Joker: Folie à Deux

di Daniele D'Orsi
Joker Folie à Deux recensione film

C'è un'immagine, che più di tutti gli eventi del primo film, sintetizza le istanze e lo spirito anarchico del Joker originario. Quella in cui Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) nelle vesti del mefistofelico clown, accoglie a braccia aperte la follia in cui sta sprofondando collettivamente la città di Gotham, mentre si erge in piedi sul tetto di un automobile. Un'inquadratura, questa appena delineata, che per quanto sia risultata emblematica delle logiche e delle tematiche che Todd Phillips ha voluto esplorare con il lungometraggio del 2019, non avrebbe più alcun posto nel suo sequel diretto: anzi, potrebbe apparire anche incongruente, se non addirittura anacronistica, sia con i tempi in cui si trova la storia del protagonista, sia per ciò che il cineasta desidera esplorare in Joker: Folie à Deux. Tanto che in questo seguito, presentato in Concorso all'81ª edizione del Festival di Venezia, le traiettorie verso cui si dirigerà il (tragicomico) clown dei fumetti DC lo porteranno sì a mettere in questione la sua stessa identità (di eroe anarchico, così come di uomo ridicolo) ma soprattutto permetteranno – o forse, costringeranno – il film a deviare dalle idee e dai registri adottati nel precedente lungometraggio, per poi traghettare il racconto verso un orizzonte perlopiù inedito: sia in termini puramente di genere (con il musical che subentra ora al thriller urbano) sia per quel che riguarda il tono e le tematiche che Phillips ha desiderato qui ribadire, al di là di qualsiasi preconcetto o formula precostituita.

Sin dall'incipit, Joker: Folie à Deux sembra voler frapporre un argine tra ciò che andremo ad assistere nel racconto, e gli stilemi che hanno caratterizzato, portandola al successo planetario, la precedente origin story del 2019.
Dopo un prologo animato, tratto da un fittizia serie tv realizzata in onore del sanguinario pagliaccio, il film entra nel mondo soffocante della prigione di Arkham, luogo e dimensione dei desideri, delle fantasie e, naturalmente, dei soprusi a cui Fleck – privo di trucco e costumi sgargianti – è sottoposto quotidianamente. Il protagonista, all'infuori delle mura del carcere, è una star, un idolo da seguire e osannare grazie alla capacità con cui ha risvegliato la coscienza (anche politica) di molti cittadini di Gotham. Ma all'interno del manicomio criminale, Arthur è una nullità: un prigioniero come tanti in attesa di subire un processo che dovrà decidere della sua condanna a morte. E per quanto l'ex clown appaia già di per sé “sconfitto”, una luce entra nella sua grigia vita: ovvero Harley Quinzel (Lady Gaga) insieme a cui darà voce ai dissidi interiori della sua anima, profondendosi di volta in volta in canti che rendono manifeste tanto le sue debolezze interne, quanto la volontà di trovare, nel sentimento d'amore che lo lega alla donna, la forza per prendere coscienza della sua stessa identità, nonché per individuare la formula con cui lenire i dolori delle ferite che lo stanno soffocando.

Joker Folie à Deux recensione film  dsfs

È chiaro che ogni discorso su Joker: Folie à Deux, soprattutto da parte di coloro che non accetteranno di buon grado la scelta qui perseguita dall'opera, ruoterà attorno all'elemento musicale del film. Ma a pensarci bene, sembra essere proprio questo l'obiettivo di Todd Phillips, e per estensione del film tout court. Perché è nella dimensione del musical, forse la cornice di genere più incline a declinare l'incursione del sogno negli spazi della realtà, che questo sequel ramifica tutte le sue istanze e idee, per mettere in moto i processi di trasformazione (o di involuzione?) a cui andrà tragicamente incontro Arthur Fleck. Le (molte) canzoni presenti nei vari segmenti del film, per buona parte interpretate a cappella o con un leggero sottofondo sinfonico tale da donar loro una connotazione naturalistica, permettono organicamente al cineasta e ai suoi due encomiabili attori di rendere materiche le fantasie dei protagonisti, dal sapore – come vedremo – deliberatamente tragico, proprio perché fittizie e quindi riconducibili a qualcosa di inesistente. E ciò che rende così congrue - quando non addirittura necessarie – le grammatiche del musical è la radicalità con cui il regista le sovrappone allo stato confusionale in cui versa Arthur: arrivato ora a comprendere la reale natura delle sue fantasie di riscatto, destinate a collassare sotto il segno della più bruta e sconfortante realtà. Che poi è quella che tutti noi conosciamo, e che lo stesso protagonista ha cercato di evitare sin dall'inizio del precedente film: l'assoluta tragicità della sua condizione di uomo misero, sofferente, lontano anni luce dall'arroganza e dall'autocompiacimento del suo clownesco alter ego.

Ecco allora che in Joker: Folie à Deux non è più percepibile quella carica pulsionale e anarchica che ha attraversato ogni singola inquadratura dell'epilogo del film del 2019. Perché questo sequel, da qualunque prospettiva lo si osservi, racconta la storia di un uomo in lotta con sé stesso, incapace di rifugiarsi nel calore e nella sicurezza delle sue fantasie, alle quali non arriverà più a credere. Il “sogno” del Joker non ha motivo di esistere all'interno delle mura del carcere o nelle aule del tribunale, e agli occhi di Arthur si palesa clamorosamente il ritratto di quel che egli è e ciò che non potrà mai veramente essere. E non è un caso che il film, una volta messo in moto il percorso di auto-distruzione (psichica, emotiva, e forse anche fisica?) del protagonista, getti luce su una verità assoluta, ovvero la fallacia del suo alter ego. Una conclusione da cui l'opera trae tutto il senso tragico che permea ogni immagine del racconto, calato in un'atmosfera talmente lugubre e nefasta da suggerire, già di per sé, il destino drammatico verso cui volgerà l'antieroe. Perché Arthur sa bene che quella del mefistofelico pagliaccio è solo una facciata opportunamente eretta per confinare, negli angoli bui della coscienza, le crisi che lo stanno attanagliando: abbatterla, significa di fatto indossare la maschera che più lo disturba, vale a dire sé stesso.

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Todd Phillips Joaquin Phoenix
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Harvest

di Daniele D'Orsi
Harvest recensione film

L'uomo e la natura. È a partire da questo binomio, dalle trasformazioni che hanno rivoluzionato nel tempo le modalità con cui l'individuo si è approcciato all'ambiente naturale, che potremmo rileggere l'intera storia dell'umanità, e delle evoluzioni (culturali, sociali, politiche) su cui si è fondata la modernità che tutti noi conosciamo. Se in periodi preindustriali l'essere umano ha cercato a lungo di convivere con lo spazio che lo circonda, tentando di volta in volta di dominarlo secondo esiti e metodologie differenti, è con l'arrivo dell'industrializzazione che il legame tra le persone e l'orizzonte naturale ha mutato profondamente di segno, con i primi che sono arrivati a individuare le formule con cui sfruttare, anche e soprattutto in termini capitalistici, gli spazi naturali. Ed è proprio in queste due cornici opposte – dove la simmetria del rapporto uomo-natura, nel primo caso, denota ancora un equilibro, mentre nel secondo tende a favore dell'essere umano – che Athina Rachel Tsangari declina i due macro-atti di Harvest.

