Musik

di Emanuele Polverino
musik recensione film

Là dove si chiude uno dei capolavori di Theo Angelopoulos, Paesaggio nella nebbia del 1988, così si apre l’ultimo film di Angela Schanelec, Musik, in una vallata avvolta nella nebbia, metafora, se vogliamo, di tutto quello che sarà poi il film. Un trait d'union come appiglio per non perdersi all’interno di un’opera fortemente antinarrativa, ellittica e frammentata, che si muove sincopata tra momenti di assoluto silenzio ed esplosioni musicali.
Il film tenta di(ri)portare il cinema allo stadio zero, lì dove le immagini contano più di ogni cosa, dove il montaggio diventa scostante, mai accondiscendente e fortemente sfidante nei confronti dello spettatore. Un montaggio che unisce, spesso esulando dalle pure logiche narrative, immagini che assomigliano a singoli atomi, particelle che messe a contatto potrebbero esplodere.

Le occasioni di sollievo durante la visione arrivano dai pochi e indispensabili movimenti di macchina, lente panoramiche che tentano di scostare il velo di Maya che sempre allontana l’uomo dalla conoscenza della verità, quella coltre di nebbia fitta e densa che avvolge il mondo creato da Schanelec. E se per Schopenhauer vi era una volontà intrinseca nel nostro inconscio – un impulso irrefrenabile verso la conoscenza, energia sempiterna in grado di squarciare il velo e guidarci verso la consapevolezza di non essere solo carne ma anche desideri e bisogni che arrivano dal di dentro – anche i personaggi di Musik sembrano essere sempre sul punto di esplodere (come le immagini stesse del film), guidati da istinti e pulsioni di ogni tipo, dall’odio più feroce e immotivato fino all’amore più profondo. Musik ha, fin dalle primissime immagini, il respiro e il sapore di una narrazione che fonda le sue radici nella storia della civiltà umana, lì dove è nata l’arte dell’affabulazione, del racconto, della tragedia. Schanelec decide di ambientare il suo film in Grecia, prendendo spunto e, ovviamente, riadattando l’opera che forse più di tutte ha dato il via alla tradizione drammaturgica greca, ovvero l’Edipo Re di Sofocle. Un racconto che diventa subito globale, ampissimo nella sua visione perché totalmente perso nel tempo e nello spazio - se inizialmente siamo portati a pensare che le vicende siano temporalmente adiacenti alla realtà, è la voce di un telecronista che arriva dalla televisione, intento a esaltare il gol di Fabio Grosso ai mondiali di Germania 2006, a ricondurci in un momento preciso del tempo, che subito si dissolve nell’anacronismo dei movimenti dei personaggi. Domina un senso di disorientamento che viene ampliato dal modo in cui la regista tedesca decide di utilizzare e inquadrare le morfologie del terreno, trasformando il paesaggio duro e a tratti post-apocalittico delle coste greche in un non-luogo, operazione accomunabile allo sguardo con cui Pasolini catturava (non solo per i suoi silenzi) i paesaggi dell’Etna in Teorema (1968) e Porcile (1969).

Musik è un film che ci parla di corpi ancor prima di qualsiasi altra cosa, raccordi di immagini parziali che tentano di ricomporre una fisicità persa nel tempo: piedi, mani e porzioni di volti sono i soggetti delle immagini di Schanelec, che ancora una volta rimandano ad Angelopoulos e a quella mano gigante estratta dal mare in Paesaggio nella nebbia, con i volti attoniti dei bambini di fronte all’immensità della storia.
Ed è da queste porzioni di corpi che Musik riparte, da indizi che rimandano alla totalità che ancora rimane celata nel fuori campo (in fondo al mare, come nel caso di Angelopoulos); un cinema di sottrazioni – dal montaggio alle interpretazioni stesse dei personaggi, fino al sonoro che molto ricorda i film più radicali di Bresson –che restituisce però linfa vitale con una conclusione totalmente musikale e liberatoria, che sgancia finalmente lo spettatore dal mistero nascosto al di sotto del velo per restituirgli (anche se dolorosa come nel caso di Edipo) la conoscenza della verità.

È un cinema, questo di Schanelec, che sì rischia di annoiare e stordire, ma che se accolto come sfida è in grado di stupire e appagare. Capace di ragionare su argomenti alti senza risultare puro e semplice esercizio di stile e teoria, perché al centro di tutto torna a esserci l’uomo, come essenza trascendentale e come pura carne, simbolo di un mondo che sta ancora cercando di ricalibrare le proprie coordinate.

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Angela Schanelec Aliocha Schneider Agathe Bonitzer Marisha Triantafyllidou 108 minuti
Germania, Francia, Serbia 2023
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El Pampero Cine: paladini di una magnifica ossessione #1

di Andrea Inzerillo
el pamper cine, speciale

Del Pampero Cine, in Italia e non solo, sappiamo ancora pochissimo. Bisogna dunque innanzitutto mettersi alla ricerca di alcune tracce, per cominciare a raccontare e provare a comprendere meglio questa realtà indipendente che negli ultimi anni ha proposto almeno due opere senza eguali nel cinema contemporaneo, La flor di Mariano Llinás e Trenque Lauquen di Laura Citarella, che per alcuni sembrano essere diventate lenti fondamentali attraverso cui guardare al cinema argentino dei nostri giorni, se non al cinema d’autore tout court.

Cominciamo dalle presentazioni: Laura Citarella, Mariano Llinás, Agustín Mendilaharzu e Alejo Moguillansky, nati tra il 1975 e il 1981, sono i componenti della banda. Registi di un numero di opere che inizia a essere consistente, una passione professionale comune per il teatro e per la musica, ognuno dei quattro ha le sue specificità – la fotografia per Mendilaharzu, il montaggio per Moguillansky, la scrittura per Llinás, la produzione per Citarella – ma più o meno tutti fanno tutto, gli uni per e con gli altri, in un’idea moschettieresca che privilegia la dimensione del gruppo a quella del singolo autore; il risultato è un tutto inevitabilmente maggiore della somma delle parti. Si presentano spesso come un gruppo di amici, conosciutisi in una maniera o in un’altra attorno al contesto di attività della Universidad del Cine (FUC) di Buenos Aires, e cominciano a fare film insieme dal 2002 con Balnearios e, in maniera forse più evidente, dal 2008 con Historias extraordinarias, entrambi diretti da Mariano Llinás.

