The Girl with the Needle

di Mattia Caruso
The girl with the needle - recensione film von horn

Sin dalla sequenza iniziale di The Girl with the Needle, con quel montaggio di volti distorti che si alternano e sovrappongono tra loro, richiamando, da una parte, i ritratti di Francis Bacon, dall'altra, inevitabilmente, il Bergman di Persona, è chiaro come il film di Magnus von Horn (Sweat) – disponibile su MUBI e candidato all'Oscar come miglior film internazionale – tradisca una certa ambizione. Nella fiaba (bianco e) nera di Karoline (Vic Carmen Sonne), giovane sarta di Copenaghen con un marito disperso in guerra (siamo nel 1919), sedotta e abbandonata dal padrone della fabbrica in cui lavora e ritrovatasi ad affrontare, sola e senza lavoro, una gravidanza oramai ingestibile e un ritorno inaspettato, c'è infatti tutta la forza di un cinema estremamente consapevole di sé.

Dalle atmosfere che richiamano apertamente l'espressionismo tedesco, passando per una messa in scena che interroga continuamente la storia della settima arte e il modo in cui, nel tempo, ha saputo guardare la realtà, tra intermezzi grotteschi che citano i Freaks di Tod Browning, rimandi a M – Il mostro di Düsseldorf e viaggi alle origini del mezzo, fino alla citazione esplicita de L'uscita dalle officine Lumière, sembra infatti che The Girl with The Needle cerchi continuamente un proprio sguardo, il modo esatto e la giusta distanza per raccontare una storia dell'orrore tanto reale (la vicenda di Karoline si intreccerà, suo malgrado, con un terrificante fatto di cronaca nera del tempo) quanto trasfigurata dalle sue infinite suggestioni.
È una discesa nell'inferno di un'umanità disperata, del resto, quella raccontata da von Horn. Una storia di sopravvivenza tutta femminile in una Copenaghen sconfitta e sfigurata tanto moralmente quanto fisicamente, dove l'orrore sembra all'ordine del giorno. Un affresco lugubre e nerissimo raccontato dal regista attraverso uno stile muscolare, un'eleganza formale carica di riferimenti e di un citazionismo fuori controllo ma anche ricca di trovate e spunti interessanti.

Dividendo, tra colpi di scena e svolte repentine, il suo racconto in due parti ben distinte, il regista passa così dal dramma sociale dagli echi quasi dickensiani a una cupissima storia di serial killer. Con l'ingresso in scena di Dagmar (Trine Dyrholm), donna di mezza età che accoglie i neonati non voluti per poi affidarli, così dice, a famiglie benestanti, l'orrore da privato si fa definitivamente collettivo, colorando di risvolti oscuri e terribili persino il concetto stesso di maternità. Un orrore a tratti insostenibile, che scuote le coscienze e parla la lingua della disperazione. Quella di un'umanità ormai abituata a voltare la testa, così assuefatta dall'orrore da guardare da un'altra parte mentre il Male fa il suo corso.

È questa assuefazione all'orrore e a una miseria prima di tutto morale, forse, il punto di The Girl with the Needle. Una parabola che – con la sua forma esasperata e il primeggiare delle immagini su qualsiasi approfondimento psicologico o emotivo dei personaggi – potrebbe tradire un certo compiacimento o sembrare un semplice esercizio di stile, ma che in realtà, nel suo racconto di un'umanità sempre a un passo dal grottesco ma mai abbastanza da mettere una barriera tra sé e lo spettatore, parla del nostro tempo più di quanto si potrebbe immaginare.

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Magnus von Horn Vic Carmen Sonne Trine Dyrholm Besir Zeciri 115 minuti
Danimarca, Polonia, Svezia 2024
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"So cosa hai fatto" - Intervista a Pier Maria Bocchi

di Simone Rossi
so cosa hai fatto recensione libro bocchi

So cosa hai fatto. Scenari, pratiche e sentimenti dell'horror moderno esce lo scorso settembre per i tipi di Edizioni Lindau. Da quel momento Pier Maria Bocchi lo va presentando in tour in tutta Italia e intanto si susseguono le ristampe. Insomma, un clamoroso successo editoriale. «Un libro che mi aspettava» ha detto lui. Un libro che aspettavamo evidentemente anche tutti noi. E siccome le passioni – quelle belle, quelle sane - vanno alimentate, ho pensato di intervistare Pier Maria nel tentativo di espandere ulteriormente il discorso attorno a un genere, l'horror, che «ascolta sempre la realtà: nei casi migliori la ricostruisce, la combatte, le risponde a tono; nei casi peggiori, la lusinga».

Ciao Pier Maria. Come una rockstar sei in tour da mesi col tuo libro. Ci sono stati incontri che hanno lasciato un segno particolare?
Ti confesso che l'incontro fatto a Bologna alla Libreria di Cinema Teatro e Musica è stato abbastanza toccante. La libreria stava chiudendo dopo 35 anni di attività, e il mio è stato l'ultimo incontro. Il proprietario è un caro amico di sempre e l'esperienza mi ha emotivamente coinvolto.

Come scrivi nell'introduzione il titolo del libro ha un significato duplice: «volutamente confidenziale, che ha l'ambizione di rivolgersi tanto al genere di riferimento quanto a me». Subito dopo parlando di tuo marito Luca Malavasi spieghi come ami l'horror, ma non riesca a vederlo da solo per paura degli incubi. Per te, invece, la visione horror è un fatto privato o collettivo? E in tempi di conflitto piattaforma-sala, possiamo parlare di un genere che non si è mai posto il problema dell'esperienza individuale?
Partendo da Luca sì, è proprio così: non riesce a guardare l'horror da solo. Vero anche che è il genere che più di tutti non si è mai posto il problema della visione in solitaria e magari anche isolata. Ma ci sono delle eccezioni abbastanza importanti. Una delle quali analizzo nel libro, su cui torno più volte, e cioè la visione collettiva nei festival. Prendiamo Bruxelles. Il primo anno al BIFFF lo ricordo come uno shock perché l'horror per me era davvero una questione privata, anche in senso spettatoriale, di pura fruizione. Anzi, mi sono sempre volutamente allontanato dalla visione di gruppo nel timore che gli amici potessero rovinarmi la visione. Accadeva solo con l'horror, con gli amici guardavo tutto il resto. Mi prendeva un timore irrazionale di vedere rovinato il godimento e il rapporto esclusivo e ossessivo che da sempre intrattengo col genere. Al BIFFF mi trovai immerso in una sala di mostruosi caciaroni che da quando si spegnevano le luci fino a che non tornavano, seguivano una sorta di rituale dialettico, con battute programmate che si rilanciavano, con esclamazioni e urla ad hoc: per me fu davvero sconcertante e pensai che non avrei potuto vedere i film in quelle condizioni, che mi sarei rifugiato nelle semi-deserte proiezioni stampa. Poi a poco a poco ho capito e un po' mi sono fatto trascinare dalla corrente, benché le battute fossero quasi tutte in fiammingo e io non ci capissi una mazza! Ho cercato di adeguarmi al flusso di questa cosa estremamente gioiosa e a suo modo estremamente seria da condividere. Capii che per loro era davvero una religione. Così ho cominciato ad apprezzarla.

E oggi? Ti dividi tra sala e privato oppure no?
Devo dire che più invecchio più mi sento a mio agio quando guardo i film da solo. Anche alle anteprime stampa a Milano, che per noi sono la manna, ammetto una costante, ma inesorabile tendenza all'abbandono. Perché ho sempre detestato, anche ai festival, questa sorta di ansia del dover esprimere il proprio parere appena finiscono i titoli di coda. È una cosa che più vado avanti e più fatico ad accettare. A volte me ne scappo proprio, sarò un po' cafone, ma proprio non riesco. Non è una questione di sacralità del proprio giudizio, ma voglio che il film mi lavori dentro. Ci sono amici e colleghi che sono l'esatto contrario e io intanto penso “no, state zitti per favore!”. La verità è che io adoro guardare i film da solo, andare al cinema da solo. In questo senso i festival sono per me deleteri perché lì non scappi dall'opinione freschissima. Appena finisce un film ti rimetti in fila con qualcuno che era in sala con te un momento prima e sei in trappola...

pupi avati

Torniamo alle origini. C'è stata una persona che ti ha avviato alla visione del cinema horror o hai fatto tutto da solo?
No, non c'è stata una persona. Sono state mie visioni infantili, ero molto piccolo, avrò avuto otto-nove anni. Mi ricordo che ero a casa di mia nonna e di una rassegna di cinema italiano dell'orrore che passava in Rai, credo in prima serata. Ho nitidamente in testa almeno tre titoli: La casa dalle finestre che ridono, e poi due film di Giorgio Ferroni, Il mulino delle donne di pietra e La notte dei diavoli. Mi fecero una paura pazzesca, ma credo che sia nata lì questa sorta di seduzione che l'horror ha esercitato su di me sempre. Un fascino che poi è diventato una vera ossessione per Dario Argento: dalle medie e per un po' di tempo lo identificai come il più grande regista del mondo. Raccoglievo e ritagliavo tutte le schedine che comparivano su Tv Sorrisi e Canzoni dei film trasmessi, li incollavo su un quadernetto e davo i miei giudizi (del tipo, per dire: “Tenebre: a me Giuliano Gemma ha sempre fatto schifo però qui viene trafitto e allora...”) e naturalmente mettevo le stelline. Poi negli anni Ottanta sono passato alla mia passione più travolgente che è stata per i gore, per lo splatter, per il corpo esploso e sbriciolato. Io sono figlio degli anni Ottanta, mi sono formato lì come cinefilo e come uomo, direi. Li ho vissuti come anni che mi hanno costruito la testa e anche lo sguardo. No, non esiste una persona che mi ha instradato, è stata una cosa da puro autodidatta.