Presentato in Concorso all'81ª edizione del Festival di Venezia, il quarto lungometraggio della regista greca si muove costantemente su due binari interagenti e mai incompatibili, nonostante l'enorme salto di paradigma che separa le due metà della storia. Nell'incipit del film, così come per il resto del primo segmento narrativo, è l'assoluta sovrapponibilità delle esperienze di individui appartenenti a una comunità agreste agli albori dell'industrialismo inglese, e l'ambiente in cui non solo vivono, ma al quale delegano le loro stesse esistenze e personalità, ad assurgere a centro tematico della narrazione, nonché a punto di contatto tra lo spazio e le traiettorie del protagonista. Walter (Caleb Landry Jones) è di fatto un forestiero, ed essendosi integrato anni prima in questo villaggio ubicato in un non precisato luogo delle terre anglosassoni, condivide le stesse liturgie dei suoi omologhi. Ogni giorno lo trascorre nei campi, tra trebbiature di stagione e altre attività agricole. E finché il mondo (diegetico) di Harvest non viene contaminato dalla presenza di agenti “esterni”, ecco che l'uomo può contaminarsi organicamente con gli spazi bucolici del villaggio, quasi fosse un elemento intrinseco della natura. Ma è nel momento in cui l'orizzonte “atavico” in cui si muovono i protagonisti accoglie l'arrivo del legittimo (e capitalistico) proprietario del terreno, Master Jordan (Frank Dillane) che la storia si innerva di connotazioni inedite e “eticamente e moralmente umbratili”, facendo di conseguenza implodere il rapporto d'equilibrio fino a quell'istante esistito tra Walter, l'amico e pastore Master Kent (Harry Melling), e la cornice naturale che abitano, fino a porre fine alla loro (immacolata) esistenza.

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Ciò che sorprende di Harvest, soprattutto nella sezione iniziale del racconto, è la capacità di Tsangari di posizionare il personaggio di Walter sullo stesso piano della natura, sia dal punto di vista iconografico che esistenziale/ontologico. Il protagonista, del resto, sembra trovare una sua vitalità solo perseguendo questo rapporto fisico con l'ambiente che lo circonda, a cui la cineasta riesce a restituire anche una connotazione puramente materica e tattile. E nonostante nella seconda metà del racconto, quando cioè Master Kent porta in quel luogo incontaminato i (dis)valori del commercio e dell'imperante industrializzazione, si assista a un salto di paradigma evidente nel trattamento dello spazio naturale – ora innervato di sfumature pre-capitalistiche che ne determinano la dissoluzione anticipata del suo sistema socio-umano – il film riesce comunque a rendere organica questa transizione tematica, senza porla in discontinuità con le visioni e gli intrecci proposti per tutta la sezione iniziale del lungometraggio.

Per quanto, però, Harvest non risulti mai incongruente né discordante nelle sue due anime narrative, anche – e soprattutto – dal punto di vista tonale e dei registri adottati, è pur vero che il racconto, nell'istante in cui mette in scena lo scontro tra i principi conservatori (rappresentati dalla natura incontaminata) e le logiche progressiste della modernità, disperde quel rapporto organico tra Walter e l'ambiente naturale su cui si è fondato tutto lo spessore della storia, nonché la caratterizzazione del personaggio. E seppur il protagonista continui a configurarsi alla stregua di uno “spettatore passivo”, incapacitato a intervenire su eventi che non può controllare per la posizione subalterna che ricopre nel (suo) minuscolo mondo, ogni qualvolta il racconto si estrania dal percorso del personaggio, per raccontare l'implosione della microsocietà in cui vivono i contadini, rischia di cadere in una retorica eccessivamente reazionaria, sotto il cui peso viene schiacciata ogni idea o riflessione avanzata dalla regista nell'epilogo.

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Athina Rachel Tsangari Caleb Landry Jones
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Baby Invasion

di Daniele D'Orsi
korine baby invasion recensione

Aggro Dr1ft era una potente dichiarazione d'intenti: sulla morte del linguaggio cinematografico, sulla perdita di trazione popolare della settima arte presso le nuove generazioni di spettatori/utenti, sulla necessità di scandagliare le grammatiche del cinema e dell'audiovisivo in ogni suo centimetro o ramificazione, per poter individuare una formula che consenta all'arte novecentesca per eccellenza di sopravvivere in un panorama mediatico così interattivo (e antinarrativo) come quello contemporaneo. Obiettivi che Harmony Korine ha perseguito aprendo le immagini del film alle grafiche automatizzate dell'Intelligenza Artificiale o all'inintelligibilità di un effettistica stordente e priva di referenzialità, tale da derubricare le componenti del cinema a meri accessori della sinestesia: l'unico fattore che può consentire, ai consumatori di oggi (composti, perlopiù, da videogiocatori, e non da pubblici delle sale) di ritrovare quell'immersività a cui, quotidianamente, anelano nelle loro attività ricreative. Fenomeno a cui proprio Baby Invasion vota ogni sua istanza, per poi declinarla in un ragionamento che porti il prodotto-cinema verso gli orizzonti del futuro.

Non è un caso che il nuovo film di Korine, presentato Fuori Concorso all'81ª edizione del Festival di Venezia, costruisca tutti i suoi discorsi a partire dall'incursione della Realtà Virtuale nel mondo fenomenico, rivoluzionato da linguaggi solo apparentemente anomali. Una sviluppatrice thailandese, ci racconta il cineasta in apertura del racconto, ha dato vita a un videogame altamente interattivo, che consente agli utenti che si connettono ai suoi server di accedere indisturbati alle abitazioni di persone benestanti in modo da esprimere, senza freni né vere inibizioni, le loro pulsioni e fantasie di potere. Ma a causa di un attacco informatico perpetrato da un gruppo di hacker con sede in Romania, quel che si muoveva in una mera cornice finzionale, ora è arrivato a incunearsi nell'esperienza quotidiana delle persone. La realtà, di fatto, è stata soppiantata dalla surrealtà: e il mondo (diegetico) del racconto ed (extradiegetico) relativo all'universo di noi “spettatori” si è ormai sovrapposto all'immersività della virtual reality; dove i cittadini, divenuti ora dei meri utenti del videogame, declinano le loro attività ricreative negli spazi di una realtà non più così reale, che ha sostituito definitivamente la finestra attraverso cui guardiamo il mondo (cioè il cinema) con le matrici informatiche dei testi videoludici.

