Anora
Per i maligni, la lettura è fin troppo chiara: Sean Baker passa da un indie “vero” a un indie “falsificato”. Uno sguardo meno ideologizzato potrebbe leggere il movimento opposto: Baker sarebbe un autore che si spoglia delle proprie imposture per cercare una forma più classica, forse anche più ecumenica.
Anora di Sean Baker è un film semplice. Che non è sinonimo di stupido, di superficiale, di “facile da fare”. Anora è semplice come era semplice Accadde una notte, o come sono semplici le favole che le nonne raccontano ai bambini. E Anora, infatti, è innanzitutto Cenerentola: la storia di una poveraccia – stripper di periferia, immigrata, cafona e cazzuta – che finisce per miracolo col principe azzurro, discolo imberbe figlio di magnati russi. Coiti adolescenziali, playstation, matrimonio alcolico a Las Vegas: «Vi do due settimane», li apostrofa la collega stronza, e invece per sbrogliare la matassa basteranno ventiquattr’ore, una maratona a rotta di collo nella selva oscura di New York.
La struttura narrativa richiama modelli illustri: Tutto in una notte, naturalmente, ma pure Fuori orario, con quel suo atto unico senza soluzione di continuità, senza tregua, senza scampo. Un espediente drammaturgico caro a Baker, che già l’aveva impiegato in Take Out nel 2004 e in Tangerine nel 2015. Col senno furbetto del poi, Tangerine non è per Anora che una prova generale: ci sono le sex worker e gli emarginati, c’è il piglio arrembante e videoclipparo, c’è quel ribaltamento tra autenticità e contraffazione che per il regista statunitense è un po’ un chiodo fisso (la prostituta transgender protagonista del film del 2015, che guarda caso si fa chiamare Sin-Dee Rella, riceve come pegno d’amicizia una parrucca: un oggetto emblema del falso, per rinsaldare l’unico legame vero). Le unghie finte della stripper Anora, le sue extension manifestamente posticce, raccontano in fondo la stessa identica storia: sono una maschera sguaiata, fiera del suo cattivo gusto, ma paradossalmente genuina.
Il confronto tra Tangerine e Anora ci parla insomma di una grande coerenza tematica e drammaturgica, che si estende a tutta l’opera di Baker: la sua filmografia è costellata di sex worker più o meno falliti, si diceva, ed è ugualmente pervasiva l’ossessione per una macchina da presa mobile, francobollata ai personaggi, votata a un preciso mandato di pedinamento (e a questo proposito, la prova generale va rinvenuta necessariamente in Un sogno chiamato Florida, col suo infaticabile girovagare). Ma proprio nel passaggio che da Tangerine conduce ad Anora, in termini di dispositivo, si esemplifica il movimento compiuto dal cinema di Sean Baker: nel 2015 girava con l’iPhone, nel 2024 in 35 mm, e questo scarto marca una differenza essenziale in termini di sguardo e di poetica. L’immagine catturata dallo smartphone ci dice di un cinema povero nei mezzi, linguisticamente calato nel suo contesto: le immagini sono fatte della stessa pasta del mondo raccontato dal film, il dispositivo è coerente con l’ambiente. La pellicola 35 mm racconta tutta un’altra storia, e ben esemplifica la ricerca di una forma raffinata, assimilata ai modi di produzione del cinema autoriale. Un film da Festival di Cannes, insomma, e con un po’ di fortuna persino da Palma d’oro. Per i maligni, la lettura è fin troppo chiara: Sean Baker passa da un indie “vero” a un indie “falsificato”. Uno sguardo meno ideologizzato potrebbe leggere il movimento opposto: Baker sarebbe un autore che si spoglia delle proprie imposture per cercare una forma più classica, forse anche più ecumenica.
È “popolare”, senza ombra di dubbio, l’approccio di Anora al genere: con la sua trama intensamente romantica, con la sua eroina indomita e fuori controllo, il film aderisce con appassionata convinzione agli stilemi della rom com (si cita, senza vergogna alcuna, Pretty Woman di Garry Marshall). Ma nell’uso pirotecnico del dialogo, fittissimo e ricco di invenzioni, si risale dritti fino alla screwball degli anni 30 e ai suoi duetti dal ritmo indiavolato. Qualunque siano i modelli chiamati in causa, si coglie la distinta intenzione di omaggiare, senza necessariamente reinventare. Baker rivendica una cinefilia entusiasta, amorosa: è uno di noi, uno che non ha paura di mischiarsi col suo pubblico (come dimostra il suo aggiornatissimo profilo Letterboxd).
Questa semplicità di sguardo, rivendicata con un orgoglio che sfiora l’anti intellettualismo, non impedisce al cinema di Baker di confrontarsi criticamente con i segni e i luoghi della cultura mainstream. Starlet e Tangerine si ambientavano a Hollywood, Un sogno chiamato Florida si svolge tutto a pochi passi da Disney World, la trama di Anora si dipana tra Las Vegas e Coney Island, con le sue spiagge e i suoi lunapark: Baker predilige insomma gli spazi tipicamente ricreativi, di cui mette in scena i desolati dintorni e gli squallidi “dietro le quinte”. C’è, in questa attenzione per ciò che sta ai margini, un’antica concezione dell’“altra faccia del sogno americano”, che induce a guardare alle zone liminari, alle culture periferiche, al paesaggio suburbano. Se l’imperialismo statunitense si esemplifica, a livello urbanistico, con la forma-grattacielo, arrogante nel suo slancio verticale, Baker rivendica uno sguardo interessato alla perlustrazione dei marciapiedi, dei drugstore, dei motel da quattro soldi. Un cinema orizzontale, che non si vergogna di “volare basso”. Un cinema semplice.