondità, la stratificazione del sepolto, la ricerca di ciò che è andato perduto o è stato abbandonato, il ritorno del passato e del represso, il fascino della rovina e il culto della frammentarietà sono tutti concetti - categorie visuali e di pensiero - che possono essere traslati ed esperiti anche nell'interiorità della psiche e nella dimensione filosofica della modernità, come riflessione sulla condizione umana contemporanea. Una condizione in cui, attualmente, il ruolo assunto dalla nostalgia è diventato il sintomo allarmante e patologico di una società incapace di trattare con il tempo e la storia. Naturalmente non parliamo della rimembranza poetica o dell'originario desiderium di ovidiana memoria ma di quella "nostalgia mediale" ripetibile e riproducibile, senza esperienza vissuta o memoria collettiva, che alcuni studiosi hanno argutamente definito un mero "scavo archeologico preconfezionato". Viviamo di fatto nell'epoca della retromania, dove tutti i prodotti culturali che ci circondano - in ogni ambito - traggono forza dal rimpianto o dall'allusione sempre più marcata a messaggi e simboli del passato in base alle strategie economiche di un mercato sempre più aggressivo, come quello del marketing: basta pensare al mondo dell'entertainment hollywoodiano. In quest'ottica non deve stupirci se - paradossalmente - per smascherare e contrastare le insidie della nostalgia della peggior specie - quella revisionista e restaurativa - sia stato richiamato in servizio un ottuagenario Harrison Ford proprio nei panni di Indiana Jones: l'archeologo più celebre e ingombrante del grande schermo, forse l'ultima icona - di certo la più emblematica -  del postmodernismo cinematografico degli anni ottanta del novecento. L'unico pronto a ricordarci che "la X non indica mai il punto dove iniziare a scavare".

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Barbie

di Veronica Vituzzi
Barbie - recensione film

Prima di Barbie ci fu la campagna promozionale per Barbie.
Bisognerebbe davvero partire anzitutto da qui, dall’intensa e quasi martellante pubblicità prodotta per il nuovo film di Greta Gerwig: dalla prima clip in stampo kubrickiano uscita sette mesi prima alle decine di teaser, trailer e spezzoni che hanno gradualmente invaso i social network fino a creare uno smisurato hype in moltissimi - e una credibile nausea in pochi. Quasi un evento mediatico a sé stante, per la sua profonda intelligenza nello spargere continui nuovi indizi senza mai veramente rivelare il plot dell’opera. Tutto ciò che se ne poteva ricavare era, con le parole della regista, Barbie becomes human, Barbie diventa umana. Un concetto se non originale almeno molto divertente, perché una Barbie adattata al mondo reale sembra un’idea paradossale; basterebbe l’innaturale vitino della bambola, se non i talloni che non toccano mai terra, a far pensare che una cosa del genere sia impossibile. Barbie umana è dunque una contraddizione in termini: Greta Gerwig (e Noel Baumbach, co-sceneggiatore) lo sa bene, dato che su questa incongruenza decide di poggiare non solo la trama del film ma l’intero impianto stilistico e – oseremo dire – concettuale dell’opera.

Barbie ci tiene a sottolineare fin da subito la valenza rivoluzionaria della bambola inventata da Ruth Handler nel 1959. In una dimensione ludica al femminile fatta solo di bambolotti neonati da accudire, Barbie possedeva le fattezze, per quanto assurde ed esasperate, di una donna adulta che non era necessariamente né una madre né una moglie né una casalinga. Poteva essere ciò che le bambine volevano, e d’altra parte nel corso dei decenni Barbie è riuscita davvero a rappresentare una larghissima varietà di ruoli, etnie, professioni. La Barbieland dove inizia il film è un paradiso di plastica rosa basato sul matriarcato, l’assenza di cellulite, buoni sentimenti e buone maniere. Tra le varie Barbie Presidente, Fisico, Premio Nobel ecc spicca la Barbie Stereotipo (Margot Robbie), che è in fondo la bambola che ogni bambina ha avuto da piccola: nessuna caratteristica particolare a parte essere bionda, perfetta, dotata di vestiti e accessori di ogni tipo nonché un fidanzato, Ken (Ryan Gosling) dal ruolo e presenza facoltative. Una vita costantemente eccezionale, finché l’idea inedita della morte non si insinua nella sua mente e la gravità dell’esistenza atterra per la prima volta i suoi talloni. Unica salvezza appare allora un viaggio nella realtà per ristabilire l’ordine originario delle cose.