E poi c'era la bellezza di andare a caccia della visione desiderata. Oggi che esistono le piattaforme ed enormi archivi sono a nostra disposizione un giovane può appassionarsi allo stesso modo? Si può ancora andare incontro a una scoperta?
Non cado nella trappola di dire che si stava meglio quando si stava peggio. Ho quasi 54 anni e potrei abbandonarmi alla nostalgia e alla malinconia di quando la ricerca era davvero senza fine. I sacri graal erano infiniti, ma dovevi sbatterti per cercarli e trovarli. Più raro era l'oggetto e più riuscire ad acciuffarlo dava valore all'opera, ancor prima di vederla. Oggi sì, è tutto diverso. Credo però che chi fa il mestiere di critico, di studioso delle immagini (di quello che ci bombarda in modo parcellizzato lo sguardo), non può permettersi di vivere in un eremo isolato e chiudersi fuori dalla contemporaneità. Troppo facile mettersi seduti a guardare film di trenta o quarant'anni fa e dire: che meraviglia quel cinema! Io voglio cercare di capire le cose che mi circondano oggi e che non mi appartengono e alle quali magari io non riesco ad adeguarmi per ragioni di gusto, o puramente anagrafiche: come posso sintonizzarmi sui desideri e i gusti di un diciottenne. Nel libro provo a farlo con la generazione Z. Un ragazzo o una ragazza che improvvisamente scopre di amare l'horror lo fa in modo casuale come è capitato a noi o c'è qualcosa che li stimola e li eccita a tal punto da capire in anticipo che hanno un determinato gusto? Non lo so. Ma mi piace rifletterci sopra: il come, il perché, il modo. Capire queste dinamiche aiuta a comprendere i nuovi scenari culturali. Non credo che possiamo permetterci di farne a meno.

Quando leggo i tuoi articoli e le tue recensioni trovo sempre un discrimine: il fatto che un film sappia parlare o meno al nostro presente. Molte delle critiche mosse a The Substance lo hanno accusato di essere puramente citazionista e perciò vuoto e quindi incapace di stare nella contemporaneità...
Francamente un horror più contemporaneo di The Substance faccio fatica a trovarlo. È ovvio che dentro c'è tutto il cinema del passato, e ci mancherebbe altro. Il piacere e il valore è capire come Coralie Fargeat ha elaborato tutto questo con i piedi ben piantati nel presente. Perché quello che si è sottovalutato di questo film è l'idea alla base. Uno spunto lucidissimo: noi siamo solo in quanto immagine. Anzi: io sono, dunque sono un'immagine che è come dire che non solo la nostra identità è un'immagine, ma che addirittura noi esistiamo in questo nostro mondo soltanto se ci percepiamo e consideriamo come immagine. Non credo di arrampicarmi sugli specchi. Credo che per questo The Substance sia molto più di un film sul desiderio della bellezza eterna e così via. Appartiene all'oggi come pochissimi altri horror. Basta guardare come usa lo stile, in modo così spesso, voluminoso, eppure sta parlando di immagini, di qualcosa di assolutamente impalpabile. Un film davvero importante.

Altro titolo, altra corsa: Oddity dell'irlandese Damian Mc Carthy. So che è uno dei titoli che hai maggiormente apprezzato nel 2024. Guardandolo mi ha stimolato un discorso sull'ambientazione. Lo spazio fisico dell'horror moderno qual è? È cambiato rispetto al passato?
Oddity mi ha molto sorpreso perché è un film che scivola sempre via dal genere al quale sembra appartenere: parte come un horror, poi diventa un neo-noir, poi torna horror. Scarta continuamente. Mi ha molto spiazzato in questo senso e l'ho trovato di un'intelligenza particolarmente elegante. Rispetto agli spazi dell'horror attuale è vero che The Substance e Oddity vivono un po' agli estremi classici: da un lato la metropoli, dall'altro la provincia. Può anche accadere che medesimi spazi siano utilizzati in contrasto. Prendiamo It follows e il suo formato scope: vediamo che lì il male non sembra nascondersi come faceva Michael Myers in Halloween dietro le siepi e nelle ombre, ma improvvisamente lo vedi in piena luce ed è qualcosa di estremamente comune, può essere un passante sullo sfondo, in prospettiva lunghissima che infine ti accorgi, punta esattamente te. Nei due casi siamo nella medesima provincia sonnolenta e sonnacchiosa, ma tutto è narrativizzato diversamente. Poi c'è da dire che l'horror torna (qui penso alla saga di Terrifier) pure ai luoghi simbolo degli slasher degli anni Ottanta: le scuole, le docce, le palestre, tutti spazi che sembravano spariti con gli anni Novanta e film come Scream o The Faculty. È tornato l'appartamento dove il singolo e la sua psicologia vengono sbriciolati e piegati. The Substance è nella metropoli, ma quasi tutto si svolge dentro l'abitazione di Demi Moore. Pare esserci una sola strada, un solo boulevard da percorrere per reperire il siero. Non direi che l'horror pratichi spazi nuovi, direi invece che resistono tutti gli spazi che abbiamo imparato ad amare nel corso del tempo.

follows

Hai citato It Follows. Un film sul contagio del male che gli somiglia è Smile 2, un sequel che prende strade diverse rispetto all'originale e dialoga con il Trap di Shyamalan.
Smile 2 mi ha sorpreso. E vedendolo anche io ho pensato a Trap. Naturalmente da un'altra prospettiva – direi ribaltata - che è quella della psicologia contorta, piegata e svuotata come un guanto della protagonista. Ma per entrambi i film vale lo scenario: quello della folla e della messa in pubblico, in esposizione, in esibizione. La cosa più sorprendente in Smile 2 è l'utilizzo che si fa del mestiere della protagonista (cantante e ballerina) e dell'intero entourage che le ruota attorno. Il corpo di ballo usato come strumento per creare suspense e paura. Mi riferisco alla sequenza nell'appartamento di lei con i ballerini che letteralmente coreografano un agguato. Per me è la scena horror dell'anno. Intelligente e pertinente al racconto: un coro greco che intrappola la prima ballerina; una sorta di performance spaventosa. L'intelligenza del film è usare gli strumenti della “trama” per inquietare e costruire l'orrore. E parliamo di un film che è tutt'altro che d'autore, ma piuttosto il prodotto di una major. Un horror che riprende il suo giusto scettro di riflessione sulla realtà anche lontano dalla mano ingombrante di un autore.

Già che ci siamo spendiamo due parole pure su Oz Perkins e Longlegs...
Secondo me è più fumo che arrosto. A conti fatti, a cercare di cavarci fuori qualcosa, mi pare un discreto filmetto. Fondamentalmente non mi dice niente, o meglio, me lo dice in un modo che se all'inizio mi incuriosisce, a lungo andare mi infastidisce con lo spiegone degli ultimi venti minuti che tradisce – ed è come farsi lo sgambetto da solo – un po' l'assunto stesso di un film che dovrebbe giocare sul non detto, sul non spiegato, sull'allusivo, sulle ipotesi. Invece il regista ci fa rivedere tutto da capo, mettendo ogni puntino sulle i. Sto finendo pure per cambiare opinione su Oz Perkins perché il suo primo film – che ho anche rivisto per il libro – February mi aveva convinto perché lì invece tutto quel che è ipotizzato resta tale e alla fine resti con tanti dubbi e un pugno di mosche in mano. Devo dire che a lungo andare questo girare intorno a un modo di raccontare sospeso, astratto, mi ha un po' stufato. Di certo evito di fare quello che han fatto in tanti: parlare di un nuovo Silenzio degli innocenti. Stesso stile cartesiano di Jonathan Demme, uguale proprio (ride).

