El Pampero Cine: paladini di una magnifica ossessione #2
Un’introduzione in quattro parti. Seconda parte.
[ Leggi qui la prima parte dell'introduzione ]
La categoria ineludibile cui far riferimento per parlare del Pampero Cine è quella dell’avventura. Quasi sempre presente all’interno delle loro opere, essa riflette una concezione dichiarata e quasi programmatica: l’idea che fare film sia un’avventura e che come tali i film vadano concepiti e realizzati. Che sia in ambienti chiusi – il viejo hotel Ostende nel film omonimo di Citarella, o un appartamento nel quale si è reclusi durante una pandemia come in Clementina di Agustín Mendilaharzu / Constanza Feldman e in La edad media di Alejo Moguillansky / Luciana Acuña – o al contrario in spazi aperti – com’è il caso dell’universo della strada di Historias extraordinarias di Mariano Llinás – o ancora sotto forma di omaggio esplicito – come nel bressoniano Un andantino di Moguillansky o in Trenque Lauquen di Laura Citarella, che da L’avventura di Antonioni riprende il titolo di una delle parti e una certa impostazione di fondo – l’avventura riguarda soprattutto un’attitudine e una capacità strutturalmente improntate all’apertura, che hanno a che fare con l’aprirsi alla possibilità di cambiare e alla disponibilità di farsi cambiare da ciò che si sta facendo.
La dimensione dell’attesa, il predisporsi ad accogliere l’eventualità che ciò che accade nel corso delle riprese modifichi quanto previsto e determini un diverso andamento delle cose, è essenziale per comprendere le opere di questi registi. È una dimensione che va di pari passo con una convinzione quasi filosofica e certamente con l’atteggiamento che li caratterizza sempre, ovvero il riconoscimento del fatto che la finzione è potenzialmente ovunque. Ne consegue la necessità di dismettere i panni dell’autore-demiurgo e contemplare seriamente la possibilità che i film si incontrino nel loro farsi, nel corso del processo di realizzazione, grazie alla collaborazione attiva di più persone in una dimensione cooperativa e di gruppo. Non c’è niente di più lontano dell’idea di improvvisazione dal lavoro fin qui realizzato dai registi del Pampero Cine: i loro film sono accuratamente scritti e i debiti nei confronti di certa letteratura (soprattutto sudamericana, in una linea che da Borges e Bioy Casares giunge fino a Bolaño, ma non solo) fin troppo evidenti. Eppure scrittura e apertura non sono in conflitto ma convivono e collaborano nella loro pratica, e la prospettiva personale del singolo regista cresce e si fonda su quella del gruppo in una dinamica di scambio e nutrimento reciproco che giunge a costruire un metodo che è un habitus, più che un insieme di regole o prescrizioni.
Questo tipo di condotta, non dissimile da esperienze analoghe avvenute in altri luoghi e in altri tempi, è da sempre relegata a un ruolo minoritario e marginale nella storia del cinema. Talvolta sbrigativamente considerata come utopistica o da privilegiati, altre volte viene liquidata come amatoriale e dilettantesca: come se nella considerazione comune esistesse un modo vero di fare cinema (sempre più o meno identico a sé stesso) e altri che sarebbero invece velleitari, tentativi chimerici quando non addirittura tracotanti. Perseguendo una modalità autonoma ma tutt’altro che solitaria, la banda del Pampero Cine rivendica invece fortemente la possibilità di costruire alternative ai ritmi ordinari dell’industria, praticando altre forme e provando contemporaneamente a sostenerne la possibilità. Il pensiero corre inevitabilmente alle figure, diversissime, di Eric Rohmer o di Raúl Ruiz, anche se sono probabilmente altre le loro fonti di ispirazione – il nome di Hugo Santiago ricorre spesso nei loro discorsi. Una posizione non semplice che implica la scelta di sottrarsi all’imposizione di un meccanismo unico e la volontà di inventare modi sempre nuovi di fare cinema, schemi produttivi costantemente diversi che variano da film a film a partire dalla considerazione, elementare eppure controcorrente, che un film non è una merce. E che comporta la necessità di modificare persino quel che si considera come più scontato: chi ha detto che un film si debba prima pensare e poi scrivere, quindi filmare e infine montare? E se fosse piuttosto l’esito di un processo continuo di creazione che prevede la messa in pratica di un autentico pensare con le immagini? E se un film non fosse che la conclusione sempre provvisoria di un processo unico e costante che deriva dall’essersi impadroniti dei mezzi di produzione e dal tentativo di modificare (se non altro per sé) i rapporti di produzione?
Concepire ogni film come il capitolo di un’unica grande opera – che è la vita. Pretendere di non lavorare secondo uno schema padronale, e di conseguenza essere messi ai margini. Creare un ambiente nel quale i termini amateur e dilettante si contrappongono a quello di professionista al solo scopo di valorizzare la dimensione dell’amore e quella del diletto.
[ Leggi qui la terza parte ]