barbie rece inside 1

L’arrivo di Barbie nel mondo reale è la rivelazione che il matriarcato che si è realizzato nel suo mondo non è avvenuto nel nostro, anzi; così è altrettanto rivoluzionario per Ken scoprire l’esistenza del patriarcato. Difatti in Barbieland, come ogni bambino sa, il ruolo maschile è opzionale: Ken vive in relazione a Barbie in quanto suo fidanzato, ma per il resto è figura vacua, non necessaria. Se Barbie – e i bambini che giocano con lei e/o i genitori che decidono di acquistar loro bambole – decide di considerarlo, bene, altrimenti Ken è sostanzialmente inutile.
Ken è in questo una figura fondamentale nel film. Mentre Barbie incappa in una vera e propria crisi esistenziale, il personaggio interpretato con piglio geniale da Ryan Gosling, fatuo, vanitoso ed esplicitamente idiota, vive però un disagio personale ben più antico fatto di frustrazione e insicurezza. Incapace di verbalizzare la propria infelicità sa trovare sollievo solo in un modello sociale dove il maschio comanda a priori sulla femmina. In questo il film di Gerwig ricalca perfettamente la differenza basilare fra femminismo e maschilismo. Se per le donne le cose non sono facili, come scopriremo a breve, non lo sono nemmeno per gli uomini: l’unico problema è che se le prime sono riuscite – in modo discontinuo, alterno e imperfetto, nessuno può negarlo – a fare gruppo per liberarsi, i secondi sembrano spesso incapaci di andare oltre il semplice sollievo dato dall’espressione aprioristica del potere a scapito delle donne. È anzi probabile che solo la necessità di mantenere il film visibile alle famiglie abbia impedito alla trama di prevedere un momento in cui i Ken, ispirati dal mondo reale, decidano di risolvere le proprie frustrazioni semplicemente iniziando a picchiare e ammazzare le Barbie.  

Il patriarcato è un trauma per la stessa Barbie, che scopre che non solo nella realtà sono gli uomini a comandare, ma che le stesse bambine, odierne o cresciute, hanno imparato a odiarla in quanto emblema di un modello capitalista che vede la donna oggetto e schiava di paradigmi sociali che le fanno odiare il proprio corpo e la propria intelligenza. Nell’immaginario culturale Barbie, proprio quel tipo di Barbie Stereotipo che lei rappresenta, rimane il simbolo della bionda stupida e ben vestita.
A questo punto a Gerwig e Baumbach non rimane altro che esplicitare fino al parossismo tutte le possibili contraddizioni legate al personaggio: Barbie ha emancipato le donne permettendo loro di giocare e immaginare la possibile versione adulta di sé, ma Barbie ha schiavizzato le donne costringendole a confronti impossibili con un corpo e un’esistenza troppo perfette; Barbie con i suoi mille accessori, vestiti, case set ha obbedito ciecamente al diktat capitalista di consumare supinamente, ma Barbie con le sue infinite varianti ha anche dimostrato di poter fare qualsiasi lavoro, mantenersi da sola e guadagnare uguale se non più dell’uomo; Barbie mito eterno, Barbie stronza maledetta; bambola da pettinare, vestire e adorare, ma anche deturpare, manipolare e sporcare (da cui la Weird Barbie, interpretata da Kate McKinnon, cioè la Barbie strana che tutti hanno posseduto almeno una volta, che qui in virtù della sua esperienza particolare assurge a sorta di guru spirituale di Barbieland).