Nel tuo libro dici che in Italia l'horror è finito molto tempo fa. Precisamente con La chiesa (1989), «titolo che più di tutti sintetizza e conduce al punto di non ritorno le idee tematiche ed estetiche di un mercato giunto (con piena consapevolezza) al capolinea». Dopo oltre trent'anni come siamo messi?
Siamo messi malissimo. E mi verrebbe da risponderti che non è neanche colpa nostra. È davvero lo scenario che è cambiato nel profondo. Non abbiamo più i presupposti di mercato, estetici, culturali per fondare una nuova onda horror. Pensa solo alla Francia, per fare un paragone all'opposto. Purtroppo come discorso culturale il nostro cinema horror è morto nei primissimi anni novanta. Mi fanno ridere quelli che appena esce Piove o The Well si esaltano e dichiarano che allora “si può ancora fare”. Non bastano un titolo, due, cinque. Mi fanno ridere. E infatti cosa fa The Well: rivanga il passato, vestendo un puro abito da soffitta, bric-à-brac stantio, senza nessuna idea contemporanea, senza nessun appiglio al mondo odierno. Perché appunto non ci sono idee se non riferite ai maestri del passato. Recuperare una tradizione è inutile. Non possiamo più farlo. E se mi chiedi se le cose possono cambiare ti dico che non lo so. Sono convinto di questo però: non vedo nuovi sguardi interessanti nel nostro Paese.

In sala intanto è tornato il mito del vampiro. Telegrafico. Nosferatu sì o Nosferatu no?
Per me è assolutamente no. E devo dire che mi ha veramente quasi fatto dormire. L'ho trovato estremamente soporifero. Di una noia sovrana.

In ultimo parliamo di futuro, di aspettative. C'è un/una regista del quale ti manca il fatto che non stia uscendo un suo film, adesso, in questo momento?
Bella domanda. Visto che siamo in tema di prestige horror devo dire che se penso a come mi ha folgorato Nope sono tanto curioso di vedere cosa può fare “dopo” Jordan Peele. Perché sai, ha alzato così tanto l'asticella, con un film che contiene 120 anni di storia delle immagini... Mi dico: come può fare un nuovo film altrettanto importante? Nope è così grosso e così tanto, e per tanti è così troppo, che sono qui alla finestra. E poi penso anche a David Robert Mitchell. È notizia di circa un anno fa che avrebbe dato un seguito a It follows. L'idea di un possibile seguito mi stimola e spaventa, ma dopo dieci anni le cose sono assai cambiate e il progetto potrebbe avere un senso. Di certo attendo con più impazienza il ritorno di questi due che il prossimo film di Robert Eggers.

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Giurato numero 2

di Alessio Baronci
recensione film eastwood

Per alcuni Giurato numero 2 è il film testamento di Clint Eastwood, il suo atto finale da regista. Non ci interessa, in realtà, sapere se sia vero o no; è possibile, però, che a volte certe storie si nutrano anche di suggestioni, dettagli, auto convinzioni. E allora può capitare che qualcosa risalti sullo sfondo e finisca, comunque, per dettare il passo non solo del film ma anche dei tentativi di lettura che se ne danno. Forse Giurato Numero 2 non sarà l’ultimo film di Clint Eastwood, ma certamente è quello maggiormente animato da un’urgenza finale, dal desiderio di chiudere certi ragionamenti e tornare all’origine delle cose. Non è probabilmente un caso se si tratti di un film fondato su temi universali e dichiarati come tali fin dalla prima inquadratura: il bene contro il male, la verità contro la menzogna, la civiltà della responsabilità e la barbarie dell’impunità a ogni costo, il buio e la luce.

Colpisce, certo, come spesso accade in Eastwood, la straordinaria modernità del ragionamento che sviluppa quei temi, la piega argomentativa che interroga, prima di ogni altra cosa (e proprio ora nell’epoca dell’opacità), la nostra capacità, tutta analogica, di vedere ciò che ci circonda e di capire la posizione della verità al di là di qualsiasi pregiudizio. Alcuni hanno individuato più di una continuità tra il mite Justin Kemp, giornalista di provincia che dall’oggi al domani si trova a partecipare come giurato popolare a un processo per giudicare un imputato accusato però di un omicidio che in realtà ha compiuto proprio lui, e lo straordinario protagonista di Trap: entrambi sono narratori inaffidabili delle loro storie, entrambi, soprattutto, sembrano possedere la peculiare capacità di vedere chiaramente un contesto che per tutti mostra un aspetto solo parziale, entrambi sembrano bloccati in un’ideologia borghese che poi, alla lunga, segnerà la loro condanna. L’inconsapevole dialogo con il film di Shyamalan è affascinante ma è evidente che a distanziare irrimediabilmente i due film sono proprio i modi in cui quest’indagine umana viene sviluppata. Se il gioco di Trap è scoperto, ironico, felicemente grottesco a tratti, il film di Eastwood è prevedibilmente calvinista nell’approccio: asciutto, didattico, leggibile, quasi a voler dire che sulla verità, su temi di questo tipo, non si può scherzare, non è ammissibile. 

Sceglie piuttosto un respiro monacale, Giurato numero 2, che chiude nelle quattro mura del tribunale e della sala della giuria un racconto dalla struttura diretta, semplice, priva di doppi giochi, depistaggi, consapevole, forse, che già il peso specifico del punto di vista orientato del protagonista è abbastanza per movimentare il racconto, al punto da farlo deragliare se si aggiungono ulteriori livelli di lettura. Tuttavia a reggere la narrazione troviamo, paradossalmente, un respiro evidente da favola morale, da saggio etico, da allegoria che prevedibilmente prende il tema e lo disperde nel racconto, lo anticipa, fa presagire certe linee della lezione sottesa al film nell’atteggiamento di certi personaggi, ne smonta criticamente le componenti per rimontarle, con consapevolezza, nell’inquadratura successiva. «Inventati una balla per non affrontare il processo», consiglierà l'inconsapevole moglie di Justin al marito, all’inizio del film, come a voler portare in primo piano fin da subito la facilità con cui la verità può essere messa in discussione, malgrado lo stesso giudice, qualche sequenza dopo, metterà in chiaro quanto proprio quel processo sarà l’unico modo comprovato per scoprire come sono andate le cose quella sera (senza sapere che il vero imputato è seduto nel banco sbagliato). Forse il coraggio di Eastwood è allora soprattutto nel girare a 94 anni un film su temi esistenziali così centrali riconoscendo però, lui per primo, che ormai si fa fatica ad affrontare discorsi del genere senza ammettere la crisi profonda degli stessi, ridotti a spunti vuoti, parte di una sorta di rituale performativo, come tradisce, forse, lo stesso Justin, che passerà le prime riunioni con la giuria a provare a far tornare i suoi colleghi sui loro passi ma, in prospettiva, senza troppa convinzione.

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Forse è tutta questione di punto di vista, forse il centro di ogni discorso non è tanto nel suo protagonista ma nella stessa giuria, ben più abissale, a ben vedere, dei 12 uomini arrabbiati di Lumet. È un film sul bisogno di verità, quello di Eastwood, ma tra le righe è anche e soprattutto un film su una nazione irrimediabilmente bugiarda, dominata dai pregiudizi, dai bias di conferma (spiazzante che il primo che inizi a sospettare di Justin sia il giurato afroamericano, membro di un gruppo sociale vittima spessissimo di racial profiling pregiudizionevole), incapace di leggere ciò che la circonda ma anche solo di prendere seriamente i ruoli che rappresenta («Guilty is cool», dirà, frettolosamente, uno dei giurati durante una delle votazioni, come a voler smaltire una scomoda pratica). Ma la patologia è ben inscritta, ovvio, nell’atteggiamento dello stesso protagonista, che si ostina a rimanere sulle sue posizioni rimarcando quanto la verità, a volte, non corrisponda necessariamente alla giustizia, che si intestardisce ad avere due piedi in una scarpa, a vestire i panni del cittadino responsabile ma anche del criminale impunito.
Non stupisce che quello interpretato da Nicholas Hoult sia il primo personaggio del cinema recente di Eastwood con cui è difficile entrare davvero in empatia: lo comprendi, evidentemente, quando racconta il suo passato, quando ricostruisce la sera dell’incidente e si sofferma sui motivi che l’hanno condotto in quel bar, ma poi te ne allontani, anche un po’ stizzito, quando si impunta in certi capricci. Ne risulta un film come meccanismo in pezzi, che fatica a chiudersi  e trovare una via di pacificazione  lasciata tutta al fuori campo, in quello straordinario campo/controcampo di chiusura che assomma in sé (senza mostrare) la verità, la risoluzione dell’omicidio, forse anche la dissoluzione della famiglia borghese. 

Probabilmente, ancora, l’unica consolazione possibile, per Justin ma anche per noi, radicale, paradossale, è che l’America è bugiarda quanto lui, quindi perché cercare di impegnarsi a fare davvero la cosa giusta?

