Attraverso lo Specchio: Perfect Blue

di Jacopo Bonanni
Copertina

«Non mi pareva che essere io, proprio io, io vero, io in persona, fosse la stessa cosa che essere la mia immagine»
La scacchiera davanti lo specchio, Massimo Bontempelli (1922)

Lo psicologo e filosofo sovietico Alexander Spirkin sostiene nei suoi libri che l’essere umano tende, per sua stessa natura, ad assimilare e a interiorizzare le caratteristiche della società in cui cresce e da cui inevitabilmente viene influenzato, per imitazione o per antitesi. Ne consegue che non è possibile comprendere a fondo la produzione di un autore senza conoscere il contesto storico e socioculturale in cui essa si colloca. Il caso Satoshi Kon non fa eccezioni. Per analizzare l’impatto epocale che le sue opere hanno esercitato sull’immaginario cinematografico orientale (e non), è necessario rilevare i mutamenti in atto su scala globale. In tal senso, gli anni novanta rappresentano un decennio cruciale, a livello internazionale, per il mondo dell’animazione. Infatti, mentre nei cinema occidentali spopolano i futuri classici del cosiddetto “Rinascimento Disney”, che risolleveranno le sorti del colosso americano dell’intrattenimento dopo una fase di stallo, nel paese del Sol Levante una nuova generazione di autori - guidata da Mamuro Oshii (Ghost In the Shell), Hideaki Anno (Neon Genesis Evangelion) e Shin'ichirō Watanabe (Cowboy Bepop) - sancisce definitivamente la fine dell’ età dell’innocenza dell’animazione giapponese e l’ingresso in quella della maturità. Questa transizione viene siglata da una serie di opere seminali per il genere, qualitativamente eccelse, in grado di oltrepassare i confini nazionali e farsi apprezzare anche all’estero grazie alla massiccia diffusione del mercato home video.

Evangelion

Influenzati dall’esperienza dello Studio Ghibli e dagli scenari apocalittici descritti in film come Akira, gli anime, ritenuti fino quel momento produzioni ancora acerbe rispetto ai manga in termini di tematiche trattate, smettono di essere percepiti come veicoli di pura evasione per trasformarsi, sia sul grande che sul piccolo schermo, in efficaci strumenti di indagine antropologica capaci di riflettere le angosce e le frustrazioni dei più giovani, analizzando i conflitti presenti all’interno di società altamente tecnologizzate fino a mettere in discussione le politiche sociali ed economiche che hanno condotto il paese sull’orlo del collasso, tra la fine degli anni ottanta e l’inizio del nuovo millennio. Tutte le narrazioni sviluppate in quest’arco temporale risentono inevitabilmente degli influssi nefasti del “decennio perduto”: un periodo storico estremamente drammatico per la popolazione giapponese, vittima di un clima di instabilità e sfiducia generalizzate che culminerà con il tragico terremoto di Kobe e il durissimo attentato terroristico della setta religiosa Aum Shinriykō alla metropolitana di Tokyo, sconvolgendo l’opinione pubblica.

Akira

Tra gli esponenti più originali e rappresentativi di questa nuova stagione cinematografica, contraddistinta da una maggiore libertà sul piano artistico e da una rinnovata sensibilità su quello culturale, si distingue la figura di Satoshi Kon: un autore fuori dagli schemi, un “agente della paranoia” moderna a metà strada tra Lewis Caroll e Philip K. Dick, destinato a rivoluzionare con le sue visioni premonitrici il futuro dell’animazione e dell’arte in senso lato, al pari di maestri del calibro di Hayao Miyazaki e Katsuhiro Ōtomo. Non a caso, sarà proprio il creatore di Akira a proporre il nome di Kon, suo protetto e collaboratore, come regista di Perfect Blue: un progetto liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Yoshikazu Takeuchi, scrittore e giornalista impegnato nello studio della comunità otaku, ovvero gli appassionati di anime e manga. Forte della sceneggiatura di Sadayuki Murai (Knights of Sidonia), l’adattamento di Kon, più complesso e stratificato della sua controparte letteraria, sfrutta al massimo le potenzialità tecniche ed espressive del linguaggio animato che il regista già padroneggia, tramutando lo script originale, incentrato sulle vicissitudini sanguinolente di una giovane cantante idol perseguitata da uno stalker, nel viaggio allucinato di una novella Alice alla ricerca dell’innocenza perduta nei recessi più oscuri della civiltà delle immagini, dove i confini tra la vita reale e la finzione cinematografica si assottigliano, fino a perdere del tutto significato.

Perfect 2

Attraverso gli occhi di Mima Karogoe, protagonista di una storia di alienazione urbana e schizofrenia latente ambientata alle soglie dell’alfabetizzazione informatica, tra simulacri digitali, identità sdoppiate e ossessioni voyeuristiche, Kon non solo anticipa l’insorgere delle psicosi collettive che alimentano la trilogia di Matrix ma denuncia senza pietà le aberrazioni di un sistema, quello dello showbusiness, che non fa prigionieri, come testimonia il controverso universo nipponico delle idol. Parliamo di una fabbrica di lolite iper-sessualizzate, date in pasto alle fantasie morbose del pubblico maschile in cambio di fama e successo e poi inghiottite dagli ingranaggi della depressione o relegate nell’anonimato più totale al compimento della maggiore età. Un circo mediatico inarrestabile, fondato sulla mercificazione del corpo femminile che, a pensarci bene e con le dovute proporzioni, non si discosta eccessivamente dal modello proposto dall’industria dello spettacolo occidentale: la parabola della popstar Britney Spears lo può confermare. La riflessione di Kon si estende anche alla nascente cultura degli otaku: un'espressione estremamente popolare nella sua accezione positiva ma che in patria ha assunto, a fasi alterne, anche una connotazione negativa fino ad indicare delle vere e proprie devianze comportamentali, amplificate dai media, soprattutto in seguito ai ripugnanti omicidi commessi da Tsutomu Miyazaki, soprannominato l’“Otaku Killer”, un individuo profondamente disturbato, colpevole di aver rapito, violentato e ucciso quattro bambine tra i tre e i sette anni. Quest' episodio da cui il film attinge nel delineare il profilo dello stalker, ha contribuito a sottolineare quei processi ossessivo/compulsivi di auto-emarginazione casalinga e disagio esistenziale, vissuti da migliaia di adolescenti, che avrebbero sollevato il problema degli hikikomori: un fenomeno sociale estremamente diffuso negli anni a venire anche negli Stati Uniti e in Europa.