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A uno sguardo retrospettivo, appare evidente come Baby Invasion si configuri alla stregua di una prosecuzione naturale di Aggro Dr1ft, e dei discorsi che Korine ha lì veicolato sulla necessità di rimpiazzare i linguaggi del cinema con grammatiche di natura sì simile, ma fenomenologicamente diversa. A differenza però del suo predecessore, qui la messa in scena di una lunga e ininterrotta live-stream tutta narrata secondo i canoni videoludici del first-person-shooter, non solo certifica la “morte” del cinema e delle sue logiche (narrative, estetiche, comunicative) ma sottende già di per sé la delineazione dell'orizzonte verso cui, ogni narrazione che vorrà da ora in poi raccontare il presente, dovrà necessariamente dirigersi: una cornice che ha nell'immersività del videogame, e nel piacere “demiurgico” che solo l'interattività (e non la passività spettatoriale) può concedere all'utente, il suo vero codice sorgente.

Ma Korine, come tutte le grandi menti pionieristiche, non si accontenta semplicemente di illustrare la strada e le modalità con cui prenderà forma il futuro dell'audiovisivo: per nulla. A legittimare – ai suoi occhi – l'operazione qui avanzata con Baby Invasion, e ad avallare l'importanza cardine che tali linguaggi eserciteranno nelle strategie consumistiche dei cittadini del domani, è proprio il richiamo ai simbolismi e alle immagini del cinema del regista. La onnipresenza nelle inquadrature, al limite della sfacciataggine, di un coniglio (Gummo) unita al focus sulla spiaggia (The Beach Bum) e sulla villa (Spring Breakers) possono essere intesi sì come frammenti di una poetica totalizzante, ma soprattutto quali referenti passati da cui, necessariamente, passeranno le evoluzioni future. Quasi Korine ci volesse dire che la rivoluzione del linguaggio cinematografico, preannunciata già dalla netta preminenza di cui gode il videoludico sul filmico agli occhi delle audience odierne, non può che prendere corpo se non partendo dai mondi immaginifici della sua avanguardistica – e questa volta profetica? – filmografia.

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Harmony Korine
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Cloud

di Daniele D'Orsi
cloud recensione film kurosawa

Il paradigma su cui si è fondata l'espressione poetica di Kiyoshi Kurosawa ha subito una variazione enorme nel corso dell'ultima decade, soprattutto dall’uscita di Real (2013). Se il cineasta giapponese tendeva a codificare l'Apocalisse, la necessità cioè di sovrapporre la demolizione del mondo interiore di un individuo all'annichilimento dello spazio circostante, per poi portare i protagonisti a rivoluzionare il proprio sistema di valori in linea con le logiche della nuova realtà post-apocalittica, adesso la dimensione in cui si muovono i personaggi/cittadini non implode più. Proprio perché l'allegoria, una volta che il Giappone si è progressivamente allontanato dalle crisi del periodo post-bolla (1991-2001, con alcuni analisti che lo estendono anche alla decade successiva) ha perso le sue connotazioni sociologiche: e dal momento che l'orizzonte spaziale del suo cinema non può più innervarsi di istanze “trascendenti”, ecco che il regista ha iniziato a spostare l'azione nei territori extra-capitale; gli unici, a detta di Kurosawa, capaci di trasmigrare le crisi dei protagonisti – e di conseguenza i codici della sua poetica cinematografica – in luoghi-altri, senza per questo privarli della carica metaforica di cui si sono sempre fatti portavoce sin dagli albori della sua filmografia. Uno spettro in cui Cloud, da qualunque prospettiva lo si osservi, si iscrive pienamente.

Il nuovo lungometraggio di Kurosawa, presentato Fuori Concorso all'81ª edizione del Festival di Venezia, ramifica la narrazione – guarda caso – a partire da uno spostamento, che in piena continuità con le logiche pregresse del suo cinema determina la rivoluzione (o involuzione?) interiore del protagonista, qui declinata in spazi meno diabolici e soffocanti di quelli su cui si fonda la megalopoli di Tokyo. Se però in Cure (1997) Charisma (1999) o Barren Illusion (1999) la ricerca di una fuga dalla capitale equivale all'implosione personale e collettiva di coloro che la abitano, proprio perché ai tempi della Lost Decade i “fantasmi” del Giappone non potevano astrarsi dagli spazi materici di una città dominata dalla desolazione, ora in Cloud – ma potremmo dire, da Real e soprattutto, da Journey to the Shore (2015) – la distanza temporale dall'esplosione della bolla finanziaria permette ai protagonisti di abbandonare le soglie di Tokyo, e riversare esteriormente le proprie crisi in ambienti più periferici e meno urbani, segni e metafore di un mondo che nonostante le fratture del recente passato continua a sfuggire alla comprensione dell'individuo: specialmente quando si innerva di schegge di violenza impazzite, come nel caso di Cloud.

cloud kurosawa recensione

Come altre anime desolate di questo cinema, il protagonista Yoshii (Masaki Suda) si approccia alla realtà in maniera distaccata, quasi dissonante, come se i rapporti con l'esterno – e forse, con sé stesso – fossero percepiti come anomalie da respingere attraverso un distaccamento emotivo abissale. Un fenomeno percepibile sia all'inizio del racconto, quando ancora lavora come dipendente di una fabbrica di Tokyo, sia nel momento in cui decide di licenziarsi, per rivendere in proprio delle merci dalla natura commerciale decisamente controversa. E nell'istante stesso in cui manifesta questo suo desiderio, forse per la prima volta nella sua “asettica” esistenza, ecco che il suo mondo è destinato a cambiare. Ma agli occhi di Kurosawa, si sa, la dissoluzione della realtà interna di un individuo deve passare, per forza di cose, dalla presentazione di uno spazio perturbante, anche quando, come nel caso di Cloud e dei suoi predecessori (si pensi a Seventh Code, Before We Vanish o a To the Ends of the Earth) “l'Apocalisse” viene declinata secondo metodologie meno soffocanti e nichiliste. Ecco allora che Yoshii, trasferitosi ora in un luogo di montagna lontano anni luce dal perimetro asfissiante della capitale, vede il suo mondo disgregarsi pezzo dopo pezzo, in una “discesa agli inferi” dal moto inarrestabile, in cui la violenza, e il portato simbolico che la contraddistingue, esercita un ruolo totalizzante: tanto da assumere non solo un'importanza “narrativa”, cioè funzionale allo sviluppo del racconto, ma anche - e soprattutto - sociologica.