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Clint Eastwood Nicholas Hoult Toni Collette J.K. Simmons Kiefer Sutherland 114 minuti
USA 2024
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Megalopolis

di Saverio Felici
MEGALOPOLIS recensione film COPPOLA

Ad alcuni mesi dalla sua comparsa in sala, non esiste ancora una definizione precisa di Megalopolis. Il dibattito, anche furioso, sull’opera-testamento di Francis Ford Coppola ha curiosamente evitato il confronto con il film in sé, concentrandosi piuttosto sul ruolo che questo andrebbe a occupare idealmente nel panorama audiovisivo contemporaneo - per non dire della storia del Cinema tutto. Con Megalopolis, inutile usare eufemismi, ci si è trovati di fronte a un Evento di quelli veri, potenzialmente definitori, nei confronti del quale lo scherno rabbioso del grande pubblico “lasciato fuori” appare fuori contesto quanto le dichiarazioni d’amore dei critici innamorati (forse più di Coppola stesso che del film, distinzione in questo caso quanto mai pretestuosa).
In una fase storica in cui le “imprese” cinematografiche appaiono sempre più inconcepibili, Megalopolis si pone quindi come un high water mark non tanto artistico, quanto simbolico. Quello che potremmo sintetizzare come il primo film d’avanguardia prodotto e concepito come un blockbuster è d’altronde figlio di una contingenza irripetibile: lo sforzo folle e individuale di un unico autore-investitore, alter ego quanto mai scoperto del protagonista, votato a ridisegnare un futuro al cinema-metropoli-mondo. È sull’asse metonimico della città come film e del film come universo che Megalopolis fa della sua utopia artistica un’Utopia a trecentosessanta gradi: non con ciò che mette in scena, ma attraverso la propria stessa assurda esistenza.

Una volta riconosciuto il senso di Megalopolis, resta però da tradurne le immagini in qualcosa. E di fronte alla visione in sé, il giudizio si complica. Come il return di Twin Peaks o gli Avatar di Cameron, forse gli unici altri esempi degli ultimi due decenni ad aver a modo loro piantato una bandiera, delimitato un limite a cui guardare e con cui confrontarsi - così anche Megalopolis è un unicum destinato a rimanere tale. Non indica il futuro della settima arte più di quanto non ne celebri il passato, irriducibile com’è a riferimenti precisi (che pure ci sono, da Vidor a Lang e quanto altro già ampiamente individuato all'interno della filmografia del regista). Modernista anziché postmodernista, Coppola parla un linguaggio suo e di nessun altro. Non il balbettio sconnesso e inintelligibile che gli hanno imputato i critici americani, quanto l’idioma sconosciuto di un alieno venuto da chissà dove.

Megalopolis-recensione film coppola 4


Da queste premesse, è chiaro come sia impossibile trarre da Megalopolis alcuna lezione su un ipotetico nuovo cinema che da esso possa nascere. Messa da parte ogni regola di storytelling, le inquadrature diventano rappresentazioni astratte di scenari interiori: una statua di marmo può accasciarsi stanca a riposare di fronte al protagonista, e nessuno (né lui, né il film) sottolineerà il fatto. Si parla di urbanistica, Antica Roma, Shakespeare e superpoteri temporali – ma sono pennellate di un affresco impressionista più che linee narrative. Un’analisi frame by frame del film impiegherebbe semiologi e storici del medium per un anno, e il massimalismo felliniano dei set pieces uno più stordente dell’altro ne è solo l’aspetto più sfacciato.
A
 essere messo in discussione in Megalopolis è l’ABC stesso del racconto audiovisivo, ripensato dai dialoghi (un raffinato argot elisabettiano aggressivamente anti-naturalista), al rapsodico montaggio che divaga tra frammenti e squarci di vita senza apparente direzione, fino a una brechtiana Roma in cui la storia presente e passata collassano l’una sull’altra. Viene da appellarsi a precedenti storici nelle avanguardie (Gli occhi non vogliono in ogni tempo chiudersi di Straub e Huillet, magari?) ma nel suo rifiuto di rispondere ad alcuna teoria, Megalopolis si pone al di fuori persino dalla tradizione (ben più conservatrice di quanto si creda) del cinema sperimentale. È ciò che girerebbe un bambino che non abbia mai visto un film – o un vecchio che li abbia già fatti tutti: «mi ci è voluta tutta la vita ad imparare a dipingere come un bambino», celebre aforisma picassiano che Coppola senz’altro sottoscriverebbe.

La domanda che ci pone questa idea - meglio ancora, questa ideologia creativa - non può però ridursi a una diatriba tra cerebrolesi dei supereroi e menti belle delle accademie. Cosa fare di un’arte tanto autoindulgente da chiudersi allo sguardo dello spettatore (e dunque di un interlocutore), ponendosi come pura espressione di una mente allucinata? E dunque: che dobbiamo farcene di Megalopolis?
Il rischio di molto cinema ad aver provato questa via è quello di rimanere sul concetto - in altre parole, che sia più bello pensato che guardato. Art pour l’art programmatica, ma non ispirata. È un’accusa legittima ma che, più che mai di fronte a Megalopolis, ci si sente di respingere con fermezza. Perché l’invasamento demiurgico che anima il film non ne è un aspetto: è il film stesso. Cinema come creazione di spazio, dunque di presente, in risposta ad un tempo che sta finendo (Roma come paradigma di un’istanza vitale che ha nella continua decadenza la propria condizione costituente). La triplice metonimia di film-società-mondo converge nell’utopia di un vecchio che vede la propria storia concludersi (Eleanor Coppola, cui il film è dedicato) e cerca un perché ai suoi momenti finali. Modernista fino alla fine: l’Irishman dell’amico Scorsese chiedeva alla macchina da presa di immortalare il passato in una mummificazione digitale che annullasse il tempo. Megalopolis chiede all’immaginazione di farsi centro filosofico per una creazione artistica del futuro, e trova qui la sua ultima risposta.

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Francis Ford Coppola Adam Driver Giancarlo Esposito Shia LaBeouf Nathalie Emmanuel 138 minuti
USA 2024
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Longlegs

di Mattia Caruso
Longlegs - recensione film perkins

Oregon, anni '90. Grazie alle sue capacità fuori dall'ordinario, alla giovane agente dell'FBI Lee Harker (la Maika Monroe di It Follows e Watcher) viene assegnato un caso decennale riguardante una serie di omicidi-suicidi apparentemente irrelati ma che lascerebbero supporre una stessa, inquietante regia. Su ogni scena del crimine è stato rinvenuto infatti un misterioso messaggio in codice firmato sempre con lo stesso nome: Longlegs.

C'erano una volta i film di serial killer. Una stagione unica, capace, nel giro di qualche anno, di regalarci titoli come Il silenzio degli innocenti, Seven o Cure. Film caratterizzati, ognuno a modo suo, da un fascino malsano e perturbante in grado di dar vita a un vero e proprio filone. È proprio a quella manciata di film, a quell'estetica e all'idea di un Male come “effetto senza causa” che sembra guardare Oz Perkins per il suo Longlegs, ambientando la vicenda proprio negli anni novanta del “Satanic Panic” e trasformando quei modelli in una favola nerissima destinata a sconfinare ben presto nell'horror puro. Che sia pur sempre una favola, del resto, quella di Longlegs, il regista di Gretel e Hansel pare farcelo capire sin da subito, imbastendo una storia di figli smarriti e padri omicidi, presenze oscure (“l'Uomo di sotto”) e fantasmi del passato, dove il mostro (un Nicolas Cage la cui recitazione sopra le righe qui si sposa perfettamente alla vicenda) pare quasi una degenerazione del Geppetto collodiano, un antagonista capace di insinuare il suo Pinocchio all'interno dell'istituzione famigliare, pervertendola.

Abbandonate le derive folk horror del precedente film, Perkins sembra così imprimere una svolta inedita al suo cinema, portando con sé alcuni elementi ricorrenti ma riadattandoli e ridefinendoli attraverso una sensibilità nuova. Sebbene a tratti la visione risulti infatti ancora appesantita, se non pretenziosa, è indubbio come quell'estetismo insistito ed esasperato sembri qui capace di andare oltre la superficie, oltre la facile sensazione garantita da immagini suggestive e minuziosamente costruite. Ben consapevole (questa volta, almeno) che evocare un'atmosfera non basta a fare un film, Perkins sembra così abbandonare mode e riletture furbesche in favore di una sceneggiatura (firmata in solitaria) davvero originale e perturbante, trovando, finalmente, un malsano equilibrio tra parola e immagini.

