La zona di interesse

di Jonathan Glazer

Il film di Glazer si confronta con il Male assegnando al suono il compito di svelare l'orrore di un'immagine che ci appartiene più di quanto ci piaccia ammettere.

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In un’epoca dove le informazioni viaggiano al ritmo di rapidi click, saranno pochi gli spettatori che giungeranno alla visione de La zona di interesse completamente ignari di ciò che li aspetta. Sarà per loro probabilmente un’esperienza straordinaria, che li troverà forse impreparati a confrontarsi con un’immagine colma di indizi e latenze. D’altra parte, l’overture del film – di kubrickiana memoria – fatta di solo schermo nero con la musica di Mica Levi, ci introduce da subito al paradigma del testo: questa è un’opera in cui il suono è parte stessa del senso dell’immagine, e dove l’ascolto conta più dello sguardo.

In un bucolico paesaggio lussureggiante vive una famigliola felice. Una splendida casa, un rigoglioso giardino, cinque bambini, la piscina per rinfrescarsi l’estate, genitori attenti e premurosi. È un paradiso in terra. È Auschwitz, nel 1943.
Di per sé sarebbe una metafora eccezionale della società, giusto? L’Eden a due passi dall’inferno, due mondi separati solo da un muro, e chiedersi poi come è mai possibile che a distanza di poche decine di metri possano convivere insieme tanta serenità e tanto orrore...Il problema è che non è una metafora. È tutto vero. La villetta nel verde è quella di Rudolf Höss, capo del campo di concentramento, che realmente visse con la propria famiglia a pochi passi dal massacro cui partecipò attivamente. Ma, senza questa informazione fondamentale, la sua vita per come ci viene mostrata sarebbe normale, addirittura desiderabile. Parliamo di un uomo pacato, molto impegnato e molto abile nel proprio lavoro, spesso silenzioso, gentile con la moglie e con i figli; un uomo che, colto nell’atto di leggere le favole ai propri bambini, rivela in sé un nocciolo di tenerezza e amore, e ciò nonostante egli è responsabile della morte ragionata a sangue freddo di milioni di persone. È evidente che l’immagine non basta, è insufficiente, non può offrire spiegazioni soddisfacenti. Dunque, piuttosto che guardarla soltanto, ascoltiamola. Mentre la quotidianità ridente di questo giardino terrestre si ripete nei gesti dell'abitudine familiare, tanti piccoli rumori di fondo raccontano che qualcos’altro, invisibile agli occhi, sta avendo luogo. Spari. Urla. Pianti. Latrati di cani. Fischi di treni. Tutto ciò avviene nel film continuamente, al punto tale che il tessuto sonoro che ne viene fuori sovrasta e riscrive il testo visivo cui stiamo assistendo.

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La zona di interesse rivela infatti quanto sforzo talvolta il cinema richieda per produrre un’immagine significativa. Dieci anni di lavoro a partire dal romanzo omonimo di Martin Amis, una biblioteca sonora minuziosamente messa insieme per due anni dal tecnico del suono Johnnie Burn, una direzione della fotografia minimale – niente luci artificiali, solo luce naturale – e in particolar modo, una regia atipica a distanza. Come i suoi personaggi, lo stesso regista Jonathan Glazer ha posto fra sé e ciò che accade un vero e proprio muro, dirigendo con la propria troupe il film in una stanza separata. Una miriade di telecamere, invisibili e non, è stata posta per tutti gli ambienti del set, lasciando gli attori ignari di quando e se sarebbero stati al centro dell’attenzione. Liberi di immergersi nella recitazione senza il peso di interruzioni, in uno spazio sgombro da apparecchi e persone, i due attori principali, Sandra Huller e Christian Friedel – i coniugi Höss - hanno potuto dar vita a due protagonisti banali nella loro umana mediocrità. Lui talmente preso dal lavoro da trovarsi a calcolare perfino a un ricevimento la tecnica più efficace per trasformare la sala da ballo in una camera a gas; lei così ossessionata dalla propria scalata sociale da diventare una iena alla sola idea di abbandonare quello che ritiene davvero il suo paradiso e regno, ovvero Auschwitz.

La domanda retorica, com’è possibile? ha una risposta altrettanto retorica: l’indifferenza. Basta decidere di farsi sordi all’estenuante sottofondo sonoro. Eppure, uno sguardo attento rileva che anche l’immagine così apparentemente carente nasconde in sé degli indizi, anzi, dei veri e propri sintomi di un’inquietudine perversa che tocca tutti. Le domestiche della casa sono silenziose e talvolta paralizzate nel tentativo di rendersi invisibili; i bambini giocano a gassarsi, si trastullano con i denti dei prigionieri, vagano sonnambuli per la casa. Lo stesso pianto incessante del figlio più piccolo sembra nascere più da un turbamento nascosto che da una necessità fisiologica.
Il paradiso terreste della famiglia Höss si nutre dell’orrore del campo di concentramento: la cenere concima il florido giardino, i vestiti usati vestono la padrona. La morte è linfa vitale che alimenta, ma essendo originata dalla distruzione perverte e deforma chi ne trae forza. A un certo punto viene perfino il dubbio che quei fiori così splendidi, dal colore così acceso, cresciuti con fertilizzante umano, si rivelino velenosi, feroci piante carnivore. Se la storia narrata non è similitudine ma paradossale verità di allora, La zona di interesse diviene effettiva metafora odierna della nostra stessa società: la ricchezza di alcuni è prodotta dalla sofferenza e sopraffazione di altri, e a dividerli c'è spesso solo una distanza minima. Basta tapparsi le orecchie e si può dormire tranquilli, sotto il sole, anche con un genocidio in corso.

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Come in tutti i film sull’Olocausto anche Glazer cede però all’esigenza vitale di trovare un residuo salvifico, una porzione minima di speranza nell’orrore, e include nella storia una ragazzina che in segreto la notte esce per nascondere mele nella terra, offrendo così un minuscolo sostegno ai prigionieri. Ispirata alla storia vera di una giovanissima partigiana polacca, la sua sequenza è stata girata secondo la tecnica della termografia, per cui quella che appare come un’immagine in negativo è in realtà la rivelazione grafica della temperatura dei corpi. Più che l’unica fonte di luce nel film, fonte di calore umano – letteralmente o meno. 

La zona di interesse si evolve in un contesto dove il medium cinematografico esige da sé stesso il massimo in termini di scelte stilistiche. Teso fra trovare significato all’insensato o rivelare l’insostenibilità del senso stesso, il film di Johathan Glazer rivela che più ci si sforza di offrire un racconto onesto, freddo, oggettivo della realtà, più questa si mostra assurda, surreale, grottesca; al punto tale che l’unica parte veramente inventata del film, il finale - in cui per un attimo Höss volge lo sguardo e vede nel futuro ciò che resta della sua opera, cioè il museo di Auschwitz- Birkenau spazzato e lavato ogni giorno – si colloca in maniera del tutto verosimile col resto della storia. Il valore più alto dell’opera sta proprio in questo: più le cose sono vere, più sono incredibili. Difatti, la cosa più incredibile è che quelle immagini non appartengono solo al passato, ma anche al presente. Ecco la verità più dolorosa: non erano solo loro, siamo anche noi.  

 

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 25/02/2024
Polonia, Regno Unito, Stati Uniti 2023
Durata: 105 minuti

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