Ed è proprio qui che Cloud mostra tutto il suo (enorme) spessore, drammaturgico e politico. Perché l'atto violento, il gesto con cui tutte le “vittime” delle truffe di Yoshii cercheranno di cancellare la sua esistenza – e quindi le tracce delle sue operazioni illecite – è, agli occhi di Kurosawa, il sintomo di un malessere che attecchisce in ogni strato della società giapponese, specialmente quello più periferico e culturalmente marginale. E ciò che restituisce radicalità al ragionamento del celebre cineasta è questa inesorabilità del male: la naturalezza con cui alcuni (o forse molti?) cittadini della nazione si profondono qui in atti di violenza improvvisi e apparentemente inspiegabili, proprio perché incapaci di metabolizzare le crisi di un paese in preda alla confusione, sia identitaria che deliberatamente politica. È così, allora, che l'ignaro protagonista di Cloud viene sì radicato in una realtà meno diabolica della vecchia Tokyo, ma il suo è uno spazio egualmente vacuo e “catalizzatore”. Tanto che la spirale di morte e sangue in cui si trova a muoversi nella seconda metà del racconto diventa appunto la genesi di un moto di rivoluzione interiore, dall'epilogo non necessariamente positivo o virtuoso. Perché se l'Apocalisse purifica il mondo e coloro che vi abitano, i “sopravvissuti” al disastro devono comunque trovare nella tabula rasa valoriale a cui sono destinati una formula con cui codificare un sistema di valori congruo alla “nuova realtà”, e posizionarlo al centro della propria redenzione o del “riscatto sociale” a cui, così ostinatamente, anelano. E l'immagine con la quale si conclude il film, con Yoshii che dopo aver trasceso l'inferno cerca di guardare oltre il mare di disperazione che gli si dipana davanti, appare come una potente dichiarazione d'intenti riguardo questo cinema e lo stato in cui versa il Giappone odierno. Quasi che Kurosawa ci dica come, anche davanti ai fenomeni più ineffabili e inconoscibili di cui si innerva il tessuto sociale nipponico, non smetterà mai di interrogare, attraverso le sue opere, le crisi sotterranee del paese in cui vive. Al punto che Cloud - sulla scia del precedente e folgorante Chime - sembra voler trasfigurare ogni inquadratura di cui si compone in una finestra “metaforica” da cui è possibile osservare i disagi (in)visibili in cui si sta inabissando la nazione. E che solo il cinema può portare alla luce.

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Kiyoshi Kurosawa
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By the Stream

di Emanuele Polverino
By the Stream - recensione film Hong Sang-soo

Dopo A Traveler’s Needs, presentato all’ultimo Festival internazionale del cinema di Berlino, Hong Sang-soo torna a Locarno - sono passati sei anni da Hotel by The River - con questo By the Stream. Ed è proprio attraverso il Fiume Han che i due film costruiscono il loro dialogo a distanza, un luogo che attraverso la sua storia, di inquinamento e rinascita, sembra incarnare le vicissitudini personali del regista stesso.

Chu Sì-eon (Kwon Hae-hyo) è un ex attore tramutatosi in libraio dopo uno scandalo che lo ha costretto ad abbandonare la promettente carriera; sua nipote Jeon-im (Kim Min-hee) decide di contattarlo per permettergli di sceneggiare uno sketch nell'università in cui lei insegna e nella quale lo stesso zio, anni prima, aveva esordito alla direzione di un piccolo spettacolo.
By the Stream è la seconda regia del 2024 per Hong, e a tutti gli effetti quella che più sembra manifestare gli aspetti personali che il regista coreano non ha mai nascosto di inserire all’interno dei suoi film. Una scelta particolare se si pensa all’ultimo enigmatico A Traveler’s Needs, nel quale un’eterea Isabelle Huppert, sua musa occidentale dai tempi di In Another Country (2012), appariva sognante e spaesata tra le strade di una Seoul semi deserta. Un corpo-mondo capace di mimetizzarsi e immergersi totalmente in ogni ambiente, in grado di assimilare suoni, colori e movimenti da ogni elemento, per proiettare verso il prossimo il sapere acquisito.

A Traverler's Needs
Isabelle Huppert in A Traverler's Needs


Di quel film By The Stream abbandona l’astrattismo narrativo per tornare a una scrittura più rigorosa e tangibile, nella quale ogni personaggio si colora di sfumature – laddove invece la Huppert si faceva pianeta attorno al quale ogni soggetto-satellite si trovava a orbitare per poter sopravvivere – arricchendo il mondo che il regista coreano costruisce attorno ai tre interpreti principali della storia, attori ormai parte indissolubile del percorso artistico dello stesso, e verso i quali nutre profonda fiducia. E proprio attraverso la fiducia Chu Sì-eon cercherà, in pochi giorni, di insegnare agli studenti che dovranno inscenare il suo sketch come diventare attori: affidandosi alla scrittura, lasciandola fluire attraverso il corpo per trasformare semplici dialoghi in movenze e gesti che andranno a comporre la scena – in senso più generale, ogni sequenza messa in scena da Hong si compone e articola attraverso banali dialoghi (sul tempo, il cibo etc…) che confluiscono nella corporalità con cui verranno elaborati dagli attori, donando quel realismo domestico e urbano che caratterizza ogni suo film, e nella possibilità, pressoché infinita, di assimilazione e riproduzione.

“The sound of the water… it’s so nice” dirà ad un certo punto il personaggio di Kwon Hae-hyo, ascoltando il rumore della pioggia che si mescola allo scorrere del fiume, un suono che sarà l’inizio di una piccola rinascita personale, segnata dall’amore per una sua grande ammiratrice e professoressa nella stessa università, Jeong (e la stessa Huppert in A Traveler’s Needs cercava il contatto con un piccolo torrente per entrare in sintonia con un mondo a lei sconosciuto). Il percorso culminerà con la rivelazione finale: il tanto agognato divorzio dalla moglie, segnato da una separazione durata 10 anni, un evento che riecheggia le peripezie amorose dello stesso regista, da anni ormai in attesa che la moglie firmi le carte per il divorzio, in quanto riconosciuta quale parte lesa dal tribunale a causa del tradimento del regista avvenuto con l’attrice-musa Kim Min-hee, la stessa a cui, nella finzione, lo zio darà la notizia del divorzio e della nuova relazione.
Finzione e realtà che confluiscono in un’unica fonte narrativa, confuse tra dialoghi sul cibo e progetti per il futuro, in una risalita verso la sorgente primigenia nella quale trovare conforto. Un percorso a ritroso che rispecchia il modo in cui le anguille, piatto attorno al quale il trio protagonista si riunisce, risalgono la corrente per trovare la tranquillità in acque più docili e mansuete. Viaggio che intraprenderà lo stesso Chu Sì-eon con il suo ritorno all’università, lì dove iniziò la sua carriera artistica, per ritrovare una connessione con il mondo e l’amore di un’altra anima solitaria. Un percorso del tutto inverso a quello svolto da uno dei personaggi di In Water, film del 2023 girato da Sang-soo interamente in fuori fuoco, che concluderà il suo viaggio verso il mare, immergendosi in acque agitate e imprevedibili. Un'incertezza da cui Jeon-im, con i suoi lavori, sembra volersi allontanare, realizzando piccoli sketch (drawing) che trovano ispirazione nei vari corsi d'acqua del paese, e che si espanderanno su tele lentamente lavorate a mano (lo stesso zio si stupirà del tempo impiegato dalla nipote per concludere una singola opera). Opere finite che difficilmente riusciranno a riprodurre l'idea originale, quasi a ricordare come per il cinema risulti impossibile avvicinarsi a una totale mimesi con la realtà.

