Invelle

di Emanuele Di Nicola
Invelle di Simone Massi

A Simone Massi, animatore resistente, come si autodefinisce, mancava solo il lungometraggio. In realtà la sua lunga e ricca opera è già compiuta, fatta di corti in dialogo tra loro, dai recenti La guerra è finita e In quanto a noi (Nastro d’argento ex aequo), andando indietro sino a piccole perle come Dell’ammazzare il maiale e Nuvole, mani. Un corpus forte e coerente, raccolto in Dvd (Minimum Fax, 2014) e dunque storicizzato, cristallizzato in segni stilistici che sono ormai “il cinema di Simone Massi”. Senza dimenticare il contributivo decisivo per La strada dei Samouni di Stefano Savona, un altro film contadino, iscritto nel dramma della Striscia di Gaza. E sarebbe stato affascinante vedere ancora Massi e Savona, nel recente doc di quest’ultimo, Le mura di Bergamo sulla tragedia ellenica del Covid e sulla riscoperta della Morte. Intrigante sarebbe stato vederlo messo in animazione da Massi. Il quale invece ha realizzato il primo lungometraggio, Invelle, un’opera di novanta minuti co-prodotta sempre da Minimux Fax e con le voci di Ascanio Celestini, Luigi Lo Cascio, Neri Marcorè, Giovanna Marini (fondamentale), Toni Servillo, Filippo Timi. La presenza nella sezione Orizzonti, al Festival di Venezia, attesta la difficoltà di collocare l’animazione italiana in concorso ma anche, a pensarci bene, il ritaglio di uno spazio altro, alieno, un a parte rispetto a tutto il resto. Com’è il film.

Invelle, ossia “nessun posto” (nowehere, il sottotitolo inglese), è il luogo che viene raccontato, la terra contadina delle Marche, quella del regista. Ci sono tre bambini nel tempo, due femmine e un maschio. Attraverso il Tempo e la Storia: si inizia nel 1918 quando Zelinda è una bimba di famiglia contadina, con la mamma scomparsa e il padre sul fronte di guerra. Con la fantasia, però, la piccola torna ad avere entrambi i genitori e si produce in una sequenza vertiginosa alla fiera, vedendo cose, guardando forme, che forse sono reali o solo immaginate. L’ellissi conduce al 1943, altro anno di guerra, ora la bambina si chiama Assunta e assiste all'aspra lotta tra fascisti e comunisti. Il film, in bianco e nero, quando giungono i partigiani si tinge di rosso: «Io non sono imparziale», direbbe Moretti. Qui emerge la resistenza dell’animatore. Nel 1978 troviamo Icaro, bimbo dal nome mitologico, costruttore del labirinto di Cnosso e destinato al folle volo verso il sole, ma più prosaicamente sfottuto dai compagni di scuola: “Contadino!”. Forse è una figura sognata Icaro, eppure il ’78 è fatto di carne e sangue, soprattutto quello di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse nell’era del terrorismo, punto di approdo – solo momentaneo – di un percorso durato sessant’anni. Che continua oltre lo schermo.

Il denominatore comune della storia una e trina è il piccolo mondo antico. Simone Massi compone una straordinaria ode alla civiltà contadina, una Bucolica scritta con forza creativa ispirata e felice. Si rivela particolarmente opportuna la scelta di rappresentare i contadini mediante l’animazione: un passato remoto si va evocando, un pianeta perduto, e allora proprio l’atto di inchiostrarlo senza ricorrere agli attori aumenta la sua portata mitica. Più ancora del cinema finzionale di Alice Rohrwacher, che pure a questo è dedicato. Massi unisce la leggerezza del disegno a penna al graffio dell’incisore, perché la sua forma narrativa si fa anche violenta, vive di strappi improvvisi, è il richiamo di un mondo e insieme un film di guerra. Il tratteggio dolce di una fanciulla e la voce dura della radio nel conflitto. Mentre il tempo passa come in un film di Bellocchio, come il Trebbia che scorre in Sorelle Mai. Così facendo l’animatore arriva al paradosso di rappresentare il nulla, di afferrare l’intangibile, ciò che appunto si chiama invelle: «Nel pezzo di terra dove sono nato e cresciuto non c’è niente di importante da vedere e da ricordare, niente che possa essere considerato degno di finire sui libri (…) - sostiene -. La Storia con la maiuscola ha preso e preteso tutto quello che voleva e poteva. In cambio abbiamo avuto le storie con la minuscola, quelle che le tramandi a voce oppure si perdono». È proprio questo niente che prende forma, anzi forme, restituendo dignità al mondo contadino in un gesto di continua invenzione. Il migliore italiano a Venezia, in senso proprio etimologico, perché scritto e disegnato sulla nostra terra, e non potrebbe esistere fuori. 

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Simone Massi 90 minuti
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Vermin