ken barbie recensione

Il colpo di genio, se a tanto vogliamo spingerci, è riuscire a partire dalle contraddizioni di Barbie per arrivare a quelle che caratterizzano la donna vera d’oggi, qui rappresentata – forse non a caso – dall'ex Ugly Betty America Ferrera. Perché anche la donna moderna è anch’essa soggetta a quest’esplicita dissonanza cognitiva per cui qualunque cosa fa, sbaglia: evento prevedibile, dato che in sintesi le viene richiesto dalla società sia di essere sia una cosa che il suo contrario. Il monologo di Ferrera, il nodo fondante del film, funziona perché ogni donna potrebbe aggiungervi una frase e continuarlo da sola secondo le sue esperienze: la donna deve essere bella ma non mostrare che le importa troppo altrimenti è solo vuota, essere madre ma amare anche il proprio lavoro, dare la massima importanza alla vita di coppia ma saper stare da sola... Non rimane che fuggire dalle aspettative assurde del mondo, dalla stessa Mattel – ovviamente composta da una stolida amministrazione di soli uomini – e iniziare a essere se stesse, imperfette ma autentiche. Una liberazione collettiva, di donne e uomini (compresi i Ken!). Ed ecco che Barbie diventa umana.

Oltre l’indiscutibile godibilità di un’opera se non altro veramente divertente e accattivante, ci saranno comprensibili accuse di pinkwashing, dato che abbiamo imparato a guardare con sospetto le multinazionali che si autoaccusano più per effetto pubblicitario che altro; si parlerà anche di un femminismo mainstream, semplificato per essere consumato dalle masse. Ma, a essere onesti, sorge il sospetto che coloro che pensino che oramai certi discorsi siano davvero retorici e non più necessari vivano in una bolla avulsa dalla realtà: abitanti di una nicchia fortunata, una dimensione magica e protetta, non troppo dissimile da Barbieland. Ci sembra invece rivoluzionario il fatto stesso che proprio il femminismo sia diventato finalmente anche un femminismo di plastica, ovvero un discorso culturale ormai noto, almeno in superficie, alla maggior parte degli spettatori, con idee oramai consolidate anche solo come stereotipi entro l’immaginare collettivo. La plastica certo non è il materiale più sano del mondo; ma almeno dura per sempre.  

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Greta Gerwig Margot Robbie Ryan Gosling Kate McKinnon Will Ferrell Michael Cera 114 minuti
USA, Regno Unito 2023
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Animali selvaggi (R.M.N.)

di Rosario Gallone
animali selvatici recensione film

Prendiamola alla lontana: nel 1947 William A. Wellman dirige La città magica, con James Stewart nei panni di un ricercatore di mercato che scopre per caso il “miracolo matematico” in una piccola cittadina, Grandview. Analizzando i comportamenti e le scelte degli abitanti, Rip Smith, questo il nome del personaggio interpretato da Stewart, è in grado di prevedere il successo di mercato di prodotti o addirittura vittorie elettorali di un intero paese.
Il piccolo villaggio della Transilvania in cui torna, in prossimità del Natale, Matthias, è un po' la Grandview con la quale Cristian Mungiu, a sei anni da Un padre, una figlia, fa il punto della situazione sulla sua Romania, cui cerca di guardare dentro, oltre la superficie, come fa la “Rezonanta Magnetica Nucleara” (la risonanza magnetica) il cui acronimo dà il titolo originale al film (ed è quasi il Codice Fiscale di Romania, se ci si pensa).È vero, Mungiu l'ha sempre fatto, ma stavolta sceglie la strada dell'apologo corale sicché il paese in cui è ambientata la vicenda si fa sineddoche della Nazione (come in La città magica) e, probabilmente, del mondo intero.Non può passare inosservato, infatti, il fatto che nella stessa edizione del Festival di Cannes, la 75ma, in cui Animali selvatici era in concorso, nella sezione non competitiva Cannes Première veniva proiettato As Bestas dello spagnolo Rodrigo Sorogoyen, che presenta più di un'affinità con il film di Mungiu. È un dato di fatto, la deriva xenofoba e nazionalista di gran parte dell'Europa, e non sorprende più nessuno. Mungiu e Sorogoyen ce la raccontano (e, una volta tanto, tocca dire che il tema, in queste stesse precise forme, era affrontato già nel 2012 da un sottovalutatissimo film italiano, Padroni di casa di Edoardo Gabbriellini).