Perfect 2

Quando Perfect Blue debutta in anteprima nelle sale, durante il festival Fant’Asia’ 97 di Montreal in Canada, il film suscita immediatamente l’interesse degli addetti ai lavori, aggiudicandosi i favori della critica. È evidente che lo sconcertante esordio alla regia di Kon non è il solito lungometraggio figlio dell’anime boom ma il manifesto avant-pop di un artista colto e visionario. Si tratta infatti di una pellicola d’animazione anomala anche per gli standard giapponesi dell’epoca: un sofisticato thriller psicologico dall’architettura onirica, diviso tra realismo e astrazione, che il veterano del cinema Roger Corman non esita a definire con entusiasmo il bizzarro risultato di “un’ideale collaborazione tra Alfred Hitchcock e Walt Disney”. Come la maggioranza degli autori postmoderni, Kon non fa mistero delle ispirazioni cinematografiche di cui si nutre il suo cinema, soprattutto per quanto riguarda l’intelaiatura a spirale della sua narrazione, esplicitando le affinità elettive nei confronti di alcuni registi anticonvenzionali come Terry Gilliam, e in particolar modo verso coloro che hanno interiorizzato e fatta propria la lezione del maestro inglese della suspense come Brian De Palma e Dario Argento, con cui il regista nipponico condivide l’interesse per la rappresentazione della follia, il tema del doppelgänger e la parzialità dei punti di vista.

Perfect 3

A partire da Perfect Blue, la relazione tra la psiche e lo schermo assume un ruolo centrale nella poetica di Kon, tanto è vero che la presenza assidua dello specchio all’interno dei sui film, come riflesso simbolico dell’interiorità dei suoi personaggi, non rappresenta soltanto l’emblema dell’ordine e della simmetria ma rivela la natura metamorfica dell’individuo, contiene l’inverosimile e il paradosso, tutto ciò che nella quotidianità non è visibile e che va scoperto a qualunque costo, esponendosi a qualsiasi rischio per prendere coscienza della propria identità personale. Di conseguenza anche lo schermo del cinema, inteso come dispositivo principe dell’esperienza mediale, si fa specchio ed è compito del regista governare il flusso ininterrotto di immagini che invadono la mente del pubblico, sfidando lo sguardo ad andare oltre le apparenze, per affrontare la realtà e decodificare la complessità del mondo che ci circonda. Un compito che il cinema di Satoshi Kon, una vera e propria “macchina dei sogni”, non ha mai smesso di adempiere, nonostante la prematura scomparsa del suo creatore avvenuta nel 2010.

Kon

La sua breve ma significativa filmografia continua a essere, ancora oggi, una fucina di suggestioni e considerazioni sempre rivolte alla crescita cognitiva dello spettatore, ma anche un’occasione di analisi e di confronto per approcciarsi agli artisti che, a loro volta, sono stati influenzati dalle opere di Kon, da Christopher Nolan (Inception) a Darren Aronofsky (Requiem for a Dream, Il Cigno Nero), fino ad arrivare a David Lynch (Inland Empire). Per questa ragione, tornare a vedere al cinema un film come Perfect Blue a distanza di quasi trent’anni dal suo concepimento, nell’epoca della post-verità, dell’esclusione sociale e dell’equivocità delle esperienze multimediali, suscettibili a ogni genere di contraffazione, significa tornare a interrogarci sulla nostra contemporaneità senza rifugiarci nella celebrazione del passato ma celebrando, semmai, il talento di un autore in anticipo sul futuro, quello che stiamo vivendo.

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Satoshi Kon 81 minuti
Giappone, 1997
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Challengers

di Maria Sole Colombo
challengers recensione film guadagnino

Luca Guadagnino è nato in Sicilia nel 1971. A dispetto del numero vergato sulla carta di identità, però, è un autore fanciullo – e dunque, negli anni 20 di questo secolo, un autore della Generazione Z. Lo è diventato grazie a una trilogia un po’ sghemba – Call Me by Your Name, We Are Who We Are e Bones and All – , tre canti sentimentali e insieme politici che rivendicano fin dal titolo le urgenze identitarie care allo spirito del tempo. Della Gen Z Guadagnino intercetta il mood, i simboli e i volti (lancia Timothée Chalamet, tanto per dire) ma riesce soprattutto in un’impresa portentosa: il suo cinema è compiutamente queer nella misura in cui arriva a dar forma a ciò che, per definizione, forma non ha. È un cinema che sa rappresentare appieno la fluidità, in tutte le sue accezioni possibili: essere fluidi significa rigettare convenzioni e ansie definitorie, essere e amare chi si vuole, ma anche abbracciare uno stato liquido, sfuggente, di sfumata melanconia. Opere come We Are Who We Are nuotano in un languore che flirta con l’abbandono e sconfina in una forma laica di cupio dissolvi (non a caso, Guadagnino frequenta volentieri i paesaggi acquarellati del Nord Italia – lui che, borbonico e massimalista, potrebbe tranquillamente fare il Dolce & Gabbana del cinema italiano).

Challengers, ambientato nel mondo del tennis agonistico, si inserisce con piena coerenza nella filmografia di Guadagnino, e le pone al contempo sfide nuove e ardimentose: come si coniugano il “cinema del languore” e l’epica sportiva? Come possono, corpi abbandonati ed efebici, protendersi nel gesto atletico perfetto, atto sovrumano di volontà? E ancora: c’è spazio per i palpiti mélo cari al regista, nella drammaturgia meccanica del racconto sportivo? L’apparente contraddizione è risolta nella proposta coraggiosa di un cinema pansessuale: l’elettricità statica che percorreva i corpi acerbi di Call Me by Your Name e Bones and All, animandoli di vibrazioni incerte e latenti, accende i protagonisti di Challengers di una vitalità piena, compiuta, prepotente. Il personaggio di Tashi Duncan, incarnata da Zendaya in una prova di nervosa perfezione, è il centro gravitazionale e l’anima del film: tennista magnetica e feroce, che un maledetto infortunio trasformerà in “promessa mancata”, Tashi diviene il vertice di un triangolo amoroso e incestuoso con due fratelli-nemici, Patrick (Josh O’Connor) e Art (Mike Faist).

Zendaya è l’oggetto del desiderio irraggiungibile, la promessa di una felicità destinata a infrangersi, ma è anche Guadagnino: la regista, la demiurga, l’arbitro di gara. È la depositaria del “verbo” dell’autore, che non a caso, in una delle prime scene del film, le mette in bocca parole che sanno di manifesto programmatico: giocare a tennis – dice lei – è come fare l’amore. Quest’equivalenza informa di sé l’ossatura narrativa di Challengers e le scelte stilistiche che gli danno carne e sostanza. La trance agonistica è la trance erotica, il campo da gioco è lo spazio geografico in cui si inscrivono geometrie sentimentali complesse. Le regole del tennis irreggimentano e insieme assecondano precise leggi del desiderio, mentre il gesto tecnico perfetto, che chiude game set e match, è l’orgasmo a cui s’approda alla fine dell’amplesso.

guadagnino challengers p3

Nel finale di Challengers, frenetico e commovente, il gioco si fa scoperto. Già da qualche minuto la pallina aveva cominciato a schizzare da una parte all’altra del campo chiamando a sé la macchina da presa, lanciata all’inseguimento delle sue traiettorie ubriache. La partita decisiva che fa da cornice a tutta la vicenda culmina nella foga di un abbraccio omoerotico (doppio fedele, anche nella composizione del quadro, di una scena d’amore speculare e gemella, consumata sul letto di una camera d’hotel). Ecco, quell’abbraccio finale è un’immagine limpida, un’esplicita chiave di lettura del racconto: la vera storia d’amore è quella tra Patrick e Art. Il punto è che Challengers non è un film “sottile”. Guadagnino è un esteta ingordo, che non ha paura di affidarsi ciecamente al proprio gusto. Non ha paura nemmeno del kitsch, e si concede di conseguenza immagini scopertamente patinate: frequenta gli spazi dei più triti porno gay (la sauna, gli spogliatoi), seziona al microscopio muscoli turgidi e gocce di sudore. Reclama un tempo cinematografico disordinato ed elastico, che permette brusche accelerazioni e lunghe parentesi digressive – il ralenti, non a caso, è figura ricorrente e pervasiva del film. La musica può irrompere di prepotenza, pompando ogni scena di pulsazioni adrenaliniche. Il cinema di Guadagnino è ossessionato dalla forma e nondimeno pare posseduto da una fascinazione infinita per immagini organiche – con la macchina da presa che volteggia come in un rituale d’accoppiamento, che sublima con la sua danza una penetrazione impossibile.