di Jacopo Bonanni
Vermin - Vermines recensione film

La definizione di "parassita" ("vermin") per indicare in senso dispregiativo coloro che vivono ai margini della società in condizioni di povertà e di illegalità, dunque elementi nocivi e pericolosi per la sopravvivenza dei gruppi egemoni, purtroppo non è un novità ma il risultato di un esercizio sistematico di esclusione dei singoli individui, o di comunità di persone, attraverso l'attuazione di strategie psicologiche e sociali di delegittimazione ben precise, spesso in concomitanza con l'istituzione di barriere fisiche. Si tratta di un processo di "deumanizzazione", ereditato dal colonialismo, con il proposito di giustificare e mistificare i soprusi e le violenze progettate o perpetrate nei confronti delle categorie più deboli e delle minoranze per renderle inoffensive e soverchiarle. Parte integrante di questo fenomeno è la «balianopho­bie», ovvero quell'insieme di pregiudizi e stereotipi, a sfondo razziale e religioso, alimentati dai mass media per ghettizzare e fomentare un clima di paura e odio verso i giovani abitanti delle periferie francesi. A loro è dedicato Vermin, il promettente esordio alla regia di Sébastien Vaniček, in cui i cosiddetti "sconfitti dalla globalizzazione", con il loro bagaglio di disagio esistenziale, assurgono al ruolo di (anti) eroi per salvare il proprio quartiere, in modo analogo a quanto succedeva ai loro coetanei anglofoni protagonisti del film Attack the Block di Joe Cornish. Nonostante il titolo, volutamente ambiguo ed accattivante, sembri rievocare il fascino retrò dei monster movies del passato, complice la massiccia presenza di una misteriosa stirpe di ragni letali come antagonisti, il film di Vaniček è dunque drammaticamente attuale e gli aracnidi non sono altro che un espediente narrativo per raccontare una cruda storia di rivolta sociale e alienazione metropolitana. Infatti, gli invasori a otto zampe non provengono dallo spazio siderale, non sono l'esito di un esperimento scientifico fuori controllo ma assomigliano, piuttosto, a una cellula dormiente di un nucleo terroristico: una minaccia multiforme e imprevedibile, annidata negli anfratti più bui del modello capitalista e pronta a scatenarsi in qualsiasi momento.

Vermin 1

Forte di un'atmosfera cupa e claustrofobica - numerosi sono i riferimenti cinematografici da Aliens a Rec - l'intero film si sviluppa all'interno di un "alveare di cemento" nel cuore delle banlieue parigine, messo in quarantena dalla polizia come un rettilario esotico da contenere e reprimere a colpi di manganelli e lacrimogeni. Tra queste mura, un pugno di ragazzi, abbandonati a sé stessi come orfani, deve superare le diffidenze reciproche per lottare contro l'orda selvaggia di ragni che insidia il loro "territorio". La battaglia da combattere dunque non è soltanto quella per la sopravvivenza ma quella per rivendicare il proprio diritto di esistere e difendere il proprio spazio nel mondo, perché il pericolo più grande per gli abitanti dei "quartieri sensibili" non è tanto morire, ma restare imprigionati in una "ragnatela" che soffoca inesorabilmente qualsiasi possibilità di integrazione e riscatto sociale. Quello che risalta nella caratterizzazione dei personaggi, sempre credibili nelle loro interpretazioni e mai caricaturali, seppure confinati nel ruolo di emarginati, è che i giovani banlieusard di Vaniček non sono delinquenti, né spacciatori e neanche dei fanatici religiosi. Kaleb e i suoi amici sono dei rabbiosi,  sono dei delusi, ma sono soprattutto delle vittime, insieme alle loro aspirazioni, di quel "ascensore sociale" - in panne ormai da troppo tempo - per cui soltanto un numero esiguo di loro può sperare di trovare un lavoro qualificato e, di conseguenza, cambiare quartiere lasciando le periferie. Per tutti gli altri, la maggior parte, si tratta di restare a galla, divisi tra la disoccupazione  e la frustrazione di un orizzonte senza prospettive.

Vermin 2

Presentato in occasione dell' 80ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia a chiusura della "Settimana Internazionale della Critica”, Vermin è un film coraggioso e intenso sulle nostre paure più profonde e le nostre fobie più radicate,  diretto con estro, lucidità e consapevolezza da Vaniček. Un giovane autore che, guardando al cinema  di Jordan Peele,  non solo riesce a offrire allo spettatore un'esperienza totalmente immersiva, ma attraverso il genere horror/scifi invita anche a riflettere sulla profondità e la gravità delle fratture sociali e culturali all’interno della società francese nella quale è cresciuto e con la quale si è dovuto confrontare. Il risultato che trapela dalle immagini sullo schermo è quello di una realtà desolante, a tratti quasi distopica, soprattutto dopo gli attentanti a Charlie Hebdo, in cui la crisi economica e un circuito politico-mediatico sensibile solo ai fatti di cronaca più eclatanti e spaventosi contribuisce all’ignoranza generalizzata sulle vere condizioni di vita delle periferie: "zone d'ombra" dove ancora oggi per le nuove generazioni "spaccare tutto" resta l'unico modo - il più tangibile - per farsi sentire. 

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Sébastien Vaniček Finnegan Oldfield Sofia Lesaffre Jérôme Niel Théo Christine Lisa Nyarko 103 minuti
Francia 2023
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Le Vourdalak

di Giacomo Calzoni
Le Vourdalak

All’origine c’è il racconto La Famille du Vourdalak di Aleksej Konstantinovič Tolstoj, già trasposto al cinema - curiosamente, sempre da italiani - nel 1963 da Mario Bava con I Wurdalak (episodio di I tre volti della paura, quello con Boris Karloff) e nel 1972 da Giorgio Ferroni con La notte dei diavoli, che l’esordiente Adrien Beau riadatta con minime ma significative variazioni.
Sperduto in un punto imprecisato dei Balcani dopo essere stato assalito da un gruppo di banditi, un emissario del Re di Francia trova riparo e ospitalità presso una bizzarra famiglia di contadini guidata da un vecchio patriarca che, di ritorno da una battaglia contro i Turchi per difendere i confini della propria regione, nel frattempo si è trasformato in un vourdalak, ovvero il vampiro della tradizione est europea. Se Bava aveva affrontato l’esilità della traccia narrativa optando per la formula del cortometraggio e Ferroni per quella del riadattamento in chiave moderna (la Jugoslavia degli anni Settanta), al contrario Beau diluisce volontariamente lo scandire degli eventi lavorando sugli opposti: da un lato la ricercatezza formale e l’artigianalità della scelta di un cinemascope in 16mm, con la creatura del titolo che si rivela un pupazzo animato da una mano al suo interno, dall’altro un aggiornamento in chiave contemporanea delle tematiche del racconto, con l’inserimento di un personaggio queer e di una figura femminile in cerca di emancipazione da un futuro già scritto.

