Leme do Destino
Un’idea di cinema che vede nella forza dei fenomeni naturali la più alta forma di comunicazione a cui l’uomo può aspirare, una riproduzione allegorica di un mondo platonico verso cui la macchina da presa dovrebbe dirigere il suo sguardo per poter ambire alla purezza massima dell’immagine.
Dalle parole alle immagini, sulla purezza dello sguardo come gesto necessario e innato verso la ciclicità della vita e la forza distruttiva della natura. Un caleidoscopico viaggio attraverso un mondo che vive di numeri primi, dove il controcampo diventa un dialogo tra quadro e fuori campo – come tra passato e presente - e le immagini riacquistano unicità vincendo la finzione della scrittura. Leme do Destino è l'ultimo film di Júlio Bressane, passato recentemente per il Buenos Aires Festival Internazionale del Cinema Indipendente.
Era il 1975 e durante l’intervista a Grande Otelo (famosissimo attore del cinema classico brasiliano) – in un cortometraggio dal nome Viola Chinesa reperibile su YouTube o Vimeo, sottotitolato in italiano in quanto parte di una retrospettiva del 2012 su Fuori Orario – Julio Bressane regalava al mondo quello che in seguito passerà alla storia come manifesto ideologico del cinema sperimentale brasiliano (costola del Cinema Novo): «l’arte è imitazione, imitazione di un processo della natura, non copia. L’arte è deformazione, l’arte è anormalità, l’arte è conflitto. Pertanto, il cinema è erotico». E ancora oggi, a distanza di quasi 50 anni, Bressane rimane saldamente ancorato ai dettami di ciò che venne fuori da quella poliedrica e allucinogena intervista con Otelo, un pamphlet di idee che segneranno la sua carriera di cineasta ribelle, anarchico e rivoluzionario. In costante antitesi con ciò che l’industria negli anni è diventata, e sempre più relegato a una dimensione di poète maudit, simbolo di quel brevissimo periodo in cui nel cinema prevalevano le libertà ideologiche ed espressive. A partire da un’idea che vede nella forza dei fenomeni naturali la più alta forma di comunicazione a cui l’uomo può aspirare, una riproduzione allegorica di un mondo platonico verso cui la macchina da presa dovrebbe dirigere il suo sguardo per poter ambire alla purezza massima dell’immagine. Immagini che in Bressane diventano passione e slancio erotico per il semplice motivo di essere imitazione del mondo, forza centripeta che spinge l’uomo sempre più verso la semplicità del reale (importantissimo per questo motivo, nel finale del film, il ricorso al formato e a un linguaggio puramente documentaristico)
Scritto a quattro mani con la moglie, Rosa Dias, Leme do Destino (Rudder of Destiny il titolo internazionale) diventa la loro ottava collaborazione ed è la storia di due donne, di cui non sapremo mai i nomi, che in maniera del tutto naturale – sempre a riprendere quell’idea di ciclicità e ripetizione che caratterizza il cinema dell'autore – diventano amanti. Le due sono entrambe scrittrici, e condividono l’idea che il modo migliore per scrivere un romanzo sia quello di farlo per sé stessi, dove la pubblicazione andrebbe a fare perdere quella unicità da numero primo.
Di fatto l'dea di arte a cui Bressane ha sempre ambito, arrivando a professare la necessità, se non il dovere, per un regista di ignorare, in fase di creazione del film, lo spettatore in quanto interlocutore. Questo perché un’opera che punti unicamente alla soddisfazione del pubblico quale fine ultimo, è un film che non potrà far altro che veicolare immagini false e allineate all’idea concomitante di successo monetario. Un cinema che quindi si allontana dall’idea di purezza delle immagini per diventare vera e propria industria, dove la trama e l’intreccio prendono il sopravvento sul montaggio quale simbolo distintivo di ogni regista. Un film che decide di parlare attraverso una sceneggiatura, per Bressane, e non per immagini, cadrà inevitabilmente nel circolo vizioso consumistico per cui ciò che conta davvero è il valore monetario della produzione e non il valore di un’opera in quanto tale.
Un appiattimento delle immagini che il regista brasiliano aveva già analizzato nel bellissimo Sedução da Carne (2018) e che riprende con forza in questo suo ultimo lungometraggio, per ribadire ancora una volta l’importanza della visione di un film per il film in quanto tale, e non perché basato su qualcosa o qualcuno. Un gesto, come dice lo stesso Bressane in una masterclass del 2018, che dovrebbe essere indirizzato «a sentire le immagini» e non a ricercare una trama o un intreccio, e che garantirebbe al cinema come arte una forza tale (attraverso la purezza delle immagini quale diretta espressione del reale) da attraversare e sorpassare tutte le altre, compresa la letteratura. Nel tentativo di staccarsi dalla mediocrità delle produzioni contemporanee, e di elevare ciò che più di tutto è in grado di catturare la forza distruttiva della natura e il suo naturale erotismo come passione per il conflitto: il cinema.
Leme do Destino è l’ennesimo tassello che cesella la carriera di un regista sempre troppo poco considerato (in Italia ha avuto fortunatamente parecchio risalto grazie ad alcune retrospettive, tra festival minori e puntate di Fuori Orario), fortemente anticommerciale e fieramente libero da ogni vincolo e lontano da ogni restrizione produttiva.