Questo dualismo si impernia su una tessitura mélo di estrema complessità: la scrittura di Challengers si allinea al battito non di uno, ma di tre cuori. I personaggi sono superfici, corpi plastici da contemplare da vicinissimo, ma sono anche volumi, percorsi da mondi interiori ben cesellati. Le leggi di attrazione disegnano traiettorie imprevedibili ma credibili, tratteggiano psicologie perverse e affascinanti, animate da sentimenti tanto intensi da chiamare a sé la furia degli elementi (l’uragano che si scatena nel prefinale del film).

Ha del miracoloso, che Guadagnino sia riuscito a inscrivere questa coreografia sensualissima nel campo da tennis – uno sport aristocratico, elegante, cerebrale; uno sport “non di contatto”. Il prodigio prosegue dopo i titoli di coda: cosa sono gli outfit “tennistici” sfoggiati da Zendaya in occasione dei numerosi eventi di promozione del film? Rielaborazioni giocose e camp dei codici della moda sportiva: stilemi dello sportswear strappati all’imperativo barboso della comodità, liberati dal grigiume del “buon gusto”. Challengers può anche questo, tutto è desiderio, tutto è gioco, tutto è vita. Io, Luca Guadagnino, sono l’amore.

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Luca Guadagnino Zendaya Josh O'Connor Mike Faist 131 minuti
USA 2024
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Leme do Destino

di Emanuele Polverino
Leme Do Destino – recensione film bressane

Dalle parole alle immagini, sulla purezza dello sguardo come gesto necessario e innato verso la ciclicità della vita e la forza distruttiva della natura. Un caleidoscopico viaggio attraverso un mondo che vive di numeri primi, dove il controcampo diventa un dialogo tra quadro e fuori campo – come tra passato e presente - e le immagini riacquistano unicità vincendo la finzione della scrittura. Leme do Destino è l'ultimo film di Júlio Bressane, passato recentemente per il Buenos Aires Festival Internazionale del Cinema Indipendente.

Era il 1975 e durante l’intervista a Grande Otelo (famosissimo attore del cinema classico brasiliano) – in un cortometraggio dal nome Viola Chinesa reperibile su YouTube o Vimeo, sottotitolato in italiano in quanto parte di una retrospettiva del 2012 su Fuori Orario – Julio Bressane regalava al mondo quello che in seguito passerà alla storia come manifesto ideologico del cinema sperimentale brasiliano (costola del Cinema Novo): «l’arte è imitazione, imitazione di un processo della natura, non copia. L’arte è deformazione, l’arte è anormalità, l’arte è conflitto. Pertanto, il cinema è erotico». E ancora oggi, a distanza di quasi 50 anni, Bressane rimane saldamente ancorato ai dettami di ciò che venne fuori da quella poliedrica e allucinogena intervista con Otelo, un pamphlet di idee che segneranno la sua carriera di cineasta ribelle, anarchico e rivoluzionario. In costante antitesi con ciò che l’industria negli anni è diventata, e sempre più relegato a una dimensione di poète maudit, simbolo di quel brevissimo periodo in cui nel cinema prevalevano le libertà ideologiche ed espressive. A partire da un’idea che vede nella forza dei fenomeni naturali la più alta forma di comunicazione a cui l’uomo può aspirare, una riproduzione allegorica di un mondo platonico verso cui la macchina da presa dovrebbe dirigere il suo sguardo per poter ambire alla purezza massima dell’immagine. Immagini che in Bressane diventano passione e slancio erotico per il semplice motivo di essere imitazione del mondo, forza centripeta che spinge l’uomo sempre più verso la semplicità del reale (importantissimo per questo motivo, nel finale del film, il ricorso al formato e a un linguaggio puramente documentaristico)

Scritto a quattro mani con la moglie, Rosa Dias, Leme do Destino (Rudder of Destiny il titolo internazionale) diventa la loro ottava collaborazione ed è la storia di due donne, di cui non sapremo mai i nomi, che in maniera del tutto naturale – sempre a riprendere quell’idea di ciclicità e ripetizione che caratterizza il cinema dell'autore – diventano amanti. Le due sono entrambe scrittrici, e condividono l’idea che il modo migliore per scrivere un romanzo sia quello di farlo per sé stessi, dove la pubblicazione andrebbe a fare perdere quella unicità da numero primo.

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Di fatto l'dea di arte a cui Bressane ha sempre ambito, arrivando a professare la necessità, se non il dovere, per un regista di ignorare, in fase di creazione del film, lo spettatore in quanto interlocutore. Questo perché un’opera che punti unicamente alla soddisfazione del pubblico quale fine ultimo, è un film che non potrà far altro che veicolare immagini false e allineate all’idea concomitante di successo monetario. Un cinema che quindi si allontana dall’idea di purezza delle immagini per diventare vera e propria industria, dove la trama e l’intreccio prendono il sopravvento sul montaggio quale simbolo distintivo di ogni regista. Un film che decide di parlare attraverso una sceneggiatura, per Bressane, e non per immagini, cadrà inevitabilmente nel circolo vizioso consumistico per cui ciò che conta davvero è il valore monetario della produzione e non il valore di un’opera in quanto tale.

Un appiattimento delle immagini che il regista brasiliano aveva già analizzato nel bellissimo Sedução da Carne (2018) e che riprende con forza in questo suo ultimo lungometraggio, per ribadire ancora una volta l’importanza della visione di un film per il film in quanto tale, e non perché basato su qualcosa o qualcuno. Un gesto, come dice lo stesso Bressane in una masterclass del 2018, che dovrebbe essere indirizzato «a sentire le immagini» e non a ricercare una trama o un intreccio, e che garantirebbe al cinema come arte una forza tale (attraverso la purezza delle immagini quale diretta espressione del reale) da attraversare e sorpassare tutte le altre, compresa la letteratura. Nel tentativo di staccarsi dalla mediocrità delle produzioni contemporanee, e di elevare ciò che più di tutto è in grado di catturare la forza distruttiva della natura e il suo naturale erotismo come passione per il conflitto: il cinema.