Sarà nello sketch,  quello messo in scena dagli studenti sotto la direzione dello zio, che il film troverà il suo apice narrativo, il momento in cui la finzione e la realtà arriveranno al loro massimo grado di congiunzione e assimilazione, causando un’esplosione sonora e una ricerca non naturale nell’uso della luce – un taglio quasi da horror gotico - che mai si sono visti nel cinema di Hong Sang-soo. Un’apocalisse artistica data dall’incontro-scontro di diagonali narrative provenienti da universi speculari, mondi paragonabili tra loro ma mai interscambiabili. Un monito, quello del regista coreano, che sembrerebbe indicare la necessità, per l’uomo, di non valicare quei confini che separano la verità dalla finzione. Di non perdere la bussola tra i numerosi mondi-altri e personalità che ognuno di noi è in grado di creare, moltiplicando la realtà nei sub-strati di una finzione generata da una narrazione transmediale, in grado di dare vita a sconfinati universi e possibilità attraverso i quali sarà facile perdere l'origine di tutto.

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Hong Sang-soo Kim Min-hee Kwon Hae-hyo Cho Yun-hee 111 minuti
South Korea 2024
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Here We Are

di Andrea Vassalle
here we are Chaikitiporn recensione film

Ogni Paese ha non solo dei propri luoghi della memoria, ma anche delle date simbolo. Giorni che rievocano gli eventi segnanti per la vita di una nazione e attorno ai quali un popolo, in modo più marcato o silente, si rinsalda, si riconosce o riflette, costruendo quella memoria collettiva che plasma l'identità sociale e che rappresenta il legame essenziale tra passato e presente. Il 6 ottobre 1976 è una data che ancora perseguita la Thailandia, una ferita aperta e probabilmente non rimarginabile, che aleggia come uno spettro. Quel giorno migliaia di studenti si radunarono presso l'Università di Thammasat, a Bangkok, protestando contro il recente rientro in patria dell’ex dittatore Thanom Kittikachorn, tornato dopo tre anni di esilio. Il governo, in risposta, con un atto di violenza terribile dispose l'intervento di forze paramilitari che, coadiuvate dalla polizia locale, aprirono il fuoco sulla folla. Le vittime furono 46 (secondo stime governative, ma molto probabilmente arrivarono almeno al doppio) e su chi si arrese furono inflitte umiliazioni e torture indicibili. Un lacerante incubo nella notte che da molti decenni ammantava il Paese, tra ripetuti colpi di stato, instabilità e crisi, nel più complesso e generale scenario della Guerra Fredda.

L'efferata violenza di quell'evento si è protratta con il tentativo del governo di offuscarne il ricordo e la ricostruzione, di impedire che le immagini lo tramutassero in memoria e immaginazione collettiva. Le foto e i video del massacro furono limitati, svuotati, impedendo di dare un corpo alle immagini e di attribuire un nome e un'identità ai volti dei colpevoli. È anche attraverso le più subdole e insidiose forme di iconoclastia che si manifesta la crudeltà verso un popolo, vista come una pratica di liberazione simbolica, di controllo e di riduzione delle immagini a superfici vuote o materia inerte e mancante. Parte da qui Here We Are, film diretto da Chanasorn Chaikitiporn e visto in Concorso alla sessantesima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro; dal ruolo del cinema che vede il proprio destino unirsi a quello della memoria, trovandosi a un punto di convergenza che si configura come luogo di ibridazione. Una compenetrazione in grado di dispiegare il passato nel presente e dare nuova vita alle immagini, anche attraverso l'assenza, come in questo caso.

Quel 6 ottobre, nei 19 minuti di durata del film, non viene mai citato esplicitamente, non vediamo le foto né tantomeno i filmati. È il soggetto in absentia, che aleggia dietro qualsiasi parola e qualsiasi immagine, intrecciando la storia recente del Paese mediante i ricordi in voice-over di una governante, in un dialogo immaginario con la figlia, e l'uso di materiale d'archivio. A fare da preambolo è un film che le viene inviato dalla figlia. Un film anch'esso mancante, che non vediamo, o che comunque non viene indicato, e che la protagonista non riesce a decifrare e a comprendere totalmente. Le immagini con cui si apre Here We Are sono invece quelle propagandistiche prodotte dallo United States Information Service a presentazione della SEATO, l'organizzazione per la difesa collettiva dell'Asia sud-orientale, ed è proprio il legame della Thailandia con l'Occidente e gli USA ad aver segnato gli ultimi settant'anni della nazione in modo ancor più complesso e profondo.

Chanasorn Chaikitiporn riflette su questo rapporto, indagando in nuce il concetto di cripto-colonizzazione che ha riguardato la Thailandia più di altri Paesi, cresciuta sotto l'influenza di un sogno libertario e di uno sviluppo che hanno portato a conseguenze inattese e spesso non inquisite. In Here We Are le immagini del presente e dei filmati di archivio si alternano con quelle dei giornali e delle riviste che sancivano quel trattato e quella connessione con gli Stati Uniti, per soffermarsi successivamente sul monumento dedicato ai fatti del 1976. Sono inserti che instaurano un intenso dialogo con il racconto della protagonista e con gli eventi narrati, testimoniando la capacità del cinema non solo di rievocare il passato ma di riarticolarlo. Al tempo stesso infondono alle immagini un senso materico e danno loro corpo (che è anche il nesso tra immagini e memoria), incidendo in questo modo sulla percezione e sull'esperienza dello spettatore. Le riviste sfogliate da una mano una a una, come vengono sfogliate le pagine della Storia dalla voce della governante; il dito che si posa su una carta geografica e la percorre, ad attirare lo sguardo e a guidarlo sull'immagine. Gli unici volti che appaiono in primo piano sono quelli in rilievo del monumento, espressione del passato, del ricordo. Mentre il presente si configura come un intreccio di interni vuoti ed esterni impersonali, in un Paese che un proprio volto sembra non averlo più.