I primi cinque minuti di Balnearios, a tutti gli effetti la prima vera produzione del Pampero nella quale compare anche per la prima volta una bozza di logo (ancora privo del sostantivo “cine”), sono già indicativi di una certa tonalità che unisce l’ironia alla malinconia, l’invenzione alla ricerca, l’esplorazione all’analisi. Tutto passa per la reinvenzione del mondo e per la scrittura – del testo recitato, della grammatica delle immagini (qui vecchi filmati in super8 di bagnanti), di un montaggio che fa del contrappunto tra musica e voce off uno dei suoi cardini. Tutto passa per il cinema che è nello stesso tempo, dichiaratamente, una forma di vita.

pampero 543 cine

Queste caratteristiche derivano dalla volontà di portare avanti una ricerca che rifiuta di adeguarsi a standard prestabiliti da altri. Lo dice in maniera chiara Moguillansky in un breve video pubblicato nel 2019 dal Filmfest München: volevamo avere una relazione più diretta con il cinema. Vuoi filmare? Prendi e vai. Il tentativo era quello di giungere a una prossimità simile a quella che i letterati hanno con la scrittura o i pittori con la pittura, senza la necessità del peso delle regole industriali. Perché se come scriveva Malraux il cinema è un’industria, esso è nondimeno anche vita e desiderio – e allora è necessario capire quale spazio concedere e quale invece bisogna prendersi, in che modo tentare di sopravvivere e come piuttosto riuscire a vivere pienamente. Di qui la decisione di adottare una struttura di lavoro più orizzontale e non gerarchica, di rifiutare i sussidi dello stato e le relative imposizioni produttive, di reinvestire gli introiti nella creazione e nella produzione di nuovi progetti. La storia del Pampero Cine è una storia di lavoro costante e di continui scambi tra film e film, perché i tempi di produzione delle singole opere possono essere anche molto lunghi e questo influisce sulla loro forma finale, concepita come un organismo che se pure ha una struttura (più o meno) classica non smette comunque di influenzare ciò che si sta facendo e quel che si ha in mente, o di ritornare e ridare vita alla forma precedentemente assunta dal girato.

Agisce su questo atteggiamento soprattutto l’esempio rappresentato dal teatro underground e indipendente argentino, da cui proviene tra le altre Veronica Llinás (sorella di Mariano e attrice in diversi film del Pampero), oltre alle quattro attrici del gruppo Piel de Lava che sono le protagoniste di La flor. Nel prologo di questo autentico monumento del cinema contemporaneo, uscito nel 2018 e noto ai più quasi esclusivamente per la durata eccezionale di quattordici ore, il regista entra in scena per spiegare la struttura del film e conclude dicendo che la particolarità consiste nel fatto che in esso sono presenti quattro donne (Elisa Carricajo, Valeria Correa, Pilar Gamboa, Laura Paredes) che interpretano diversi ruoli e che La flor è un film su loro quattro, e in qualche modo per loro quattro. Parlare oggi del Pampero Cine significa quindi misurarsi con una costellazione ampia che vede queste presenze ricorrenti attraversare molti film del gruppo (basti pensare al ruolo di alter ego che Laura Paredes ha cominciato ad assumere nei film di Laura Citarella) insieme ad altre presenze non meno fondamentali. Citarne alcune – per prime quelle di Luciana Acuña (La edad media, Por el dinero), Ezequiel Pierri (Trenque Lauquen), Constanza Feldman (Clementina) – è essenziale per cogliere l’aria di famiglia dei vari film, nella creazione dei quali sono spesso coinvolti musicisti come Gabriel Chwojnik, scenografe e costumiste come le sorelle Laura e Flora Caligiuri, ingegneri del suono come Marcos Canosa, direttrici della fotografia come Inés Duacastella, attori che mettono a disposizione la loro multiforme complicità com’è il caso di Walter Jakob.
El Pampero Cine non è solo una casa di produzione: è una vera e propria moltitudine.

[ Leggi qui la seconda parte dell'introduzione ]

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La sala professori

di Irene Frau
la sala professori recensione film

«Il peggior male non è dunque il male radicale, ma è un male senza radici. E proprio perché non ha radici, questo male non conosce limiti».
Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme

Quando il cinema entra nelle scuole, spesso mette a fuoco il ruolo dell’insegnante. Anche in La sala professori (The Teachers' Lounge), candidato agli Oscar come Miglior Film Internazionale, il regista Ilker Çatak si concentra sul personaggio dell'insegnante Carla Novak (Leonie Benesch). La protagonista lavora da poco in una scuola di periferia in Germania, quando un suo alunno di origini turche viene accusato dal corpo docente di essere l’autore di una serie di piccoli furti. Sin dalle prime sequenze, si avverte nei dialoghi il pregiudizio educato, normato, col quale la preside e gli insegnanti si relazionano tra di loro e con gli alunni, giustificando ogni severa disposizione con la necessità di lavorare per il bene comune. Novak è invece illuminata da una sorta di morale kantiana, animata dalla vocazione per la sua professione, pur dimostrando di non sapere come rispondere alle responsabilità che ne derivano. Il rapporto con i ragazzi e le ragazze della sua classe è improntato su metodi educativi dialogici e paritari, apparentemente all’avanguardia. I suoi colleghi l'hanno prontamente etichettata come moralista, mentre i suoi alunni sembra che fingano solamente di stimarla. Nel tentativo di mantenere una condotta rispettosa con tutti, Novak si muove con disagio e frustrazione tra i corridoi delle mura scolastiche, protagoniste del film insieme a lei.

In La sala professori la scuola è prima di tutto un luogo fisico, chiuso, dal quale non si esce per 98 minuti. Il mondo fuori si intravede appena, filtrato dalle finestre o mentre si rincorre chi tenta di fuggire. L’edificio assomiglia ad un panopticon confortevole. Dalla prospettiva di Çatak è la stessa istituzione scolastica ad apparire come trappola claustrofobica. Un labirinto decorso che resta sullo sfondo per tutta la durata del film, fino a emergere prepotentemente nel montaggio in epilogo. La scuola qui è un laboratorio che predispone al sospetto e all’ingiuria, educa al pettegolezzo e all'ipocrisia, allena la naturale propensione all’egoismo, insita in ciascun essere umano. L’istruzione pubblica non libera le menti, non allena alla cooperazione, ma alla ferocia.

La sala professori recensione n1

Dal montaggio di Gesa Jäger alla fotografia di Judith Kaufmann, ogni scelta linguistica è pulita e fortissima. Luci fredde e scelte minimaliste restituiscono subito l’impressione che le regole istituzionali non siano capaci di aderire ai colori della realtà, decisamente più caotica e ambigua. Çatak si muove insieme alla professoressa Novak seguendola con la camera a mano, oppure incorniciando il suo volto per soffermarsi sui suoi attacchi di panico. Una delle scene del film, divenuta precocemente iconica, vede la protagonista in un primo piano stretto sul viso paonazzo, mentre urla con quanto fiato ha in gola, seguita dal grido collettivo, liberatorio e bestiale dell’intera classe. Un rito incivile e spontaneo, l’unico capace di unire, che racconta di un disagio esistenziale appartenente agli alunni quanto ai docenti. Se nella comunità scolastica, se nella società, non è possibile fare affidamento sui propri simili, viene meno ogni forma di patto civile, ovvero ciò che ha allontanato l’umanità dallo stato di natura. In un mondo senza dio, ai ragazzi e alle ragazze si insegna a guardarsi le spalle con cinismo, perché l’hobbesiano pensiero dell’homo homini lupus è più attuale che mai. 