Leme do Destino è l’ennesimo tassello che cesella la carriera di un regista sempre troppo poco considerato (in Italia ha avuto fortunatamente parecchio risalto grazie ad alcune retrospettive, tra festival minori e puntate di Fuori Orario), fortemente anticommerciale e fieramente libero da ogni vincolo e lontano da ogni restrizione produttiva.

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Júlio Bressane Josie Antello Simone Spoladore João Vitor Silva Debora Olivieri 73 minuti
Brasile 2023
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Los colonos

di Mattia Caruso
Los colonos - recensione film galvez

Patagonia, inizi del Novecento. Tre uomini – un ex tenente inglese (Mark Stanley), un mercenario texano (Benjamin Westfall) e un giovane “mestizo” (Camilo Arancibia) – partono per rivendicare alcune terre e, insieme, aprire una tratta verso l'Atlantico per conto del capitalista José Menéndez (Alfredo Castro). Ma, con il proseguire del viaggio, diventa drammaticamente chiaro come il vero obiettivo della spedizione sia un altro.

C'è una linea invisibile che unisce Los colonos, esordio del cileno Felipe Gálvez Haberle, già vincitore del premio FIPRESCI a Cannes 2023, a un film come Re Granchio di Alessandro Rigo de Righi e Matteo Zoppis. Una sensibilità che non si esaurisce nelle location o nella fotografia, satura e contrastata, di Simone D'Arcangelo, che i due film condividono, ma che ha prima di tutto a che fare coi modi in cui il racconto, la leggenda e l'immaginario (anche di genere) dialogano col reale, col presente, con la Storia, fino a deformarla o reinventarla. È da qui, da questa dimensione oscura e altra, dove il reale si perde tra le suggestioni di un incubo allucinato, che parte Los colonos. Un contro-mito fondativo che racconta di una mistificazione per troppo tempo taciuta, dell'invenzione di una pacificazione – quella tra coloni e nativi selk’nam – di fatto mai avvenuta. Ma anche delle metamorfosi di un Potere che, pur cambiando pelle (il passaggio dal colonialismo ai regimi dittatoriali, due periodi storici con cui il cinema sudamericano si sta confrontando sempre più spesso negli ultimi anni), resta sempre lo stesso.

Prendendo la forma del classico viaggio attraverso la wilderness, coi suoi paesaggi incontaminati a dominare la scena e sovrastare i personaggi, Los colonos parte così facendo propri i codici del western per poi ribaltarli (l'opera di “civilizzazione” compiuta dai protagonisti richiama il classico scontro tra natura e cultura, pervertendolo), raccontando la nascita di una nazione edificata sul sangue, sulla pulizia etnica, sul denaro, lo stupro e il latrocinio. Un mondo dove l'uomo bianco occupa terre e disegna confini, indifferente a tutto quello che ci sta in mezzo, elevando il genocidio a naturale stato delle cose, e la prevaricazione a unico mezzo possibile al servizio del Capitale. Un sistema degenere capace, però, di sopravvivere sempre e comunque, inventandosi, all'occorrenza, una giustizia fatta a propria immagine e somiglianza, passando sopra a crimini secolari in virtù di una posticcia e artificiale unificazione.

È tra le contraddizioni di questo sistema che si insinua allora la macchina da presa di Gálvez. Mettendo al centro di quella vicenda rimossa e invisibile il dispositivo cinematografico stesso. Facendo emergere, da una parte, l'ambiguità insita nelle immagini, la capacità mistificatrice nascosta dietro l'“ufficialità” del documento storico (esemplare la scena finale, con la letterale messa in scena di una pacificazione forzata), dall'altra, la verità che vi si nasconde dietro, capace di resistere, fiera e muta, a ogni appropriazione indebita, a ogni riscrittura menzognera, a ogni mito fondato sul sangue. Ieri come oggi.

 

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Felipe Gálvez Haberle Alfredo Castro Mark Stanley Benjamin Westfall Camilo Arancibia 97 minuti
Argentina, Cile, Danimarca, Francia, Germania, Regno Unito, Svezia, Taiwan 2023
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The First Slam Dunk

di Emanuele Polverino
slam dunk recensione film

Uscito recentemente su Amazon Prime Video, in modalità di acquisto o noleggio, The First Slam Dunk è l’adattamento del manga omonimo, scritto e diretto dallo stesso Inoue Takehiko, che decide di trasporre la sua opera anche al cinema, dopo averla adattata per la televisione negli anni ’90 subito dopo l’uscita del fumetto. Il film si articola nel tempo di una singola partita, la più famosa e significativa per i lettori del manga, che vede antagonisti lo Shōhoku di Miyagi Ryota, il perno di tutta la storia, e il San'nō, la squadra degli invincibili giganti, in grado di rimanere imbattuta per sedici anni di fila.

Se l’opera originale utilizzava le singole partite di qualificazione ai campionati nazionali per esplorare il passato di ogni componente della squadra, questa volta Inoue decide di costruire la sua narrazione attorno a un singolo protagonista, diverso da quello del manga, ovvero il già citato Miyagi Ryota. Playmaker e simbolo di una squadra composta da seconde scelte, talenti troppo puri per poter essere domati (Mitsui Hisashi e Rukawa Kaede) e dilettanti allo sbaraglio (Sakuragi Hanamichi).
Ed è attraverso un perfetto uso dei flashback, che scandiscono il ritmo della storia come i rimbalzi sul parquet, che la profondità del manga trova spazio anche nel film: ogni personaggio, durante tutto il corso della partita, si ritroverà a fare i conti con il proprio passato, a partire dai duri momenti dell’infanzia di Miyagi e la morte di suo fratello, passando per Mitsui e il suo abbandono dal mondo del basket, fino ad arrivare a Sakuragi. Da cui le fila del racconto cinematografico incontreranno quelle del manga: i suoi flashback sono il riassunto dei volumi che precedono gli eventi narrati dal film, con la fatica e il sudore spesi per arrivare a giocare la partita più importante dell’anno.

slam dunk intr

E così, the First Slam Dunk diventa la perfetta trasposizione dello spokon per eccellenza, ipercinetico e schizzato; lo spazio e il tempo dell’azione si dilatano e contraggono tra ralenti e velocizzazioni, dove uno sguardo in grado di avvolgere tre tavole diventa un istante, un frame, poco prima di un tiro decisivo. La palla diventa testimone indiretto dei sentimenti di ognuno dei protagonisti, prodromo in grado di scandire l’arrivo di ogni flashback – un tiro da tre di Mitsui, un passaggio di Miyagi o una schiacciata di Rukawa – simulacro di uno sport che vede nel collettivo il suo più grande punto di forza, dove l’eccellenza del singolo al servizio della squadra diventa esaltazione massima del talento. Anatomie dei corpi che grazie all’animazione diventano perfetto controcampo del tratto preciso e mai scomposto di Inoue, dove la potenza del gesto atletico si ripercuote sul terreno di gioco con lo stesso fragore delle tavole del manga: un tuffo nel vuoto alla Dennis Rodman che si cristallizza in pochissimi frame come in una singola pagina del manga, preludio di un flusso di coscienza che si condensa nel tempo di un tiro e il rumore della retina che sancisce il ritorno al tempo e allo spazio della partita. “Difendiamo, qui e ora”. Ed è proprio nel finale di partita che il film trova il suo massimo momento di vicinanza con l’opera originale, nella quasi totale assenza di sonoro e un’animazione che si fa via via sempre più astratta, dove in uno stacco di montaggio – come nelle tavole del manga – le distanze si annullano, il tempo si contrae e il linguaggio filmico incontra quello del disegno.