Mentre "Get It On" dei T. Rex suona in sottofondo (“You've got the teeth of the Hydra upon you...”) e i personaggi, ingabbiati in quadri fissi e implacabili, arrancano senza speranza ne fede (“le preghiere mi spaventano”, dice Lee alla madre), prende così forma un mondo fatto di riti satanici e padri degeneri, vittime inconsapevoli e carnefici improbabili. Una realtà dove il trauma diventa il veicolo perfetto per un Male sfuggente e dai tratti soprannaturali. Un Male sempre pronto a emergere come un'ombra dai margini dell'inquadratura, nascosto in bella vista all'interno di immagini e immaginari apparentemente ben codificati. È così che il crime finisce con lo smarrirsi dentro i tempi e i modi di un horror perturbante e malsano, tanto estenuante nella sua messa in scena e nei silenzi insistiti della sua protagonista (brava Monroe a rendere un personaggio incapace di venire a patti col proprio rimosso), quanto immediato per l'orrore – enigmatico e universale a un tempo – che sottende.

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Osgood Perkins Maika Monroe Nicolas Cage Alicia Witt Blair Underwood 101 minuti
USA 2024
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Planet B

di Alessio Baronci
Planet B - Recensione- Film - Rapin

Il punto di partenza, anche e forse soprattutto inconscio, di Planet B è probabilmente poco conosciuto ma affascinante. Giusto un paio d'anni fa Daniel Goldhaber gira How To Blow Up A Pipeline, storia (tratta dall’omonimo saggio di Andreas Malm) di un gruppo di giovani ambientalisti male in arnese che decide di far saltare un oleodotto americano. È quasi una rivelazione silenziosa, che colpisce soprattutto per il modo in cui Goldhaber tratta l’ecologia, tema di fondo ma anche prassi linguistica. Ecologia dei segni, della scrittura, quindi, ridotti all'osso in un action che al di là delle imperfezioni si crede un heist movie fino in fondo e crede soprattutto nel suo immaginario, nella sua sintassi, nei suoi rituali, che alla lunga quasi si mangiano il tema di fondo, si, ma allo stesso tempo proteggono il film dal rischio di scadere nella vuota retorica.
Come a voler immaginare il linguaggio di un action a tema ecologista e lasciar intendere, forse, tra le righe, che si dà importanza all'ambientalismo ma forse a sedurre irrimediabilmente chi guarda è soprattutto il fascino avventuroso del racconto puro del "colpo".

Ecco Planet B. il film di Auede Lèa Rapin presentato all’ultima Settimana Della Critica è probabilmente il passo successivo a quanto già si intravede nel film di Goldhaber, il tentativo di rispondere e approfondire i discorsi attorno a domande che già emergevano tra quelle immagini: come si crea un intero mondo attorno a un’urgenza tematica così profonda; come si gestiscono un ritmo, un respiro, una serie di motivi ricorrenti, un modo di approcciarsi alla sintassi legandolo a uno spazio da "cinema di genere"? E forse la vicinanza tra i due film la tradisce anche questo atteggiamento quasi giocoso nei confronti del tema ambientalista. È da lì in effetti che si parte, è su di esso che si costruisce un racconto teso tra la sci-fi e l’avventura pura, che segue un gruppo di ambientalisti impegnato in azioni di guerriglia contro il governo in un futuro vicinissimo alla nostra contemporaneità, ma proprio all’apice dell’operazione su cui si chiude il prologo, apparente centro narrativo del film, improvvisamente scarta, lascia intendere che più che nel primo piano, nella ribellione pura, il vero interesse stia tutto nello sfondo.

A risaltare, nella fuga a perdifiato dalle autorità del protagonista non è quasi più, allora, il gesto politico ma il linguaggio, i marcatori di immaginario con cui questa corsa a perdifiato viene raccontata, tra il cinema della sorveglianza, le inquadrature termiche dai droni come in Watch Dogs e il ritmo da action movie fatto e finito, per quanto pensato per un budget contenuto. Da lì Planet B pare affascinato dalla sua capacità mitopoietica, a tal punto che a tratti pare attardarsi nel racconto della sua storia per costruire in modo certosino il suo mondo futuro sull’orlo del baratro climatico, puntellato di riferimenti futuristici a bassa fedeltà eppure tutti centratissimi, affascinato dai suoi neon, dai suoi meccanismi, dai suoi rituali, dalla sua mitologia, tutti elementi raccontati con cura al di là della loro importanza nello spazio narrativo.

C’è talmente tanta passione, nella creazione del terreno d’azione di Planet B che a tratti la questione ambientalista sembra perdersi e il film di Rapin pare divenire a tutti gli effetti una sorta di esercizio di stile in forma saggistica sulle possibilità del world building nel cinema di genere europeo.

Planet B-recensione-film-Rapin

Ma se facesse tutto parte del gioco?

Planet B: come in "There Is No Planet B", lo slogan ambientalista mantra dei Fridays For Future fin dal 2019, slogan che evidentemente riemerge anche sul finale del film, rabbiosamente urlato in faccia ad alcuni agenti del potere centrale da una dei protagonisti. Non c’è un secondo pianeta, o forse c’è ma, nella distopia del racconto è uno spazio governativo, è la prigione virtuale dove verranno trasportati e torturati i giovani guerriglieri dopo l’azione fallita che ha aperto il film, ironico ribaltamento di fronte di un film che pare soprattutto, più che una resa, un tentativo di mettere le cose in prospettiva. È un po’ come se Planet B si posizionasse oltre l’ambientalismo, ragionando più come un’operetta morale che come un testo dal retrogusto apocalittico. Perché in fondo è inutile pensare all’ambiente se i meccanismi del potere e del sopruso sono ancora attivi e aggressivi. Ecco allora che Planet B dà il meglio di sé quando diviene lucidissimo saggetto sulla pervasività degli strumenti del controllo, sul biopotere e sulle questioni morali che si creano in un gruppo di soggetti costretti in una situazione estrema come la prigionia e la tortura.

Sia chiaro, Auede Lèa Rapin non inventa in realtà nulla di davvero nuovo, rimastica in modo personale influenze distopiche note e fa emergere in primo piano un tema che probabilmente altri prima di lei hanno trattato con più chiarezza argomentativa. Eppure, malgrado un passo a tratti malfermo, la scrittura non perde comunque occasione di raccontare senza remore le ambiguità del nostro rapporto con il potere, di ragionare, forse soprattutto, su forme eminentemente contemporanee di controllo, che passano per la virtualità, per la creazione di un visivo influenzato dalla (post)verità modellata dai dati, per l’importanza di apparire, forse non a caso, invisibili in rete per organizzare le giuste strategie di contrattacco. E il passo del racconto non è mai davvero consolatorio, piuttosto la scrittura sembra costantemente cercare qualche dettaglio che pesi sul nostro petto, ci spiazzi, per quanto possibile, ci privi di vere e proprie vie di fuga.

Probabilmente, soprattutto sulla lunga distanza, Planet B rischia di apparire fuori fuoco, di rimanere sulla superficie delle cose, di presentarsi come un testo apodittico, ma il film di Auede Lèa Rapin è comunque uno dei pochi, cinici, racconti morali per il nostro presente liquido: perché richiama costantemente i nemici da combattere e perché, soprattutto, racconta senza filtri quanta strada ci sia ancora da fare nello spazio della biopolitica.

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Aude Léa Rapin Adèle Exarchopoulos Souheila Yacoub Eliane Umuhire India Hair 119 minuti
Francia Belgio 2024
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Queer

di Leonardo Strano
Queer- recensione film guadagnino

Quando nel 1985 William Burroughs si trova di fronte alla pubblicazione di Queer, trent’anni dopo averlo scritto, la sua posizione come autore è curiosamente simile a quella che caratterizza Luca Guadagnino oggi nella seconda metà degli anni Dieci del nuovo millennio: affermata, autorevole, ma soprattutto attenta alla domanda del mercato americano. Negli anni ’80 Burroughs ha superato il culmine del proprio potere di scrittura, ed è invece in un momento apicale di potere commerciale: non è più una voce, è ormai una firma, che conta anche fuori della cricca beat che lo aveva fatto conoscere nella cultura indipendente. Proprio in quanto firma, allo scrittore viene chiesto di siglare la pubblicazione del proprio esperimento giovanile, lasciato indietro per irrisolte questioni più personali che stilistiche – in particolare l’omicidio involontario della moglie Joan, fonte generativa dello scritto. Borroughs è meno che disinteressato, ma scrive una nuova introduzione. La nuova veste editoriale, più istituzionale, più normalizzata, magari stona con la vertigine della sua scrittura, inizialmente pensata per la pubblicazione indipendente di Ginsberg, ma in fondo ha il pregio inconsapevole di allineare le forme ai contenuti più impliciti. Di fare emergere in particolare, dietro al magma confessionale sulle proprie pulsioni, la netta fede nell’imperialismo americano (garante per lui di assoluta libertà d’espressione) e nella sua aggressività, con cui lo scrittore contrastava le correnti di sinistra che all’epoca contrastavano a loro volta l’omofobia attraverso una democratica resilienza cristiana – come esemplificava la posizione di Donald Cory, teorico del porre l’altra guancia di fronte alle offese. 