Il regista rumeno, a differenza di Sorogoyen (ma non di Gabriellini sebbene non negli stessi termini), opta come detto per la coralità e, da questa scelta, derivano soluzioni registiche inusuali per Mungiu. Animali Selvatici manca quasi completamente di piani ravvicinati (forse l'inquadratura più stretta è una mezza figura) mentre abbondano i totali (tra cui quelli bellissimi in chiesa e durante l'assemblea cittadina), per di più in piano sequenza, e i campi medi e lunghi. L'altra novità, rispetto ai precedenti lavori, è il deragliamento di una vicenda realistica in territori magici sì da trasformare una storia metaforica in una vera e propria allegoria. La “luccicanza” del piccolo Rudi, più che un omaggio a Stephen King, pare quasi un modo, per Mungiu, di dire che la situazione europea è ai limiti del controllabile al punto che i suoi esiti suicidi possono essere “previsti” anche da un bambino. Mungiu non salva nessuno: la borghesia imprenditoriale che si compiace del suo terzomondismo per mero calcolo economico e che, in assenza di problemi economici, può permettersi di parlare di “amore” (Csilla suona la colonna sonora di In the Mood for Love di Wong Kar-wai, composta da Shigeru Umebayashi) mentre il ventre molle della popolazione, impoverito dalla chiusura delle miniere, ribolle di rancori mai sopiti tra le diverse etnie (ungherese, rumena e tedesca) presenti sul territorio (e che hanno convissuto pacificamente fin quando ce n'era per tutti), ma trova nuovi motivi di solidarizzare identificando nello “straniero” il nuovo nemico.

Ne ha pure per l'Occidente, rappresentato dal giovane ricercatore francese di una ONG cui viene spiegato come la Romania abbia fatto sempre da argine verso l'Oriente tanto temuto. Il punto è che a est dello Sri Lanka non c'è niente e i poveri immigrati cingalesi si trovano a essere il collettore terminale dell'odio di un'intera comunità. Almeno fin quando gli orsi non decidono di unirsi. Perché, come ci insegna l'incipit del film in cui Matthias è costretto a lasciare il lavoro in Germania per aver reagito violentemente a un insulto razzista, si è sempre zingari di qualcun altro. E se si decide di vivere in base a principi che, di umano, non hanno nulla, anche in tal caso gli uomini partono sconfitti perché c'è sempre chi è più bestia di noi, naturalmente.

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Cristian Mungiu Marin Grigore Judith State Macrina Bârlădeanu Mark Blenyesi 125 minuti
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Indiana Jones e il quadrante del destino

di Alessio Baronci
Indiana Jones-recensione-film-Mangold

One last (train) ride. Ma è davvero così? Indiana Jones e il quadrante del destino è stato presentato fin da subito come il racconto della senilità di Indy, la sua ultima avventura. Eppure colpisce il modo tutto particolare con cui viene messo in scena questo crepuscolo dell’eroe. Perché James Mangold, che da Spielberg ha ereditato personaggio e linee narrative essenziali, non si nasconde e affronta la questione da subito. Al centro della sequenza di apertura del film, impegnato a recuperare dai nazisti un artefatto che, quasi venticinque anni dopo, rischierà di mettere a repentaglio i delicati equilibri geopolitici, c’è infatti un Indy sottoposto a un’evidente procedura di deaging. Che è un po' come ammettere, da un lato, che tornare indietro ai tempi, ai ritmi dell’avventura spielberghiana è impossibile senza un’immagine “dopata”, ma dall’altro significa anche riconoscere che forse non ha più neanche troppo senso farlo. Meglio, piuttosto, prendere atto di quanto, ormai, ci troviamo in altri spazi, scopertamente digitali, a tal punto che, colpisce dirlo, questo nuovo scontro di Indy con i nazisti, questa fuga a perdifiato dal treno blindato in corsa, guarda certo al fumetto classico d’avventura ma anche, perché no, a un classico del gaming bellico come Call Of Duty.