Un film che riesce senza dubbio ad accontentare i fan più agguerriti dell’opera originale, diventandone manifesto ideologico e riuscendo ad affascinare anche chi ancora non conosceva le gesta sportive dei cinque ragazzi dello Shōhoku.
Ed è proprio qui che Inoue compie il suo piccolo miracolo, condensando 20 volumi in poco meno di due ore, dando alla storia un taglio differente e più cinematografico, ma senza tradire il cuore pulsante del manga. Un testo che ancora oggi, a distanza di più di trent’anni, riesce a essere intergenerazionale e punto di riferimento non solo all’interno del genere, ma come vero e proprio slice of life in grado di appassionare generazioni di lettori.  

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Giappone 2022
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Historias Extraordinarias

di Saverio Felici
HISTORIAS EXTRAORDINARIAS recensone film Llinas

L’unica certezza di fronte a Historias Extraordinarias, è quella di avere a che fare con un prototipo. Come per ogni prototipo, anche per il primo film narrativo di Mariano Llinás e del Pampero Cine occorre ripensare i criteri di giudizio: quelli che abbiamo, codificati più di cento anni fa dalla lentissima, quasi immobile evoluzione del mezzo cinematografico, non sembrano aiutarci più di tanto. Se persino il cinema sperimentale si è da decenni appiattito sui modelli dei propri santi patroni, figurarsi quello narrativo - figurarsi quello narrativo di genere. È proprio nella convergenza immaginaria tra installazione museale, blockbuster epico e b-movie che Llinás intende concepire un film che, regole alla mano, non si può fare. Rianimando gli scheletri delle più vecchie teorie, Historias Extraordinarias dà vita ad un modello semplicemente diverso, forse non replicabile nello specifico, ma indicativo di potenzialità intrinseche al mezzo troppo precocemente date per esaurite. 

Cos’è, in concreto, Historias Extraordinarias: tre storie di suspense senza inizio e senza conclusione, ognuna strutturata su una decina di ulteriori storie, ognuna con i propri eroi, comparse, divagazioni e nuove storie ancora. In oltre quattro ore totali, le lande argentine (che ancora oggi danno il nome alla casa) diventano il foglio bianco su cui liberare il moto di tre protagonisti-vettori. Sono sguardi senza voce, negazioni di personaggi senza nome né passato, alla deriva nel labirinto di storie umane che disegna l’epopea. Il loro discorso è indiretto, senza dialoghi: un narratore mai inquadrato racconta, il film ne segue le parole. Un pensiero che si forma in immagini nel momento stesso in cui è enunciato, appunti visivi dal taccuino di una vecchia betacam.

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Ridefinendo i dogmi dello storytelling, Historias Extraordinarias riallaccia il cinema a una matrice (anche) letteraria spesso messa in secondo piano nella genealogia del medium. Sono gli autori stessi a chiarirlo nella presentazione-manifesto che accompagnò il film a Torino: «Due passioni reggono il corso di queste storie - la felicità di viaggiare, e la gioia di narrare». Raccontare e (di)vagare: allo spettatore il compito di districare i collegamenti (formali, tematici, narrativi) tra le infinite parti che compongono il trionfo, costellazione vertiginosa il cui senso sta, come sempre, nello sguardo di chi vi si perde. Barocchismo esasperato e/o improvvisazione ludica: l’impossibilità a tirare una linea tra le due apparentemente opposte modalità creative ci dà la profondità di questo flusso ibrido, e delle sue potenzialità espressive.

Mariano Llinás vede nel cinema una terra inesplorata, e nel reale un caos di fotogrammi che i vecchi codici non sanno più riarticolare. Historias Extraordinarias esiste dunque anche come bonario sfottò alla pigrizia endemica dell’Industria, delle solite formule e le solite forme - se per “forma” di un film ne intendiamo la struttura interna di rapporti significanti, seguendo la formulazione del recentemente scomparso e pochissimo ricordato David Bordwell. Ridiscutere questi rapporti diviene allora la priorità - portare il medium dove ancora non si trova, a costo di farne terra bruciata nel ritorno quasi sprezzante all’amatorialità. Audiovideo da home-movie, attori non professionisti guidati in diretta, disintegrazione dei tre atti in cacofonie organizzate: nell’ansiosa ricerca di una futuribilità per il cinema che caratterizza questi anni, cos’è poi Historias Extraordinarias (e il suo splendido compendio Trenque Lauquen) se non la polarità opposta e complementare alla trascendenza tecnico-tecnologica suggerita da James Cameron con i suoi Avatar? Ironica ma significativa coincidenza come le date di uscita del dittico della Weta e quello del Pampero Cine combacino: un periodico insistere che tutto è ancora vuoto, da costruire, che si parta dal tutto o dal niente.

Llinás, Citarella, Mendilaharzu e Moguillansky avevano chiara dall’inizio la meta di questo apparente nomadismo: «dimostrare e dimostrarci che l’avventura e il rischio sono ancora territori possibili per il cinema; che un film può essere fatto sulla strada, costituito da quell’infinito labirinto di cammini».

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Mariano Llinás Mariano Llinás Agustín Mendilaharzu Walter Jakob 245 minuti
Argentina 2008
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One Day

di Brunella De Cola
one day recensione

È la notte del 15 luglio del 1988 quando Dexter (interpretato da Leo Woodall, un giovane Michael Pitt) e Emma (interpretata dall’attrice indiano-britannica Ambika Mod) si conoscono a Edimburgo, alla festa della loro laurea, sulle note di Your Love di Frankie Knuckles. Trascorrono la notte insieme, si baciano, si toccano e si sfiorano ma non fanno sesso: secondo le volontà di Emma, parlano fino ad addormentarsi. Emma è brillante e intelligente, la ragazza che si è laureata con lode e ha il poster di Fino all’ultimo respiro in casa; Dexter è il ragazzo borghese che, dando un po’ tutto per scontato nella vita, ha come piani futuri solo l’obiettivo di diventare “ricco e famoso”. La mattina seguente, sempre per volontà di Emma, si ritrovano a scalare l’Arthur's Seat, il famoso vulcano spento di Edimburgo e a trascorrere l’intera giornata insieme, fino all’interruzione causata dall’arrivo dei genitori di Dexter. I due ragazzi, seppur innamoratesi l’uno dell’altra, decidono di rimanere amici e così li ritroviamo, anno dopo anno, nel corso delle puntate della serie, sempre il 15 luglio, San Svitino, il giorno in cui se piove, poi pioverà per tutta l’estate. One Day è quindi il racconto di due vite intrecciate, quella di Emma e Dexter, attraverso molti anni. Così cambiano i tagli di capelli, i lavori, le relazioni ma, tra gli alti e i bassi di entrambi i ragazzi, il loro legame è qualcosa di molto più potente della vita stessa che scorre.