La colonna sonora è anch’essa essenziale e impeccabile. Interviene solo in alcuni momenti, come a voler pungolare la protagonista, tramite le note di Marvin Miller. Eppure, le geometrie della musica sono presenti per tutta la durata del film, esattamente come i principi della matematica, la materia che insegna con passione la professoressa. Carla si rivolge ai ragazzi coi gesti di un direttore d'orchestra: li dirigere fino ad assistere al loro ammutinamento. Improvvisamente, non rispondono più ai suoi comandi. Non esistono più regole condivise e comportamenti prestabiliti da adottare.

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In un passaggio concettualmente esplicativo, nell’ambito di una lezione, la protagonista spiega ai ragazzi la differenza tra un’affermazione e una dimostrazione. La verità, pertanto, è questione di punti di vista e questa consapevolezza decostruisce ogni tipologia di fede cieca verso un sistema di valori. L’etica non dipende da alcun algoritmo, pertanto nessuna verità morale assoluta può essere effettivamente dimostrata. L’etica appartiene sempre ad un pregiudizio. Eppure, a scuola si insegna la formula delle regole condivise e della “tolleranza zero” per chi non le rispetta, come se l’etica sia un’equazione matematica. Si contrappone la sorveglianza scrupolosa al rispetto della privacy; si sovrappone la responsabilità nei confronti dell’equilibrio mentale dei ragazzi con la pretesa di smascherare nel dettaglio ogni comportamento illecito. 

Sono numerosissimi i titoli del cinema ambientati nelle aule scolastiche, ma Çatak, insieme al co-sceneggiatore Johannes Duncker, è uno dei pochi a utilizzare il registro del thriller per evocare ciò che di terrificante accade in quel microcosmo didattico. Un prototipo sperimentale della società civile dal quale osservare, in anteprima, le mutazioni future del mondo che verrà. Solitamente, nel cinema si preferisce puntare sull’eroismo dei docenti, come in La classe (2008) di Laurent Cantet, Palma d'Oro come miglior film al 61mo Festival di Cannes. Çatak ha invece deciso di raccontare un’altra storia, priva di eroi o di vincitori, per concentrarsi solo sugli sconfitti. Lo fa con maestria, meritandosi l’attenzione degli Academy Awards, dopo il successo alla Berlinale. Il suo film parla degli europei, i sopravvissuti all’ipocrisia dei valori occidentali, sui quali ci si muove come funamboli, fingendo di non vedere ciò che accade fuori dalle mura scolastiche, nel mondo al di fuori di questo castello di carta. Un tema che si riconnette amaramente a quello de La zona d'interesse (2024) di Jonathan Glazer, dove il desiderio di vivere una vita agiata e la paura di perdere i confort è fondata sul dolore atroce di tutti quelli posti ai margini, entro altri confini.
La scena conclusiva de La sala professori lascia pensare che da quei confini, dalla trappola dell’istituzione educativa e dall'ipocrisia della norma, se ne uscirà solo con la forza e nemmeno volontariamente, lasciando un terrificante senso di angoscia nello spettatore.

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İlker Çatak Leonie Benesch Michael Klammer Rafael Stachowiak Leonard Stettnisch 98 minuti
Germania 2023
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Dune - Parte due

di Matteo Berardini
Dune - parte due villeneuve recensione

Al netto delle gerarchie valoriali, c’è un filo rosso che parte da Shining e arriva a Dune – Parte due, un legame genealogico che attraversa le immagini di Kubrick, Ridley Scott, Christopher Nolan e Denis Villeneuve, attraverso le quali si configura sempre più una rotta alternativa all’ormai plastificato e algoritmico orizzonte del blockbuster contemporaneo. Uscite nel 1980, le immagini di quella lunga volata d’elicottero furono le prime a sintetizzare in forma contemporanea l’epica kolossal dell’overture con l’espressione autoriale servita attraverso il massimo impiego della macchina hollywoodiana. Certo, c’era già stato Apocalypse Now e il suo gigantismo lisergico, ma la strada indicata da Coppola muoveva su un terreno troppo instabile, uno scontro eversivo tra autorialità e capitale non risolto e internamente conflittuale (come dimostrano i suoi successivi percorsi di carriera). Piuttosto, l’apertura musicale di Shining appare oggi come l’inizio ideale di una forma più armonica di authorial blockbuster in grado di permutare la magniloquenza del kolossal in una nuova spettacolarità, anzitutto intenta a mettere in scena sé stessa e la propria potenza di fuoco industriale (in un’ambizione mai sopita a farsi opera-mondo, un desiderio che allontana queste forme cinematografiche da quelle ad esempio spielberghiane, a volte più ludiche e altre più attente al sentimento umanista).
È stato già detto, del resto, che il cinema di Scott, oltre la questione del footage di prova girato da Kubrick in Colorado e impiegato poi dal regista nella prima versione di Blade Runner, nasce per molti sensi dentro quelle immagini in volo, nella seducente grandeur registica che piega a sé le leggi del mercato innescandovi sguardo e ossessioni. E se il magistero di Kubrick domina l’evoluzione ultima delle carriere di Nolan e Villeneuve (rappresentandone un punto di riferimento non necessariamente stilistico, piuttosto industriale e di status), l’operazione Dune non nasconde i diversi omaggi alla storia più ampia del kolossal e blockbuster d’autore, dal cranio rasato del Barone Harkonnen (come il colonnello Kurtz di Brando) al duello truccato nell’arena da parte del na-barone psicotico Feyd-Rautha (eco dell’instabile Commodo di Joaquin Phoenix, ne Il gladiatore), passando per l’eco obbligata di Lawrence d’Arabia e del suo impossibile incontro tra oriente e occidente. Finanche, a voler spingere all’estremo il ragionamento, le adunanze marziali di Riefenstahl e del suo Il trionfo della volontà, eterno ritorno totalitario nell’orgia di potere inscenata dagli Harkonnen.