A fare le spese di queste scelte però non è soltanto il ritmo – altalenante e persino lievemente soporifero, ma anche il senso stesso dell’operazione nel suo insieme: freddo e calcolato nella sua rigida struttura a tesi (il vecchio capofamiglia come il “nemico” conservatore da superare e sconfiggere), Le Vourdalak finisce per aggiungere poco o nulla al tema della lotta contro il patriarcato, che qui sembra inserito un tanto al chilo più per strizzare l’occhio al contemporaneo che non per una reale urgenza dialettica.
Più interessante, piuttosto, è l’altro film: quello nascosto nel fuoricampo, nelle parole (scritte o pronunciate), nella fusione azzardata tra passato e presente, e che purtroppo sembra emergere soltanto a tratti, come se Beau avesse avuto il timore di spingere le sue immagini troppo in avanti. Lo avvertiamo nel tentativo di riscrittura del classico, da sempre e per sempre un patrimonio immortale di pensieri e idee in grado di parlare di qualsiasi epoca (quindi anche la nostra), dove personaggi troppo grandi per il loro tempo non possono che essere proiettati lontano, fuori. Fuori dall’immagine, fuori dallo schermo, come nel caso della (lunga) didascalia finale che anticipa allo spettatore il destino di uno dei personaggi principali e dove si parte da Tolstoj per arrivare a Stoker (la “minaccia” che dai confini orientali raggiunge il cuore dell’Europa) e a Le Fanu (Carmilla, il vampiro donna - e lesbica - per antonomasia).

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Adrien Beau Kacey Mottet Klein 90 minuti
Francia 2023
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Gasoline Rainbow

di Matteo Berardini
gasoline rainbow

“Non c’è niente di male a celebrare una vita semplice”. Il senso ultimo del nuovo film dei fratelli Ross (Bill Ross IV e Turner Ross) lo regala Gary, metallaro di Portland amante di vela e di Tolkien, mentre cita Il Signore degli Anelli, seleziona The Shire di Howard Shore da Amazon Music e prepara per i suoi viandanti una colazione a base di frutta e caffè. Suoi ospiti sono Tony, Micah, Nichole, Nathaly e Makai, cinque adolescenti dell’Oregon che dalla provincia profonda del Midwest si sono imbarcati per un viaggio on the road alle volte del Pacifico, a cinquecento miglia di distanza. L’occasione è la fine del liceo, e la volontà di raggiungere come meta ultima La Festa alla Fine del Mondo. Il resto è da vedersi, l’importante è mettersi in viaggio e celebrare assieme la propria amicizia e giovinezza, gli anni magnifici in cui tutto si schiude davanti come una prateria luminosa attraversata dal vento. Not all those who wander are lost, a proposito di Tolkien.

Gasoline Rainbow è un film di cose semplici, ma certo non un film semplice. Anzitutto per l’abilità gentile con cui mescola senza soluzione di continuità documentario e finzione, improvvisazione e scrittura. I fratelli Ross sono una presenza costante eppure invisibile all’interno del gruppo, tracciano le coordinate delle varie situazioni e poi creano l’illusione di svanire a latere, come se la vita facesse semplicemente il suo corso nell’eccezionalità di coincidenze e incontri e scoperte generatesi lungo la strada. I ragazzi attraversano così feste, ritrovi di outsiders, rifugi metal dal sapore fantasy, feste ai confini della notte, sempre assieme e sempre sorridenti, sorpresi, occhi spalancati, pronti ad affrontare ogni imprevisto al riparo della loro amicizia. Loro compagni di avventura sono soprattutto personaggi al margine della società, eccentrici o semplicemente viandanti, volti e corpi che appartengono alla strada, ai rifugi di periferia, agli angoli meno visibili e raccontati. La mitologia del road movie si mescola al canto di outcast dal cuore d’oro, un viaggio attraverso Oz rinarrato nelle forme dell’elegia adolescenziale, dell’epica umanista, dell’illusione cinematografica per cui almeno qui, nei confinamenti di quest’avventura dal sapore favolistico e magico, tutto possa andare bene, tutto possa funzionare, la linea d’ombra sempre un passo più lontano, in tempo ancora per scoprire, amare e farsi amare.

Con le sue immagini ruvide, granulose e calde, nel pedinamento vansantiano di skaters e punk, tra ritrovi in mezzo al deserto e dichiarazioni d’affetto a cuore aperto, Gasoline Rainbow trasporta i suoi personaggi per van, piedi, treni e barche, alla continua sfida dell’orizzonte. Il perfetto feel good movie di questa generazione, ritratto agrodolce, tenero e sincero cristallizzato su una sola, magnifica sensazione: la vertigine della vetta, il momento in cui l’adolescenza volge al termine, la vita si dispiega e ogni cosa è possibile. Felicità e terrore mescolati, stringersi al petto le persone che amiamo per prendere fiato, prima di saltare.

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Bill Ross, Turner Ross Tony Abuerto Micah Bunch Nichole Dukes Nathaly Garcia Makai Garza 110 minuti
USA 2023
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Day of the Fight

di Matteo Berardini
day fight huston venezia

Corpi sfatti, mitologie appannate, storie di peccato e redenzione, farsi strada verso il perdono attraverso un calvario di concentrazione e potenza muscolare, sangue sui guantoni e pelle lacerata. Nasi rotti. Zigomi slabbrati. Da sempre il pugilato è un terreno fertile per l’epica e la favola, soprattutto per quanto riguarda la cultura americana, che negli antieroi della boxe ha spesso trovato le coordinate ideali allo sviluppo del suo culto individualista, fede nel singolo e nelle sue capacità di dare senso, direzione e scopo all’esistenza. Specie quando attorno a un incontro specifico si addensa il peso delle scelte di una vita. Day of the Fight è un nuovo, degno interprete di questa tradizione; il film d’esordio di Jack Huston, nipote dell’omonimo regista e interprete di peso in Boardwalk Empire, fa infatti dell’aderenza al canone il suo punto di maggior forza, o meglio della capacità che ha di resuscitare fedelmente il classico e tenerlo in piedi, fino alla fine dell’incontro, con rinverdita energia e sfacciato sentimento, cuore aperto e piena adesione empatica all’animo dei propri personaggi. Un cinema che nasce anzitutto dalla fiducia nel potere mitopoietico della tradizione, e dall’amore, tangibile in ogni fotogramma, per quel micro-universo raccontato e gli uomini che lo abitano.