È una perfetta trasposizione del libro omonimo di David Nicholls, questa miniserie Netflix, in cui lo scrittore appare come executive producer e la sceneggiatura degli episodi è invece affidata per la gran parte alla vincitrice del BAFTA Nicole Taylor. Una serie che dà largo spazio anche al tema della diversità, coinvolgendo vari attori di colore: oltre che la co-protagonista Ambika Mod, anche il ruolo della migliore amica di Emma, Tilly, è interpretato dall’attrice Amber Grappy. Così, sulle note dei New Order, Radiohead, Nico, Lou Reed, Portishead, Cat Power e molti altri, ci ritroviamo, anno dopo anno, Dexter e Emma, a volte sopraffatti dalla durezza della vita, nel loro cammino personale non sempre brillante, forse realisticamente con più bassi che alti. Tuttavia, nonostante le opportunità mancate tra i due (come ad esempio il viaggio in Grecia) e le delusioni che entrambi prendono dalla vita, il loro legame sussiste: Emma pensa sempre a Dexter e per quest’ultimo la ragazza è un punto di riferimento fondamentale anche quando si ritrova senza bussola, perso nelle droghe e nell’alcolismo.

Ambika Mod e Leo Woodall sono gli Em & Dex perfetti in una serie in 14 puntate che ci fa riflettere sul senso dell’amicizia e dell’amore. Perché l’amore è in fondo uno dei legami d’amicizia più potenti, come ci insegnava anche Harry ti presento Sally. E anche se a volte ci si incammina su strade diverse, si intraprendono altre relazioni amorose e la vita scorre su binari differenti, il filo rosso che lega alcune persone resta indistruttibile, anche quando si discute e magari si arriva a punti di divergenza totali, anche quando ognuno sembra essere sul proprio cammino, così distante dall’altro, quando il silenzio è l’unica forma di comunicazione. E se tra due persone c’è questo tipo di legame, ci sarà per sempre, perché anche distrattamente, l’uno penserà all’altra e viceversa, e il ricordo riaffiorerà sempre nelle menti di entrambi.

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Ambika Mod Leo Woodall Eleanor Tomlinson Essie Davis Miniserie da 14 episodi
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El Pampero Cine: paladini di una magnifica ossessione #4

di Andrea Inzerillo
el pampero

[ Leggi qui per la terza parte ]

Rivendicare una dimensione artigianale nella lavorazione del cinema significa rifiutare uno schema secondo il quale il produttore del film è il padrone e tutti gli altri sono i suoi impiegati. Senza ridimensionare in alcun modo l’ambizione narrativa e nulla togliere alla magia, cambiare modalità di lavoro significa agire sulla forma del film, riavvicinandosi in qualche modo ad aspetti di una più antica tradizione teatrale e circense: un’arte che si condivide, che si costruisce e si passa di generazione in generazione (tre ad oggi – genitori, figli e nipoti – compaiono nei film de El Pampero Cine).

Non c’è compiacimento (etico o tecnologico) in questo modo di valorizzare l’indipendenza, e ogni forma di nostalgia o d’insofferenza rispetto allo stato di cose presenti è trasformata ludicamente nei film di questi registi. Se La flor rappresentava il desiderio titanico di inserire tutta la storia del cinema in un solo film, non minore è la libertà di cui dà prova Mariano Llinás in un mediometraggio come Lejano interior (2020), nel quale con spirito settecentesco si mette in viaggio verso un luogo pieno di prodigi, allo scopo di rivelare al mondo immagini mai viste realizzate nel corso di un’esplorazione audace e un po’ spericolata. Convinto come Michaux che si possa “trovare la propria verità anche guardando per quarantotto ore una qualsiasi carta da parati”, affascinato dall’idea che portava Flaiano ad affermare che un viaggio notturno dalla camera da letto alla cucina potesse essere assai più vertiginoso di certi viaggi in Estremo Oriente, Llinás fa coesistere qui il massimo di documentazione con il massimo di invenzione: nella casa in cui è confinato con la sua famiglia durante la pandemia, oggetti come un giradischi, una libreria, una bottiglia vuota, la polvere accumulatasi sotto il letto e persino lo sguardo assorto di un gatto nel silenzio mattutino, si animano davanti alla macchina da presa fino a costruire una o infinite storie.

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È solo uno dei tanti esempi che mostrano come al sistema dello storytelling imperante i registi del Pampero Cine scelgano di sostituire un perenne lavoro sulla finzione. Costruire una storia non è lo stesso che costruire una finzione, perché la finzione non ha morale e al limite è più vicina a una coreografia. Le storie si moltiplicano e si intrecciano nei film del Pampero Cine, saturano la struttura della narrazione ma si dimostrano nello stesso tempo (paradossalmente?) inessenziali. Esse trascinano lo spettatore nel coinvolgimento narrativo, lo travolgono e lo affascinano, provando contemporaneamente come l’essenziale non risieda per forza in un percorso ordinato, e come non concludere in maniera tradizionale una storia non intacchi in nulla il piacere del racconto. Sottraendosi all’imposizione del tema e glorificando la forma e la materia del cinema, raccontare storie diventa allora anche l’occasione per dare spazio a una certa comicità del reale, e per offrire a chi guarda la libertà di fare ipotesi su quel che vede. Ma soprattutto, la finzione rappresenta l’espediente fondamentale attraverso il quale esplorare un territorio e abitarlo in modo diverso.

La decisione di togliersi dagli ambienti urbani e di costruire la provincia di Buenos Aires come uno spazio di finzione risponde al desiderio di fare di essa un luogo leggendario, mostrando come l’invenzione cinematografica sia capace di trasformare anche il territorio più anonimo e riempirlo di misteri. Parallelamente, come se fosse l’altra faccia di uno stesso gesto, ripercorrere la topografia della capitale attraverso le canzoni di un album di musica popolare, come avviene in Corsini interpreta a Blomberg y Maciel del 2021, significa misurarsi con una città per evocare la storia dell’Argentina nell’Ottocento, quella della guerra civile tra federales e unitarios tanto cara agli interessi di Llinás.

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Ognuno dei registi del Pampero Cine convoca in effetti lo spettatore ad accedere a un mondo che è (non soltanto) suo. Ogni volta ci racconta qualcosa di sé e delle proprie ossessioni, dissemina i film di tracce che promuovono in chi li guarda il gusto dell’agnizione, creando un ulteriore legame che permea dall’interno quella unica grande opera che tutti insieme stanno costruendo da più di vent’anni. Così in alcuni film il regista è protagonista insieme ai suoi migliori amici (Historias extraordinarias), o vuole conoscere meglio alcune persone e passare del tempo con loro (La flor); in altri fa delle proprie ossessioni – nei confronti di un musicista di nome Schubert, ad esempio – un tema sotteso a diversi film (La vendedora de fósforos, Un andantino); in altri ancora i propri pupazzi e le proprie letture diventano autentici personaggi cinematografici (Clementina, Trenque Lauquen); o può accadere anche che la celebrazione di un’amicizia diventi l’occasione per una creazione libera da ogni vincolo – come avviene nella corrispondenza tra Mariano Llinás e Matías Piñeiro durante la pandemia (Hay cartas que detienen un instante más la noche).