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L’ambizione di Villeneuve è giustamente alta e ben chiara: far rivivere l’epica del kolossal dentro forme di spettacolo pensate, cariche di responsabilità storica nei confronti del mondo che le circonda e comunque forti di un impianto estetico di rara potenza ed efficacia. Se il primo capitolo di Dune poneva le basi del discorso, mediando tra le necessità roboanti della produzione di alto livello e il desiderio autoriale di impostare un passo più meditativo, intimo e attento ai dettagli, questa Parte due capitalizza al meglio quanto fatto in precedenza e alza tutti i livelli in gioco, dal discorso politico all’escalation drammaturgica, dall’intensità attoriale alla spettacolarità dell’azione e dello scontro frontale. I volumi del film – fisici, visivi, sonori – si spalancano e lasciano scorrere momenti di grande cinema, come la prima cavalcata del verme da parte di Paul e il duello finale, l’antigravità dell’imboscata iniziale e i rapidi lampi di quotidianità nel deserto, dove una marcia compiuta con il passo delle sabbie disegna lunghe silhouette d’ombra, mentre la luce intrisa di spezia cala nel tramonto di Arrakis. Villeneuve ama nel profondo la fantascienza, e i codici più adulti del genere innervano nel profondo ognuna di queste sequenze. Ne risulta un cinema puntigliosamente attento nel rigenerare su schermo un intero universo, grazie a una costellazione coerente di immagini spettacolarmente ragionate e realizzate. Il world building sociale, religioso e tecnologico, creato dalla penna di Frank Herbert, sostiene ogni aspetto del racconto filmico, colma l’inquadratura di dettagli, esaltato in tutto ciò che più è in grado, oggi, di risuonare a partire da quella materia narrativa, e dove serve Villeneuve migliora, aggiustando di cesello, e ponendo una seconda volta le impalcature per il film a seguire, l’ultimo dell’attesa trilogia. Non dobbiamo avere paura di dirlo: Dune – Parte due, nato da un capolavoro letterario, è uno dei migliori adattamenti nella storia del cinema.

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Coadiuvato da una produzione di primo livello, su cui spicca la fotografia di Greg Fraser (già premio Oscar per il primo film e DOP tra gli altri di Rogue One e The Batman), Villeneuve fa di questo secondo capitolo un concentrato estetico e concettuale particolarmente cupo e violento. Nonostante momentanei attimi di distensione (lontani dall’ironia posticcia di casa Marvel e utili piuttosto ad aumentare le angolazioni da cui scoprire questi personaggi), il film è un tour de force stilistico in grado di esaltare le potenzialità della visione cinematografica (anzitutto destinata alla sala) recuperando al contempo la capacità del grande spettacolo di dire qualcosa di vero sul mondo. Se il primo film era più incentrato sulle suggestioni dettate dalla spezia, metafora della macchina-cinema su cui si innestavano solidi legami familiari piegati dal precipitare degli eventi, in questo secondo episodio domina il peso ineluttabile di un destino che disintegra il topos del white savior, messia incarnato in grado di operare salvezza in un mondo non suo e a rischio di colonizzazione. Merito anche di Timothée Chalamet e Rebecca Ferguson, magnificamente diretti e capaci di incarnare visceralmente la voragine che si spalanca dentro i loro personaggi. Entrambi offrono forse le loro migliori interpretazioni, occhi incandescenti e disperata risoluzione nella voce, nei corpi sempre piegati allo sforzo, sul punto a volte di spezzarsi. A partire da loro, e tutt’attorno nelle vesti beduine dei Fremen, negli spazi desertici di Arrakis fino al bianco e nero dal passo techno dello sbalorditivo, orwelliano, Giedi Primo, monta e si espande un’onda elettrica di fanatismo religioso e calcolo politico, una guerra santa pregna di sangue che sempre più prende forma all’orizzonte. Al pari di Jonathan Glazer e del suo La zona d’interesse – per quanto siano forme cinematografiche agli antipodi – siamo di fronte a un cinema che non solo ingaggia questioni umane e storiche complesse, ma intavola discorsi e criticità che volente o nolente riverberano e si modificano a contatto con l’aria, una volta rilasciati in un presente com’è il nostro, intriso di quotidianità bellica ed escalation militare.

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Dei Balcani diceva Winston Churchill che sono una regione condannata a produrre più Storia di quanta ne riescano a consumare, perché i conflitti del passato non si depositano a terra ma restano vibranti nell’aria, suscettibili di riattivazione. La stessa cosa si potrebbe dire dell’universo ruotante attorno ad Arrakis, un precipitato storico del Novecento in cui dittatura, jihad, manipolazione genetica, scontro tra blocchi mondiali e ideologia religiosa collimano in forme instabili, sempre sul punto di deflagrare. Il mondo procede verso l’abisso, la speranza si assottiglia fin quasi a svanire, e quanta differenza permane tra Paul Atreides, messia riluttante, e il suo doppio schizoide, Feyd-Rautha, esempio felice di destino incarnato? Nei margini dei futuri possibili, c’è ancora una strada percorribile che non porti al mare di sangue della guerra sacra? Oggi sembra che la balcanizzazione, di cui tanto si parla per l’invasione in Ucraina, riguardi in realtà buona parte del mondo occidentale, alle prese con un rinvigorimento di forze storiche date per morte, e invece intente ad accelerare e premere sui confini dei sistemi mediali che ci siamo dati per comprendere il mondo. Torna alla mente Apes Revolution - Il pianeta delle scimmie, uscito in sala nei drammatici giorni estivi del 2014, quando in Palestina si teneva l’ennesima guerra sotto il nome di Operazione Margine di protezione. Quel secondo, nuovo, capitolo del franchise rifletteva infatti in forme inquietanti e inaspettatamente vicine l’incomprensione eterna tra i fronti e la ciclica afflizione determinata dalla guerra. Matt Reeves del resto è l’altro nome da aggiungere alla (ristretta) lista di coloro cui è lecito affidare il destino del blockbuster colto, quello in grado di offrire un’alternativa all’assenza di cinema che dilaga sotto le vesti supereroistiche di latex, mantelli e maschere, l’ironia demenziale e il venir meno di libertà e immaginazione. Dune – Parte due è quindi l’esempio ultimo, e con The Batman forse il più evidente, che in terra hollywoodiana può esistere ancora una forma di spettacolo in grado di inquietare e mesmerizzare assieme, una forma kolossal che risponda allo sguardo autoriale e dal quel contatto esca vivificata, attuale, ancora capace di nutrirsi di quelle eccessive produzioni di Storia che altrimenti non riusciremmo a consumare.

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Denis Villeneuve Timothée Chalamet Rebecca Ferguson Zendaya Javier Bardem Stellan Skarsgård Josh Brolin Austin Butler Florence Pugh Dave Bautista Léa Seydoux Christopher Walken 165 minuti
USA 2024
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La zona di interesse

di Veronica Vituzzi
la-zona-dinteresse - recensione film glazer

In un’epoca dove le informazioni viaggiano al ritmo di rapidi click, saranno pochi gli spettatori che giungeranno alla visione de La zona di interesse completamente ignari di ciò che li aspetta. Sarà per loro probabilmente un’esperienza straordinaria, che li troverà forse impreparati a confrontarsi con un’immagine colma di indizi e latenze. D’altra parte, l’overture del film – di kubrickiana memoria – fatta di solo schermo nero con la musica di Mica Levi, ci introduce da subito al paradigma del testo: questa è un’opera in cui il suono è parte stessa del senso dell’immagine, e dove l’ascolto conta più dello sguardo.