La storia prende spunto dall’omonimo corto documentaristico di Stanley Kubrick: Day of the Fight è infatti il racconto del giorno in cui Mikey Flanagan, irlandese ex campione dei pesi medi, va incontro al match della sua vita. In ballo c’è una scommessa che vale un mucchio di soldi, un aneurisma nella testa sul punto di esplodere e un passato da cui è impossibile smarcarsi: Mikey è da poco uscito di prigione, su di lui il peso di un incidente mortale in cui, ubriaco alla guida, ha ucciso un bambino. Nove anni di carcere non hanno alleviato il carico della colpa, l’uomo continua a vivere in prigione anche fuori dalle sbarre, preda di un purgatorio di grigia rassegnazione e rimpianto. Unica via d’uscita scommettere tutto e portare a casa il risultato, mettere in gioco quel che resta di sé come uomo sperando di poter compiere un ultimo gesto che sia importante non soltanto per lui ma per la propria famiglia, moglie e figlia allontanate da tempo dopo anni di piena spirale autodistruttiva. Tutto questo Huston, che scrive e dirige, lo racconta seminando indizi e giocando di montaggio, soprattutto attraverso splendidi flash mentali che allineano lo scorrere del visivo ai processi mnemonici, immagini dietro i nostri occhi di ciò che abbiamo perduto e sempre amato. Il risultato è un mosaico mnestico di ossessioni e ricordi, fotografie di una vita che si intersecano agli incontri di Mickey in quell’ultimo giorno, organizzato come un percorso a stazioni nel corso del quale rincontrare e salutare volti cari e lapidi di chi non c’è più. Elegia umanista in un bianco e nero ruvido e granuloso, attraverso il quale Huston riesce nell’impresa – nient’affatto facile, specie per un esordiente – di unire sguardo documentaristico e sentimento, ricostruzione realistica di ambienti, superfici e situazioni al romanticismo dolente del mito infranto.

Solido come il miglior cinema di genere sa essere, Day of the Fight è un regalo e una sorpresa, un film che sa lavorare sugli spazi e sui corpi, incorniciati da una Brooklyn di fine anni ottanta che si fa cornice attiva e crogiolo di storie, e soprattutto sui volti invecchiati di attori che portano sulle spalle il peso dell’epica, pronta a sanguinare ancora se solo incontra un regista in grado di vederla e metterla in scena. Ecco quindi susseguirsi Steve Buscemi, Ron Perlman e soprattutto Joe Pesci, schegge fantasmiche di un cinema passato cui un redivivo, splendido Michael C. Pitt dona l’immediatezza del suo corpo e sangue, il peso cristologico del pentimento. Dove si perde, Huston, è solo nel carico del sentimento, nella gestione di un comparto simile di tradizione ed emozioni a viso aperto. Costruito come una lunga suite musicale, una ballata urbana alla Springsteen fatta di rimpianto e dolore, Day of the Fight non tiene sempre tutto sotto controllo, a volte eccede e carica dove invece bastava far girare e respirare quel che si è già messo sul tavolo. Sono eccessi di cuore, dignitosissimi per un esordiente alle prese con un film così romantico e a lungo atteso. Dovesse trovare modo di asciugare, limare, affidarsi maggiormente ai singoli elementi, selezionati, piuttosto che al loro accumulo, Jack Huston ha tutte le carte per diventare un regista di peso da ritrovare con gioia nei prossimi anni.

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Jack Huston Michael C. Pitt Ron Perlman Steve Buscemi Joe Pesci Nicolette Robinson John Magaro 108 minuti
USA 2023
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Hoard

di Andreina Di Sanzo
Hoard-recensione

Hoard, accumulare. Il titolo fa subito riferimento a ciò che vediamo nelle prime scene del film d’esordio di Luna Carmoon: una madre e una figlia che vivono in una casa sommersa di cose. Il loro è un piccolo mondo fuori dal comune, ogni giorno è Natale, ci si addormenta nella vasca da bagno e i giochi tra madre e figlia sono tra il magico e l’inquietante. Maria è una bambina che deve però affrontare una realtà diversa da quella delle mura domestiche e spesso si scontra con un mondo esterno che non la comprende e che la emargina.
Passa il tempo, siamo negli anni 90 e ora ha 18 anni, vive con una madre adottiva ma porta sempre addosso quell’odore di tanti anni fa. Il dolore di quel trauma che la vita, come gli oggetti, non hanno mai nascosto del tutto.
Il primo lungometraggio della regista britannica è un’educazione sentimentale tra il weird e il fantastico. Presentato alla Settimana Internazionale della Critica, Hoard è un colpo al cuore che impressiona e incanta.

Quando Michael (Joseph Quinn, Eddie nella quarta stagione Stranger Things) torna nella casa dove ora vive anche Maria, tra i due ragazzi si instaura un rapporto oscuro e singolare. I traumi della protagonista riesplodono in un attaccamento ossessivo e inquietante, un gioco al massacro emotivo eppure tenero, che condurrà la ragazza a fare i conti con il proprio dolore. Se quella puzza che gli altri sentono su di lei, è percepita dalla stessa Maria come il suo odore naturale, quale sarà la prospettiva emotiva verso l’esterno così lontano da lei?
Tutti i personaggi del film sono, a detta della regista, ispirati dalla sua biografia. Laura Carmoon combina un cinema stretto allo sguardo diretto della realtà (Ken Loach è certamente tra i suoi ispiratori) e sequenze visionarie, in cui le cromature forti e l’estetica psichedelica ricordano le allucinazioni di Ken Russell.