Che la storia sia al servizio della geografia o che avvenga invece il contrario, che questioni private smettano di essere tali e nutrano la materia cinematografica, si assiste dunque a una costante ridefinizione dei concetti stessi di centro e sfondo di un film. Molte altre forme di détour – la musica come elogio delle cose non terminate in Un andantino; la poesia come dispiegarsi di un’energia cinematografica e femminista in Las poetas visitan a Juana Bignozzi – mostrano sostanzialmente come nei film del Pampero un certo grado di autoreferenzialità coincida con la possibilità massima di parlare a qualsiasi spettatore, e come l’amore nei confronti del cinema sia inseparabile dal fare cinema con le persone e persino con le cose amate. A ogni nuova creazione, i registi del Pampero Cine non cessano di dirci che ogni film è una dichiarazione d’amore.

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Pensare il cinema in questo modo significa dissolvere la frontiera tra il vivere e il fare cinema, concepire il cinema non come diversivo o intrattenimento (come qualcosa che serve a passare il tempo) ma come diversione e divertimento, come un mezzo che consente di guardare il mondo in modo diverso. D’altra parte non si gioca alla vita, si vive; e in una vita profondamente attraversata dal cinema la dimensione ludica è parte integrante di un progetto che non perde mai di vista l’obiettivo principale: la capacità trasformativa del cinema, la strabordante e contagiosa dimensione esistenziale che lo innerva dal profondo e alla quale è impossibile sottrarsi, la possibilità di farci vivere vite che non sono la nostra e contemporaneamente possono diventarlo.
È un progetto che genera entusiasmo. Testimoni di un’arte del XX secolo, esiliati temporali perennemente in viaggio, i registi del Pampero Cine sono i paladini fedeli di una magnifica ossessione.

P.S.: questa introduzione si ferma qui, mantenendo il desiderio di continuare – il materiale e gli spunti non mancano. Ulteriori tracce possono trovarsi nei contributi di Fernando Ganzo su Trafic, di Claire Allouche sui Cahiers du Cinéma e Répliques, di Roger Koza su Caimán Cuadernos de Cine e Con los ojos abiertos. Non ho avuto accesso all’argentina Revista de Cine che da dieci anni a oggi è animata, tra gli altri, anche da Mariano Llinás e Alejo Moguillansky: sono sicuro che aprirà ulteriori capitoli che andranno esplorati. E infine: YouTube è una miniera di conversazioni con tutti i registi del Pampero Cine, e in particolare di straordinarie conferenze, conversazioni e chiacchierate con Mariano Llinás. Ho passato le ultime settimane ad ascoltarne svariate – traendone alcune delle informazioni presenti in questo articolo – con grande interesse, e ancor più grande divertimento.

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El Pampero Cine: paladini di una magnifica ossessione #3

di Andrea Inzerillo
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[ Leggi qui la seconda parte ]

Amore nei confronti del cinema, diletto del fare cinema – ogni film di El Pampero Cine è un omaggio alla settima arte. Non è scontato né frequente: si tratta di registi che amano il cinema. Contro facili necrologi e rapide dismissioni, il cinema è al centro dei loro pensieri e determina la forza delle loro opere, che sono il frutto di una costante psicanalisi nella quale il cinema è nello stesso tempo analista e analizzato. In molti modi: che si tratti di scrivere film, dirigerli, produrli e recitare; scrivere di film, leggere o fondare riviste di cinema; intervenire nei dibattiti, difendere la visione nelle sale, impegnarsi per salvaguardare la storia contro l’oblio. La condizione degli autori del Pampero Cine è quella di attivisti che desiderano vivere nel paese del cinema e sono pronti a lottare per esso.

Fare cinema equivale dunque a portare avanti una politica del cinema, ed è in quest’ottica tutt’altro che ideologica che bisogna considerare la loro opposizione nei confronti dei ritmi e dei meccanismi industriali. Pur essendo favorevoli a forme di sostegno statale nei confronti del cinema, contestano da sempre le modalità con le quali l’Instituto Nacional de Cine y Artes Audiovisuales (INCAA) sostiene il cinema argentino imponendo determinate regole di lavorazione. Una su tutte: la divisione delle riprese in settimane di lavorazione – assecondando la quale film come Historias extraordinarias, La flor e Trenque Lauquen semplicemente non esisterebbero. Militare attivamente dalla parte dell’indipendenza, non avere padroni e rifiutarsi di sottostare a regole di questo tipo significa allora da una parte decidere di rinunciare ai finanziamenti statali, ma dall’altra difendere strenuamente la possibilità di creare opere come quelle menzionate, che esistono anche grazie all’azione del tempo.

Il tempo è in effetti non soltanto uno degli elementi, ma uno degli attori fondamentali di un film. Parlando della lunga lavorazione di La flor con il direttore artistico del New York Film Festival Dennis Lim, Mariano Llinás fa riferimento esplicito a una scommessa sul tempo e alla volontà di far entrare parte delle loro vite nella costruzione di un’opera che, ne erano certi, avrebbe rappresentato qualcosa di importante per l’esistenza di tutti quelli che ci stavano lavorando. E racconta della necessità di cominciare il montaggio di La flor solo alla fine dei quasi nove anni di lavorazione, nella convinzione che il regista che girava il film e quello che lo concludeva dovessero essere due persone diverse, e che fosse essenziale far trascorrere tempo tra l’una e l’altra cosa.

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È una posizione che Llinás ha sostenuto in varie occasioni, portando avanti una riflessione piuttosto interessante sul ruolo del regista oggi. Se il regista è colui che filma, se si è autenticamente cineasti quando si filma, è curioso notare come nella maggior parte dei casi la condizione ordinaria delle persone che fanno cinema sia del tutto diversa. Nel sistema di produzione industriale, e per gran parte di un cinema indipendente che guarda a quel modello tentando di racimolare soldi per riuscire a esistere, il regista impiega tre, quattro, cinque anni di lavoro per realizzare un film. La quasi totalità del tempo però non è dedicata a filmare, bensì a parlare del film che intende fare. Esiste un meccanismo ormai consolidato fatto di laboratori (di scrittura, di produzione, di regia, di sviluppo, di distribuzione), di pitch, di incontri, di progetti in cui il cineasta si trova costantemente sballottato da un punto all’altro del mondo per convincere alcuni esperti che gli dicono che il progetto può sì funzionare, ma che è opportuno modificare questo o quell’aspetto, ed è necessario pertanto effettuare altri incontri per ottenere altri fondi da altri lab prestigiosi che porteranno a trovare altri finanziatori che consentiranno di convincere alcuni buyers e permettere così ai produttori di metterlo nelle condizioni di girare. Un sistema kafkiano apparentemente inscalfibile nel quale il regista non filma mai ma passa il tempo ad accumulare tempo, cercare credito, costruire una posizione e un’autorità, contribuendo ad alimentare un sistema che sostanzialmente lo tiene lontano da quello che vorrebbe fare – filmare. Il filmare vero e proprio si riduce così a una porzione minima, uno o due mesi al massimo a fronte di molti anni di lavorazione. E chi dice che questo debba essere il modo per fare film? Che non si possa, al contrario, filmare e poi, a partire da ciò che si filma costantemente, costruire delle storie? Che non si possano trovare altri modi per finanziare i propri film, mettendo in discussione questo sistema di produzione?