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Chanasorn Chaikitiporn 19 minuti
Thailandia 2023
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A Fidai Film

di Leonardo Strano
A Fidai Film - recensione film aljafari

Il cinema d’archivio è un linguaggio audiovisivo che certifica ancora molto chiaramente gli effetti dissociativi prodotti dalla postmodernità sul rapporto tra individui e cosa pubblica. Con la sua irrisolta dicotomia tra formule di conservazione sociale e gesti di auto narrazione privata – ultimamente inflazionati dalla fortuna dell’auto fiction -  è un genere, un campo espressivo, che non sembra offrire soluzioni di sintesi all’apparente separazione tra personale e collettivo prodotta dallo sgretolamento delle cornici ideologiche, dalla contestuale fine delle grandi narrazioni tradizionali e dal conseguente ripiegamento sul sé più intimo di chi ha provato l’horror vacui identitario. Eppure, è un linguaggio che, sulla carta, per l’incrocio di tensioni che lo costituiscono (tra pubblico e privato, individuale e sociale, personale e socioculturale), si apre a una dialettica generativa rara, che, come pochi altri linguaggi dell’arte, mette in dialogo i soggetti creativi, disponibili a manipolare l’alterità attraverso immagini eterodirette, e cioè non proprie, e l’architettura simbolica del loro spazio pubblico. 

Quando riesce a non cedere al conservatorismo fine a se stesso (se non propagandistico magari legittimato dalle ontologie della documentalità, dell’ontologia indessicale, dalla logica di chi sostiene che una traccia faccia già testimonianza d’esistenza) e nemmeno alla contemplazione borghese di chi gioca con il proprio alfabeto privato, è un linguaggio che incontra una terza via, quella di una dialettica relazionale, di una riscrittura aperta che problematizza qualcosa di già dato, qualcosa spesso di morto e sepolto o qualcosa di non visto, e inietta in esso un po’ di luce, o possibilmente una frizione, un’impressione di movimento, che poi si può anche solidificare in un affondo politico. Come in A Fidai Film, ricognizione storiografica su materiale disperso – a causa dell’invasione, nel 1982, da parte dall’esercito israeliano di Beirut, della distruzione del Palestine Research Center e del saccheggio del suo intero archivio – ma anche gesto di manipolazione ispirato all’avanguardia avanzata, in cui le immagini del passato, rubate e censurate, sono viste di nuovo, come per la prima volta.

O forse sarebbe meglio dire non viste per la prima volta. Operando una cancellatura sulle manipolazioni propagandistiche del governo israeliano e riorganizzando invece materiale da esso censurato, Kamal Aljafari infatti procede per “cancellature” – direbbe Emilio Isgrò, che si inventò il concetto negli anni 60 riproponendo la pagina bianca di Mallarmé, “puro regno del possibile”  – per produrre un vuoto dialettico più che un nuovo dato storico tra altri dati storici già dimenticati, che interroghi su ciò che è trapassato nell’oblio della dimenticanza collettiva. Aljafari si relaziona con gli inserti audiovisivi prodotti dalle politiche che hanno scritto e riscritto le sorti di individui attraverso una manipolazione segnica, fosse essa una rimozione o una aggiunta, con un iconoclasmo creativo che ricorda anche quello dei graffitari di cui parlava Baudrillard nei suoi discorsi sulla saturazione segnica della società (in particolare “Kool Killer ovvero il sorgere dei segni”).

fidai film ghdas

Come gli autori di graffiti, i “writers”, che con le loro sovrapposizioni indebite, con le loro cancellature e imposizioni segniche, rendono esplicita l’epidemia dei segni nella società, la trasformazione della realtà in segno simulacrale manipolabile e manipolato (a cui loro si accostano per combatterlo con rabbia), ecco che Aljafari si dota di un segno rosso che riarticola i rapporti gerarchici all’interno di immagini già manipolate dal potere, riaprendo una lotta chiusa dalla storia ma nuovamente spalancata dalla forza del gesto, dalla mano che torna al passato per rimestare nel buio. Il risultato è un riorientamento che propone un nuovo modo di ricordare attraverso il contatto con l’invisibile, piuttosto che con la commemorazione del visibile. Cancellando le immagini di altri, infatti, il regista non solo si riappropria della pratica di cancellazione propagandistica, ribaltandola, ma rigenera la domanda di visibilità, la necessità di vedere, di chi ha registrato quelle stesse immagini: cioè fa sì che la memoria di quel passato perduto assuma la forma di una richiesta di sguardo concreto, di un voler vedere, di un voler agire, e si istanzi quindi oltre il rituale della distaccata e progressiva dimenticanza che invece caratterizza il commemorare.

A Fidai Film è in fondo allora un lavoro che per proporre una risoluzione dialettica alle formule dissociate del linguaggio postmodernista del cinema d’archivio si allinea a ciò che la necropolitica (in particolare Achille Mbembe) ha scritto sul rapporto tra memoria, euristica, morte e archivi. Si chiede insomma quale sia il rapporto tra soggetto individuale creativo e soggetto collettivo pubblico e cosa significhi archiviare per entrambi quando le memorie storiche svaniscono e le nazioni utilizzano le istituzioni architetturali (appunto gli archivi storici) non per produrre un surplus di conoscenza dei singoli ma per cristallizzare in uno status controllabile l’angoscia di morte (di dissoluzione, di distruzione) e legittimarsi come padroni del sapere costituito. Guardando le immagini finali del film di Aljafari ci si scontra con la naturale immagine sintetica che lo Stato cerca di produrre attraverso l’archivio, l’immagine della totalità: una totalità sepolcrale costruita su una “morte strutturale” - la morte di chi ha filmato e di chi è stato filmato. E si incontra invece con una riframmentazione, che lascia abbastanza spazi aperti per risignificare l’archivio non come uno dei tanti sigilli della burocrazia del destino ma come una casa infestata, in cui gli spettri del passato si fanno presenti, gridano e ancora ci ri-guardano.

Categoria
78 min
Palestina, Germana, Qatar, Brasile
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Hexham Heads

di Mattia Caruso
Hexham heads - recensione film delanghe driesen

Non è un caso che Hexham Heads – mediometraggio sperimentale di Chloë Delanghe e Mattijs Driesen, presentato in concorso alla 60° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro – parta proprio dall'abusatissima etichetta “tratto da una storia vera” per riflettere sulle immagini e sul rapporto che abbiamo con esse. Prendendo spunto dalla serie di presunti eventi paranormali che hanno avuto luogo ad Hexham, Inghilterra, nei primi anni settanta, in seguito al ritrovamento di due misteriose teste di pietra alte 6 centimetri, il film si pone infatti l'obiettivo di partire dal dato “reale” tipico di tante narrazioni contemporanee, horror compreso, per ricostituire quel genere attraverso un approccio altro, quello di un cinema sperimentale che gioca proprio con le immagini iper-codificate dell'horror per riscoprirne l'origine fantasmatica.