Interessante soprattutto come il racconto su Maria non si chiuda con una risoluzione ben definita, Carmoon lascia aperta la strada della sua eroina - effettivamente una ragazza in divenire - concedendo più all’ambiguità che alla piena risoluzione del trauma. Hoard è un film che guarda alle storture della vita con un occhio delicato ma non compassionevole, l’espressività visiva dà forza a quel dolore personale che può diventare un canale di rigenerazione.

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Luna Carmoon Saura Lightfoot Leon Joseph Quinn Hayley Squires 126 minuti
Gran Bretagna, 2023
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Povere creature!

di Leonardo Strano
recensione povere creature lanthimos

Di solito davanti alle posture d’autore la critica risponde con altrettante posture interpretative. Il cinema di Yorgos Lanthimos, per esempio, è stato etichettato come cinico quasi subito: freddo e formalista, ossessivo e soffocante tanto quanto lucido e perspicace nella messa in abisso del contemporaneo. Questa approssimazione teorica ha fatto poco bene alla comprensione dell’autore. Che a differenza dei veri cinici, teorici (Haneke) o performativi (von Trier), ha sempre tenuto nascosto dietro al pessimismo antropologico di facciata un inguaribile e romantico (se non reazionario) sentimento antimoderno, molto poco indifferente e quindi molto poco cinico. Lo si capiva da Il sacrificio del cervo sacro, dove il suo cinema rinveniva la tragedia dello sguardo contemporaneo nel legame di figliazione tra la cecità del pensiero scientifico (sempre più incapace di vedere il mondo oltre la propria ideologia) e quella del pensiero magico antiscientista (altro sguardo paradigmatico del nuovo millennio). E lo si capisce ancora di più in Povere creature! (Poor Things), sorta di prologo storico-teorico del suo cinema, in cui tutti gli elementi di poetica tornano e si compattano con un ordine e una lucidità mai così precisa (mai così aperta al grande pubblico, dopo l’esperienza di commissione de La favorita) per rivelare a gran voce (secondo un desiderio di riconoscimento globale probabilmente) la propria protensione all’ottimismo. 

In linea con principi aziendali precisi – che appaiono chiari quando ci si ricorda che dietro al logo Searchlight Pictures in apertura ci sta ormai la Disney, garante di commerciabilità estensiva sulla piattaforma nominale –, il film si costruisce su un'esposizione poetica sintetica e retrospettiva, chiara e coerente con la leggibilità trasversale delle logiche industriali (come accade sempre di più anche con il biografare autoriale di Netflix), ma soprattutto avvicina la sua protagonista ai caratteri delle principesse disneyane contemporanee, interessate alla scoperta di sè, alla propria autodeterminazione sociale e all'evasione dalle rigide costrizioni del proprio mondo, o meglio del mondo istituito dai propri creatori e padroni. Bella Baxter (un’Emma Stone mai così compresa nella propria costitutiva eccentricità corporale) in questo senso incrocia il dramma del classico principesco isolamento con le vicende dei giovani protagonisti di Dogtooth, cresciuti nel perimetro wittgensteiniano di un mondo determinato dal linguaggio: anche lei è reclusa nella casa del dottor God (abbreviazione di Godwin, coerente con le smanie divine), nei circuiti chiusi del suo esperimento a variabili controllate, in un’unica legge di sviluppo cognitivo - quella che riconosce nel corpo una macchina puramente organica senza alcuna traccia di spiritualità.

lanthimos venezia

Come evade Bella da questa ormai famigliare scatola ideologica scientista? L’evasione non consiste un una rottura del linguaggio - non sarebbe mai possibile nella prospettiva di Lanthimos (mai cosí identificabile, tra l’altro, come nel personaggio dello scienziato creatore), per cui tutta la realtà è sempre frutto di una combinatoria linguistica - ma piuttosto nella sua soggettivazione, nell'appropriazione delle sue regole ferree. Ecco allora che se il corpo è pura meccanica senza spirito, Bella scopre come farlo funzionare proprio come una macchina che produce piacere secondo la sua volontà. La scoperta è di genere sessuale, e anche l’emancipazione che ne segue: Bella passa da spasimanti tossici (che si scoprono presto dipendenti dalla trascinante autonomia del personaggio) ad altre criptiche figure di controllo (una matrona che la sfrutta tanto quando il dottor God), e piano piano interpreta l’appropriazione libertina del proprio corpo come il modo più scientifico per detenere i mezzi di produzione. L’ottimismo però, sotto l’evidenza esaltante del punto politico - la libertà sessuale apre le porte a una possibilità di socialismo –, nasconde la problematicità del movente – il sentimento antimoderno. 

Perché Lanthimos applica la propria lente anamorfica all’epoca vittoriana – ventre molle dello scientismo contemporaneo, oltre che del capitalismo del nuovo millennio – e fa nascere da lì, ideale punto d’inizio storico-teorico del suo cinema, l’alternativa politica dettata da uno straniante e straniato corpo femminile (che fa partire una rivoluzione proprio negando i principi della moralità vittoriana, masturbandosi a pranzo). Ma attraverso precise e urlate scelte estetiche – come la contaminazione delle forme razionalistiche con quelle neogotiche (l’estetica romantica, premoderna e antirazionalista per eccellenza, polarmente distante dalla ragione promulgata dalla regina Vittoria) - rivela la debolezza del proprio arabesco concettuale, molto più vicino alla dimensione dell’ucronia fantastorica che a quella dell’utopia sociale e quindi all’attestazione di un’impossibilità storica più che di una possibilità rivoluzionaria. Come a dire che la presa di coscienza del soggetto è qualcosa in cui si può sperare con il sorriso a fior di labbra, ma che rimane fuori dalla Storia. Proprio come in un film Disney.