Indiana Jones e il quadrante del destino contiene in sé un altro momento di svolta per l’autoanalisi del cinema contemporaneo, in un’annata hollywoodiana che sembra voler ragionare a testa bassa sulla sua crisi, sul suo futuro. Ma dopotutto, dopo killer in due pezzi e arrampicamuri, era inevitabile tornare qui, all’archeologo che forse per primo ragionò meglio di frammenti persi nel flusso della postmodernità, di media in mutazione, di ciò che rimane indietro. E certo Il quadrante pare davvero scegliere, almeno in apparenza, la strada più radicale per ragionare sul problema, impegnando il suo protagonista in una fuga nel digitale affascinante per come porta a ripensare tutta la genealogia di questo revival che, forse, ha ben più a che spartire con lo straordinario Tin Tin di Spielberg/Jackson/Moffatt che con la saga originale.
Ma siamo, appunto, solo all'incipit perché non appena il racconto entra nel vivo e la storia si sposta al 1969 diventa chiaro come il film non voglia portare a fondo quest'approccio estremista. E per certi versi è comprensibile. Lo status di icona di Indy è in effetti troppo saldo per ribaltarne le fondamenta. Eppure è evidente che il personaggio sembra percepire il cambiamento dello spazio mediale con cui si interfaccia. A raccontarlo, basterebbe forse anche solo il suo rapporto con la vecchiaia, quasi più uno status che una condizione capace di inficiare davvero il corpo e la mente del protagonista, in grado, piuttosto, di porsi al centro delle sequenze più dinamiche con la stessa reattività delle origini. Sembrerebbe un ritorno alla stilizzazione da comic book del personaggio, ma si tratta anche di una scelta funzionale, una riduzione del protagonista a un’essenzialità tipica del personaggio-funzione, al modello liberamente delocalizzabile.

Quello di James Mangold pare davvero l’unico Indiana Jones possibile, oggi, il film della saga che ragiona forse con più urgenza sul destino di quello sguardo postmoderno delle origini, aprendo il frammento, come già fatto da Favreau e Filoni in Mandalorian, a un dialogo con lo spazio mediale esterno, trattandolo alla stregua di un link in aggiornamento costante, certo, ma soprattutto costruendo interi nuovi mondi su di esso.

Indiana Jones-recensione-film-Mangold

All’Indy di Mangold, sempre meno “personaggio”, sempre più avatar in continuo movimento, va il compito di abitare questi spazi, costruiti a immagine e somiglianza del Canone cinematografico americano: ecco dunque il war movie aldrichiano del prologo, il paranoia movie à la Pollack della sequenza newyorchese, l’avventura bogartiana di Tangeri e infine il vertiginoso peplum. Abbraccia lo zeitgeist senza guardarsi indietro, Il quadrante del destino, nel bene e nel male, costruendo intere sequenze che lasciano in primo piano certe forme essenziali della contemporaneità (con l’ultimo atto che pare davvero un saggetto su loop e immersione nell’immagine) ma anche lasciando emergere sempre più l’elemento artefatto del suo spazio d’azione, tra ambienti che sembrano diorama opprimenti e un Indy che, pur di negare costantemente i suoi anni, pare sempre più un dummy digitale. Forse la “contemporaneità” de Il Quadrante la si riconosce soprattutto dal tentativo di rendere elemento modulabile, sintetizzabile anche (forse soprattutto?), la regia, il respiro dello stesso Spielberg.

Il chiaro dietrofront rispetto alle premesse iniziali è in effetti il più grave colpo a vuoto del film, che forse asseconda la paura quasi atavica di non apparire davvero autentico, di essere percepito falso come la lancia di Longino che apre il racconto. E allora il narrato perde la bussola, lascia poco spazio ad alcuni riattraversamenti inediti, personali, di certi elementi cardine della saga, tra il grande ritorno delle riprese “dal vero” e uno sguardo politico che attualizza i vecchi estremismi e preferisce inseguire il fantasma di uno sguardo inafferrabile. E così si torna all’inizio, a un film divertito, divertente ma privo dell’ariosità delle origini, rallentato piuttosto da una rigidità di fondo e una CGI mai così invasiva. Ma è prevedibile, è un film contemporaneo, questo Indy e lo è, lo si è detto, nel bene e nel male, anche quando si avvicina al rischiosissimo, impersonale cinema-algoritmo dei Russo.