La versione del romanzo che, nel 1988, il diciassettenne Guadagnino incontra (per sua ammissione) in una traduzione italiana che porta il titolo di “Diverso”, non è quindi quella originale, non è una versione più completa, non un retcon delle intenzioni, che anzi vengono esplicitate, ma un oggetto teorico complesso: una mossa di autorialità performativa (mentre il dibattito sulla morte dell’autore infuriava), che indirettamente o meno spiega come conservare la progressione teorica della propria ricerca autoriale e allo stesso tempo difenderla dalla condizione di dipendenza dalle ragioni mercantili, sfruttando quest’ultime per mettere un’esponente politico alla propria autorialità.  “Diverso” (poi “Checca” e infine “Queer”) è quindi una fonte d’ispirazione produttiva, un modello di politica dell’autore, o semplicemente di politica dell’espressione potremmo dire, con cui confrontarsi anche trent’anni dopo l’incontro adolescenziale epifanico con uno stile di scrittura, con una grafia, capace di porsi il problema della rappresentazione della carne, della materia vivente, e di rispondere trasformando il linguaggio in un’altra carne, in un crogiuolo di sangue ribollente. Trent’anni in cui Guadagnino ha forse inseguito la realizzazione del suo Queer proprio ricercando la stessa posizione di autore capace di contrattualizzare le proprie ragioni rendendosi (in)dipendente nell’industria hollywoodiana. 

Anche per il regista, come per Burroughs, non preoccuparsi e imparare ad amare l’imperialismo americano è diventato garanzia implicita di libertà di movimento e di espressione della propria scrittura sul corpo. Anche per Guadagnino, come per Burroughs, normalizzare e comprimere parte di questa espressione è il prezzo da pagare per vederla realizzata. Lo scrittore dovette alleggerirla di almeno trenta pagine; il regista invece ha presentato a Venezia una versione più corta di quella pensata inizialmente e già pronta per essere venduta al pubblico americano (via A24), ripulita dall’ora di esplicite peregrinazioni sessuali del personaggio di William Lee a Città del Messico - questa invece è stata un'ammissione di Alberto Barbera. Il simmetrico gesto di decurtazione è rivelatorio della capacità più o meno fallimentare di controllare e appropriarsi delle aggressioni del mercato, sintomo di un dislivello tra le due opere: se per il primo corrispose a una decisione volontaria, coerente con il proprio progetto formale, per il secondo è stata probabilmente una costrizione, fonte di inaspettate contrattazioni che portano il film ad altrettanto irrisolti sbilanciamenti. Per Burroughs rimuovere parti della sua opera significava d’altra parte in qualche modo continuare l’azione cardine della propria scrittura: la capitalizzazione del vuoto, del non detto, del gap tra le parole prodotte dal cut-up. Per Guadagnino invece si tratta di un indebolimento – che finisce per essere più interessante del film, sul piano testuale niente più che una sintesi trasparente e prevedibile di interessi autoriali ormai talmente chiari da necessitare, per generare immagini sempre nuove, più le sfide produttive di una commissione (come Challengers), che quelle dettate da sogni personali.

craig queer

Per quanto originato secondo gli stessi principi di teoria della produzione d’autore, il suo adattamento non ruota infatti sullo stesso principio formale (il vuoto), ma sul suo opposto (il pieno). Lo si capisce già dalle immagini iniziali, in cui proprio i fogli del manoscritto di Burroughs/Lee vengono prima ripresi come semplici superfici bidimensionali stesi su un letto e poi come pareti di casette di carta. Ancora una volta l’intenzione di Guadagnino è quella di usare il cinema come un catalizzatore di tridimensionalità, e cioè di profondità corporea, verità materica, corretta referenza d’essere, per le cose che la rappresentazione, letteraria ma anche audiovisiva, raffigura invece senza corpo. L’inizio di Bones and All funzionava allo stesso modo, e cioè usando uno scarto dimensionale – passando dalle pareti pitturate a una serie di interni vuoti rigidamente prospettici e infine alla plastica di un corpo in movimento – per dichiararsi ripensamento di un immaginario, quello del cinema americano anni 80. Qui lo scarto non invita solo a pensare, alla maniera di una postfazione critica fuori tempo massimo, alle parole di Burroughs come qualcosa che cerca di esprimere a forza un corpo senza riuscirci del tutto per limiti connaturati al medium della scrittura, ma spinge anche ad accogliere l’immagine cinematografica come un naturale completamento, un esito felice di quelle stesse parole.

Guadagnino pensa alle proprie immagini come la superficie, nel senso proprio come parte esterna delle pulsioni, dei desideri sessuali, dell’urgenza di contatto che trasuda dalla scrittura di Burroughs attraverso il tramite fittizio di William Lee – un Daniel Craig a cui viene chiesto uno sforzo di materializzazione degli stimoli mentali forse superiore al suo raggio d’espressione. Per questo sceglie di piegare le parole dello scrittore, o meglio, di piegare il vuoto che sempre le precede e le segue (nella scrittura di Queer c’è secca inconcludenza nella prosa, ogni frase è una meteora), e di farci degli angoli, dei segni di profondità appunto, intorno. Angoli di stanze, stanze di un set. Ecco, quindi, il viaggio esotico di Lee e della sua ossessione Alderton ricreato nell’interno di Cinecittà. Ecco in questi interni una serie di diorami d’ispirazione pressburgeriana, secondo un linguaggio massimalista, di decoro, molto lontano dalla rarefazione e dalla dispersione della scrittura originale. Ed ecco inscritti in questi diorami tentativi sempre più vari di mostrare l’imporsi e il darsi dei corpi, il loro stare, attraverso il movimento di macchina e l’uso del colore, la manipolazione della recitazione e la musica fuori tempo, tutto per liberare la massa plastica dalla camicia di forza letteraria e permetterle di farsi materia in movimento nello spazio.  

L’ambiziosa idea di riempire gli spazi-tra-le-cose prodotti dal cut-up burroughsiano trova nell’invenzione di un finale alternativo, non scritto, il suo momento decisivo. Lee e Alderton, sono immersi nella ricerca dello yage. Nel romanzo non lo trovano e la chiusura è brusca. Nel film Guadagnino sembra incapace di decidere tra la necessità di esorcizzare l’horror vacui, dando un esito narrativo al viaggio dei protagonisti, e quella invece di abbracciare la sperimentazione anti-drammaturgica, evocata anche dalla presenza in scena di Lisandro Alonso, araldo dell’accesso a una zona cinematografica altra. Alla fine, è scelta una via mediana, rappresentata dalla messa in scena degli effetti psicotropi dello yage sui corpi dei due protagonisti. L’occasione per il regista di dare sfogo figurativo alle sue idee sull’immagine cinematografica come segno indessicale (prodotto dalla frizione del passaggio del corpo desiderante tra le maglie della realtà) è però anche un punto limite sintomatico: nella trasformazione totale e totalizzante delle parole negate al lettore da Burroughs in carne e materia offerte alla vista si ritorna a uno stadio di puro colore, e cioè a quella bidimensionalità inizialmente rifuggita. Si ritorna cioè a uno stadio prefigurativo che oltre a rivelare la difficile condizione espressiva del corpo (elemento paradossale che manda sempre in cortocircuito le strategie rappresentative) dice anche qualcosa rispetto all’effettiva funzione del vuoto (Gombrich la chiamava espressività dell’assenza) come modalità di espressione “positiva”.

C’è più corpo, c’è più materia (e tutto ciò di cui essa è allegoria, tra cui anche l’affermazione politica rispetto all’imperialismo) nella capitalizzazione autoriale del non detto piuttosto che nell’estenuante ed estenuata ricerca del pieno. E Guadagnino, di fronte alla compressione mercantile delle proprie immagini esplicite, di fronte cioè a un altro vuoto, forse avrebbe dovuto cogliere la costrizione come un’occasione per ripensare da capo le proprie strategie critofilmiche e farle del tutto coincidere al loro modello burroughsiano (così lungimirante), piuttosto che ribaltarle attraverso continui ossimori. Non per copiare il maestro, ma per risolvere con i suoi stessi strumenti la propria impasse produttiva e poi eventualmente tradirlo sul piano formale. Invece ecco che lo vediamo percorrere, con uno sforzo certo ammirevole ma in fondo estenuato, tutta la Storia del Cinema per dialogare con il mutismo del suo modello. Come nell’epilogo, nel controfinale di “Ritorno a città del Messico”, che cerca con nostalgia lo scrittore attraverso il massimalismo del Kubrick di 2001: Odissea nello SpazioE cioè fino alla resa, come si diceva, nei confronti di un’immagine oltre le immagini, una sfumatura oltre il cinema che dica tutto, che parli in senso esauriente, e che tuttavia ha le fattezze di un nuovo testo: “I’m not queer, I’m disembodied” si ripete ancora il protagonista mentre la sua anima si spegne insieme al film.