In un bucolico paesaggio lussureggiante vive una famigliola felice. Una splendida casa, un rigoglioso giardino, cinque bambini, la piscina per rinfrescarsi l’estate, genitori attenti e premurosi. È un paradiso in terra. È Auschwitz, nel 1943.
Di per sé sarebbe una metafora eccezionale della società, giusto? L’Eden a due passi dall’inferno, due mondi separati solo da un muro, e chiedersi poi come è mai possibile che a distanza di poche decine di metri possano convivere insieme tanta serenità e tanto orrore...Il problema è che non è una metafora. È tutto vero. La villetta nel verde è quella di Rudolf Höss, capo del campo di concentramento, che realmente visse con la propria famiglia a pochi passi dal massacro cui partecipò attivamente. Ma, senza questa informazione fondamentale, la sua vita per come ci viene mostrata sarebbe normale, addirittura desiderabile. Parliamo di un uomo pacato, molto impegnato e molto abile nel proprio lavoro, spesso silenzioso, gentile con la moglie e con i figli; un uomo che, colto nell’atto di leggere le favole ai propri bambini, rivela in sé un nocciolo di tenerezza e amore, e ciò nonostante egli è responsabile della morte ragionata a sangue freddo di milioni di persone. È evidente che l’immagine non basta, è insufficiente, non può offrire spiegazioni soddisfacenti. Dunque, piuttosto che guardarla soltanto, ascoltiamola. Mentre la quotidianità ridente di questo giardino terrestre si ripete nei gesti dell'abitudine familiare, tanti piccoli rumori di fondo raccontano che qualcos’altro, invisibile agli occhi, sta avendo luogo. Spari. Urla. Pianti. Latrati di cani. Fischi di treni. Tutto ciò avviene nel film continuamente, al punto tale che il tessuto sonoro che ne viene fuori sovrasta e riscrive il testo visivo cui stiamo assistendo.

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La zona di interesse rivela infatti quanto sforzo talvolta il cinema richieda per produrre un’immagine significativa. Dieci anni di lavoro a partire dal romanzo omonimo di Martin Amis, una biblioteca sonora minuziosamente messa insieme per due anni dal tecnico del suono Johnnie Burn, una direzione della fotografia minimale – niente luci artificiali, solo luce naturale – e in particolar modo, una regia atipica a distanza. Come i suoi personaggi, lo stesso regista Jonathan Glazer ha posto fra sé e ciò che accade un vero e proprio muro, dirigendo con la propria troupe il film in una stanza separata. Una miriade di telecamere, invisibili e non, è stata posta per tutti gli ambienti del set, lasciando gli attori ignari di quando e se sarebbero stati al centro dell’attenzione. Liberi di immergersi nella recitazione senza il peso di interruzioni, in uno spazio sgombro da apparecchi e persone, i due attori principali, Sandra Huller e Christian Friedel – i coniugi Höss - hanno potuto dar vita a due protagonisti banali nella loro umana mediocrità. Lui talmente preso dal lavoro da trovarsi a calcolare perfino a un ricevimento la tecnica più efficace per trasformare la sala da ballo in una camera a gas; lei così ossessionata dalla propria scalata sociale da diventare una iena alla sola idea di abbandonare quello che ritiene davvero il suo paradiso e regno, ovvero Auschwitz.

La domanda retorica, com’è possibile? ha una risposta altrettanto retorica: l’indifferenza. Basta decidere di farsi sordi all’estenuante sottofondo sonoro. Eppure, uno sguardo attento rileva che anche l’immagine così apparentemente carente nasconde in sé degli indizi, anzi, dei veri e propri sintomi di un’inquietudine perversa che tocca tutti. Le domestiche della casa sono silenziose e talvolta paralizzate nel tentativo di rendersi invisibili; i bambini giocano a gassarsi, si trastullano con i denti dei prigionieri, vagano sonnambuli per la casa. Lo stesso pianto incessante del figlio più piccolo sembra nascere più da un turbamento nascosto che da una necessità fisiologica.
Il paradiso terreste della famiglia Höss si nutre dell’orrore del campo di concentramento: la cenere concima il florido giardino, i vestiti usati vestono la padrona. La morte è linfa vitale che alimenta, ma essendo originata dalla distruzione perverte e deforma chi ne trae forza. A un certo punto viene perfino il dubbio che quei fiori così splendidi, dal colore così acceso, cresciuti con fertilizzante umano, si rivelino velenosi, feroci piante carnivore. Se la storia narrata non è similitudine ma paradossale verità di allora, La zona di interesse diviene effettiva metafora odierna della nostra stessa società: la ricchezza di alcuni è prodotta dalla sofferenza e sopraffazione di altri, e a dividerli c'è spesso solo una distanza minima. Basta tapparsi le orecchie e si può dormire tranquilli, sotto il sole, anche con un genocidio in corso.

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Come in tutti i film sull’Olocausto anche Glazer cede però all’esigenza vitale di trovare un residuo salvifico, una porzione minima di speranza nell’orrore, e include nella storia una ragazzina che in segreto la notte esce per nascondere mele nella terra, offrendo così un minuscolo sostegno ai prigionieri. Ispirata alla storia vera di una giovanissima partigiana polacca, la sua sequenza è stata girata secondo la tecnica della termografia, per cui quella che appare come un’immagine in negativo è in realtà la rivelazione grafica della temperatura dei corpi. Più che l’unica fonte di luce nel film, fonte di calore umano – letteralmente o meno. 

La zona di interesse si evolve in un contesto dove il medium cinematografico esige da sé stesso il massimo in termini di scelte stilistiche. Teso fra trovare significato all’insensato o rivelare l’insostenibilità del senso stesso, il film di Johathan Glazer rivela che più ci si sforza di offrire un racconto onesto, freddo, oggettivo della realtà, più questa si mostra assurda, surreale, grottesca; al punto tale che l’unica parte veramente inventata del film, il finale - in cui per un attimo Höss volge lo sguardo e vede nel futuro ciò che resta della sua opera, cioè il museo di Auschwitz- Birkenau spazzato e lavato ogni giorno – si colloca in maniera del tutto verosimile col resto della storia. Il valore più alto dell’opera sta proprio in questo: più le cose sono vere, più sono incredibili. Difatti, la cosa più incredibile è che quelle immagini non appartengono solo al passato, ma anche al presente. Ecco la verità più dolorosa: non erano solo loro, siamo anche noi.  