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Yorgos Lanthimos Emma Stone William Defoe Mark Ruffalo Ramy Youssef Margaret Qualley 141 minuti
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Ferrari

di Matteo Berardini
Ferrari rece film mann venezia

“He died in a metal I made for him”. Mosso da un opaco senso di responsabilità, è con queste parole che Enzo Ferrari rivendica il proprio ruolo nella morte di uno dei suoi piloti. L’ossessione e la pressione psicologica si propagano da lui a dipendenti e collaboratori, nella velocità crescente si accumulano punti ciechi, le lamiere sono costantemente prossime a piegarsi, la carne a infrangersi. Non fosse un film costituzionalmente funereo, Ferrari, gronderebbe sesso. Sperma e umori il controcampo di ogni frenata, frizione, accelerazione. Crash. Manca invece l’impulso vitale, la contropartita, Ferrari è storia di vedove, bastardi, genitori mutilati senza più figli, ciascuno ha perso un qualche amore, e la vita si riduce a una condizione di morte in respirazione residua, stato in luogo di una convivenza con la fine che opera secondo regole di un gioco in cui vince chi sfiora la morte più da vicino. Non a caso Ferrari si apre e chiude con una visita al cimitero: l’Enzo Ferrari incarnato da Adam Driver è un carnefice che finge di essere martire, saturno divorante i propri figli lo chiamano i giornali, becchino che sigilla in tombe di metallo i suoi piloti uno dopo l’altro, interscambiabili. Il ritratto del grande fondatore non è proprio edificante. Ma Ferrari è anche un uomo tormentato da fantasmi, visitato da ricordi, volti, voci senza corpo, sogni abitati da morti in risposta ai quali predica all’altare della perfetta fede ingegneristica dell’acciaio e dei motori, l’oliata meccanica dell’ingranaggio, l’ottimizzazione millimetrica dei flussi di carburante, la massima resa tecnica che sempre, come in natura, corrisponde dice all’assoluta bellezza estetica.

Resterà spiazzato chi si aspettava da questo biopic lungamento rincorso (le prime versioni della sceneggiatura risalgono agli anni 90) un film adrenalinico e aggressivo, quel cinema muscolare che Michael Mann ha contribuito a forgiare e di cui ci ha regalato gli esempi più complessi e magnifici. Ugualmente deluso rischia di rimanere chi cerca in Ferrari una prosecuzione del discorso portato avanti da Blackhat, quella riflessione sulla relazione acida tra immagine digitale, corpi e informazione, rete globale e individualità, che di fatto il film precedente portava al punto di saturazione, risolvendola in una nuova forma di sintesi tra sistemi sintetici e carnali sussunta dalla sparizione finale, la fuga tra le maglie del codice, chiudente quella storia e quel percorso teorico lungo buona parte di carriera. Il Mann di Ferrari, insomma, non è quello del digitale avanguardistico e sperimentale inseminato in Insider e fiorito tra Collateral, Miami Vice, Nemico pubblico e Blackhat. Quella sequenza – impressionante e imprescindibile da ogni punto di vista – dialoga con Ferrari nella marche stilistiche, certo, nel bisogno umanista di divergere, di scartare dal cuore apparente della scena verso un dettaglio, un respiro sulla pelle o il vento sulle foglie, sapendo che è lì, nei luoghi in cui lo sguardo sa fermarsi quell’attimo in più dell’apparente necessario, che vive il cuore delle cose. Altrettanto coerente è l’uso dei primi e primissimi piani, quella costruzione manniana dell’inquadratura per cui il personaggio viene quasi aggredito dall’immagine, stretto al confine, schiacciato in una resa dei conti quasi mai espressa verbalmente perché risolta anzitutto sul piano della forma. Basta un ralenti, o lo stringersi della macchina da presa sugli occhi in evidenza, o il lieve dilungarsi gentilmente a latere, per portare alla luce la drammaturgia interna al personaggio, quel magma che si agita sotto la blindatura di cromo e acciaio. Ma l’insieme di queste coordinate opera secondo un’impostazione che si rivela inaspettatamente classica, solidamente narrativa, priva delle decostruzioni più ardite viste e amate negli ultimi film. Ferrari è piuttosto un'opera in cui Mann torna a rinegoziare le possibilità mitopoietiche della propria estetica, riaprendo uno studio della relazione tra personaggi e mondo per come, sotto molti aspetti, era rimasta sul tavolo di Heat. Non a caso, assieme a quel capolavoro fiume e film-mondo, Ferrari è il film dalla presenza femminile più intensa e importante, l’opera che forse più di tutte si sforza di creare un duopolio che sia anche di genere oltre che di vedute e morale. Scisso rigidamente in due, con una blindatura che rispecchia l'anima del personaggio, il film si divide nettamente in interni ed esterni, sospensione e aggressività visiva, femminile e maschile, in un costante intersecarsi dei piani che solo nell'ultima parte, quella dedicata alla corsa delle Mille Miglia, deflagra e lascia spazio alle soluzioni manniane più muscolari e tecnicamente elaborate. Sospinto dal tipico determinismo pragmatico che anima questo cinema, il personaggio di Driver assorbe in sé gli estremi delle dicotomie passate, in lui convive il controllo e il bisogno di fuga, Hanna e McCauley, il rimpianto e la necessità di restare e costruire, il doppio è il suo passato imprigionato dentro il muro che lui stesso ha costruito, prigione del sé atta a sopravvivere quando la morte ti è addosso ogni giorno e il pensiero va solo al metallo ciclicamente in costruzione, corsa, distruzione. Nuova carne senza particolare gloria, orgoglio soprattutto, e angoscia mal sopita.