O forse no. Il Quadrante pare in effetti il nervoso contraltare di Across The Spider-Verse. Se il film Marvel/Sony raccontava la sintesi perfetta tra l’elemento umano e lo spazio digitale, la capacità dei dati di preservare il calore analogico, il film Disney è evidentemente più irrequieto. Perché Mangold non si rassegna a cedere il passo al sistema. Piuttosto scalpita sotto la superficie, riesce a lanciarsi in inattese vertigini action (come l’inseguimento a cavallo nella metro di New York) che sembrano davvero catturare quello sguardo originale cercato fino a quel momento con la sola tecnologia ma ha soprattutto l’onestà intellettuale di riconoscere quanto il suo spazio di riferimento sia quello del melò, più che quello dell’action. È forse questo il senso della sua ribellione, quello che lo porta a firmare un film decentrato, fuori fuoco, in cui la sua voce pare solo raramente in primo piano ma che quando lo è racconta una storia davvero crepuscolare in questo senso, tesa tra lo sguardo smarrito di Indy che si ritrova a guardare il cadavere di un’amica uccisa, il calore di un abbraccio di riconciliazione e il sollievo di aver confessato un dolore sopito da troppo tempo, una storia umana non più oltre la macchina (come Spider-Man) ma forse nonostante la macchina.

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James Mangold Harrison Ford Phoebe Waller-Bridge Mads Mikkelsen Boyd Holbrook Antonio Banderas 154 minuti
USA 2023
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Questo mondo non mi renderà cattivo

di Veronica Vituzzi
zerocalcare n1 netflix recensione

A un anno e mezzo dall’uscita della sua prima serie animata per NetflixStrappare lungo i bordi, Zerocalcare torna con un nuovo progetto audiovisivo e rischia forte. Un azzardo paradossale perché derivante dalla formula stilistica che ha decretato il successo definitivo del fumettista romano. Ora, non possiamo dire che Zerocalcare piaccia in Italia proprio a tutti – per motivi politici e no – ma è chiaro che oramai una vastissima platea di lettori e spettatori lo stima e lo considera una delle figure artistiche più godibili e oneste degli ultimi anni. Da qui il pericolo di adagiarsi passivamente in una formula espressiva oramai ben rodata nel suo calibratissimo mix di ironia e serietà.  

Questo mondo non mi renderà cattivo riesce però a evitare l’ostacolo in un modo del tutto peculiare: da una parte supera la naturale autoreferenzialità dell’autore facendosi opera corale, dall’altra esaspera in modo deciso la sua abilità di esprimere i concetti tramite le immagini.
La storia parte ancora una volta dalla fine, sviluppandosi a ritroso tramite una serie di flashback; i personaggi principali, oltre a Zero stesso, sono sempre i suoi amici storici Sarah e Secco – il quale può oggi vantare una fanbase tutta personale – e la zona dove si svolgono i fatti è Roma Est. Ma stavolta l’autore sembra volersi calare più nel ruolo di interlocutore che in quello di protagonista, lasciando ai suoi comprimari i monologhi più importanti della serie. Il discorso difatti si è reso collettivo perché comune è il baratro su cui traballano in sospeso le persone che orbitano intorno a Calcare. Tra queste spicca in particolare Cesare, amico della giovinezza con un passato da eroinomane che torna dopo vent’anni di assenza in una città che non lo riconosce come non lo riconosce lo stesso Zero, sorpreso e deluso dalla sua inaspettata adesione alla lotta fascista contro l’insediamento nel quartiere di un centro di accoglienza per trenta rifugiati libici.  