È così che Hexham Heads, al di là delle sue suggestioni J-horror e di elementi che strizzano l'occhio al recente revival folk, diventa soprattutto una riflessione sul mistero della riproduzione fotografica, su come le immagini, cioè, "infestino" la nostra realtà, distorcendola o permettendoci di passarle attraverso. È un un viaggio liminale, del resto, il film di Delanghe e Driesen. Un viaggio fatto di passaggi, porte e finestre da attraversare, suoni perturbanti e aspettative tradite, formati (dal VHS alla pellicola in 16mm) e linguaggi differenti, dove foto e fotogrammi paiono ridefinire continuamente la propria funzione e la realtà che dovrebbero rappresentare.

Citando esplicitamente la “stone tape theory” – la convinzione, cioè, secondo cui alcuni oggetti inanimati siano in grado di “registrare” l'energia derivante da eventi del passato per poi “riproiettarli” in condizioni favorevoli – il film crea così, attraverso un luogo cristallizzato nel tempo e “sovrimpresso” alla realtà, un parallelo tra fantasmi e fotografia, cinema e soprannaturale, tentando di fissare quelle presenze su pellicola, di trattenerle il tempo di un'istantanea.
Un film teorico e sensoriale al tempo stesso, insomma, in cui la riflessione su immagini, cinema e genere si fa un tutt'uno con l'esperienza filmica, con l'inquietudine generata da un horror atipico e fuori da ogni canone. Nella sfida, forse impossibile, di ridare un nuovo peso alle immagini e al nostro modo di guardarle.

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Chloë Delanghe Mattijs Driesen 34 minuti
Regno Unito, Belgio 2024
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Memoir of a Snail

di Emanuele Polverino
Memoir of a Snail - recensione film elliot

Quindici anni rappresentano un lasso di tempo molto lungo per chiunque, ancor di più per un regista che sin dal suo primo corto, Uncle (1996), è stato in grado di richiamare a sé uno stuolo imponente di ammiratori. Adam Elliot, però, in questo periodo non sembra essere affatto cambiato. Anzitutto perché oggi, come 15 anni fa, il suo secondo film, Memoir of a Snail, si porta a casa il premio più prestigioso del Festival international du film d'animation d'Annecy, il Cristallo al miglior lungometraggio.

Grace è una donna di mezza età che all’ombra di un grande albero si ritrova a percorrere a ritroso tutta la sua vita, tra memorie personali e racconti altrui. Orfana di madre dalla nascita, trascorre l’infanzia e la preadolescenza in totale povertà insieme a suo fratello gemello Gilbert, l’ancora di salvezza verso cui è sempre protesa, e suo padre, un ex performer di strada, alcolizzato, goloso di liquirizie e costretto su di una sedia a rotelle da un brutto incidente. Brutalmente separati e costretti a vivere lontani, Grace e Gilbert verranno affidati a due famiglie completamente diverse: una coppia di mezza età senza figli, amanti dell’ordine, rappresentanti di una società di semafori di giorno e scambisti di notte, per Grace; una coppia di contadini ultra bigotta, con cinque figli e un’ossessione liturgica verso le mele, per Gilbert. I due si ritroveranno a essere fratelli-amici di penna – elemento autobiografico che torna presente dopo essere stato perno narrativo in Mary and Max – sognando, un giorno, di ritornare a vivere insieme.

Sono passati anni da Mary and Max ma la delicatezza narrativa di Elliot non sembra essere in alcun modo mutata. È proprio attraverso l’uso dei flashback, alternati tra le memorie di Grace, le lettere di Gilbert e i ricordi dei vari personaggi che si succederanno durante tutto l’arco della storia, che il film sembra sorvolare dolcemente sopra quasi mezzo secolo di cambiamenti.
Un puzzle che a mano a mano si ricompone alla ricerca del pezzo finale, quel tassello mancante che rappresenta il futuro incerto, verso il quale Grace cerca in tutti i modi di non incamminarsi. Rinchiusa all’interno di una teca di vetro come le sue amate lumache, l’unico ricordo della madre prematuramente scomparsa, osserva il mondo scorrere fuori dalla finestra, godendosi gli unici attimi di felicità con la sua amica Pinky, un’arzilla vecchietta che ama mangiare biscotti all’hashish, fumare marijuana, curare il suo giardino e bere whisky. Perfetto controcampo caratteriale di Grace, Pinky rappresenta tutto quello che l’amica ha sempre sognato di essere ma non è mai stata in grado di diventare. Sarà un colpo di fulmine sotto forma di baffuto vicino, Ken, che ama aspirare le foglie secche dal suo giardino, e la paura di rimanere da sola per tutta la vita, a scombussolare la vita di Grace. Un quasi matrimonio che segnerà il punto di non ritorno nella già precaria autostima della protagonista.

memoir of a snail

Se da una parte c’è la voglia del regista australiano di toccare temi delicati come il solipsismo esasperato, specchio di una contemporaneità post-pandemica, attraverso la costruzione di un personaggio, quello di Grace, che sembra incarnare un hikikomori ante litteram, è il ricorso a una spensierata e leggera ironia, a tratti anche nera – vedi i momenti più cupi, come la morte di alcuni personaggi – ad alleggerire tutto il film. In grado di trasportarci all’interno di un racconto dai connotati terapeutici e pedagogici (che per alcuni risulterà forse troppo spinto verso uno stucchevole pietismo). Una storia, quasi parabola, che con intelligenza riesce a mascherare le turbe dell’universo adolescenziale passando dal particolare della storia di Grace all’universale senso di impotenza nei confronti della morte. Con un binomio tematico che evidenzia in maniera indelebile la notevole maturità narrativa del regista nativo di Melbourne, in grado di elevare ancora una volta la tecnica della stop motion, cambiando la palette del nero e grigio di Mary and Max al beige di Memoir of a Snail, per rimandare al colore delle lumache e a quel deserto che tanti anni terrà separati l'un dall'altra i due gemelli. 

Un film, come si è detto, in grado di trattare temi estremamente profondi (la morte, l'abbandono, il bullismo, etc.) con la leggerezza tipica di una favola per bambini, arrivando a un prefinale che con forza impone alla sua protagonista una necessaria presa di coscienza del mondo intorno a essa, riuscendo così a disvelare quella patina di autocommiserazione che non le permetteva di uscire dalla sua prigione di vetro.
Una metafora che trova compimento negli ultimi frammenti, ricucendo gli strappi del passato e volgendo lo sguardo verso il futuro. Perché, proprio come le lumache che non conoscono altre direzioni, l'unico modo per vivere una vita piena è guardare avanti senza voltarsi indietro.