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Luca Guadagnino Daniel Craig Drew Starkey Jason Shwartzman Lesley Manville Lisandro Alonso 135 minuti
ITA 2024
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Anora

di Maria Sole Colombo
anora recensione film baker

Anora di Sean Baker è un film semplice. Che non è sinonimo di stupido, di superficiale, di “facile da fare”. Anora è semplice come era semplice Accadde una notte, o come sono semplici le favole che le nonne raccontano ai bambini. E Anora, infatti, è innanzitutto Cenerentola: la storia di una poveraccia – stripper di periferia, immigrata, cafona e cazzuta – che finisce per miracolo col principe azzurro, discolo imberbe figlio di magnati russi. Coiti adolescenziali, playstation, matrimonio alcolico a Las Vegas: «Vi do due settimane», li apostrofa la collega stronza, e invece per sbrogliare la matassa basteranno ventiquattr’ore, una maratona a rotta di collo nella selva oscura di New York.

La struttura narrativa richiama modelli illustri: Tutto in una notte, naturalmente, ma pure Fuori orario, con quel suo atto unico senza soluzione di continuità, senza tregua, senza scampo. Un espediente drammaturgico caro a Baker, che già l’aveva impiegato in Take Out nel 2004 e in Tangerine nel 2015. Col senno furbetto del poi, Tangerine non è per Anora che una prova generale: ci sono le sex worker e gli emarginati, c’è il piglio arrembante e videoclipparo, c’è quel ribaltamento tra autenticità e contraffazione che per il regista statunitense è un po’ un chiodo fisso (la prostituta transgender protagonista del film del 2015, che guarda caso si fa chiamare Sin-Dee Rella, riceve come pegno d’amicizia una parrucca: un oggetto emblema del falso, per rinsaldare l’unico legame vero). Le unghie finte della stripper Anora, le sue extension manifestamente posticce, raccontano in fondo la stessa identica storia: sono una maschera sguaiata, fiera del suo cattivo gusto, ma paradossalmente genuina.

Il confronto tra Tangerine e Anora ci parla insomma di una grande coerenza tematica e drammaturgica, che si estende a tutta l’opera di Baker: la sua filmografia è costellata di sex worker più o meno falliti, si diceva, ed è ugualmente pervasiva l’ossessione per una macchina da presa mobile, francobollata ai personaggi, votata a un preciso mandato di pedinamento (e a questo proposito, la prova generale va rinvenuta necessariamente in Un sogno chiamato Florida, col suo infaticabile girovagare). Ma proprio nel passaggio che da Tangerine conduce ad Anora, in termini di dispositivo, si esemplifica il movimento compiuto dal cinema di Sean Baker: nel 2015 girava con l’iPhone, nel 2024 in 35 mm, e questo scarto marca una differenza essenziale in termini di sguardo e di poetica. L’immagine catturata dallo smartphone ci dice di un cinema povero nei mezzi, linguisticamente calato nel suo contesto: le immagini sono fatte della stessa pasta del mondo raccontato dal film, il dispositivo è coerente con l’ambiente. La pellicola 35 mm racconta tutta un’altra storia, e ben esemplifica la ricerca di una forma raffinata, assimilata ai modi di produzione del cinema autoriale. Un film da Festival di Cannes, insomma, e con un po’ di fortuna persino da Palma d’oro. Per i maligni, la lettura è fin troppo chiara: Sean Baker passa da un indie “vero” a un indie “falsificato”. Uno sguardo meno ideologizzato potrebbe leggere il movimento opposto: Baker sarebbe un autore che si spoglia delle proprie imposture per cercare una forma più classica, forse anche più ecumenica.

anora rece gf film

È “popolare”, senza ombra di dubbio, l’approccio di Anora al genere: con la sua trama intensamente romantica, con la sua eroina indomita e fuori controllo, il film aderisce con appassionata convinzione agli stilemi della rom com (si cita, senza vergogna alcuna, Pretty Woman di Garry Marshall). Ma nell’uso pirotecnico del dialogo, fittissimo e ricco di invenzioni, si risale dritti fino alla screwball degli anni 30 e ai suoi duetti dal ritmo indiavolato. Qualunque siano i modelli chiamati in causa, si coglie la distinta intenzione di omaggiare, senza necessariamente reinventare. Baker rivendica una cinefilia entusiasta, amorosa: è uno di noi, uno che non ha paura di mischiarsi col suo pubblico (come dimostra il suo aggiornatissimo profilo Letterboxd).

Questa semplicità di sguardo, rivendicata con un orgoglio che sfiora l’anti intellettualismo, non impedisce al cinema di Baker di confrontarsi criticamente con i segni e i luoghi della cultura mainstream. Starlet e Tangerine si ambientavano a Hollywood, Un sogno chiamato Florida si svolge tutto a pochi passi da Disney World, la trama di Anora si dipana tra Las Vegas e Coney Island, con le sue spiagge e i suoi lunapark: Baker predilige insomma gli spazi tipicamente ricreativi, di cui mette in scena i desolati dintorni e gli squallidi “dietro le quinte”. C’è, in questa attenzione per ciò che sta ai margini, un’antica concezione dell’“altra faccia del sogno americano”, che induce a guardare alle zone liminari, alle culture periferiche, al paesaggio suburbano. Se l’imperialismo statunitense si esemplifica, a livello urbanistico, con la forma-grattacielo, arrogante nel suo slancio verticale, Baker rivendica uno sguardo interessato alla perlustrazione dei marciapiedi, dei drugstore, dei motel da quattro soldi. Un cinema orizzontale, che non si vergogna di “volare basso”. Un cinema semplice.

 

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Sean Baker Mikey Madison Yuriy Borisov Mark Eidelstein 138 minuti
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The Brutalist

di Leonardo Strano
The brutalist - recensione film Corbet

The Brutalist inizia dove finiva Childhood of a Leader, nello stesso spazio di astrazione figurativa: l’abbattimento della scatola prospettica, il rovesciamento delle pareti del dramma in un vuoto panoramico senza coordinate. Nel film d’esordio Brady Corbet faceva vorticare la macchina da presa fuori da ogni asse per mettere il fascismo in figura: una distorsione delle linee di forza della messa in scena come segno della distorsione delle coordinate morali nella Storia dell’Occidente. In questo nuovo opus presentato alla Mostra del Cinema di Venezia (come è stato detto, tre ore, pellicola, Vistavision) invece, ecco un nuovo vortice a risalire dal buio, non più per intercettare una folla urlante in adorazione del capo, ma per mostrare lo squarcio di cielo da un antro oscuro, una mano tesa tra le nuvole a offrire una fiaccola, la Statua della Libertà. Però demonicamente ribaltata, come un angelo caduto. Da un lato ecco quindi l’esito fantapolitico del fascismo di Prescott il bastardo, infante rabbioso mal cresciuto in regime famigliare di austerità repressiva, allegoria dell’interventismo americano nella genetica della geopolitica europea; dall’altro l’incipit di finzione romanzesca del sogno di libertà László Tóth, architetto ungherese fuggito in America per il nazifascismo ma già consapevole dello spettrale razzismo della terra delle opportunità. Una fine e un inizio, due immagini differenti, fatte scorrere lungo un un’unica cerniera, un unico assunto teorico che avrebbe fatto felice il compianto Frederic Jameson: distopia e utopia sono facce della stessa immagine, o meglio, sono la stessa immagine. E questa immagine ha i connotati dell’America. 

Oltre questa convinzione, in buona parte già evasa dalla teoria delle ideologie, Corbet aggiunge poco sul piano teorico. I suoi film (nati americani ma cresciuti europei e già identificabili come parte di un ambizioso progetto d’autore in critica con una nazione) si risolvono nell’intuizione che il mezzo cinema sia funzionale a mostrare l’ambiguità di questa stessa immagine, la sua natura dialettica, double fas. Non solo perché il cinema (almeno nella sua categoria produttiva di riferimento) è frutto di un plesso ideologico sospeso a metà tra ragioni di commissione industriale e creazione autoriale, al punto da rispecchiare omeopaticamente questa stessa ambiguità, ma anche perché il cinema come linguaggio redime questa ambiguità permettendo di abitarla. Di viverla cioè come un’esperienza fisica, tridimensionale, che si incontra con il corpo dei personaggi, all’altezza dei loro occhi. Drammi da camera sono tutti e tre i suoi film, in cui un trauma prende le forme di quattro pareti – ricordate il gabinetto decisionale con la mappa dell’Europa da ridisegnare nell’Infanzia di un capo, o la classe liceale della sparatoria iniziale di Vox Lux? – non tanto per ragioni meramente tematiche ma per una forte credenza formale, figurativa, nel cinema come linguaggio architetturale, che rimette in scena le interazioni tra individuo e società attraverso una manipolazione dello spazio fisico.