 

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Jonathan Glazer Sandra Huller Christian Friedel 105 minuti
Polonia, Regno Unito, Stati Uniti 2023
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American Fiction

di Mattia Caruso
American fiction - recensione film jefferson

Tratto da un romanzo del 2001 (“Erasure” di Percival Everett) ma adattato in modo da essere perfetto per i nostri tempi, a prima vista sembrerebbe quasi che American Fiction voglia elevarsi a programmatico bilancio degli ultimi anni, di ciò che Black Lives Matter (e non solo) ha rappresentato per l'industria culturale statunitense. Eppure, a guardarlo meglio, il film d'esordio di Cord Jefferson (sceneggiatore per serie come Master of None, The Good Place e, soprattutto, Watchmen) è prima di tutto una farsa, una commedia drammatica dove pubblico e privato, politica e vissuto personale si mischiano e confondono tra loro, restituendo l'immagine di un Paese dove tutto è storytelling, (auto)fiction, narrazione (di sé).
Messi da parte i toni incendiari o militanti cui il soggetto si sarebbe potuto prestare, è così chesi anima la vicenda di Thelonious Ellison - detto Monk (un più che perfetto Jeffrey Wright), scrittore in crisi i cui ponderosi volumi vengono snobbati da case editrici che paiono avere occhi solo per storie “da ghetto” (e, quindi, per i lettori bianchi almeno, infinitamente più reali) -, proprio quando vengono messe in scena le idiosincrasie e le nevrosi del suo protagonista, il rapporto con una famiglia inevitabilmente disfunzionale (dalla madre malata al fratello scopertosi viveur, passando per il rapporto altalenante con la nuova compagna) e lo scollamento da una realtà divenuta ormai lo stereotipo di se stessa.

"I bianchi dicono di volere la verità, ma non è vero. Vogliono solo sentirsi assolti”, dice Arthur, l'agente di Monk. Una lezione che il protagonista è costretto a imparare a proprie spese quando il suo romanzo-parodia (My Pafology, poi ridotto a un lapidario e ancora più “vernacolare” Fuck), scritto di getto e sotto pseudonimo per scimmiottare le narrazioni “da strada” tanto in voga (“libri che i bianchi definiscono importanti e necessari, ma non ben scritti”) e mettere finalmente il pubblico di fronte alla propria ipocrisia, viene invece preso sul serio, fagocitato da un'industria che decide da sé cosa sia o non sia letteratura black, distribuendo arbitrariamente etichette e patentini di autenticità e promuovendo ancora e ancora gli stessi stereotipi.

Adottando lo sguardo privilegiato e borghese del suo protagonista, la sua nevrotica quotidianità lontana anni luce dai cliché dominanti, American Fiction guarda così – in modo insolito e sagace, sebbene non senza qualche automatismo di scrittura, specchio di una satira sempre precisa e puntuale ma mai davvero graffiante – dietro le quinte di quella che è, oggi, la narrazione della comunità afroamericana. Un mondo fatto di paradossi e contraddizioni dove la verità e la realtà vanno a perdersi dentro un meccanismo di scatole cinesi (lo stesso film, con le sue ben 5 nomination agli Oscar, non è in fondo un altro modo per l'establishment di lavarsi la coscienza?), mentre l'ipocrisia diventa l'arma anche dei più benintenzionati. L'unico modo per leggere tra le righe di un sistema dove tutto resta, sempre e comunque, bianco o nero.

 

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Cord Jefferson Jeffrey Wright Erika Alexander Sterling K. Brown Leslie Uggams 117 minuti
USA 2023
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Scavengers Reign

di Alessandro Gaudiano
 scavengers reign recensione serie HBO.jpg

Scavengers Reign appare fin da subito come un’opera enormemente ambiziosa:  la storia dei sopravvissuti della nave cargo Demeter 227 si impone come una delle stelle più luminose della fantascienza recente. Nata da un cortometraggio (Scavengers, appunto), la serie Max trova qui gli spazi e i tempi per raccontare la portata di un dramma cosmico e di una lotta per la sopravvivenza, nel tentativo di comprendere un mondo ignoto.

Di quale fantascienza stiamo parlando, innanzitutto? La fantascienza è un genere che tende a dimenticare ciclicamente se stesso, preso dalle mille tentazioni della forma che oscurano l’essenziale. La panoplia di luci al neon, metropoli tentacolari e macchine senzienti è un’esca sempre efficace per lo spettatore, ma non sempre la qualità dei soggetti e delle idee tiene il passo dello spettacolo visivo. Facile dimenticare che  la sostanza dietro alle immagini non sta nelle macchine colossali e nei viaggi interstellari, ma nelle idee che queste estensioni del possibile rendono pensabili. Idee magari a noi famigliari, ma finalmente a fuoco, nitide, pronte a rivelare  nuove emozioni e nuovi modi di essere umani.
Scavengers Reign appartiene a quella fantascienza che potremmo definire antropologica:  si interroga su cosa sia l’umano messo di fronte alla più profonda, irriducibile alterità. L’alieno, in questo caso, non è la civiltà extraterrestre, ma una Natura ferina e indifferente ai piani dei coloni, che intacca e corrode ogni velleità di dominio, ogni ideologia della purezza. Una Natura che i protagonisti provano a domare, invano: il pianeta Vesta è vita ribollente, incontrollabile. Nessuno tra gli esseri umani protagonisti di Scavengers Reign resta “puro”, incontaminato, incontestato. Il contatto con ciò che è alieno non può che trasformare, imporre un cambiamento. Ma il rifiuto di questo confronto è impossibile e porta a sterilità o morte.

scavengers reign sci-fi

La scommessa vinta dagli autori è farci vedere e, soprattutto, sentire cosa vuol dire trovarsi alla frontiera, quella radicale Frontiera che solo la fantascienza può mettere in scena con le sue distanze e proporzioni  vertiginose. Il suo vero protagonista è il paesaggio, un mondo sconosciuto che funziona con logiche radicalmente opache. Un enigma che abbraccia l’orizzonte. Animali, piante e rocce che vivono di vita propria, leopardianamente indifferenti (ma è davvero così?) alle vite e le logiche di uomini, donne e robot sopravvissuti al disastro che cercano di restare in vita o di tornare tra le stelle. Ognuno di loro arriverà alla fine del viaggio radicalmente mutato nel corpo e nella mente, costretto ad affrontare le paure e i traumi del passato per trovare la forza difare un altro passo verso la salvezza.

La scelta di uno stile di animazione tra Miyazaki e il fumetto di fantascienza classico, di una tecnica di animazione rarefatta e una palette cromatica quasi pastello, contribuiscono a rendere l’esperienza di visione ipnotica e irripetibile. Il risultato è affascinante, al punto che, a volte, ci si dimentica della fantascienza e ci si immerge in una dimensione quasi fantastica, perturbante. Se volessimo tracciare delle linee di connessione tra Scavengers Reign e il continente della fantascienza, i rimandi sarebbero infiniti. Tra tutti, Asimov, Moebius e Jeff VanderMeer. Tuttavia, anche Scavengers Reign è a sua volta un organismo complesso, un ibrido di generi e stili. I momenti migliori della serie si rivelano quando i sopravvissuti entrano in un nuovo ecosistema che si fa subito incursione  in un nuovo genere cinematografico: il body horror à la Carpenter, il fantastico metafisico, il thriller.