Categoria
Adam Elliot Sarah Snook Eric Bana Jacki Weaver 94 minuti
Australia 2024
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La laguna del soldado

di Alessio Baronci
La-Laguna-Del-Soldado-Documentario-Pesaro-2024

Campo/Fuori Campo, passato/presente ma soprattutto trauma/ricostruzione. Nel bene e nel male è un film ostinatamente senza mezze misure, La laguna del soldado, scoperto, chiarissimo nel suo approccio, in ciò che vuole dire e, soprattutto, nel modo in cui vuole farlo.
Così questo saggetto ricolmo di amara ironia, che prova a intrecciare Storia, riflessione sul post colonialismo e ambientalismo ripercorrendo, oggi, la regione del Paramo, centrale nella strategia di riconquista dell'America Latina da parte del liberatore Simon Bolivar, e soffermandosi tanto sulle lotte di indipendenza di cui quegli spazi furono teatro quanto sui volti e sulle parole di quei contemporanei che con quella regione, con quegli ecosistemi ancora traumatizzati, devono confrontarsi, questo film di Pablo Alvaro Mesa usa tutti gli strumenti di quei documentari che si propongono di ragionare sulle ferite degli immaginari: i fantasmi, solo evocati (quello dei conquistadores, quello di Bolivar, il cui Delirio, straordinaria bellissima poesia che scrisse quasi per autoinvestirsi del ruolo di liberatore delle Americhe, apre il film), la tragedia lasciata fuori campo, la presenza umana ridotta al minimo, il racconto del dramma della colonizzazione irrimediabilmente potenziato dai contemporanei che lo evocano dalla distanza. 

È indubbio che le sue carte migliori La laguna del soldado se le giochi davvero nel bel primo atto, vicinissimo al linguaggio del cinema contemplativo, con la macchina da presa che si immerge nel silenzio e si sofferma a osservare per lungo tempo la natura priva di presenza umana, gli altipiani, i fiumi, la vegetazione ricchissima. In questi spazi costantemente rimessi al centro dell’inquadratura, (ri)-visti dallo sguardo del regista, pare esserci la ricerca di un nuovo modo non solo di tornare alla natura ma proprio, più pragmaticamente, di misurare nuovamente le distanze tra noi e il mondo esterno, di ridare un nome alle cose, di ricostruire la vera e propria cornice ermeneutica dopo la tragedia culturale del colonialismo. O forse anche solo di riprendere contatto con il linguaggio visuale che in effetti, dopo una prima parte così sperimentale, diventa più leggibile. Tornano dunque in primo piano i volti, i corpi degli eredi dei colonizzati e le forme del genere vengono assecondate con più convinzione, a tal punto che da quel momento in poi La laguna del soldado "parla" la sintassi riconoscibile di un documentario convenzionale, che si attarda sui sentieri montani e, forse soprattutto, sui particolari del Fralejon, la pianta endemica del Paramo, diffusa fin dai tempi di Bolivar e di cui ora viene riscoperta l'importanza "ambientalista" data la sua capacità di conservazione del vapore acqueo. Ecco, forse alla seconda parte del documentario di Pablo Alvarez Mesa manca la vertigine concettuale che l'ha preceduta ma il muoversi in uno spazio noto, ricostruito, leggibile, permette al contempo di soppesare la portata politica dell'immaginario a cui si fa riferimento, anche solo attraverso la scelta dei materiali, il montaggio, gli spunti offerti dalla messa in scena.

A colpire allora, da un lato è lo sguardo affettuoso con cui Mesa osserva lo spazio che lo circonda, teso tra la razionalità scientifica e un atteggiamento quasi animista tipico della sua cultura ancestrale con la natura, ma soprattutto, dall'altro, l'ironia giocosa con cui, tra i fotogrammi, si diverte a cambiare di segno, nel presente, a tutto l'immaginario dei conquistatori, delle loro pratiche, dei loro riti, che pare dominare ancora l'inconscio collettivo degli abitanti di quella terra.

La-Laguna-Del-Soldado-Documentario-Pesaro-2024

Non stupisce, allora, se tutti gli studiosi, i botanici, i biologi intervistati da Mesa concordino nel raccontare le loro attività di ricerca come un tentativo di riprendere possesso degli ecosistemi del Paramo per proteggerli e studiarli ma senza mai escludere l'elemento umano dall'equazione e dunque, ad esempio, senza costringere gli abitanti della regione ad allontanarsi da particolari zone per esigenze di conservazione, quasi fossero essi stessi dei conquistadores etici.

A rimanere fissa, saldissima, è la fiducia nell'immagine, nell'archivio costantemente aggiornato della biologia del Paramo che si costruisce attraverso il linguaggio proprio del cinema: "Stiamo scattando una fotografia del qui ed ora della foresta", racconterà uno dei ricercatori nel corso del documentario, giusto pochi secondi dopo che un etologo ragioni come, per studiare i comportamenti dei pipistrelli che popolano la zona, la prima mossa da compiere è rallentare al massimo la registrazione dei loro versi, affidandosi quasi a uno "zoom" che ingrandisca le frequenze dei loro ultrasuoni. E mentre la ricerca lavora a una "biblioteca naturalista" (altra immagine ricorrente), questo continuo osservare, portare in superficie, rinominare, ricostruire attraverso le immagini arriva a svelare certi segreti meccanismi della contemporaneità.

Forse, in prospettiva, la seconda parte de La laguna del soldado chiede semplicemente più pazienza da parte dello spettatore, che si ritrova di fronte ai passaggi più disincantati, amaramente cinici del documentario, centratissimo nel raccontare certe storture del governo locale (che secondo alcuni degli intervistati si comporta in modo non troppo distante da chi quelle terre le ha martoriate centinaia di anni fa) ma anche nell'osservare amaramente lo stato di salute dello spirito ribelle, militante locale, che è quasi obbligato a reinventarsi attraverso questa lettura etica, scientifica della Reconquista, se è vero che il guerriero Bolivar ora è ridotto a un nome simbolico da evocare con calore ma senza troppa convinzione e della sua campagna, della sua avventura, non rimane altro che del materiale buono per dei musei.
Come a voler chiudere su un'ultima dicotomia, su una Storia che, nel momento in cui chiede di essere rievocata torna in gioco come farsa, quasi a porre in campo Quetzalcoatl, il serpente piumato azteco simbolo del tempo circolare, che mangia sé stesso, forse l'ultima vestigia apposta a uno spazio che chiede, con tutto sé stesso, di tornare all'origine di un'identità.

Categoria
Pablo Alvaro Mesa 77 minuti
Canada Colombia 2024
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