Due sequenze (il montaggio incrociato in chiesa dell’inizio, e la sequenza operistica intessuta di flashback) mettono con chiarezza le carte sul tavolo: Enzo Ferrari nasce sul solco di Michael Corleone, e di quell’italianità, di quei gesti e lutti e necessità di tenere ogni cosa dentro, esponendo alla luce del giorno la sola maschera impassibile dell’indifferenza, è replica ed estensione. Dentro Ferrari c’è molto Coppola e molto dell’Italia cinematografica vista da fuori, attraverso i cifrari offerti dalla mitologia mafiosa e dalla femminilità casalinga, Penelope Cruz sempre come Anna Magnani, melodramma da interni e violenza domestica che ribolle tra frustrazione e rapide esplosioni di violenza. Come Michael, Ferrari vive secondo un codice in cui non si tollera che innocenti ed estranei vengano coinvolti nella cifra mortifera del gioco, quei bambini e famiglie dell’incidente mortale di Guidizzolo sono vittime innocenti che non si possono accettare. L’altro lato di questo sistema morale è però la distanza che isola da tutto e tutti, le scelte drammatiche che alienano nel lutto; la perdita ne fa una figura costantemente fuori di sesto, disallineata, e comunque dotata di una forza gravitazione che attira a sé portando fuori fuoco chiunque gli si avvicini. La moglie Laura è tra tutte le figure quella più straziante, l’unica che cerca di opporre una propria autonomia drammatica in quanto colei che vive a pelle tutte le emozioni che il marito si opera sistematicamente a congelare. Rea di aver perso un figlio senza porre rimedio, è la socia malvoluta negli affari e nella vita. Tolta lei, e gli occasionali interventi della madre, Ferrari è un sistema di autonomia solitaria, come visto a poca distanza anche in Oppenheimer. Curiosamente vicini tra loro, i due film lavorano su figure geniali della tecnica isolate dal consorzio umano, entrambi impegnati a conservare una distanza muraria operante tanto come rifugio che come prigione. In entrambi i casi il giudizio è sospeso, la morte fiorisce da un prodigio tecnico senza castigo immediato, le azioni passano alla storia sulla pelle degli altri, che siano metallo o radiazioni il viatico di ciascuna ambizione.

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Michael Mann Adam Driver Penélope Cruz Shailene Woodley Sarah Gadon Jack O'Connell Patrick Dempsey 130 minuti
USA 2023
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El Conde

di Leonardo Strano
El Conde - recensione film larraìn

“Non troverà nulla dentro di me, sono un guscio vuoto”. Lo sussurra nelle sue sotterranee Augusto Pinochet, dittatore cileno, ma più precisamente vampiro secolare, falsamente deceduto per scomparire dalla circolazione e non pagare i propri crimini. Sta parlando con il suo lacchè, servitore, maggiordomo e sodale collega vampiro, rassicurandolo su alcune preoccupazioni: una giovane donna è giunta alla magione desertica del generale, dicendo di essere una contabile assoldata dai figli per sistemare l’eredità del loro caro papà; in realtà è una suora mandata dalla chiesa cristiana per esorcizzare il demone vampiresco. In città, infatti, qualcuno con un lungo mantello è stato visto volare nella notte aguzzando i canini e si contano le vittime dissanguate a cui è stato strappato di netto il cuore. I famigliari del Conte (è così che si faceva chiamare il generalissimo) non se lo spiegano, perché da tempo sentono dirgli che vuole morire, che il momento delle bevute di sangue rigenerante è finito ed è ora di assopirsi mangiando verdura cotta, salutando la lunga e gloriosa vita assieme agli immobili, ai terreni e ai contratti segreti da regalare alla propria prole. Che il Conte stia preparando una sorpresa? O l’arrivo della seducente suora munita di paletto e martello ha risvegliato in lui il desiderio di vivere? 

Sono domande da satira grottesca, e infatti El Conde lo è appieno: esperimento per la tv (come The Irishman,ecco una formattazione molto poco cinematografica, con tutta la complessità del secolo breve schiacciata in una camera del dramma), annotato a piè pagina di altri progetti (la trilogia biografica sul femminino chiuso dalle strutture dell’istituzioni, che si chiuderà avvicinando Maria Callas a Jackie Kennedy e Diana Spencer), alla maniera di un divertissement in linea con la tensione critofilmica del proprio cinema più frontalmente politico. Che pur essendo già arrivato a un’ideale chiusura - El Club esponenziava il pessimismo politico in un pessimismo esistenziale ragionando sulla permanenza del male – continua a cercare nuove vie formali per mettere in scena le dinamiche espressive del potere, o meglio, dei poteri - un po’ in rima con il Fairytale di Sokurov, altra satira a sigillo di un ventennale progetto politico. Ecco quindi, dopo le forme del cripto remake di Shining in Spencer (per mostrare l’inadeguatezza di un corpo all’interno di una struttura alienante), una commedia nera che non vuole scavare dentro l’opacità comportamentale di Pinochet (sta tramando qualcosa? ha un piano segreto?) ma piuttosto, con ammirevole convinzione isomorfista, lasciarsi informare da essa. Strutturandosi come una girandola di eventi sconnessi e incomprensibili, tenuti insieme solo da un ritmo indiavolato e da una labile superficie di genere, annullando ogni disanima psicologica e spingendo la propria drammaturgia a procedere a vuoto per circonvoluzioni barocche, lontane dallo scavo di qualsivoglia “ragione di fondo” degli eventi. Non per una mancata lucidità saggistica, ma piuttosto per rimarcare l’assenza, sotto la stessa robusta opacità (accuratamente inspessita dal bianco e nero di Edward Lachman), di una vera ed effettiva “ragione di fondo” nelle azioni del generale. 