Vesta è un pianeta-Cinema in cui è bellissimo perdersi. I sopravvissuti lo attraversano in una sorta di pellegrinaggio laico verso il relitto della loro astronave e ogni passo è un confronto, una memoria che emerge, una certezza che si sgretola. Come ogni viaggio, anche questo è un'esperienza innanzitutto interiore, di scoperta del sé, in direzione di un finale che è il culmine di tutto questo mescolarsi e creare nuove visioni da “vecchi” pezzi di cinema e di tecnologia.

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Joseph Bennett Charles Huettner Sunita Mani Alia Shawkat Wunmi Mosaku Bob Stephenson 1 stagione da 12 episodi
USA 2023
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Clementina

di Andrea Vassalle
clementina recensione film pampero

Tra i tanti aspetti che hanno riguardato la pandemia, con ampie conseguenze ed effetti su tutta la quotidianità, uno dei più segnanti è stato sicuramente la gestione e il rapporto con lo spazio, tanto quello urbano e pubblico quanto quello domestico. Con una significativa e complessiva risemantizzazione dello spazio che abitiamo, che in molti ambiti perdura tuttora, si sono mostrate nuove esigenze che possono aprire a un rinnovato assetto individuale e sociale. Il cinema ha saputo tracciare tali implicazioni, ad esempio in Kimi di Steven Soderbergh, nella connessione con l'immagine e il digitale, ma ha saputo anche originarsi da questa spazialità, come nel caso di Clementina.

Il film diretto da Constanza Feldman e Agustín Mendilaharzu - al suo esordio alla regia di un lungometraggio, dopo una lunga attività come operatore e direttore della fotografia dei film di El Pampero Cine - nasce come un gioco, nei giorni del Lockdown. I due protagonisti hanno iniziato a filmare quasi per necessità, per occupare i giorni di confinamento, dando così, attraverso il cinema, una nuova forma al loro spazio e alla quotidianità. L'idea embrionale di un cortometraggio è andata via via espandendosi e sviluppandosi, sino a comporre un mosaico (in pieno stile El Pampero Cine) di segmenti di vita ordinaria, che si traducono in un racconto ironico e personale. Da un'originaria pulsione semi documentaristica emerge una finzione sempre più consapevole e strutturata, e gli elementi della realtà vengono plasmati e trasformati con una rifrazione quasi fantastica, arricchita dalla musica medievaleggiante composta da Gabriel Chwojnik.

Spesso gli oggetti sono generatori di relazioni e spazi, sono mediatori tra noi e il mondo, come sosteneva Roland Barthes, e Clementina sembra proprio ruotare attorno a questa riflessione. Gli oggetti sono i protagonisti aggiuntivi del film, riecheggiando il cinema di Buster Keaton e soprattutto Jacques Tati, per l'iperrealismo dei suoni, e sono al centro dei momenti più divertenti e bizzarri. Ma soprattutto sono la prima connotazione data all'ambiente, con la casa in cui la coppia trascorre il Lockdown che è ricolma di oggetti in ogni anfratto, a formare dedali inestricabili (sembrano persino dotati di vita propria, come quando i frutti "cercano di fuggire" dalla borsa della spesa), mentre nella seconda parte la loro assenza esprime un mutamento e un nuovo equilibrio. È proprio attraverso questa costante relazione coreografica tra personaggi, spazi e oggetti che Clementina riesce a mettere in scena con semplicità l'intreccio tra la vita di coppia e un isolamento forzato, alla ricerca di una rinnovata stabilità che passa anche attraverso una risignificazione dell'ambiente in cui viviamo e operiamo.

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Constanza Feldman Agustín Mendilaharzu Agustín Mendilaharzu Constanza Feldman Alejo Moguillansky Laura Paredes 109 minuti
Argentina 2022
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Clorindo Testa

di Andrea Vassalle
Clorindo testa recensione film

«Noi dobbiamo fare questo documentario sull'Italia. Io devo fare questo documentario. È un dovere fare questo documentario sull'Italia», ripeteva senza posa Nanni Moretti in una scena di Aprile, dalla cui uscita sono appena trascorsi 25 anni. Sentiva la necessità di realizzare un documentario sulla campagna elettorale del 1996 e sulla situazione politica italiana. Fremeva per girarlo. Eppure finiva con il pensare a tutt'altro, perdendosi tra digressioni, storie, episodi familiari e variazioni, in un film che evolve come un canto libero sul paese, sul cinema e su Moretti stesso. Il Mariano Llinás documentarista, dopo i fluviali Historias extraordinarias e La Flor, sembra riprendere proprio quel Moretti (riecheggiandolo finanche in certe espressioni) e arriva a girare Clorindo Testa con un approccio non troppo dissimile. Commissionato dalla Fundación Andreani, il film all'apparenza dovrebbe concentrarsi sulla figura di Clorindo Testa, architetto e pittore italiano naturalizzato argentino ed esponente della corrente brutalista. Nonché amico del padre di Llinás, autore di un libro su di lui. Sin da subito però diviene chiaro come il soggetto altro non sia che l’ennesimo MacGuffin tramite il quale Mariano Llinás può zigzagare tra vari temi e suggestioni, esponendosi e raccontandosi in prima persona.

La ricerca iniziale del libro scritto da Julio Llinás su Clorindo Testa, mentre Mariano intreccia divertenti e irresistibili dialoghi con la madre, si trasforma in una ricerca sulla forma e sull'indirizzo del documentario, che costantemente viene elusa e rilanciata attraverso infinite deviazioni. Tra accenni al padre e a Testa, viaggi in auto per Buenos Aires, letture del libro, visioni alla moviola del materiale girato e confronti con la madre e i collaboratori di El Pampero Cine (tra cui la moglie Laura Paredes e Agustín Mendilaharzu) Clorindo Testa sfugge ogni vincolo e ogni collocazione, compresa quella di documentario. Di cosa parla, allora? «Prima di tutto, questo non è un film su Clorindo Testa. E seconda cosa, questo non è un film su mio padre», dice lo stesso Llinás. Come in un gioco di scatole cinesi, il film ne contiene e ne rivela altri, autoriflettendosi e commentando la propria natura. Al centro di tutto torna sempre l'omonimo libro, che racchiude in sé ogni componente del racconto e collega tra loro la storia dell'Argentina, Clorindo Testa, la famiglia Llinás e i rapporti con l'artista, i temi dell'arte e persino politici. Un nome, nessuno e centomila.

dsagghh

Così come il precedente documentario da lui diretto, Corsini interpreta a Blomberg y Maciel, Clorindo Testa è attraversato e sospinto dal voice over di Mariano Llinás. Nel ruolo di cantastorie e abile affabulatore intreccia racconti, narrazioni parallele, frammenti, parentesi che si rincorrono e si susseguono come interludi musicali. Le immagini e lo svolgimento del film sembrano avere origine direttamente dalla sua voce, con cui il regista si rivolge allo spettatore per trascinarlo nel suo vortice di passione e ironia. "El fervor de filmar como se te canta", recita il motto di El Pampero, il fervore di filmare come si canta, e i documentari di Llinás ne risultano la perfetta traduzione, dispiegandosi come viaggi lucidamente anarchici e improvvisati, di una pulsione quasi dadaista.