Che lavoro fa dunque, oggi, un regista? Si potrebbe dire che il regista è essenzialmente uno che parla, un parlatore. Ma anche gli altri sostantivi con cui ci si riferisce alla sua figura mostrano tutti i limiti relativi all’idea di cosa sia, debba e possa essere oggi il cinema. Al termine cineasta i francesi prediligevano un tempo quello di metteur en scène, di chiara derivazione teatrale, mentre è assai diffuso nel mondo non soltanto anglosassone il termine ombrello di filmmaker. Che traduce una visione falsata della creazione di un film, secondo i registi del Pampero Cine: gli attori o il direttore della fotografia sarebbero forse meno filmmaker rispetto al regista? Anche il termine di autore – con cui dagli anni Cinquanta si è inteso nobilitare il lavoro del regista – è un po’ pretenzioso e in fondo contestabile, perché chi dirige un film non è autore delle montagne sullo sfondo di un’inquadratura, del vento che nutre una sequenza o di altri elementi della realtà che contribuiscono all’esistenza del film tanto quanto quelli organizzati a bella posta. Utilizzare il francese réalisateur o il suo corrispettivo in lingue come lo spagnolo è per certi versi ancora meno felice, perché a dire tutta la verità non è il regista a permettere la realizzazione di alcunché – al limite bisognerebbe attribuire questo ruolo alla macchina da presa, responsabile di cose che spesso sfuggono al controllo di qualsiasi essere umano. Occorrerebbe forse riconoscere allora che il regista è semmai, più modestamente, quello che in spagnolo e in inglese si definisce un director: uno che dirige ciò che succede da un lato e dall’altro della macchina da presa; che grida, che dice agli attori di andare più veloce o più lentamente; che si occupa di fare in modo che possa accadere una transizione tra quel che avviene sul grande schermo e chi si troverà di fronte a esso per vedere le immagini che ha girato. Un mediatore, un passeur.

[ Leggi qui la quarta parte ]

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El Pampero Cine: paladini di una magnifica ossessione #2

di Andrea Inzerillo
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[ Leggi qui la prima parte dell'introduzione ]

La categoria ineludibile cui far riferimento per parlare del Pampero Cine è quella dell’avventura. Quasi sempre presente all’interno delle loro opere, essa riflette una concezione dichiarata e quasi programmatica: l’idea che fare film sia un’avventura e che come tali i film vadano concepiti e realizzati. Che sia in ambienti chiusi – il viejo hotel Ostende nel film omonimo di Citarella, o un appartamento nel quale si è reclusi durante una pandemia come in Clementina di Agustín Mendilaharzu / Constanza Feldman e in La edad media di Alejo Moguillansky / Luciana Acuña – o al contrario in spazi aperti – com’è il caso dell’universo della strada di Historias extraordinarias di Mariano Llinás – o ancora sotto forma di omaggio esplicito – come nel bressoniano Un andantino di Moguillansky o in Trenque Lauquen di Laura Citarella, che da L’avventura di Antonioni riprende il titolo di una delle parti e una certa impostazione di fondo – l’avventura riguarda soprattutto un’attitudine e una capacità strutturalmente improntate all’apertura, che hanno a che fare con l’aprirsi alla possibilità di cambiare e alla disponibilità di farsi cambiare da ciò che si sta facendo.

La dimensione dell’attesa, il predisporsi ad accogliere l’eventualità che ciò che accade nel corso delle riprese modifichi quanto previsto e determini un diverso andamento delle cose, è essenziale per comprendere le opere di questi registi. È una dimensione che va di pari passo con una convinzione quasi filosofica e certamente con l’atteggiamento che li caratterizza sempre, ovvero il riconoscimento del fatto che la finzione è potenzialmente ovunque. Ne consegue la necessità di dismettere i panni dell’autore-demiurgo e contemplare seriamente la possibilità che i film si incontrino nel loro farsi, nel corso del processo di realizzazione, grazie alla collaborazione attiva di più persone in una dimensione cooperativa e di gruppo. Non c’è niente di più lontano dell’idea di improvvisazione dal lavoro fin qui realizzato dai registi del Pampero Cine: i loro film sono accuratamente scritti e i debiti nei confronti di certa letteratura (soprattutto sudamericana, in una linea che da Borges e Bioy Casares giunge fino a Bolaño, ma non solo) fin troppo evidenti. Eppure scrittura e apertura non sono in conflitto ma convivono e collaborano nella loro pratica, e la prospettiva personale del singolo regista cresce e si fonda su quella del gruppo in una dinamica di scambio e nutrimento reciproco che giunge a costruire un metodo che è un habitus, più che un insieme di regole o prescrizioni.

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Questo tipo di condotta, non dissimile da esperienze analoghe avvenute in altri luoghi e in altri tempi, è da sempre relegata a un ruolo minoritario e marginale nella storia del cinema. Talvolta sbrigativamente considerata come utopistica o da privilegiati, altre volte viene liquidata come amatoriale e dilettantesca: come se nella considerazione comune esistesse un modo vero di fare cinema (sempre più o meno identico a sé stesso) e altri che sarebbero invece velleitari, tentativi chimerici quando non addirittura tracotanti. Perseguendo una modalità autonoma ma tutt’altro che solitaria, la banda del Pampero Cine rivendica invece fortemente la possibilità di costruire alternative ai ritmi ordinari dell’industria, praticando altre forme e provando contemporaneamente a sostenerne la possibilità. Il pensiero corre inevitabilmente alle figure, diversissime, di Eric Rohmer o di Raúl Ruiz, anche se sono probabilmente altre le loro fonti di ispirazione – il nome di Hugo Santiago ricorre spesso nei loro discorsi. Una posizione non semplice che implica la scelta di sottrarsi all’imposizione di un meccanismo unico e la volontà di inventare modi sempre nuovi di fare cinema, schemi produttivi costantemente diversi che variano da film a film a partire dalla considerazione, elementare eppure controcorrente, che un film non è una merce. E che comporta la necessità di modificare persino quel che si considera come più scontato: chi ha detto che un film si debba prima pensare e poi scrivere, quindi filmare e infine montare? E se fosse piuttosto l’esito di un processo continuo di creazione che prevede la messa in pratica di un autentico pensare con le immagini? E se un film non fosse che la conclusione sempre provvisoria di un processo unico e costante che deriva dall’essersi impadroniti dei mezzi di produzione e dal tentativo di modificare (se non altro per sé) i rapporti di produzione?

Concepire ogni film come il capitolo di un’unica grande opera – che è la vita. Pretendere di non lavorare secondo uno schema padronale, e di conseguenza essere messi ai margini. Creare un ambiente nel quale i termini amateur e dilettante si contrappongono a quello di professionista al solo scopo di valorizzare la dimensione dell’amore e quella del diletto.

[ Leggi qui la terza parte ]

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