La storia di Cesare, emarginato in quanto ex tossicodipendente, diviene il paradigma di una domanda a cui la serie sceglie di rispondere con un’analisi a tuttotondo: cosa fare della rabbia sociale degli innumerevoli invisibili, falliti a metà o del tutto, sprofondati nell’abisso e lasciati indietro da quelli che sono riusciti a costruirsi una vita decente malgrado l’odierna crisi economica? Le posizioni sono diverse e variamente considerate da Zerocalcare, il cui senso di colpa atavico per essere divenuto un’eccezione, l’unico che fra tutti ce l’ha fatta, lo spinge ad accogliere in modo quasi supino ogni punto di vista. Se Cesare, in assenza di un risarcimento esistenziale, vuole che nemmeno gli altri invisibili abbiano quello che gli è stato negato – cura, accoglienza, ascolto – Sarah sembra pronta a rinnegare i propri ideali per riuscire a mantenere il lavoro dei sogni che finalmente le permetterebbe di fare quel fatidico passo avanti nella vita.

zero

Da una parte c’è in questo l’accettazione oltre ogni giudizio personale delle storie intime di ognuno; dall’altra Questo mondo non mi renderà cattivo delinea in maniera quasi caricaturale due modi opposti e manichei di vivere. Ci sono i buoni e ci sono i cattivi, ci sono gli antifascisti e i fascisti (che nella serie vengono rinomati “nazisti” per essere certi che il pubblico capisca il loro grado morale). I cattivi, semianalfabeti o viscidi affabulatori delle masse sono sempre stupidi, meschini ed egoisti. L'idea che se ne trae è che se non c’è possibile comprensione dell’altro senza una sospensione di giudizio, è però necessaria una finale presa di posizione forte, nonché una scelta di vita: accettare o meno la deformazione dell’anima che la società, storta e pesta, tenta di attuare costantemente dentro gli individui. Sarà Secco, personaggio di un’apparente testarda ottusità, a indicare la scelta faticosissima di non far pagare ad altri disgraziati la propria disgrazia.  

La posizione politica, etica e personale di Zerocalcare è qui nettissima, come esplicito è il sentimento di trovarsi in una dimensione di devastazione sociale, fra macerie di vite accartocciate, abiure morali e risentimenti nascosti. Eppure la serie scorre veloce, ogni episodio regala momenti e frasi di totale divertimento: si avverte come il desiderio di alleggerire e semplificare il più possibile il discorso, e non solo per il cinico desiderio di piacere al pubblico pur parlando di cose “serie”. Piutosto, c’è in Questo mondo non mi renderà cattivo, un’esigenza veramente fortissima da parte del suo autore di essere compreso. Non a caso Zero scherza sulla ricorrente polemica mediatica inerente alla sua dizione troppo dialettale e oscura al resto di Italia perché farcita da continue espressioni tipiche dello slang romanesco; la paura di non farsi capire porta la storia a essere quasi costantemente interrotta da metafore, parentesi nonché  reiterati rimproveri della sua coscienza – l'Armadillo doppiato da Valerio Mastandrea – di essere noioso e ridondante nelle sue ripetute spiegazioni minuziose di ciò che vuole dire. Calcare vuole dire qualcosa, e ci tiene moltissimo a farlo nel mondo più chiaro, al punto tale da produrre a un ritmo incalzante similitudini e immagini prese da ogni contesto possibile, dalla mitologia greca alla citazione pop, a sostegno della propria espressione artistica. Ne risulta un messaggio che reso solo in forma verbale sarebbe forse, a detta dello stesso Armadillo, insopportabile: un lungo flusso di coscienza attraversato da più voci, ripetutamente accartocciato su sé stesso sotto il peso di mille dubbi morali, sensi di colpa, e la percezione di una voragine pronta a trascinarsi tutto ciò che ancora sopravvive illeso malgrado tutto. Ma con le sue immagini Questo mondo non mi renderà cattivo si fa opera divertente e infinitamente triste allo stesso tempo, confermando la mano sapiente di un autore che ormai sa come parlare al proprio pubblico. 

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Zerocalcare Zerocalcare Valerio Mastandrea Silvio Orlando, 6 episodi da 30'
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