Le molte e inaspettate connessioni e il costante rifrangersi del racconto rievocano la letteratura di Jorge Luis Borges, punto di riferimento fondamentale per Mariano Llinás, a partire dall'idea di un libro che racchiude un mondo. Un libro che diventa il film - la stessa cosa avveniva in Corsini interpreta a Blomberg y Maciel con l'omonimo album musicale - e da cui si origina il dedalo di storie raccontate da Llinás. Quella del labirinto è una figura centrale proprio della poetica borghesiana, come simbolo della confusione e dello stupore dell'uomo, dell'impossibilità di uno sguardo univoco sul reale, ed è anche alla base di Clorindo Testa, in cui a essere predominante è il tema della rappresentazione (come la diretta messa in scena dell'incontro alla Fundación Andreani) e quindi del cinema. Una realtà apparentemente semplice e raggiungibile cela significati più complessi e collegamenti impensabili, che Mariano Llinás include e raffigura attraverso il cinema, finendo con il riflettere su di sé e sulla storia del proprio paese.

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Mariano Llinás Mariano Llinás Agustín Mendilaharzu Laura Paredes Constanza Feldman Marta López Beltrán 100 minuti
Argentina 2022
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How to Have Sex

di Veronica Vituzzi
how to have sex - recensione film mubi

How to Have Sex richiama fin dal titolo quelle commedie americane grossolane e un po’ sciocche dove l’adolescente timido e poco scafato cerca di raggiungere fra mille magre figure l’agognata perdita della verginità. In questi casi poca importanza hanno le caratterizzazioni o lo sviluppo narrativo, una sola cosa è certa: il ragazzino è straordinariamente arrapato; la voracità del suo desiderio ossessivo è un dato di fatto. Così sembra anche per Tara, Skye e Em, giovanissime ragazze appena arrivate a Creta per quella che sulla carta si presenta come la vacanza "migliore" del mondo. Unica vergine fra le tre amiche, Tara auspica di liberarsi di quella verginità che sembra limitarla sia in termini di status sociale che di spontaneo e personale desiderio di vivere qualcosa che tutti raccontano come straordinario; l’incontro con la comitiva del balcone accanto alla loro stanza, in particolare i due amici Badger e Paddy, fa ben sperare, ma le cose non andranno nel modo sognato.

È bene sottolineare anzitutto che la regista Molly Manning Walker non disprezza i propri personaggi: nel film manca uno sguardo giudicante atto a produrre la solita concezione disfattista e traumatizzata sull’odierna gioventù persa fra cellulari, balletti ammiccanti e fiumi di cocktail. C’è anzi una certa tenerissima ingenuità in questo gettarsi a perdifiato nell’alcool ingurgitato senza freni, nella musica assordante e nei vestitini sempre più corti: una promessa di felicità e di libertà offerte al costo minimo di fare esattamente quello che fanno tutti gli altri. L’analisi di Manning Walker indugia a lungo sul contesto in cui agiscono i ragazzi, lasciando che dinamiche inconsce predeterminate si svelino pian piano nell’inquadratura.

how to have sex mubi

Ballare, drogarsi, ubriacarsi, fare sesso: sono i paradigmi di una vita apparentemente vissuta “al massimo” e di una gioventù ben spesa, e non si può rimproverare a degli adolescenti la mancata consapevolezza che ciò che viene raccontato loro come gratuito e spontaneo è in realtà stato predefinito dalla società come oggetto di consumo. Lo spazio in cui si muovono le tre protagoniste è un enorme parco gioco delle pulsioni, dedalo di locali, alberghi con piscine, dj set assordanti in cui alcool, corpi e musica sono a disposizione per offrire un’esperienza di vita in forma di merce da dissipare con voracità. In tutto questo il sesso è solo un altro prodotto, il che non sottintende un giudizio morale verso l'istinto sessuale in sé. Tara desidera perdere la verginità, ma non sa verbalizzare il proprio desiderio né entrare in contatto con sé stessa. D’altra parte, nessuno intorno a lei parla veramente di piacere sessuale, l’atto in sé sembra dover bastare a rispondere a ogni interrogativo. Al fondo di questa apparente giocosa socialità si muovono incerte e nascoste le vere emozioni dei personaggi, espresse in minimi atti quasi impercettibili di svelamento: frecciatine velenose da quella che dovrebbe essere la tua migliore amica, micro-reazioni di dolore e insicurezza, preziosi brevissimi atti di reale complicità con la persona che abbiamo davanti.  

In questa dimensione industriale dell’esistenza si innerva facilmente la cultura dello stupro, del corpo cioè come puro oggetto di consumo defraudato di ogni valenza. L’orrore taciuto nel film è il modo legalizzato in cui la violenza sessuale continua ad agire in un’apparente contesto di reciproco consenso, facendosi forte dell’insicurezza, dell’indifferenza, della pressione sociale, di un linguaggio assente. Tara dice sì perché non sa dire no, non conosce la differenza tra ciò che vuole e ciò che le sembra di dover volere. Non ci è dato sapere se il ragazzo che abusa di lei sappia o voglia riconoscere i segnali del corpo che chiaramente indicano che la ragazza non prova desiderio. Certo è che l’alibi sociale dell’equivoco innocente – non fare niente per esprimere il proprio dissenso - basta a fugare in lui anche solo il minimo dubbio sulle proprie azioni, lasciandolo libero di muoversi nel mondo nella veste consapevole o meno di stupratore.  

How to Have Sex assume progressivamente lo statuto di incubo filmico, opera sempre più claustrofobica man mano che la musica, i corpi danzanti, l’alcool, si impossessano di tutto lo spazio. La chiusura finale, con quell’ultima battuta consolatoria tra amiche, sembra rispondere più a una necessità inderogabile di speranza che a una reale fiducia nel futuro, ma certo è che ogni cambiamento, sembra dire la regista, non può partire che da questo: il balbettio impaurito di chi finalmente inizia a parlare veramente, frasi incerte e smozzicate che saranno la base per costruire di un vocabolario dello spirito più ricco ed efficace.  

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Molly Manning Walker Mia McKenna-Bruce Lara Peake Samuel Bottomley Shaun Thomas Enva Lewis 91 minuti
Regno Unito, Grecia, Belgio 2023
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