The Brutalist, film di conferma per Corbet sul piano delle performance autoriali all’interno del mercato festivaliero – premiato con il Leone per la Miglior Regia -, a questo proposito sembra non fare altro che allegorizzare le sue condizioni di produzione e le sue ragioni d’essere teoriche. Da un lato racconta la dialettica di interdipendenza tra un artista dell’Europa dell’est, appunto László, e un magnate americano (tale Harrison Lee Van Buren, ambizioso industriale) per la costruzione di un edificio a servizio della comunità, in uno scontro insistito tra le ragioni della forma e quelle dell’economia – fino a suggerire l’utilità interpretativa dei paratesti produttivi dietro al film, che raccontano le contrattazioni decennali per completare il progetto. Dall’altro si inventa un profilo alter ego, architetto della scuola brutalista del Bauhaus - e cioè di quella corrente che cercava una risposta ai quesiti della nascente società di massa senza però cedere ai ripieghi sottilmente reazionari di uno storicismo (il recupero delle forme vecchie per affrontare il disorientamento dei valori) incapace di costruire una nuova etica sociale attraverso l’estetica delle masse solide –, per trovare nella promessa di quel movimento modernista un posizionamento altro all’interno del dibattito sul ruolo del medium cinematografico in tempi postmodernisti.

brutalist recensione

Quale promessa? Quella dei teorici più ottimisti che, alle porte di una modernità massificata cercarono di spingere il pensiero dei loro contemporanei verso quest’ultimo versante per rivalutare gli impulsi della modernità e ribaltare così lo shock delle possibili alienazioni capitaliste in forme di vita sostenibile. Kracauer e Benjamin, per capirci, ma anche, più opportunamente, László (appunto) Moholy-Nagy: avanguardista ungherese del Bauhaus che per tutta la carriera cercò di cambiare il segno della luce, impulso elementale reso costitutivamente ambiguo dai nuovi tempi elettrici, da agente anestetizzante per la vita dei soggetti a referente di un’evoluzione cognitiva aperta alla riformulazione del capitale culturale. Oggetti miliari come il suo Light- Space Modulator, scultura di luce capace di organizzare la bidimensionalità inorganica in proiezioni tridimensionali da cui intravedere virtuali possibilità di esistenza alternative, stanno dietro ai disegni e alle concezioni di Tóth, e quindi di Corbet, che, nel momento in cui il cinema sembra perdere ruolo rispetto al dibattito pubblico, pensa al modernismo come forma di legittimazione del medium in senso sociale. Il regista pensa al suo film come un edificio – che include tra le sue stanze anche la sala, per esempio con un intervallo di un’quarto d’ora che con audacia strutturalista riproduce l’attesa del ritorno della moglie deportata di László

Un edificio fatto per catturare la luce, o meglio, l’impulso luminoso che, nei suoi ombrosi ripiegamenti, è ancora correlativo fenomenologico delle ambiguità utopiche/distopiche della terra della modernità. Un edificio che è l’occasione per László/Corbet di districare dall’America una luce che organizzi politicamente l’estetica (ecco il comunismo della materia di cui l’architetto cerca invano di farsi promotore nei salotti borghesi di Van Buren) invece di estetizzare la politica. È questo per il regista, modernista doc che ragiona fuori tempo massimo sull’opera d’arte in tempo di riproducibilità tecnica, il fascismo contemporaneo: trasformare in spettacolo la propria autoalienazione, cancellando la possibilità di riscrivere i dislivelli di potere economico e sociale e conservare lo status quo. Un movimento che Corbet indica globalizzarsi dal razzismo degli Stati Uniti anni ’50 al sionismo dell’allora nascente Stato d’Israele, e che si sigilla proprio nell’epilogo del film, quando i progenitori di Laszlo riscrivono il senso dei suoi edifici: da audaci ribaltamenti della tecnica moderna più alienata (i campi di concentramento annullati da una concezione nuova dei soffitti) a mere testimonianze postmoderne, quindi eventualmente solo commemorative, in un percorso che porta in fondo a nuove forme di isolamento sociale. 

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Brady Corbet 215 minuti
USA (2024)
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Rebel Ridge

di Rosario Gallone
rebel-ridge- recensione film

«È cinese. Combatteva con gli altri» - «Ah. È bello ritrovarci tutti insieme».
In questo scambio di battute tra Terry Richmond e Summer McBride, nel retrobottega del ristorante cinese in cui il primo si sta facendo medicare dal dottor Liu, Jeremy Saulnier condensa un ritratto dell'America in cui, ancora oggi, ci sono gli “altri” ovvero tutti quelli che non sono maschi, bianchi e probabilmente eterosessuali. “Tutti insieme”: due cinesi, un nero e una donna. Che non sono protagonisti di una barzelletta, al contrario: nella storia in cui sono coinvolti non c'è proprio niente da ridere.

«Quando mi hanno mandato via ero riconoscente. Come se avessi tutta la vita davanti, ho anche sentito Mike dirmi che era giusto così. L'addestramento, ciò che insegno, è per lo più l'autopreservazione, quindi non ho fatto che applicare quei principi» spiega poco dopo Richmond, nel momento in cui annuncia di voler cambiare strategia («E non era di Mike quella voce, era la mia»), ma, in fondo, anche approccio alla vita. Fino a quel momento è stato una sorta di Booker T. Washington, il “grande accomodatore” come lo definiva W.E.B. Dubois, che non ne condivideva il progetto di integrazione impostato su una sostanziale subordinazione ai bianchi ricchi e influenti dai quali ottenere finanziamenti e prebende. O, ancora, un uomo convinto, come Martin Luther King che «la violenza è un modo immorale e poco pratico di ottenere giustizia. Poco pratico perché è una spirale che porta alla distruzione. La vecchia legge dell'occhio per occhio ci lascia tutti ciechi», solo che il suo atteggiamento di pacifica resistenza non ha portato a nulla di buono e allora, forse, meglio ispirarsi a Malcolm X che non era contrario a usare la violenza in caso di legittima difesa («Non la chiamo violenza, quando la si usa in autodifesa, ma intelligenza»). Insomma, Richmond, che pure aveva consigliato a Summer di non gettare benzina sul fuoco, decide di essere fuoco.

Quella di personaggi non avvezzi alla violenza è una costante della filmografia di Saulnier: dal protagonista di Murder Party, l'ingenuo Christopher, che si ritrova a una festa di Halloween sui generis, fino al naturalista in pensione di Hold the Dark passando per il mite, ma devastato, Dwight del folgorante Blue Ruin e la punk band di Green Room che, lontana dall'autopreservazione (ma del resto è punk), intona Nazi Punks Fuck Off dei Dead Kennedys in un pub gestito da suprematisti. Da questo punto di vista, però, il protagonista di questo Rebel Ridge, Terry Richmond, non è l'individuo ordinario costretto dalla situazione a tirare fuori il peggio di sé, anzi è l'unico programmato per reagire a un abuso, da istruttore di Ju Jitsu quale è. Ma è anche un nero in America e quindi abituato (lo si capisce subito da come si comporta nel fermo dell'incipit) a stare al suo posto, a non “far incazzare” l'autorità. Citando ancora W.E.B. Dubois, pure lui è afflitto dalla double consciouness afroamericana: da una parte orgoglioso delle proprie origini, dall'altra desideroso di essere considerato non un americano nero, ma un americano e basta.

Rebel Ridge comincia come Rambo, ma Terry Richmond non è reduce da una guerra cui non ha mai partecipato, è un sopravvissuto in un conflitto che, tra una tregua e l'altra, insanguina la sua terra da sempre. Dal cult movie di Ted Kotcheff poi si plana in territorio Copland, uno dei tanti capolavori firmati da James Mangold, con cui condivide il racconto di una comunità che (af)fonda sulla corruzione della polizia locale, sul raggiro e sulla strategia delle tre scimmiette (non vedere, non sentire, non parlare). Saulnier si prende tutto il tempo necessario prima di far deflagrare la vicenda nell'eccesso di violenza dell'ultima parte. D'altronde, non è S. Craig Zahler (altro regista che, alla pari di Saulnier, Tarantino, Jim Mickle e del Damon Lindelof della serie Watchmen, ha contribuito alla rigenerazione di Don Johnson) e Rebel Ridge è più simile a Blue Ruin (anche nella sua natura di revenge tale) che a Green Room, ma di sicuro è stato anche baciato dalla buona sorte, se è vero, come è vero, che Aaron Pierre, perfetto, sia giunto in sostituzione della prima scelta che era John Boyega.

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Jeremy Saulnier Aaron Pierre Don Johnson AnnaSophia Robb Emory Cohen 131 minuti
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