La sala professori
Candidato agli Oscar a Miglior Film Internazionale, il thriller tedesco di İlker Çatak decostruisce l'ambiente scolastico per mostrare quali trappole novecentesche si ripresentino ancora nell’epoca della post verità.
«Il peggior male non è dunque il male radicale, ma è un male senza radici. E proprio perché non ha radici, questo male non conosce limiti».
Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme
Quando il cinema entra nelle scuole, spesso mette a fuoco il ruolo dell’insegnante. Anche in La sala professori (The Teachers' Lounge), candidato agli Oscar come Miglior Film Internazionale, il regista Ilker Çatak si concentra sul personaggio dell'insegnante Carla Novak (Leonie Benesch). La protagonista lavora da poco in una scuola di periferia in Germania, quando un suo alunno di origini turche viene accusato dal corpo docente di essere l’autore di una serie di piccoli furti. Sin dalle prime sequenze, si avverte nei dialoghi il pregiudizio educato, normato, col quale la preside e gli insegnanti si relazionano tra di loro e con gli alunni, giustificando ogni severa disposizione con la necessità di lavorare per il bene comune. Novak è invece illuminata da una sorta di morale kantiana, animata dalla vocazione per la sua professione, pur dimostrando di non sapere come rispondere alle responsabilità che ne derivano. Il rapporto con i ragazzi e le ragazze della sua classe è improntato su metodi educativi dialogici e paritari, apparentemente all’avanguardia. I suoi colleghi l'hanno prontamente etichettata come moralista, mentre i suoi alunni sembra che fingano solamente di stimarla. Nel tentativo di mantenere una condotta rispettosa con tutti, Novak si muove con disagio e frustrazione tra i corridoi delle mura scolastiche, protagoniste del film insieme a lei.
In La sala professori la scuola è prima di tutto un luogo fisico, chiuso, dal quale non si esce per 98 minuti. Il mondo fuori si intravede appena, filtrato dalle finestre o mentre si rincorre chi tenta di fuggire. L’edificio assomiglia ad un panopticon confortevole. Dalla prospettiva di Çatak è la stessa istituzione scolastica ad apparire come trappola claustrofobica. Un labirinto decorso che resta sullo sfondo per tutta la durata del film, fino a emergere prepotentemente nel montaggio in epilogo. La scuola qui è un laboratorio che predispone al sospetto e all’ingiuria, educa al pettegolezzo e all'ipocrisia, allena la naturale propensione all’egoismo, insita in ciascun essere umano. L’istruzione pubblica non libera le menti, non allena alla cooperazione, ma alla ferocia.
Dal montaggio di Gesa Jäger alla fotografia di Judith Kaufmann, ogni scelta linguistica è pulita e fortissima. Luci fredde e scelte minimaliste restituiscono subito l’impressione che le regole istituzionali non siano capaci di aderire ai colori della realtà, decisamente più caotica e ambigua. Çatak si muove insieme alla professoressa Novak seguendola con la camera a mano, oppure incorniciando il suo volto per soffermarsi sui suoi attacchi di panico. Una delle scene del film, divenuta precocemente iconica, vede la protagonista in un primo piano stretto sul viso paonazzo, mentre urla con quanto fiato ha in gola, seguita dal grido collettivo, liberatorio e bestiale dell’intera classe. Un rito incivile e spontaneo, l’unico capace di unire, che racconta di un disagio esistenziale appartenente agli alunni quanto ai docenti. Se nella comunità scolastica, se nella società, non è possibile fare affidamento sui propri simili, viene meno ogni forma di patto civile, ovvero ciò che ha allontanato l’umanità dallo stato di natura. In un mondo senza dio, ai ragazzi e alle ragazze si insegna a guardarsi le spalle con cinismo, perché l’hobbesiano pensiero dell’homo homini lupus è più attuale che mai.
La colonna sonora è anch’essa essenziale e impeccabile. Interviene solo in alcuni momenti, come a voler pungolare la protagonista, tramite le note di Marvin Miller. Eppure, le geometrie della musica sono presenti per tutta la durata del film, esattamente come i principi della matematica, la materia che insegna con passione la professoressa. Carla si rivolge ai ragazzi coi gesti di un direttore d'orchestra: li dirigere fino ad assistere al loro ammutinamento. Improvvisamente, non rispondono più ai suoi comandi. Non esistono più regole condivise e comportamenti prestabiliti da adottare.
In un passaggio concettualmente esplicativo, nell’ambito di una lezione, la protagonista spiega ai ragazzi la differenza tra un’affermazione e una dimostrazione. La verità, pertanto, è questione di punti di vista e questa consapevolezza decostruisce ogni tipologia di fede cieca verso un sistema di valori. L’etica non dipende da alcun algoritmo, pertanto nessuna verità morale assoluta può essere effettivamente dimostrata. L’etica appartiene sempre ad un pregiudizio. Eppure, a scuola si insegna la formula delle regole condivise e della “tolleranza zero” per chi non le rispetta, come se l’etica sia un’equazione matematica. Si contrappone la sorveglianza scrupolosa al rispetto della privacy; si sovrappone la responsabilità nei confronti dell’equilibrio mentale dei ragazzi con la pretesa di smascherare nel dettaglio ogni comportamento illecito.
Sono numerosissimi i titoli del cinema ambientati nelle aule scolastiche, ma Çatak, insieme al co-sceneggiatore Johannes Duncker, è uno dei pochi a utilizzare il registro del thriller per evocare ciò che di terrificante accade in quel microcosmo didattico. Un prototipo sperimentale della società civile dal quale osservare, in anteprima, le mutazioni future del mondo che verrà. Solitamente, nel cinema si preferisce puntare sull’eroismo dei docenti, come in La classe (2008) di Laurent Cantet, Palma d'Oro come miglior film al 61mo Festival di Cannes. Çatak ha invece deciso di raccontare un’altra storia, priva di eroi o di vincitori, per concentrarsi solo sugli sconfitti. Lo fa con maestria, meritandosi l’attenzione degli Academy Awards, dopo il successo alla Berlinale. Il suo film parla degli europei, i sopravvissuti all’ipocrisia dei valori occidentali, sui quali ci si muove come funamboli, fingendo di non vedere ciò che accade fuori dalle mura scolastiche, nel mondo al di fuori di questo castello di carta. Un tema che si riconnette amaramente a quello de La zona d'interesse (2024) di Jonathan Glazer, dove il desiderio di vivere una vita agiata e la paura di perdere i confort è fondata sul dolore atroce di tutti quelli posti ai margini, entro altri confini.
La scena conclusiva de La sala professori lascia pensare che da quei confini, dalla trappola dell’istituzione educativa e dall'ipocrisia della norma, se ne uscirà solo con la forza e nemmeno volontariamente, lasciando un terrificante senso di angoscia nello spettatore.