E cioè per esporre, con lucidità sociopolitica inusitata per l’audiovisivo, la natura strettamente strumentale che il dittatore cileno ebbe storicamente sotto il neoliberismo. È invero quest’ultima entità, e non Pinochet, a detenere un potere malignamente metafisico, ostinato a non farsi vedere, a rimanere letteralmente oltre la fisica, (magari nei panni di una femminile voce narrante che controlla gli eventi e li guida a insaputa di tutti) e a muovere allo stesso tempo i fili delle proprie marionette audacemente inconsapevoli. Come invece il dittatore, che si pensa “guscio vuoto” e cioè male puro irredimibile ed eterno (nella sua ingenua visione “senza anima”, e quindi impossibile da esorcizzare) e invece è semplicemente un “guscio vuoto” proprio nel senso più strumentale possibile: pura immagine superficiale, ad uso di altri. A differenza di un Albert Serra, che in Història de la meva mort pensava di eternare Casanova per rivelarne l’importanza seminale nella cultura, il regista cileno rilegge così il generale come un vampiro per mostrarne la natura di simulacro, copia di una copia di una copia,  senza profondità, manipolabile, intercambiabile e quindi sempre ritornante – infatti nel film il vampiresco non solo si trasmette endemicamente ma si interpreta a turni, anche vestendo il sacro mantello del Conte: qualcosa di molto diverso quindi da un despota in grado di architettare e controllare un vero e determinante potere, e qualcosa di molto vicino a una sbiadita ma testarda proiezione. Pablo Larraín ancora una volta, ma in maniera del tutto nuova (e altamente fraintendibile), chiarisce che il vero potere agisce diversamente dalla sua immagine, sta all’origine, scrive il copione e lo riscrive a piacimento, “fa le cose” invece di “dirle”, le produce, non riflette ma opera, non contratta condizioni di eredità ma semplicemente genera, figlia. Come si vede nell’ultima scena: una straordinaria partenogenesi che retroillumina il film come un corpo gravido di tensioni nascoste e colori sotterranei, istanziandolo oltre ogni categorizzazione algoritmica con cui presto Netflix lo indirizzerà per il gradimento dei suoi utenti. 

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Pablo Larraín Jaime Vadell Alfredo Castro Gloria Münchmeyer Paula Luchsinger 110 minuti
USA 2023
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La bella estate

di Veronica Vituzzi
la bella estate - recensione film luchetti

Nella Torino prebellica alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, la giovane Ginia, riunitasi con gli amici in riva al fiume, incrocia lo sguardo della bellissima Amelia mentre questa emerge dall’acqua come una ninfa moderna. Ginia, trasferitasi dalla campagna in città assieme al fratello Severino, con il comune progetto di migliorare la propria vita, è impiegata come sarta in un atelier di moda; Amelia fa invece un lavoro oscuro e scandaloso per l’epoca, si spoglia cioè di fronte agli uomini per essere da loro ritratta. L’incontro con la modella è per la protagonista un evento ricco di turbamento e fascinazione che dà voce a desideri e impulsi fino ad allora trattenuti nel fondo di sé.  

Tratto dall’omonimo romanzo breve di Cesare Pavese, La bella estate parte dal canovaccio iniziale per attuare uno spostamento dello sguardo agito sia sulla trama originaria che sui principali personaggi. Lo scrittore piemontese difatti delineava nel suo testo una storia di crescita, amicizia femminile e disillusione sentimentale tutto sommato piuttosto classica. La regista Laura Luchetti decide invece di sviluppare l’attrazione istintiva fra le due ragazze evolvendola in un nuovo racconto. Se la sarta ha il compito di vestire il corpo femminile, la modella al contrario lo sveste: aderendo al paradigma tradizionale dell’epoca che vede la donna oggetto passivo del desiderio, Ginia insegue Amelia nel suo mondo un po’ fuori le righe alla ricerca di quello sguardo amoroso, convenzionalmente maschile, da cui acquisire un riconoscimento che dia senso alla sua identità di persona. L’idea, nemmeno troppo celata, è quella di giungere lei stessa all’atto di spogliarsi – come donna desiderata, come modella ritratta – e in quel supino soggiacere agli occhi e alle mani altrui, scoprire finalmente sé stessa.

luchetti

È un percorso di ricerca che si fa però tortuoso e smarrito, perché l’assai ambito sguardo maschile si poggia sulla sua persona in modo tanto violento quanto superficiale, e dura non più dello spazio di tempo preteso dall’amore fisico. Il fratello Severino invece, cui spesso Ginia rivolge occhi scrutatori nell’intento di penetrarne l’inquietudine che lo allontana dai libri di studio, sfugge a sua volta all’indagine della sorella. In generale tutti gli uomini nel film sono imperscrutabili, sia nei loro silenzi che nelle risate sornione accompagnate da battute ambigue e dita leste e invadenti Sullo sfondo Amelia, apparente stereotipato modello di femminilità bello e sregolato, si ribella però al ruolo piatto e statico che società e cultura le attribuiscono, e si fa soggetto mobile che vede e tocca a sua volta: sono difatti i suoi occhi e le sue mani a riconoscere veramente Ginia, ed è nella sua carne perfetta che si nasconde la malattia che rivela l’indifferenza degli uomini e l’affetto sincero dell’amica. Non a caso è proprio Deva Cassel, figlia per eccellenza dello star system, a recitare questo parte facilmente fraintendibile per la sua fiducia nella propria straordinaria bellezza. I pregiudizi che pesano su Amelia sono i medesimi che gravano sulla sua interprete, che al contrario riesce a far intuire uno spessore maggiore di quanto i modi civettuoli del suo personaggio farebbero pensare.  

Mentre al limitare dell’inquadratura e della storia, come un qualcosa che si coglie solo con la coda dell’occhio, si muove silenzioso il fascismo, La bella estate risolve il conflitto interiore della sua protagonista, smarritasi nella propria ricerca interiore, offrendo un salvifico riposizionamento di soggetto e oggetto che suggerisce nuove modalità di sguardo e di esposizione di sé. Nell’incontro fra le due amiche, in un silente patto amoroso, si concretizza una conquista della propria identità che trascende finalmente i soliti schemi sentimentali. Al suo terzo lungometraggio l'approccio stilistico di Laura Luchetti si attesta oramai come una firma riconoscibile nella sua pacata gentilezza: gli occhi ingenui e lucenti della sua protagonista (Yile Vianello) bastano ad esprimere una visione di cinema altrettanto delicata e luminosa, come un’ultima fulgida estate di colori prima del buio della guerra. 

Categoria
Laura Luchetti Yile Yara Vianello Deva Cassel Nicolas Maupas Alessandro Piavani Adrien Dewitte Anna Bellato 111 minuti
Italia 2023
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